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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
UFFICIO DEL MASSIMARIO E DEL RUOLO

Relazione tematica

Rel. n. 142

Roma, 10 novembre 2008



Oggetto: LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO - TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO - Condotta idonea a determinare una condizione di "mobbing" del lavoratore — Mobbing verticale e mobbing orizzontale - Responsabilità.

IL MOBBING

SOMMARIO:
1.- Introduzione: il fenomeno.
2.- La disciplina:
2.1.- Disciplina internazionale ed europea.
2.2.- Disciplina nazionale.
3.- La giurisprudenza:
3.1.- Giurisprudenza penale.
3.2.- Giurisprudenza civile di legittimità.
3.3.-Giurisprudenza di merito.
3.4.- Giurisprudenza amministrativa e contabile.
4.- La dottrina e le principali problematiche giuridiche.


1.- Introduzione: il fenomeno.
È noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell'etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono diverse, e possono consistere in:

a) pressioni o molestie psicologiche;
b) calunnie sistematiche;
c) maltrattamenti verbali ed offese personali;
d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta;
e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili;
f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente od amministrazione;
g) esclusione od immotivata marginalizzazione dall'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni;
h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore;
i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto;
l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro;
m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale;
n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi;
o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni.
In ogni caso, la fattispecie assume rilevanza, secondo gli studi di settore, una volta che gli atti di persecuzione acquistino i requisiti della sistematicità e della durata, per quanto non si esclude che anche un singolo atto lesivo possa rilevare ove i relativi effetti siano duraturi.

Secondo un sondaggio (all. 1 e 2) svolto tra 21.500 lavoratori dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Fondazione di Dublino), nel corso del 2000 l'8% dei lavoratori dell'Unione europea, pari a 12 milioni di persone, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, e si può presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato. Se ciò è vero, e il fenomeno è diffuso nella realtà lavorativa pubblica e privata, i casi di mobbing emersi a livello giurisprudenziale non sono invece molti, ed ancor meno quelli conclusisi con il riconoscimento del fenomeno e l'attribuzione di tutela giurisdizionale al lavoratore ricorrente.

2.- La disciplina;
2.1.- Disciplina internazionale ed europea.

A livello internazionale, hanno cominciato ad interessarsi al problema le grandi organizzazioni specializzate dell'ONU, come l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e, soprattutto, l'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) che ha promosso azioni contro la violenza sul luogo di lavoro. Quest'ultima, in uno studio (promosso nel corso della "Conferenza internazionale sul trauma sul luogo di lavoro" tenutasi l'8 e 9 novembre 2000 a Johannesburg), intitolato "La violenza sul lavoro: la minaccia globali", da cui è emerso un nuovo approccio alla violenza sul lavoro, che attribuisce uguale enfasi sia ai comportamenti lesivi dell'integrità fisica del lavoratore, sia a quelli che mirano ad intaccare il suo equilibrio psicologico.
In ambito europeo, il 16 luglio 2001 la Commissione occupazione ed affari sociali del Parlamento europeo, ha presentato una relazione sul mobbing sul posto di lavoro (A5-0283/2000: all. 3) sulle problematiche del mobbing nella quale analizza il fenomeno sotto vari punti di vista: definizione del fenomeno, ricerca delle cause della sua rapida espansione, individuazione degli effetti sulla salute del lavoratore e sull'efficiente ed economica organizzazione delle aziende, ricerca di strumenti efficaci per contrastarlo. Da un punto di vista più strettamente giuridico, la relazione evidenzia la necessità di chiarire se la vigente direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro, la n. 89/391/CEE, possa essere interpretata estensivamente in modo da ricomprendere nel suo ambito applicativo anche i casi di mobbing. La relazione è stata quindi allegata alla Risoluzione sul mobbing che nel settembre 2001 il Parlamento europeo ha approvato (2001/2339(INI): all. 3).
Con tale risoluzione, si è evidenziata la necessità per gli Stati membri di approfondire lo studio del fenomeno delle violenze psicologiche in ambito lavorativo, al fine di pervenire ad una comune definizione della fattispecie del mobbing e creare una più solida base statistica sulla sua diffusione. In particolare, il Parlamento ha esortato gli Stati membri, le parti sociali e le istituzioni comunitarie a farsi carico di questa problematica invitando la Commissione ad un'analisi dettagliata sulla situazione del mobbing negli ambienti lavorativi con riferimento ad ogni Stato membro e ad un programma d'azione concernente le misure comunitarie contro il mobbing.
La risoluzione ha evidenziato, tra l'altro, che dai dati provenienti da uno degli Stati membri risulta che i casi di mobbing sono di gran lunga più frequenti nelle professioni caratterizzate da un elevato livello di tensione, professioni esercitate più comunemente da donne che da uomini e che hanno conosciuto una grande espansione nel corso degli anni 90, ed ha sottolineato che gli studi e l'esperienza empirica convergono nel rilevare un chiaro nesso tra, da una parte, il fenomeno del mobbing nella vita professionale e, dall'altra, lo stress o il lavoro ad elevato grado di tensione, l'aumento della competizione, la riduzione della sicurezza dell'impiego nonché l'incertezza dei compiti professionali.
Sono degni di specifica menzione, in particolare, due richiami dell'atto, uno volto ad evidenziare che tra le cause del mobbing vanno ad esempio annoverate le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione interna e di direzione, e che problemi organizzativi irrisolti e di lunga durata si traducono in pesanti pressioni sui gruppi di lavoro e possono condurre all'adozione della logica del "capro espiatorio" e al mobbing; l'altro secondo il quale il continuo aumento dei contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne, crea condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia.
La risoluzione ha quindi esortato gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del "mobbing"; ha inoltre raccomandato agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l'attuazione di politiche di prevenzione efficaci, l'introduzione di un sistema di scambio di esperienze e l'individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad evitare sue recrudescenze; ha raccomandato, in tale contesto, la messa a punto di un'informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico, ricordando a tale proposito la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi. Infine, ha esortato la Commissione ad esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie, nonché come meccanismo di difesa del rispetto della dignità della persona del lavoratore, della sua intimità e del suo onore, sottolineando sia l'importanza dell'adozione di misure preventive, sia l'importanza dell'ampliamento della responsabilità del datore di lavoro in ordine alla messa in atto di misure sistematiche atte a creare un ambiente di lavoro soddisfacente.
Inoltre, il Parlamento europeo ha già provveduto all'istituzione, nell'ambito della propria organizzazione interna, di un apposito Comitato consultativo sulle molestie morali che, in base all'articolo 3 del suo regolamento «ha come compito principale la prevenzione da ogni azione verbale, fisica e professionale costituente molestia morale contro il personale, funzionari ed agenti, del Parlamento europeo. Il comitato sulla base delle denunce, delle segnalazioni ricevute o di propria iniziativa,, dispone l'audizione dei denuncianti e di ogni altra persona reputata utile ai fini dell'istruzione della pratica».
Qualche riferimento indiretto al mobbing emerge da alcuni documenti comunitari relativi ai settori della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, delle condizioni di lavoro, del rispetto e della dignità dell'individuo, e della parità di trattamento1.

In materia è intervenuta anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee in una sua pronuncia del 12 novembre 1996, C-84/94, Regno Unito/Consiglio, nella quale si è occupata indirettamente di mobbing quando, richiesta di chiarire le nozioni di "ambiente di lavoro" "sicurezza" e "salute" richiamate dall'art. 118A del trattato UE, ha fornito un'interpretazione molto ampia del concetto di ambiente di lavoro e delle sue implicazioni di natura psicologica, avvicinandosi alla concezione scandinava dell'ambiente di lavoro, particolarmente attenta all'integrazione psicosociale del lavoratore nella comunità di lavoro.

Quanto alla tutela giuridica contro il mobbing al di fuori dell'Europa, negli USA vi è una ricca disciplina antidiscriminatoria che costituisce la base della tutela contro il mobbing, che non è tuttavia disciplinato a livello federale.
Particolarmente utile al riguardo si è dimostrato il Titolo VII del "Civil Rights Act" del 1964" in base al quale "è illegittima ogni pratica lavorativa posta in essere dal datore di lavoro per licenziare o sottoporre il lavoratore a trattamenti discriminatori in relazione a retribuzione, condizioni, termini o trattamenti privilegiati (benefits) a causa della sua razza, colore della pelle, religione, sesso o nazionalità".
Da qualche anno la Suprema Corte degli Stati Uniti ha cominciato a ricomprendere nella tutela di cui al Titolo VII del "Civil Right Act" anche il c.d. hostile environment, ossia i casi in cui il lavoratore sia costretto a prestare la propria attività lavorativa in un ambiente ostile a causa delle continue intimidazioni, offese, scherni ed insulti che permeano l'ambiente lavorativo e che comportano l'alterazione delle stesse condizioni di lavoro. Ai fini della qualificazione di un ambiente come ostile, la Suprema Corte richiede i seguenti requisiti: ripetitività e gravità della condotta, carattere minaccioso in senso fisico o umiliante della condotta (la quale può essere costituita anche soltanto con espressioni offensive); irragionevole interferenza della condotta con la performance lavorativa. In giurisprudenza, si richiamano in proposito le sentenze della U.S. Supreme Court del 1998, Burlington Industries v. Ellerth e Faragher v. City of Boca Raton, ove si è esteso il concetto di hostile environment fino a ricomprendervi oggettivamente i fatti posti in essere dai dipendenti nei confronti dei colleghi.
Questo tipo di interpretazione costituisce del resto la base giuridica da sempre utilizzata dalle corti americane per la tutela contro le molestie sessuali e potrà ora essere esteso con altrettanto successo anche al mobbing.

Una forma di tutela più specifica contro il mobbing è stata, invece, rinvenuta nelle recenti norme che alcuni Stati Americani (Ontario, Oregon, Arizona, California, Iowa, Wyoming) hanno introdotto nei loro ordinamenti volte disciplinare la workplace violence, a definire una antimobbing policy ed infine a riconoscere espressamente ai lavoratori il diritto ad ottenere il risarcimento per i danni mentali (mental injury) patiti in conseguenza dello stress lavorativo o dell'esposizione ad altri stimoli mentali nei luoghi di lavoro. In questi casi il risarcimento del danno spetta indipendentemente dal fatto che il soggetto abbia anche riportato danni fisici.

