Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 03 ottobre 2011, n. 35828 - Condotta anomala del lavoratore e unica causa di infortunio


 

 

 

Responsabilità di un datore di lavoro per l'infortunio occorso al dipendente D.L.F. il quale, per sostituire un faretto nel soffitto, utilizzava una scala a libretto e, nel tentativo di scendere, scivolava e si procurava una frattura al gomito.

L'accusa consiste nel non aver impartito al dipendente la necessaria formazione, nel non aver disposto che lo stesso fosse adeguatamente informato in ordine all'uso in sicurezza di una scala a libretto e nell'aver consentito un uso improprio della scala stessa.

Condannato in primo grado, viene assolto dalla Corte di Appello di Roma perchè il fatto non sussiste.

Ricorre in Cassazione la parte civile D.L.F. - Rigetto.


La Corte, ribadendo un principio ormai consolidato, afferma che, in tema di infortuni sul lavoro il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro.
Circostanza, questa, certamente ravvisabile nel caso di specie, nel quale l'unica causa efficiente individuata è stata quella della condotta del tutto anomala della dipendente che, affrontando la discesa dalla scala con postura inversa a quella tipica e normale, pose imprudentemente i piedi sul bancone a metà del percorso, e ciò per una sua macroscopicamente imprevedibile quanto inutile acrobazia per la cui adozione non necessitava alcuna istruzione dissuasiva, attesa la solare evidenza dell'uso corretto della stessa rientrante nel patrimonio conoscitivo e culturale di qualsiasi persona dotata di un minimo di raziocinio e certamente in possesso del D.L.F..


 



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARZANO Francesco - Presidente
Dott. MASSAFRA Umberto - rel. Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco M. - Consigliere
Dott. VITELLI CASELLA Luca - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza

 


sul ricorso proposto da:
1) D.L.F.O.A. N. IL (OMISSIS) (parte civile);
contro
B.R. N. IL (OMISSIS) (imputato assolto);
Avverso la sentenza n. 8344/2007 CORTE APPELLO ROMA, del 25/05/2009; Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
Udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/07/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO MASSAFRA;
Udito il Procuratore Generale Dott. CARMINE STABILE che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito, per la p.c, l'avvocato Ramelli Claudio, di fiducia, del Foro di Roma che chiede l'accoglimento del proprio ricorso e deposita conclusioni e nota spese.
Udito, per l'imputato, l'avvocato Corso Piermaria del Foro di Milano, difensore di fiducia, che chiede che il ricorso venga rigettato





Fatto

 

Con sentenza in data 25.5.2009 la Corte di Appello di Roma, in riforma di quella del Tribunale di Roma del 18.4.2007 che, dichiarata l'improcedibilità in ordine a tre contravvenzioni alla normativa sugli infortuni sul lavoro perchè estinte per prescrizione, aveva condannato B.R. alla pena di giustizia, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile, per il delitto di lesioni colpose aggravato dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro in danno del dipendente D.L. F.O.A., assolveva il medesimo da tutti i predetti reati perchè il fatto non sussiste.


In particolare, quanto ad reato sub capo d) di cui all'art. 590 c.p., comma 3, con riferimento all'art. 583 c.p., comma 1, n. 1, al B. era contestato, secondo l'imputazione, di aver, per colpa consistente in negligenza nell'adempimento dei doveri prevenzionali connessi al ruolo di datore di lavoro e nella violazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 38, comma 1, lett. a), art. 37, comma 1, lett. a), art. 35, comma 4, lett. b), per non aver impartito allo stesso la necessaria formazione, per non aver disposto che lo stesso fosse adeguatamente informato in ordine all'uso in sicurezza di una scala a libretto e perchè, consentendo che lo stesso sostituisse un faretto incassato sul soffitto del locale utilizzando in modo improprio la scala a libretto ivi presente, creato antecedenti necessari dell'infortunio del dipendente D.L.F.O. A. (il quale, utilizzando in modo improprio la detta scala a libretto presente nel negozio denominato E. Voce sito in (OMISSIS), in particolare collocandola in modo da impedire un'agevole discesa "all'indietro", scivolava e, cadendo, batteva il gomito destro su di una superficie dura, procurandosi in tal modo la frattura del capitello radiale destro, con una prognosi di gg. 30 come da primo certificato medico) (fatto del 21.3.2002).