Nelle singole legislazioni nazionali dei Paesi europei, la Svezia è stata il primo Paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sul mobbing.
L'Ente nazionale per la salute e la sicurezza svedese (Arbetaskyddsstyrelsen) ha emanato, in data 21 settembre 1993, una specifica ordinanza (AFS 1993/17), entrata in vigore il 31 marzo 1994, recante misure contro qualsivoglia forma di «persecuzione psicologica» negli ambienti di lavoro. A questa, sono poi seguiti, nel 1997, nuovi atti dispositivi relativi alle misure da adottare contro le forme di persecuzione psicologica in ambito lavorativo.
L'ordinanza fornisce ai datori di lavoro precise indicazioni su come affrontare il problema della persecuzione psicologica in via preventiva attraverso il sostegno dei comitati aziendali e l'interazione continua tra la dirigenza e i dipendenti. In particolare l'ordinanza prevede alcuni principi fondamentali cui i datori di lavoro devono attenersi nell'organizzazione dell'attività lavorativa della loro azienda:
1) il datore di lavoro è tenuto a pianificare ed organizzare il lavoro in modo da prevenire, per quanto possibile, ogni forma di persecuzione nei luoghi di lavoro;
2) il datore di lavoro deve informare i lavoratori, con forme adeguate ed inequivocabili, che queste forme di persecuzione non possono essere assolutamente tollerate nel corso dell'attività lavorativa;
3) devono essere previste procedure idonee ad individuare immediatamente i sintomi di condizioni di lavoro persecutorie, l'esistenza di problemi inerenti all'organizzazione del lavoro o eventuali carenze per quanto riguarda la cooperazione che possono costituire il terreno adatto all'insorgere di forme di persecuzione psicologica durante l'attività lavorativa;
4) qualora poi, nonostante l'attività preventiva, si verifichino ugualmente fenomeni di mobbing, dovranno essere adottate immediatamente efficaci contromisure volte anche ad individuare le eventuali carenze organizzative causa dell'insorgere del fenomeno; 5) il datore di lavoro dovrà, infine, prevedere forme di aiuto specifico ed immediato per le vittime del mobbing.

Diversamente, la Norvegia ha preferito optare per una tutela a livello legislativo del mobbing attraverso l'introduzione del paragrafo 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41, (Arbeidsmiljoven) che così recita: "Le tecnologie, l'organizzazione del lavoro, gli orari di lavoro ed i sistemi retributivi devono essere disposti in modo da non esporre i lavoratori a gravosi sforzi fisici o psichici" e che "I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti".

In Francia, nel 2000, è stata votata la legge "lutte contre le harcèlement moral au travati" (l. 202-73, ritenuta conforme alla Costituzione dal Conseil constitutionnel 12 gennaio 2002, n. 2001-455), specifica sul mobbing, ove il fenomeno viene definito come un "insieme di azioni ripetute di violenza morale che hanno per oggetto e per effetto la degradazione delle condizioni di lavoro suscettibile di recare offesa ai diritti e alla dignità del salariato, di alterare la sua salute psicologica o mentale e compromettere il suo avvenire professionale" (art. 168-180).
Vi si stabilisce (nuovo art. 122-49 cod. trav.) che: "Nessun lavoratore deve subire atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per effetto un degrado delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti e la dignità del lavoratore, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale. Nessun lavoratore può essere sanzionato, licenziato o essere oggetto di misure discriminatorie, dirette o indirette, in particolare modo in materia di remunerazione, di formazione, di riclassificazione, di qualificazione , di promozione professionale, di mutamento o rinnovazione del contratto, per aver subito, o rifiutato di subire, i comportamenti definiti nel comma precedente o per aver testimoniato su tali comportamenti o averli riferiti".
Le due peculiarità di maggior interesse riguardano l'introduzione dell'istituto della c.d. inversione dell'onere della prova (in realtà si tratta di una agevolazione probatoria per cui è sufficiente che il lavoratore adduca elementi di fatto che lascino supporre l'esistenza della molestia ripetuta ed è il soggetto accusato di aver posto in essere azioni dirette o indirette di violenza morale in ambito lavorativo a dover dimostrare l'estraneità a qualsiasi forma di responsabilità) e la previsione di apposite sanzioni civilistiche e penali su fatti costituenti mobbing. In particolare, sotto tale profilo, la legge prevede, quale rimedio generale la nullità per ogni atto di modificazione contrattuale in peius delle condizioni lavorative del dipendente (mansioni, rimunerazione, assegnazione, destinazione, trasferimenti), per ogni atto di rottura del rapporto di lavoro (dimissioni o licenziamenti), per le sanzioni disciplinari qualora siano in qualche modo ricollegabili a pratiche di mobbing ai danni del lavoratore.
La legge contiene, poi, tutta una serie di disposizioni che mirano a favorire la prevenzione del fenomeno mobbing nei luoghi di lavoro attraverso l'informazione tra i vari attori delle relazioni lavorative (datori di lavoro e vertici aziendali, lavoratori, sindacati), l'attivazione di procedure di conciliazione interne, l'estensione del concetto di salute del lavoratore anche agli aspetti psichici e psicologici della personalità, la previsione di un obbligo generale in capo al datore di lavoro di vigilare sul corretto svolgimento delle relazioni sociali nei luoghi di lavoro e di adottare le misure, anche di tipo disciplinare, che prevengano comportamenti vessatori ai danni dei lavoratori.
La nuova legge prevede, inoltre, l'introduzione di un'apposita figura di reato dedicata al mobbing con l'inserimento nel codice penale francese di una nuova sezione intitolata, per l'appunto, all'harcèlement moral e di un articolo, il 222-33-2, che sanzionava espressamente "il fatto di molestare gli altri attraverso comportamenti ripetuti aventi per oggetto o per effetto una degradazione delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i suoi diritti e la sua dignità, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale": la pena prevista è della reclusione fino a un anno o la multa di 15.000 euro.
La loi n° 2003-6 du 3/1/2003 portant relance de la négociation collective en matière de licenciements économiques ha disciplinato due aspetti novellando la legge precedente e in materia di charge de lapreuve e di médiation.2

Anche in Belgio vi è una legge (dell'11 giugno 2002, intitolata Proposition de loi relative au hacèlementmoral parla dègradation dèliberèe des condition de travail) per regolamentare il fenomeno attraverso la previsione dell'obbligo per il datore di lavoro di designare, in accordo con i rappresentanti dei lavoratori, un Consigliere per la prevenzione (interno od esterno a seconda delle dimensione dell'impresa) con specifiche competenze psico-sociali in particolare riferite all'ambiente lavorativo. Le imprese al di sopra di 20 dipendenti, qualunque sia il settore di attività, dovranno disporre del servizio interno di prevenzione, mentre quelle con meno di 20 dipendenti che ne sono prive saranno affiliate ad un servizio esterno di prevenzione inter-aziendale che raggruppa specialisti di cinque discipline (medicina del lavoro, sicurezza, igiene industriale, ergonomia e psicologia). Da alcuni anni, poi, grazie all'azione svolta dal sindacato, si è costituita presso i servizi pubblici per la prevenzione e protezione sul lavoro, una commissione "d'avviso" composta da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, con lo scopo di offrire ai lavoratori vittime del mobbing un'assistenza al di fuori della realtà lavorativa.

In Spagna, in data 23 novembre 2001, sono state presentate al Congreso de los Deputatos, da parte del Gruppo parlamentare socialista, due nuove proposte di legge (la n. 122/000157 intitolata "derecho a no sufriracoso moral en el trabajo" e la n. 122/000158 intitolata "Organica por la que se incluye un articulo 314 bis en el Codigo Penai tipiticando el acoso moral en el trabajo" miranti a regolare normativamente l'acoso moral e, in data 14 aprile 2001, il Parlamento catalano ha esaminato una proposta sul mobbing, con la quale quale, tra l'altro, si vuole modificare l'attuale legge di prevenzione dei rischi lavorativi in modo da includere la prevenzione dell'acoso moral tra le obbligazioni del datore di lavoro.
Forme alternative di tutela giuridica contro il mobbing possono poi trarsi da normative di portata generale come lo Statuto dei Lavoratori (Estatuto de los Trabajores -ET), nella legge di prevenzione dei rischi lavorativi (Ley de Prevenciòn des Riesgos Laborales — LPRL) (artt. 4.2.d e 4.2.e), che stabiliscono rispettivamente il diritto del lavoratore alla sua integrità fisica e al rispetto della sua intimità e dignità compresa la protezione contro offese verbali o fisiche di natura sessuale.
Per "rischio derivante dal lavoro" si deve intendere, ai sensi dell'art. 4.2 LPRL, "la possibilità che un lavoratore soffra un determinato danno in conseguenza del lavoro" e per "danno derivante dal lavoro", "tutte le infermità, patologie o lesioni sofferte a causa o in occasione del lavorò" comprese a pieno titolo le lesioni di natura psicologiche.

In Germania, pur non essendoci ancora alcuna legge specifica, alla Volkswagen nel 1996 è stato firmato un accordo tra azienda e sindacato con l'obiettivo di prevenire molestie sessuali, mobbing ed ogni forma di discriminazione al fine di creare un clima di lavoro positivo basato sulla reciproca collaborazione.

Oltre all'art. 618 del codice civile tedesco (Burgerliches Gesetzbuch), che stabilisce l'obbligo generale di adozione delle misure di sicurezza, la legge sulla sicurezza sul lavoro (Arbeitsschutzgesetz) del 7 agosto 1996 affronta indirettamente la questione del mobbing laddove si occupa dei difetti organizzativi del lavoro, delle manchevolezze nella conduzione aziendale e dei complessi rapporti sociali, che possono essere alla base dei danni alla salute.
Una tutela più specifica contro i fenomeni del mobbing nei luoghi di lavoro viene fornita da normative più specifiche come il Betriebsverfassungsgesetz (BetrVG) del 23 dicembre 1988 (legge costituzionale sullo statuto delle imprese), il "Hessisches Personalvertretungsgesetz" (HPVG) ed il "Bundes Personalvertretungsgesetz" (BpersVG che contiene principi per il trattamento dei dipendenti).Si tratta per lo più di forme di cura ed assistenza preventiva contro il mobbing, stabilendosi dall'art. 75 del BetrVG e dall'art. 67 del BpersVG che il datore di lavoro ed il Consiglio d'azienda sono tenuti a tutelare e a promuovere la libera espressione della personalità dei dipendenti dell'azienda. In particolare è previsto che il Consiglio d'amministrazione (Betriebsrat) e i datori di lavoro siano obbligati a tenere colloqui mensili e ad attivare eventuali procedure di conciliazione all'interno dell'azienda.
L'art. 80 del BetrVG attribuisce, poi, al Consiglio d'azienda il compito di proporre al datore di lavoro le misure che possano servire all'azienda e alla comunità; misure che il datore di lavoro è obbligato ad adottare. Gli artt. 62 del HPVG e 68 del BpersVG, inoltre, riconoscono: 1) il diritto del datore di lavoro, nell'ambito del suo potere-dovere di sorveglianza, di interrogare i dipendenti, anche attraverso questionari anonimi, sui comportamenti adottati sui luoghi di lavoro e in generale su ogni elemento che potrebbe avere attinenza con eventuali fenomeni di mobbing nell'ambiente di lavoro; 2) il diritto dei lavoratori a ricorrere al datore di lavoro contro comportamenti mobbizzanti; 3) il dovere del Consiglio di prendere in esame tali ricorsi con la possibilità di autorizzare il datore di lavoro a raggiungere forme di conciliazione. Il Betriebsverfassungsgesetz (BetrVG) riconosce a tutti il diritto di ricorrere al datore di lavoro.
Infine, l'104 del BetrVG che prevede che il Consiglio d'azienda possa pretendere l'allontanamento o anche il licenziamento del lavoratore che abbia disturbato la pace aziendale ripetutamente e volontariamente.

In Svizzera non vi è una disciplina specifica del mobbing a livello legislativo, ma vi è una disciplina sulla sicurezza nel lavoro molto evoluta che permette di offrire tutela al lavoratore mobbizzzato.
In caso di violazione della disciplina sulla sicurezza sul lavoro, il lavoratore può rivolgersi all'Ispettorato del lavoro cantonale, competente per l'applicazione di tutte le disposizioni in materia di legge federale sul lavoro, affinché intervenga per far cessare le offese alla sua personalità. L'Ispettorato di Ginevra, denominato "Office Cantonal de l'inspection et des relations du travail" (OCIRT), ha emanato un'apposita "brochure" per regolare le procedure da seguire nei casi di "sofferenza psicologica sul lavoro (mobbing)", nella quale viene stabilito che ogni qual volta il lavoratore lamenti di aver subito molestie morali sul lavoro, sarà tenuto a specificare, in un apposito documento, a che tipo di molestia morale, tra i 45 atti di mobbing individuati dal Leymann, è stato sottoposto e, se possibile, dovrà indicare anche la data di accadimento di ognuno di essi. Sulla base della denuncia presentata l'OCIRT procederà, quindi, all'effettuazione di un'inchiesta all'interno dell'azienda in questione, al fine di accertare la fondatezza delle accuse esposte dal lavoratore e di far prendere coscienza ai vertici aziendali delle responsabilità che essi hanno in queste situazioni. Una volta accertata l'offesa alla personalità del soggetto, l'OCIRT potrà richiedere alla direzione aziendale la cessazione dei comportamenti ostili negoziando eventualmente con essa le contromisure da adottare per evitare che simili situazioni si ripetano in futuro. Se, però, l'azienda si rifiuta di collaborare, l'OCIRT di fatto non dispone di alcun potere prescrittivo.

Un'esplicita menzione del termine mobbing è rinvenibile poi in Austria, all'interno del piano d'azione per la parità uomo-donna approvato il 16 maggio 1998, che così recita: "tra i comportamenti che ledono la dignità delle donne e degli uomini nel luogo di lavoro vanno annoverati in particolare le espressioni denigratorie, il mobbing e la molestia sessuale. Le collaboratrici devono essere edotte sulle possibilità giuridiche di tutela delle molestie sessuali".

In Gran Bretagna è in discussione una proposta di legge che dispone l'adozione da parte del datore di lavoro di una politica mirata a prevenire il fenomeno da sottoporre alla consultazione dei rappresentanti sindacali e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Il progetto di legge per la tutela della dignità del lavoratore nei luoghi di lavoro, "The Dignity at Work Bill", che stabilisce all'art. 1 che "ogni lavoratore ha diritto al rispetto della propria dignità sul lavoro"". Il datore di lavoro viene considerato responsabile di violazione di tale diritto "ogni qual volta il lavoratore venga esposto, durante il rapporto di lavoro, a molestia da parte dello stesso datore di lavoro o al bullying o ad ogni altro atto, omissione o condotta che causi la stessa".
Aggiungendosi alla tutela offerta dal Sex Discrimination Act del 1977 e dall'Health and Safety at work Act del 1974, la disciplina introdotta dal Protection from Harassment Act e dall'Employment relations Act del 1997 rappresenta la principale disciplina britannica per la protezione contro le molestie morali ai danni di un soggetto ed è fondata sul principio generale in base al quale: "una persona non deve porre in essere una condotta che possa risultare molesta nei confronti di un'altra persona e di cui egli conosca o debba conoscere il carattere molesto".

2.2.- La disciplina in Italia.
Venendo ora ad esaminare la situazione normativa italiana, va evidenziato che a livello nazionale non vi sono allo stato normative specificamente rivolte a disciplinare il fenomeno del mobbing, ma solo -e da diversi anni- alcuni disegni e proposte di legge (su cui si dirà infra).
Va peraltro ricordato che di molestie sul lavoro si parla nella disciplina, di rango legislativo e di derivazione comunitaria, antidiscriminatoria.
Infatti, la nozione comunitaria di discriminazione, recepita dal nostro ordinamento nei decreti legislativi 215 e 216 del 2003, include le molestie e l'ordine di discriminazione (a prescindere dalla sua esecuzione) a causa dei motivi tipizzati: "le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato e avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo".
Sotto il profilo pratico, l'equiparazione della molestia alla discriminazione consente l'applicazione del regime probatorio agevolato e l'apparato sanzionatorio particolarmente incisivo previsto dalla disciplina antidiscriminatoria.
Peraltro, va ricordato che le fonti normative prevedono espressamente i motivi rilevanti per configurare una discriminazione: nella disciplina comunitaria, e poi nei decreti di recepimento, si tratta delle razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età, sesso, tendenze sessuali; nella disciplina nazionale, oltre ai predetti motivi, rilevano lingua, credo politico, credo religioso, appartenenza sindacale, partecipazione ad attività sindacali, sieropositività.
Si tratta qui dei motivi tipici di discriminazione, ossia dei motivi a base degli atti o comportamenti che l'ordinamento qualifica in senso tecnico come discriminatori approntandovi una tutela specifica.

Altro aspetto disciplinato dal legislatore nazionale che può avere rilevanza indiretta ai fini del mobbing è dato dalla disciplina sulla sicurezza sul lavoro, dettata da ultimo dal decreto legislativo 9. 4. 2008, n. 81.
Questa non riguarda il mobbing direttamente ma contiene varie norme comunque utili: basti pensare alla stessa definizione di salute del lavoratore (quale stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un'assenza di malattia o d'infermità) ovvero al contenuto ampio e generale della «valutazione dei rischi» cui obbligatoriamente, e con compito e responsabilità non delegabile (art. 16), è chiamato il datore di lavoro (che deve effettuare una valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza), o infine all'ambito di applicazione della disciplina sulla sicurezza (che riguarda tutte le tipologie di rischio, in ogni attività).
Al di fuori di tali norme, vi è poi il principio generale di cui all'art. 2087 cod. civ. intitolato "tutela delle condizioni di lavoro", che stabilisce -quale effetto legale del contratto e non mero effetto naturale, non essendo un obbligo derogabile- l'obbligo del datore di lavoro di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro; a tale obbligo si connette poi il combinato disposto degli art. 2049 e 2059 cod. civ., ed il regime di corresponsabilità del datore di lavoro per i fatti dei propri dipendenti che cagionino ad altri dipendenti danni non patrimoniali.
Tale disciplina, quale "norma di chiusura" del sistema, pone a carico del datore di lavoro uno speciale ed autonomo obbligo di protezione della persona del lavoratore e reca una previsione particolarmente ampia ed elastica, comprensiva non solo del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dalle leggi e dai regolamenti per la prevenzione degli infortuni e per l'igiene del lavoro, ma anche dell'introduzione e manutenzione delle misure idonee, nelle concrete condizioni aziendali, a prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo per il lavoratore, derivanti da fattori naturali o artificiali di nocività o penosità presenti nell'ambiente di lavoro, e che possano incidere non solo sul profilo dell'integrità psico-fisica dei lavoratori, ma anche a quello della loro personalità morale.

Anche il legislatore nazionale si è interessato al mobbing da tempo e, da alcune legislature, sono stati presentati numerosi progetti di legge: ai primi disegni e proposte di legge del 1999, se ne sono aggiunti presto altri (fino ad arrivare a 19 nella precedente legislatura, 12 al Senato e 7 alla Camera), e oggi sono all'esame del Parlamento diversi progetti di legge.

Un esame anche diacronico delle iniziative parlamentari evidenzia la diversità degli approcci dei vari testi proposti: alcuni progetti di legge affrontano la questione dal punto di vista penalistico, prevedendo la reclusione e l'interdizione dai pubblici uffici per chi pone in essere atti di violenza o terrore psicologico, altri si caratterizzano per la funzione preventiva che intendono svolgere, finalizzata ad informare e sensibilizzare tutti i soggetti interessati alla gravità del fenomeno del mobbing; altri si occupano della responsabilità disciplinare in materia, e alcuni delineano anche forme di tutela giurisdizionale in favore del lavoratore.
A tal proposito, alcuni progetti di legge prevedono una agevolazione della prova del mobbing e valorizzano in sede probatoria il ricorso alle presunzioni; sotto altro profilo, alcuni progetti disciplinano un procedimento speciale urgente sulla falsariga di quello antidiscriminatorio; quanto poi alla tutela, alcuni progetti prevedono l'obbligo di ripristino delle situazioni professionali colpite, oltre al risarcimento del danno, anche mediante la pubblicazione della sentenza, ed alla nullità degli atti lesivi.