La sentenza di primo grado, puntualizzato che era pacifico che la causa della caduta della parte offesa e delle lesioni dallo stesso subite per effetto di tale caduta era da imputarsi all'errata discesa del D.L.F. dalla scala (avendo egli intrapreso la discesa di spalle ai pioli e non di fronte come da elementare regola di prudenza, certamente facente parte del patrimonio di conoscenze del medesimo D.L.F., come del resto dalla stessa parte offesa ammesso), riteneva comunque configurabile la responsabilità nella determinazione dell'evento lesivo del B., nella sua qualità di legale rappresentante della società, delegato nella materia di formazione e prevenzione degli infortuni, in quanto egli non avrebbe impedito che la scala venisse adoperata in modo improprio nel punto ove avvenne l'incidente, dato che nel particolare punto del negozio di via del (OMISSIS) in cui la scala fu collocata (onde consentire al D.L.F. di sostituire un faretto nel soffitto) a causa dell'ingombro rappresentato dalla stabile presenza d'un bancone, era impossibile per la parte offesa scendere dalla scala in modo corretto, bensì era necessario per la stessa poggiare, a proprio rischio, i piedi sul bancone medesimo.


La Corte di Appello, invece, sulla scorta della deposizione dell'ispettore Z.F. e della documentazione fotografica prodotta, rilevava come la presenza del bancone non condizionasse affatto una discesa dalla scala in modo regolamentare se non nel ristrettissimo spazio compreso tra l'ultimo gradino ed il pavimento e che, pertanto, era sufficiente che il D.L.F., invece di porre, arrivato a metà strada, imprudentemente i piedi sul bancone, scendesse regolarmente tutta la scala avendo i pioli di fronte e, solo arrivato all'ultimo scalino (alto pochi centimetri dal pavimento), nel mettere i piedi a terra, cambiasse la posizione del corpo. Escludeva, pertanto, il nesso di causalità tra la collocazione strutturale del negozio (unico dato riferibile all'imputato, per il resto essendo provato che il D.L.F. era in possesso delle cognizioni elementari circa l'uso della scala) e la determinazione dell'evento.

Avverso tale sentenza della Corte di Appello romana ricorre per cassazione per gli effetti civili, tramite il difensore e procuratore speciale, la parte civile costituita D. L.F.O.A..
Deduce la violazione di legge in relazione all'art. 590 c.p., D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 38, comma 1, lett. a), art. 37, comma 1, lett. a), art. 35, comma 4, lett. b) e, rimenandosi alla sentenza di primo grado, assume che la condotta del D.L.F. non poteva integrare una causa di esonero della responsabilità penale del prevenuto, in quanto era invalsa la prassi organizzativa secondo cui era compito dei dipendenti effettuare interventi di manutenzione ordinaria.
Ribadisce, pertanto, la carenza di informazione sull'uso in sicurezza della scala e l'inadeguatezza del bagaglio tecnico in possesso del dipendente e che l'azione compiuta era palesemente riconducibile all'area di rischio inerente l'attività svolta di fatto dal lavoratore, richiamando l'orientamento di questa Suprema Corte in tema di condotta abnorme e della relativa più rigorosa prova liberatoria incombente sul datore di lavoro. Mentre il B., non solo non aveva adottato alcuna delle prescrizioni impostegli dalla legge, ma aveva anche favorito l'instaurarsi di prassi lavorative che esponevano a concreto pericolo i dipendenti formalmente addetti ad altre mansioni. Ne scaturiva che la Corte, pur offendo una diversa ricostruzione di fatti, non aveva spiegato le ragioni per le quali il comportamento del D.L.F. potesse aver interrotto il nesso di causalità.
E' stata depositata una memoria difensiva nell'interesse dell'imputato, cui è seguita la presentazione di una memoria di replica della parte ricorrente.



Diritto

 



Il ricorso è infondato e va respinto.