Vari legislatori regionali si sono occupati invece direttamente del mobbing.
Dapprima la legge regionale del Lazio 11 luglio 2002, n. 16, (all. 4) recante disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro, che —con l'elencazione di atti riportata in premessa di tale lavoro- definisce mobbing (art. 2) "gli atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale".
Con sentenza 19 dicembre 2003, n. 359, (all. 5) la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in toto della legge della Regione Lazio, accogliendo il ricorso presentato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri: quanto alle ragioni dell'incostituzionalità della normativa, si è escluso che il mobbing, nei suoi aspetti generali e per quanto riguarda i principi fondamentali, possa essere oggetto di discipline territorialmente differenziate, sicché resta precluso alle regioni di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, dettando norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali (quali la salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore, la tutela della salute e della sicurezza del lavoro, l'incidenza, sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, nell'ordinamento civile).
Sono invece ancora vigenti altre leggi regionali (che, disciplinando specifici aspetti del mobbing, hanno invece superato il vaglio di costituzionalità: sentenza Corte cost. 27 gennaio 2006, n. 22, e sentenze 22 giugno 2006, n. 238 e 239) (all. 6-7-8).
La legge Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26 (recante intervento della Regione Abruzzo per contrastare e prevenire il fenomeno mobbing e lo stress psico-sociale sui luoghi di lavoro), (all. 6) ha istituito un Centro di riferimento regionale presso l'ASL di Pescara ed un centro di ascolto per ogni altra ASL della Regione, con compiti di monitoraggio ed analisi del fenomeno mobbing e dello stress psico-sociale ed assistenza medico-legale e specialistica ai lavoratori in situazioni lavorative riconducibili a mobbing.
La legge Regione Umbria 28 febbraio 2005, n. 18 (recante tutela della salute psicofisica della persona sul luogo di lavoro e prevenzione e contrasto dei fenomeni di mobbing), (all. 7) ha promosso la costituzione di sportelli anti-mobbing l'Osservatorio regionale sul mobbing e altre iniziative di informazione sul mobbing, e soprattutto azioni di formazione professionale sul fenomeno mobbing, rivolti, in particolare, a vari operatori pubblici e ad operatori delle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro nonché ai responsabili della gestione del personale nel settore pubblico e privato, di assistenza medico-legale e psicologica. Si è poi previsto la concessione di incentivi regionali alla realizzazione di supporti e terapie psicologiche di sostegno e riabilitazione per il lavoratore vittima del mobbing ed i suoi familiari. Da ultimo, si è previsto che il Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro, sulla base delle segnalazioni ricevute o nell'ambito della sua attività istituzionale, effettua apposite ispezioni nel luogo di lavoro per accertare l'esistenza di azioni di mobbing e l'eventuale stato di malattia del lavoratore.

La legge Regione Friuli Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7 (portante interventi regionali per l'informazione, la prevenzione e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori dalle molestie morali e psico-fisiche nell'ambiente di lavoro), (all. 8) ha promosso la realizzazione di progetti contro le molestie morali e psico-fisiche sul posto di lavoro, progetti che possono prevedere l'attivazione di appositi centri, dotati di personale qualificato, di sostegno e di aiuto nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, denominati "Punti di Ascolto" Si è previsto poi che un'apposita Agenzia regionale del lavoro e della formazione professionale compie attività dirette a migliorare la conoscenza delle problematiche che concorrono a determinare il fenomeno delle molestie morali e psico-fisiche sul luogo di lavoro e a definire idonee misure di prevenzione del medesimo.
Da ultimo, il Regolamento Regione Liguria 19 maggio 1997, n. 2, ha dettato un codice di comportamento contro le molestie e gli atti lesivi della dignità personale sul luogo di lavoro, prevedendo che "Ciascun dipendente ha diritto al rispetto della propria dignità personale. Pertanto non sono permesse né tollerate le molestie sessuali, che sì configurano come comportamenti indesiderati con manifestazioni fisiche, verbali o non verbali ed inoltre ogni altra molestia derivante da esibizioni del proprio potere o da manifestazioni di ostilità. Tali comportamenti sono considerati gravi - e i dipendenti hanno il diritto di denunciarli ove si verifichino - in quanto inquinano l'ambiente di lavoro, ledono la dignità delle persone che li subiscono e possono favorire un clima intimidatorio, ostile, umiliante, con conseguenti effetti deleteri sulla salute, il morale, il rendimento. Le molestie come definite all'art. 2 assumono particolare gravità qualora siano accompagnate da minacce o ricatti inerenti la condizione professionale del dipendente. Gli atti relativi alla condizione professionale, per i quali venga accertato un diretto collegamento a siffatti comportamenti, sono soggetti ad annullamento".
Il codice di comportamento prevede azioni di prevenzione, assistenza e repressione contro le molestie. Con riferimento a queste ultime, in particolare, l'art. 7 del regolamento prevede che il dipendente che ha subito molestia può perseguire due strade, l'una delle quali non esclude l'altra, per la soluzione del problema: a) la via "privata o pacifica"; b) la via "ufficiale". Per soluzione in via privata o pacifica si intende "il tentativo di sanare la situazione mediante un incontro tra il dipendente che abbia subito molestie e l'autore delle stesse. All'incontro può partecipare, su richiesta del dipendente che abbia subito molestie, il Presidente del Comitato per le Pari Opportunità. La controparte può farsi assistere durante l'incontro da un collega a conoscenza dei fatti o da un rappresentante delle organizzazioni sindacali. Il dipendente che abbia subito molestie può delegare il Presidente del Comitato per le Pari Opportunità a rappresentarlo. In nessun caso possono essere assunte iniziative senza l'espresso consenso della parte lesa" (art. 8).
Per i casi in cui l'interessato ritenga che non convenga tentare la via della soluzione pacifica, o qualora un tentativo in tal senso sia stato respinto, può ricorrere alla procedura formale, con rilevanza in sede disciplinare nei confronti del soggetto riconosciuto colpevole di molestie.
Particolarmente importante la norma dell'art. 10, che stabilisce l'obbligo dei dirigenti di rispettare il codice di comportamento, di spiegarlo al personale e di garantirne l'applicazione prevenendo i casi di molestie, ed in particolare prevede che il dirigente deve "mostrarsi disponibile a dare ascolto a chiunque gli si rivolga per protestare contro un episodio di molestia, favorendo, ove possibile, un chiarimento tra le parti; individuare e stroncare sul nascere comportamenti che, se lasciati liberi di consolidarsi, potrebbero alla fine configurarsi come molestie; conservare il segreto sui casi di cui venga a conoscenza; adoperarsi affinché, una volta risolto un episodio di molestie anche attraverso l'intervento del Presidente del Comitato per le Pari Opportunità, il caso non si ripeta e non si instauri una persecuzione a danno del dipendente che l'ha denunciato".
Quanto ai dipendenti, si prevede che (art. 11) "i dipendenti hanno l'obbligo di trattare con rispetto i colleghi di lavoro nell'osservanza di quanto stabilito dal codice".
Sul tema, è bene ricordare che era intervenuto anche l'INAIL con propria circolare 17 dicembre 2003, n. 71, avente ad oggetto i "disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro, il rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale, le modalità di trattazione delle pratiche". (all. 9)
Il riconoscimento della competenza Inail in materia di mobbing è derivato da un lato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e nel Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4), in base ai quali sono malattie professionali, non solo quelle elencate nelle apposite Tabelle di legge, ma anche tutte le altre di cui sia dimostrata la causa lavorativa, e dall'altro lato dalla norma del citato decreto che prevede l'indennizzo Inail anche per il danno biologico.
L'Inail ha ritenuto nella detta circolare che secondo un'interpretazione aderente all'evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale (siano esse tabellate o non) ma anche quella riconducibile all'organizzazione aziendale delle attività lavorative; secondo l'Istituto, tuttavia, tali condizioni ricorrano esclusivamente in presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili con l'espressione "costrittività organizzativa", e consistenti in una marginalizzazione dalla attività lavorativa, uno svuotamento delle mansioni, una mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata, una mancata assegnazione degli strumenti di lavoro, in ripetuti trasferimenti ingiustificati, in una prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o per converso di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, nell'impedimento sistematico e strutturale all'accesso a notizie, nell'inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro, nell'esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, ed infine nell'esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.
Il rischio coperto riguarda le patologie psichiche derivanti dalle enunciate condizioni lavorative, e in tale rischio tutelato può essere compreso anche il cosiddetto "mobbing strategico" specificamente ricollegabile a finalità lavorative.
L'Inail peraltro ha espressamente precisato che le azioni finalizzate ad allontanare o emarginare il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solo se si concretizzano in una delle situazioni di "costrittività organizzativa" di cui all'elenco sopra riportato o in altre ad esse assimilabili; le incongruenze organizzative, inoltre, devono avere caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili di discrezionalità interpretativa.
Sono invece esclusi dal rischio tutelato sia i fattori organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di lavoro (nuova assegnazione, trasferimento, licenziamento), sia le situazioni indotte dalle dinamiche psicologico-relazionali comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli di vita (conflittualità interpersonali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a comportamenti puramente soggettivi che, in quanto tali, si prestano inevitabilmente a discrezionalità interpretative).
La circolare è stata peraltro annullata dal TAR Lazio n. 5454 del 2005, (all. 42) per profili di legittimità di carattere formale.
Sul tema, va ricordato che la richiamata sentenza del TAR Lazio ha annullato la circolare INAIL ma non il d.m. 27 aprile 2004, (all. 10) recante l'elenco delle malattie per cui è obbligatoria la denuncia, ex art. 139 d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte i cui inserisce nella lista il "gruppo 7", relativo alle malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro (c.d. costrittività organizzative): si tratta delle malattie psichiche e psicosomatiche quali il disturbo dell'adattamento cronico (con ansia, depressione, reazione mista, alterazione della condotta e/o della emotività, disturbi somatiformi) ed il disturbo post-traumatico cronico da stress.

Al fenomeno del mobbing hanno dedicato attenzione anche le parti sociali, che vi hanno dedicato appositi spazi nella contrattazione collettiva nazionale.
Nel settore pubblico, ad esempio, il mobbing viene definito come una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro idoneo a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell'ambito dell'ufficio di appartenenza o, addirittura, tale da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento.
La contrattazione quindi prevede distinte forme di intervento: vengono creati dei Comitati paritetici presso ciascuna amministrazione con il compito di raccogliere dati quantitativi e qualitativi sul fenomeno del mobbing, individuare le possibili cause del fenomeno, con particolare riferimento alla verifica dell'esistenza delle condizioni di lavoro o fattori organizzativi o gestionali che possono determinare l'insorgere di situazioni persecutorie o di violenza morale, formulare proposte di azioni positive per il superamento delle situazioni critiche, formulare proposte per norme di comportamento dai inserire nei codici di condotta.
É prevista poi per la prima volta l'espressa inclusione del mobbing tra i comportamenti che possono avere un rilievo disciplinare, previsione questa particolarmente rilevante se si considera da un lato il principio di tassatività delle condotte disciplinarmente rilevanti e dall'altro lato la possibilità di porre in essere mobbing anche con atti in sé formalmente ed astrattamente leciti.
L'art. 13 del codice disciplinare del comparto ministeri prevede oggi la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni per i sistematici e reiterati atti o comportamenti aggressivi, ostili, e denigratori che assumano forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un altro dipendente; è stabilita poi la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione da 11 giorni a 6 mesi per l'esercizio, attraverso sistematici atti e reiterati atti e comportamenti aggressivi ostili e denigratori di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un altro dipendente al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo; infine, è prevista una sanzione espulsiva, il licenziamento con preavviso, per la recidiva nel biennio relativa al compimento, anche nei confronti di persona diversa, di sistematici e reiterati atti e comportamenti aggressivi ostili e denigratori e di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un collega al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo.
Inoltre, l'art. 6 del CCNL Comparto ministeri prende atto della diffusione del fenomeno (che ricollega tra l'altro alla flessibilità delle strutture e relativa mancanza di certezza dei ruoli, nonché al crescente clima sociale competitivo) e prevede la costituzione di un comitato paritetico sul fenomeno del mobbing e l'istituzione della figura del consigliere/consigliera di fiducia.

In materia di mobbing nelle pubbliche amministrazioni, si segnala anche l'intervento del Ministero per la Funzione Pubblica che ha emanato la direttiva 24 marzo 2004, recante misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni (all. 12).
Tra i fattori idonei ad incidere su tale benessere sono state individuate, tra l'altro, il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze; la chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciato e pratiche organizzative, le caratteristiche dell'ambiente nel quale il lavoro si svolge, la comunicazione intraorganizzativa circolare e la circolazione delle informazioni, la creazione di un clima relazionale franco e collaborativi, la giustizia operativa, lo stress, la conflittualità.

Da ultimo, si richiama l'accordo europeo quadro dell'8 ottobre 2004 contro lo stress su lavoro (all. 13 e 14): si tratta di un accordo sottoscritto dalle quattro maggiori organizzazioni europee di lavoratori ed imprenditori (e precisamente la Confederazione europea dei sindacati - CES, l'Unione delle confederazioni industriali d'Europa - UNICE, l'Unione europea dell'artigianato e delle PMI - UEAPME e il Centro europeo delle imprese pubbliche e delle imprese di interesse economico generale - CEEP) e quindi sottoposto alla Commissione europea.
Tale accordo rileva che stress da lavoro può derivare da fattori di stress "oggettivi", quali l'organizzazione del lavoro, le condizioni e l'ambiente lavorativi, la comunicazione, ovvero da fattori "soggettivi", quali le pressioni psicologiche e sociali, la sensazione di incapacità ad affrontarle, l'impressione di non essere sostenuti.
L'accordo impegna i datori di lavoro, se il problema di stress da lavoro è identificato, ad agire per prevenirlo, eliminarlo o ridurlo, stabilendo le misure adeguate da adottare, le quali saranno attuate con la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti.
L'accordo europeo è stato recepito con accordo interconfederale del 9 giugno 2008 (all. 15).


3.- La giurisprudenza;
3.1.- La giurisprudenza penale.

Fatti di mobbing possono essere reato (con conseguente risarcibilità del danno morale), ove siano integrati gli estremi della violenza privata (art. 610 cod. pen.), delle lesioni personali (art. 582 cod. pen), morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.), istigazione al suicidio (art. 580 c.p.), delle molestie (art. 660 cod. pen.), delle molestie sessuali o violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), dei maltrattamenti (art. 572 c.p.), dell'ingiuria o della diffamazione (artt. 594 e 595 cod. pen.), dell'abuso di ufficio (art. 323 cod. pen.), della condotta discriminatoria (art. 15 e 38 st. lav., e 4 d.lgs. 216 del 2003), restando poi applicabile l'aggravante comune ex art. 61 n. 11 cod. pen.

Sulla responsabilità penale del datore di lavoro per fatti costituenti mobbing, la Suprema Corte si è pronunciata in diverse occasioni.
La sentenza Cass., VI sez. pen., 22 gennaio 2001, n. 10090, (all. 16) ha posto alcuni punti fermi in ordine alla astratta configurabilità del delitto di maltrattamenti nell'ambito dei rapporti di lavoro subordinato, rilevando che «Integra il delitto di maltrattamenti previsto dall'art. 572 cod. pen., e non invece quello di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 cod. pen.), la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale (Fattispecie relativa a un datore di lavoro e al suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, corrisposte su libretti di risparmio intestati ai lavoratori ma tenuti dal datore di lavoro, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi)».

In altra vicenda, la Suprema Corte (Cass. 29 agosto 2007, n. 33624), (all. 17) ha chiarito che «È legittima la decisione con cui il G.u.p. dichiara non luogo a procedere in ordine al reato di lesioni personali volontarie aggravate dovute ad un'alterazione del tono dell'umore di un insegnante, riconducibile, secondo la prospettazione accusatoria, ad una condotta di "mobbing" posta in essere dal preside dell'istituto, senza specificare i singoli atti lesivi e causativi di tale malattia, considerato che il fenomeno evocato presuppone una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro; d'altra parte, tale fenomeno, così come definito, appare più prossimo alla fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen. (maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità), la cui integrazione richiede, comunque, la ravvisabilità dei parametri di frequenza e durata nel tempo delle azioni ostili al fine di valutarne il complessivo carattere persecutorio e discriminatorio (nella specie non compiutamente contestati). ».

La sentenza, pur escludendo nel caso di specie la congruità dell'imputazione in relazione alla fattispecie contestata, ha precisato che "la condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell'esprimere l'ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavora". Pertanto la prova della relativa responsabilità "deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi... che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa". Secondo la decisione "la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing è quella descritta dall'art. 572 c. p., commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione".

È stato deciso da Cass., VI sez. pen., 21 settembre 2006, n. 31413, (all. 18) un caso giudiziario (divenuto tristemente famoso, relativo al mobbing di massa della Palazzina LAF di Taranto, che ha visto il riconoscimento dei reati di tentata violenza privata e di frode processuale. Secondo la decisione, «È configurabile il reato di violenza privata, consumata o tentata, a carico di datori di lavoro i quali costringano o cerchino di costringere taluni lavoratori dipendenti ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un loro "demansionamento" (nella specie costituito da declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio) mediante minaccia di destinarli, altrimenti, a forzata ed umiliante inerzia in ambiente fatiscente ed emarginato dal resto del contesto aziendale, nella prospettiva di un susseguente licenziamento».

Cassazione, VI sez. pen,, 11 giugno 2007, n. 22702, e Cassazione, VI sez. pen., 7 novembre 2007, n. 40891, (all. 19-20) hanno applicato la norma sull'abuso in atti d'ufficio: la prima pronuncia in un caso di demansionamento e diffamazione compiuta dal superiore gerarchico (che non aveva contestato formalmente al subordinato le proprie manchevolezze, ma le aveva affermate apoditticamente in lettere indirizzate ai superiori); la seconda decisione, affermando che «In materia di abuso d'ufficio, integra il requisito della violazione di legge il mutamento di destinazione di una dipendente comunale dallo svolgimento delle mansioni di coordinatrice economa a quelle di prevenzione ed accertamento delle violazioni in materia di sosta, deliberato dal Sindaco in violazione dell'art. 56 D.Lgs. n. 29 del 1993 sui dipendenti delle pubbliche amministrazioni e dell'art. 7 C.C.N.L. dei dipendenti degli enti locali recepito nel d.P.R n. 593 del 1993. (Nella motivazione, la Corte ha precisato che tali norme, pur consentendo che un dipendente possa essere adibito a svolgere compiti di qualifica immediatamente inferiore, richiedono, tuttavia, l'occasionalità della destinazione e la possibilità che ciò avvenga con criteri di rotazione).».

Da ultimo, si segnala che, nella giurisprudenza penale di merito, Trib. Torino del 3 maggio 2005 ha approfondito la problematica dello rilevanza, nell'ambito di una imputazione di maltrattamenti, dello jus corrigendi del datore di lavoro in relazione ai comportamenti illeciti del lavoratore, escludendone la valenza scriminante anche per la tipicità delle sanzioni disciplinari cui il datore di lavoro può ricorrere, in presenza di violazioni delle regole nella corretta esecuzione della prestazione lavorativa da parte dei suoi dipendenti.