Come correttamente si rileva nella sentenza impugnata e nella memoria difensiva dell'imputato, le prove acquisite al dibattimento non hanno consentito di individuare profili di inadempienza nella condotta dell'imputato e, di converso, hanno dimostrato inequivocabilmente come l'unica causa della caduta del sig. D.L.F. sia stata la violazione della "elementare regola di prudenza, certamente facente parte del patrimonio di conoscenze del medesimo D.L.F., come del resto dalla stessa parte offesa ammesso" (sentenza di appello, p. 4).
Peraltro, la motivazione della sentenza di appello non consente di ravvisare trasgressioni della disciplina antinfortunistica da parte del datore di lavoro. Invero, la decisione di secondo grado, con accertamento insindacabile in questa sede di legittimità, ha escluso che la "collocazione strutturale nel negozio" abbia inciso sulla caduta del lavoratore e quindi sull'infortunio, nè ha ipotizzato che tale collocazione fosse contrastante con la disciplina in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro o, più in generale, con le regole dell'esperienza e con il buon senso. In secondo luogo, la Corte di appello ha ben spiegato come nel caso di specie non si ponga per nulla un problema di concorso di colpa del comportamento del lavoratore infortunato con la pretesa condotta omissiva del datore di lavoro, dal momento che i dati storici elaborati dal processo dimostravano come qui, a monte, difettasse la possibilità di imputare l'evento dannoso al datore sotto il profilo del nesso di causalità. Infatti, sotto il profilo ricostruttivo, la Corte territoriale ha ritenuto infondato l'assunto, fatto proprio dalla parte civile e dalla sentenza di primo grado, della derivazione della caduta del lavoratore sul pavimento dal collocamento della scala vicino all'ingombro" costituito dal bancone del negozio ed ha affermato, in senso contrario, come in realtà tale "ingombro", determinato dalla presenza del bancone, non condizionasse affatto una discesa dalla scala in modo regolamentare se non nel ristrettissimo spazio compreso tra l'ultimo gradino ed il pavimento sicché, era sufficiente che il D.L.F., invece di porre, arrivato a metà strada, imprudentemente i piedi sul bancone, scendesse regolarmente tutta la scala avendo i pioli di fronte e, solo arrivato all'ultimo scalino (alto pochi centimetri dal pavimento), nel mettere i piedi a terra, cambiasse la posizione del corpo. Onde la sola causa dell'infortunio era individuabile nella violazione dell'unica regola cautelare idonea ad evitare infortuni del tipo di quelli verificatisi, cioè usare la scala nel modo proprio - secondo l'uso in sicurezza - come tale conosciuto da chiunque e, quindi, dallo stesso lavoratore, cioè scendere con il viso rivolto verso i pioli.
Nè, come ritenuto dalla Corte di Appello, la dedotta "prassi di lavoro" relativa agli interventi di manutenzione ordinaria, tra cui rientrava la sostituzione del faretto, implicava l'errato posizionamento della scala all'interno del negozio da parte del lavoratore nè, tanto meno, un suo uso improprio (o meglio, sgangherato, quasi circense) in fase di discesa.
Nè il ricorso ha specificamente richiamato gli atti probatori in forza dei quali possa affermarsi la sussistenza stessa di alcuna prassi lavorativa contra legem, sicché questa si pone quale mero giudizio di fatto della parte ricorrente che collide con la motivazione della decisione di appello della quale non viene indicato alcuno specifico punto viziato da mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, nè risultano evidenziati atti del processo da cui desumere l'illogicità della motivazione. E l'accertamento dell'esistenza di siffatta prassi lavorativa deviante si pone al fuori del sindacato di legittimità di questa Corte.


Inoltre, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente, la Corte territoriale ha negato la rilevanza causale del collocamento della scala vicino al bancone del negozio (unico dato astrattamente riferibile all'imputato, di cui alla violazione della norma cautelare prevista dalla contravvenzione sub capo a) dell'imputazione, riconducendo la causa dell'infortunio all'imprudente posizionamento dei piedi sul bancone e così escludendo il nesso di causalità.
Invero, in tema di infortuni sul lavoro il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che, pur rientrando nelle mansioni che gli sono proprie, sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Cass. pen. Sez. 4, n. 40164 del 3.6.2004, Rv. 229564).
Circostanza, questa, certamente ravvisabile nel caso di specie, nel quale l'unica causa efficiente individuata è stata quella della condotta del tutto anomala della dipendente che, affrontando la discesa dalla scala con postura inversa a quella tipica e normale, pose imprudentemente i piedi sul bancone a metà del percorso, e ciò per una sua macroscopicamente imprevedibile quanto inutile acrobazia per la cui adozione non necessitava alcuna istruzione dissuasiva, attesa la solare evidenza le modalità dell'uso corretto della stessa rientrante nel patrimonio conoscitivo e culturale di qualsiasi persona dotata di un minimo di raziocinio e certamente in possesso del D.L.F..
Consegue il rigetto del ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.