3.2.- La giurisprudenza civile di legittimità.
Sotto il profilo civilistico, la Cassazione ha chiarito intanto la giurisdizione in materia. Si è al riguardo sottolineato che il mobbing non è altro che un aspetto della violazione dell'obbligo di sicurezza del datore di lavoro, e che si tratta di responsabilità contrattuale del datore di lavoro, con conseguente competenza funzionale del giudice del rapporto di lavoro. La giurisdizione è in linea generale della magistratura ordinaria anche se la pretesa coinvolge aspetti organizzativi di servizi pubblici (nella specie, sanitari), atteso che l'art. 33, comma 2 lettera e, del D.L.vo n. 80/98, nel testo modificato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, esclude dalla giurisdizione amministrativa "le controversie meramente risarcitone che riguardano il danno alla persona o a cose".
Nel caso affrontato da Cass. SU 4 maggio 2004, n. 8438, (all. 21) venivano in rilievo una serie di specifici atti di gestione del rapporto di lavoro -illeciti istantanei con effetti permanenti, e non illeciti permanenti-, con i quali si era realizzata compiutamente una fattispecie di inadempimento contrattuale, lesiva delle posizioni soggettive tutelate, ancorché l'esistenza dell'evento dannoso si sia protratta autonomamente: tali atti erano tutti riferiti ad epoca antecedente al 30 giugno 1998, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, restando irrilevante invece l'epoca della manifestazione delle patologie denunciate dal ricorrente. Secondo il regime transitorio della disciplina devolutiva al giudice ordinario della giurisdizione sulle cause di pubblico impiego, nella specie, residuava la giurisdizione del giudice amministrativo. La decisione ha così affermato che «Ai fini del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell'amministrazione, che non sia assoggettata alla nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 80 del 1998, assume valore determinante l'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se si tratta di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se si tratta di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario. (Nella specie, relativa ad azione risarcitoria fondata sull'esistenza di comportamenti vessatori posti in essere dalla P.A. e configuranti - secondo il pubblico dipendente - un'ipotesi di "mobbing", la S.C. ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che gli atti asseritamente lesivi - tutti avvenuti in epoca antecedente al 30 giugno 1998 - si riferivano a violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di pubblico impiego)».
Cass. SU 12 giugno 2006, n. 13537, (all. 22) ha quindi precisato successivamente che «In tema di lavoro pubblico cosiddetto privatizzato, ai sensi della norma transitoria contenuta nell'art. 69, settimo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel caso in cui il lavoratore-attore, sul presupposto dell'avverarsi di determinati fatti, riferisca le proprie pretese (nella specie, accertamento del diritto ad una superiore qualifica e alle conseguenti differenze retributive) ad un periodo in parte anteriore ed in parte successivo al 30 giugno 1998, la competenza giurisdizionale non può che essere distribuita tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi. Tale regola del frazionamento della domanda trova temperamento in caso di illecito permanente: qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro (ad esempio, dequalificazione, comportamenti denunciati come "mobbing"), si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 1998».

Da ultimo sul problema della giurisdizione, si è pronunciata Cass. SU 27 novembre 2007, n. 24625, (all. 23) secondo la quale «In tema di lavoro pubblico contrattualizzato e in riferimento a questioni successive al 30 giugno 1998, qualora la domanda, individuata sulla base del "petitum" sostanziale in funzione della "causa petendi", del dipendente pubblico (nella specie dirigente sanitario di primo livello) miri alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti il rapporto di lavoro, asseritamente violate da atti illegittimi, vessatorie discriminatori (tra cui un atto di sospensione del servizio alla cui direzione il dirigente era preposto, dedotto come atto di "mobbing" e non come atto organizzatorio in ipotesi contrastante con i principi di buona amministrazione), la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, cui spetta pure la domanda di risarcimento del danno da "mobbing", atteso che, anche se fosse qualificabile come responsabilità contrattuale (e non extracontrattuale) le questioni concernono il periodo di lavoro successivo al 30giugno 1998».

Varie sentenze sono state emesse sul tema dalla sezione Lavoro della Suprema Corte, la quale, in assenza di diretti riferimenti normativi sul mobbing ed attraverso la difficile opera ricostruttiva e di inquadramento delle fattispecie negli istituti giuslavoristi consolidati e nei strumenti classici di tutela dei diritti, ha riconosciuto le prime incisive forme di tutela giurisdizionale del lavoratore vittima di mobbing ed hanno altresì definito i "contorni" giuridici di una fattispecie non direttamente tipizzata.

Sul tema, va preliminarmente osservato che, se talora le attività costituenti mobbing sono penalmente rilevanti, più spesso esse sono rilevanti solo sul terreno civilistico; altre volte ancora, si è in presenza di atti o fatti non illegittimi se riguardati singolarmente, e talora addirittura giuridicamente neutri, eppure rilevanti, unitamente ad altri, quali elementi di una fattispecie complessa che nel suo insieme ha portata lesiva della dignità, sicurezza e salute del lavoratore (ossia dei limiti, costituzionalmente rilevanti ex art. 41 Cost., apposti all'attività datoriale privata).
Risulta poi utile richiamare la distinzione tra la fattispecie del mobbing c.d. verticale, direttamente promanante dal datore di lavoro, e del mobbing c.d. orizzontale, promanante dai colleghi di lavoro della vittima: la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi relazione a fattispecie rientranti in entrambi i tipi, precisandone caratteri e responsabilità e risolvendo le diverse questioni che nei due casi si pongono sul piano giuridico.
Una delle prime sentenze sul tema è stata resa da Cass. 19 gennaio 1999, n. 475, (all. 24) che si è occupata di un caso di vessazioni sul lavoro, ritenendo che è risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta a più riprese all'Inps dell'effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse stata già accertata dai controlli precedenti. (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello secondo la quale il comportamento del datore di lavoro aveva causato un aggravamento della malattia del lavoratore tale da portare ad una invalidità permanente con riduzione della capacità di lavoro, riformandola, tuttavia per quanto attiene alla determinazione del risarcimento del danno morale e di quello patrimoniale derivante dalla ridotta capacità di lavoro).

Cass. 6 marzo 2006, n. 4774, (all. 25) ha ritenuto che una serie di comportamenti consistiti in provvedimenti di trasferimento, ripetute visite mediche fiscali, attribuzione di note di qualifica di insufficiente, irrogazione di sanzioni disciplinari, privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale ed altri episodi, può astrattamente costituire mobbing ed esporre il datore di lavoro all'azione risarcitoria del lavoratore ove si tratti di fatti rientranti in un medesimo disegno persecutorio del datore. Più specificamente la Corte, pur in concreto escludendo la sussistenza del mobbing, ha affermato che «L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente (c.d. "mobbing") - che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal lavoratore come vessatori)».

Cass. 23 marzo 2005, n. 6326, (all. 26) ha affrontato altra problematica, relativa alla possibilità della qualificazione del comportamento datoriale come mobbing in appello.
Nel caso, si discuteva in particolare della possibilità per il lavoratore di unificare in appello i fatti già dedotti in primo grado attraverso la loro considerazione globale quale mobbing, ritenendosi da questo che non trattavasi di domanda "nuova", tanto più che il concetto di mobbing aveva carattere metagiuridico ed al momento mancava di una espressa previsione normativa, ed obiettandosi dal datore di lavoro che il mobbing non è solo l'individualità degli episodi ma la loro considerazione finalistica, che finisce per farne una categoria separata, caratterizzata nel senso di comportamenti compositi, unificabili e finalizzati, sicché la novità della domanda era implicita nel fatto che, di fronte ad un'azione risarcitoria, in concreto esercitata, l'indagine era stata rivolta a comportamenti considerati singolarmente, mentre, in ipotesi di mobbing. la rilevanza andrebbe assegnata alle classi comportamentali e non ai singoli episodi. Sul punto, la S.C. ha osservato che «Qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno derivante da demansionamento, chieda anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico deducendo sin dall'atto introduttivo la lesione della propria integrità psico-fisica in relazione, non solo al demansionamento, ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come "mobbing" del suddetto comportamento, non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del "mobbing" e della sua riconduzione (anche secondo la sent. della Corte cost. n. 359 del 2003) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore».
Più di recente, Cass. 20 maggio 2008, n. 12735, (all. 27) si è occupata del tema: ritenendo il mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal gruppo in cui è inserito, la Corte territoriale ne aveva escluso la ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di reiterazione, sistematicità e intenzionalità delle condotte denunciate; la S.C. ha cassato la decisione impugnata in quanto, proprio perché il nostro ordinamento giuridico non prevede una definizione del fenomeno mobbing, la mancata ricorrenza del mobbing non esclude che i fatti allegati dal lavoratore possano essere rilevanti per altro profilo, ai fini del richiesto risarcimento dei danni, in relazione agli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo.

Ha riguardato anche il mobbing Cass. 29 gennaio 2008, n. 1971, (all. 28) che ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso per difetto di prova il mobbing, pur in presenza di un demansionamento.

Della prova del mobbing e dei poteri ufficiosi in materia si sono occupate altre pronunce: secondo Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305, (all. 29) «È carattere tipico del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti. Peraltro, mentre deve esserci sempre la specifica motivazione dell'attivazione dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 cod. proc. civ., il mancato esercizio di questi va motivato soltanto in presenza di circostanze specifiche che rendono necessaria l'integrazione probatoria. (Nella specie, la S.C., affermando il su esteso principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto decaduto il rincorrente dalla prova di asseriti fatti di mobbing, non essendo stata tale prova richiesta specificamente nel ricorso introduttivo del giudizio e non essendovi le condizioni per l'integrazione probatoria officiosa)».
In precedenza, Cass. 29 settembre 2005, n. 19053, (all. 30) aveva affermato che «In tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per "mobbing" e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbaino determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto non sostenuta da prova sufficiente la tesi della ricorrente lavoratrice della sussistenza di comportamenti della società datrice di lavoro finalizzati a nuocerle per indurla alle dimissioni e comunque per provocarle danno, sostenendo in particolare che i mutamenti nell'attribuzione della clientela e l'eliminatone del supporto del "merchandiser" avevano trovato ampia giustificazione, da un lato, nella ristrutturazione aziendale, che aveva implicato una riduzione di organico e la soppressione della posizione professionale di tutti i "merchandiser"; dall'altro, nei ripetuti e prolungati periodi di assenza della lavoratrice che avevano imposto la distribuzione della clientela di sua competenza agli altri venditori».

Di recente, la Cassazione si è occupata anche del mobbing orizzontale, precisandone i caratteri in relazione alla responsabilità del datore di lavoro.
Ha affermato Cass. 11 settembre 2008, n. 22858, (all. 31) che la responsabilità del datore di lavoro per mobbing sussiste anche ove, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente, per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo; né ad escludere tale responsabilità, quando il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero tardivo intervento "pacificatore", non seguito da concrete misure e da vigilanza. Secondo la decisione, (la cui massima provv. si riporta), «integra la nozione di mobbing" la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) diretti alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di "mobbing" provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. - ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza (nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza impugnata, ha rilevato che il giudice di merito aveva valutato le condotte in termini non solo incompleti ma anche con un approccio meramente atomistico e non in una prospettiva unitaria, con sottovalutazione della persistenza del comportamento lesivo, durato per un periodo di sei mesi, più che sufficiente ad integrare l’idoneità lesiva della condotta nel tempo, che - nella sostanziale inerzia del datore di lavoro — era consistita nell'inopinato trasferimento, da parte di un altro dipendente gerarchicamente sovraordinato, di una dipendente (incaricata della trattazione di un progetto aziendale di rilevanza europea) dal proprio ufficio in un'area "open", senza che venisse munita di una propria scrivania e di un proprio armadio, con sottrazione delle risorse utili allo svolgimento dell’attività, con creazione di reiterate situazioni di disagio professionale e personale per aver dovuto trattare in un luogo aperto al passaggio di chiunque attività che presupponevano riservatezza e per essere stata, in più occasioni, insultata con espressioni grossolane).»
Sempre con riferimento al mobbing orizzontale, in precedenza, si è pronunciata Cass. 20 luglio 2007, n. 16148 (all. 32): questa, in un caso di un ex dipendente dell'Enel che, per molti anni, era stato sottoposto dai colleghi a continue vessazioni, aggressioni e minacce riportando, in un primo momento, una forte debilitazione psico-fisica, seguita poi da un infarto e che, solo all'esito di un procedimento penale aveva chiesto i danni per mobbing, aveva rilevato, in riferimento alla responsabilità aziendale per violazione art. 2087 c.c., attesa l'unicità della fattispecie di mobbing, che il dies a quo del decorso della prescrizione per comportamento illegittimo permanente va individuato nel momento in cui la produzione del danno diviene oggettivamente percepibile.

Particolarmente interessanti le problematiche affrontate da Cass. 29 agosto 2007, n. 18262, (all. 33) che ha approfondito il tema della rilevanza delle caratteristiche soggettive del soggetto mobbizzato ai fini della esclusione del nesso causale dell'illecito.
Secondo la decisione, che ha recepito sul punto le conclusioni della ctu, l'affezione del dipendente è "disturbo post-traumatico da stress compatibile con situazione occupazionale anamnesticamente vissuta come avversativa. Così concludendo il collegio peritale ha quindi ben tenuto presente i tratti della personalità, sottolineati in ricorso, che rendevano il periziando particolarmente fragile, ma ha anche ritenuto che detta fragilità non valesse ad interrompere il collegamento eziologico tra la affezione riscontrata e le molestie subite, avendo precisato che una eventuale preesistenza di disturbi psichici poteva determinare un peso particolare e peculiare nella valutazione del danno, non nella determinazione del nesso di causalità".

3.3.- La giurisprudenza di merito.
Ricca di spunti è la giurisprudenza di merito in materia di mobbing.
Non vi è spazio qui per una disamina approfondita delle varie sentenze di merito (per la quale si rimanda all'approfondimento allegato (Buffa, in Buffa e Cassano, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005, (all. 47) che ha distinto le problematiche del mobbing in relazione al rapporto di lavoro privato o pubblico; si allegano inoltre le sentenze di merito edite successive a quelle ivi analizzate: all. da 36 a 41), ma si reputa opportuno richiamare le problematiche principali affrontate.
In linea generale, la giurisprudenza attribuisce rilevanza al mobbing in quanto ravvisi in concreto una reiterazione nel tempo di condotte lesive: per il tribunale di Trieste (sentenza 23 dicembre 2003, in www.ipsoa.it/ngonline, con nota di BUFFA, Il mobbing apicale tra responsabilità dell'ente e responsabilità personale del mobber: all. 48), la reale natura di atti vessatori è tradita e svelata da una serie di elementi quali la frequenza, la sistematicità, la durata nel tempo, la progressiva intensità, e, sopra e dentro tutti, la coscienza e volontà di aggredire, disturbare, perseguitare, svilire la vittima (e proprio l'elemento soggettivo del mobber consente di collegare tra loro fatti apparentemente del tutto diversi tra loro ed indipendenti ed accaduti in contesti spaziali e temporali eterogenei), che ne riporta un danno, anche alla salute psico-fisica.
Tribunale Civitavecchia, sentenza 20 luglio 2006, evidenzia la unicità della fattispecie del mobbing, rilevando che "elementi caratterizzanti il mobbing sono l'aggressione o la vessazione psicologica del lavoratore, la durata nel tempo dei detti comportamenti e la reiterazione delle azioni ostili, che le rende sistematiche (fr. Corte d'Appello Milano, 27 agosto 2003, in Or. Giur. Lav. 2003, 510; Tribunale Milano, 28 febbraio 2003, in Riv. Crit. di Dir. del Lav. 2003, 655). Ciò che preme evidenziare, tuttavia, è il fatto che la nozione di mobbing — come condivisibilmente sottolineato dalla giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Forlì, 28 gennaio 2005, n. 28, in www.altalex.it, annotata in Giurisprudenza di merito, 2005, 2593) - non si esaurisce in una comodità lessicale ma contiene un valore aggiunto — costituito, appunto, dalla finalità vessatoria, dall'esistenza di una strategia persecutoria - che consente di arrivare a qualificare come tale, e quindi a sanzionare, anche quel complesso di situazioni che, valutate singolarmente, possono anche non contenere elementi di illiceità ma che, considerate unitariamente ed in un contesto mobbizzante, assumono un particolare valore molesto che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il quadro d'insieme che il mobbing consente invece di valutare".
Trib. Bergamo 20 giugno 2005, in Foro it. 2005, I, 3356, ha distinto espressamente tra mobbing e straining, qualificando quest'ultimo quale stress forzato sul luogo di lavoro che può derivare anche da una singola azione, cui si ricollega un effetto permanente sul lavoratore, e che tuttavia non costituisce mobbing.

Il mobbing, proprio in quanto caratterizzato dalla compresenza nella fattispecie lesiva di atti e fatti non sempre illegittimi e giuridicamente rilevanti, postula l'analitica indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie e la precisa individuazione della portata lesiva dei fatti dedotti (tribunale di Lecce 4 giugno 2003, in www.salentolavoro.it, e Trib. Como 22 febbraio 2003, in Mass. Giur. Lav. 2003, 329, hanno addirittura dichiarato la nullità del ricorso ai sensi del combinato disposto degli artt. 414 n° 4) e 156 cpv. c.p.c., per oggettiva insufficienza nella esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui è fondata la domanda) e, quindi, la prova degli stessi e dei relativi asseriti effetti pregiudizievoli.

Una disamina delle decisioni in materia dei giudici del lavoro evidenziano che le maggiori difficoltà del mobbizzato riguardano la prova della reiterazione delle condotte illecite ed il superamento del livello di conflittualità ordinaria del vivere sociale e, in particolare, degli ambienti di lavoro. In tale contesto, il Tribunale di Milano (sent. 20 maggio 2000) ha affermato che non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. "mobbing"), qualora l'assenza di sistematicità, la scarsità di episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all'interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi.
La sentenza ricorda che il prestatore di lavoro non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l'azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercè sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico; l'illecito non coincide con quanto viene avvertito come sgradevole sul piano morale e che in ogni caso, la illegittimità di una condotta non può farsi derivare dal semplice verificarsi del danno ove accertato: infatti l'alterazione dell'integrità psicofisica di un soggetto può derivare da fattori differenti, dalla vita familiare, da uno stato di difficoltà emotiva che connota il lavoratore, ed anche da comportamenti legittimi del datore di lavoro, inevitabili ma accettati in modo irragionevole dal prestatore di lavoro.

Secondo Tribunale di Cassino 18 dicembre 2002, assolutamente necessario è individuare la linea di confine del mobbing rispetto ai normali "conflitti d'ufficio" o, nel caso del settore scolastico qui in esame, rispetto alle polemiche sorte in seno al Collegio dei docenti dell'istituto, conflitti tutti rientranti nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro e che, soltanto per superficialità di approccio indotta dalla diffusione avuta anche a livello di mezzi di informazione di massa dal fenomeno, si pretende di ricondurre sempre e soltanto a mobbing dinanzi al giudice.

Tribunale di Bari 12 marzo 2004, (all. 36) in www.giurisprudenzabarese.it, ha puntualizzato i parametri del mobbing, la cui mancanza esclude la configurabilità della fattispecie lesiva: la frequenza delle azioni ostili; la durata nel tempo di dette azioni; il tipo di azioni ostili (che vengono normalmente suddivise in cinque categorie: 1) attacchi ai contatti umani e alla possibilità di comunicare; 2) isolamento sistematico; 3) cambiamenti delle mansioni lavorative; 4) attacchi alla reputazione; 5) violenze e minacce di violenza); il carattere persecutorio e discriminatorio delle stesse; la posizione di inferiorità del lavoratore; il preciso intento persecutorio e vessatorio del comportamento datoriale.
Il mobbing dunque richiede una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengano fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e qualità. Nel caso, la richiamata sentenza ritiene che verosimilmente lo stato ansioso-depressivo in cui incontestabilmente versava il ricorrente, fosse in qualche modo ricollegabile alla intervenute modifiche dell'organizzazione del lavoro e, in specie del settore logistica dove il predetto aveva prestato la propria attività per notevole tempo; ciò peraltro in un'ottica assolutamente fisiologica, e senza che configurabile una responsabilità risarcitoria del datore di lavoro.
In proposito la sentenza rammenta che "il prestatore di lavoro non ha alcun diritto ad essere felice e, anzi, come in ogni altro ambiente basato su relazioni continuative, l'azienda stessa è luogo di continui conflitti e tensioni, in parte inevitabili e prevenibili mercé sfoggio di virtù morali ed umane che non sono oggetto di obbligo giuridico", ed aggiunge che non può dimenticarsi che l'illecito non coincide con quanto viene avvertito come sgradevole sul piano morale e che in ogni caso, la illegittimità di una condotta non può farsi derivare dal semplice verificarsi del danno ove accertato. Del resto, l'alterazione dell'integrità psicofisica di un soggetto può derivare da fattori differenti, dalla vita familiare, da uno stato di difficoltà emotiva che connota il lavoratore, ed anche da comportamenti legittimi del datore di lavoro, inevitabili ma accettati in modo irragionevole dal prestatore di lavoro. In difetto quindi di una prova positiva del nesso di causalità tra il dedotto stato depressivo ed un comportamento identificabile sul piano oggettivo come illegittimo, la pronuncia ha ritenuto che la pretesa di risarcimento del danno non possa trovare spazio.

Ma quanto detto rende evidente che la fattispecie del mobbing si presenta spesso di difficile enucleazione, specie quando ancorata a meri fatti formalmente leciti ma rilevanti in una dimensione che li consideri unitamente, o per l'elemento soggettivo che li unifica o ancor più per gli effetti obiettivi degli atti: in particolare, è certo difficile sceverare, nell'ambito di fatti in sé neutri, quei fatti che possono rilevare quali integrativi del mobbing; specie ove i rapporti tra i dipendenti siano conflittuali, può risultare problematico stabilire in concreto fin dove si spinga la subordinazione del dipendente e dove emerga l'abuso del superiore, fin dove i conflitti lavorativi rientrino nella normale dinamica dei rapporti umani sul lavoro e dove sfocino invece nella patologia dei rapporti, fin dove i disagi e gli stress da lavoro siano irrisarcibili in quanto normali (anche se mal tollerati dal dipendente) o frutto di disciplina particolarmente serrata e dove invece essi diventino oggettivamente intollerabili o espressione di abuso.
Si tratta indubbiamente di valutazioni da effettuare in relazione al singolo caso di volta in volta oggetto di giudizio, ad istruttoria probatoria ultimata.

Che l'importanza giuridica della categoria del mobbing stia proprio nell'unificazione delle condotte datoriali, sicché anche condotte in sé giuridicamente insignificanti o neutre assumono rilevanza quali elementi di una fattispecie complessa che è lesiva degli interessi del lavoratore, è stato riconosciuto anche da Trib. Lecce 9 giugno 2005, (all. 34) in www.personaedanno.it ed in dirittolavoro.altervista.org, in un caso in cui, oltre alla durata nel tempo delle vessazioni, risultava l'isolamento del ricorrente, il demansionamento, le minacce di licenziamento, l'abuso nei controlli datoriali e l'imposizione illeciti di comportamenti non rilevanti ai fini della prestazione.
Riconosce peraltro la sentenza che importante è delineare forme di tutela del lavoratore anche nel caso in cui al datore competono poteri unilaterali di conformazione del rapporto, rispetto ai quali il lavoratore ha astrattamente una posizione di mero pati: "il lavoratore ha una posizione soggettiva di fondamentale importanza che è l'interesse -inquadrabile nella categoria degli interessi legittimi, ma di tipo privatistico- ad un corretto esercizio da parte del datore di lavoro dei poteri unilaterali di gestione; a questo interesse, che è alla base di una funzione di controllo che può espletare il lavoratore sulla posizione del datore di lavoro, corrisponde quello che è il generale obbligo di buona fede e di correttezza del datore di lavoro", obbligo che è violato "innanzitutto quando il datore di lavoro abusa dei propri poteri, cioè, giuridicamente, fa un uso dei propri poteri dirigendoli a fini diversi da quelli previsti dalla norma che assegna il potere unilaterale al datore di lavoro".

Con riferimento al pubblico impiego contrattualizzato, l'ordinanza collegiale del Tribunale di Lecce, 23 agosto 2001, in Lav. prev. oggi, 2001, 1428, ed in www.lpp.it e www.dirittolavoro.web1000.com/justice/impegno, (all. 35) in un caso di doloso svuotamento professionale delle mansioni di una dirigente, accompagnato da accuse infondate e calunniose per attività svolte sul lavoro, nel ravvisare nel caso un vero e proprio bullying, ossia comportamento mobbizzante intenzionalmente volto ad arrecare danni, ha ritenuto che l'amministrazione avesse il preciso dovere (come si suppone noto all'amministrazione medesima per le sue specifiche competenze, anche ispettive, in materia di lavoro) di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile all'interno dell'ufficio, e di evitare un'ulteriore lesione della personalità fisica e morale della lavoratrice. L'ordinanza salentina inoltre ha precisato analiticamente l'ambito del potere del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione e l'assenza di limiti per un intervento inibitorio del mobbing, neppure nel caso in cui la fattispecie importasse incidenza sull'organizzazione della pubblica amministrazione: si è in particolare ritenuto che il giudice ordinario potesse prendere provvedimenti che valessero ad impedire al dirigente mobbizzante la reiterazione della condotta lesiva nei confronti della dipendente, ed anche se ciò si fosse tradotto inevitabilmente in una compressione dei poteri del dirigente del servizio (trattandosi di una situazione necessitata dall'esigenza di prevenire abuso dei poteri medesimi e di evitare l'incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente). Vengono così ammesse interferenze del potere giudiziario nella sfera organizzativa dell'amministrazione, essendo tali provvedimenti giurisdizionali consentiti nell'assetto normativo seguente al d.lgs. 29/93 (come modificato dal d.lgs. 80/98 e 387/98, e poi confluito nel d.lgs. 165 del 2001), atteso che a seguito della c.d. seconda privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, la pubblica amministrazione agisce "con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro", e che il giudice ordinario "può adottare nei confronti dell'amministrazione tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati".
Da ultimo, va evidenziato che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, sono ricche di pronunce relative alle molestie sessuali sul luogo di lavoro; si tratta di problematica che è solo connessa con quella del mobbing, e per la quale si fa rinvio pertanto alla documentazione allegata (BUFFA, in BUFFA e CASSANO, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005) (all. 47).

3.4.- La giurisprudenza amministrativa e contabile.
Con riferimento alla giurisprudenza amministrativa, si è già richiamata Tar Lazio n. 5454 del 2005, (all. 42) che ha annullato la circolare INAIL n. 71 del 2003.
Altre pronunce del giudice amministrativo hanno evidenziato poi, in ordine agli aspetti inerenti strettamente il rapporto di lavoro, la stretta correlazione tra tale rapporto e la domanda avente ad oggetto il mobbing.
Nel regime precedente la devoluzione del contenzioso sulle controversie di pubblico impiego al giudice ordinario, secondo Consiglio di Stato 9 ottobre 2002, n. 5414, appartengono alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie relative al risarcimento danni dei pubblici dipendenti, senza che sia dato distinguere tra responsabilità contrattuale e responsabilità aquiliana dell'ente pubblico non economico datore di lavoro, non potendo ricondursi quest'ultima - sempre che sussista un collegamento non occasionale tra comportamento illegittimo e rapporto di lavoro - alla categoria delle questioni attinenti ai diritti patrimoniali consequenziali.

TAR Veneto 8 gennaio 2004, ha ritenuto che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex artt. 3 e 63 d. lgs. n. 165 del 2001 e 7 l. n. 205/2000, una controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno per mobbing, avanzata da un dipendente nei confronti dell'Amministrazione datrice di lavoro, nel caso in cui sussista una correlazione immediata e diretta tra i fatti posti a base della domanda risarcitoria ed il rapporto di servizio con l'Amministrazione, ovverosia sussista un collegamento evidente tra l'istanza di ristoro e gli atti ed i comportamenti posti in essere dalla P.A., in relazione al rapporto di lavoro medesimo.

Tar Lazio 5 aprile 2004 (all. 43) ha poi puntualizzato la nozione di mobbing, attribuendo rilevanza al carattere persecutorio delle condotte reiterate, da non intendersi tuttavia in termini eccessivamente soggettivi, essendo sufficienti i caratteri obiettivi della condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi oggettivamente vessatoria).

In altra vicenda, Tar Lazio 25 giugno 2004 ha riconosciuto il mobbing, in relazione alla pluralità dei comportamenti e delle azioni a carattere persecutorio (illecite, o anche lecite se considerate in se stesse), sistematicamente e prolungatamente dirette contro il dipendente, all'evento dannoso, al nesso di causalità tra la condotta e il danno, ed ala prova dell'elemento soggettivo; affermato quindi che in tema di "mobbing" è ammissibile il concorso tra la responsabilità aquiliana ex art. 2043 e la responsabilità specifica ex art. 2087 c.c., nella parte cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, anche alla luce dell'obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, ritiene di dover accedere ad una complessiva liquidazione equitativa sensi degli art. 1226 e 2056 c.c.
La sentenza ha tuttavia ben evidenziato le difficoltà di accertamento in concreto del mobbing: "Certamente è difficile tipicizzare una fattispecie che per sua stessa natura è soggetta ad un accertamento caso per caso, e nella quale rientrano condotte incidenti sulla reputazione del lavoratore, sui suoi rapporti umani con l'ambiente di lavoro, sul contenuto stesso della prestazione lavorativa. La materia è delicata, dovendosi - come giustamente sottolineato in dottrina - ricercare un punto di equilibrio tra l'esigenza di tutelare i lavoratori che rimangono vittime di iniziative persecutorie e la necessità di evitare una "giuridificazione" eccessiva e patologica dei rapporti umani in ambito avorativo, che comporterebbe l'attribuzione di sanzione giuridica a qualsivoglia scorrettezza o a qualunque evento della convivenza umana nel luogo di lavoro: se un collega toglie il saluto a un lavoratore, quest'ultimo non potrà certo per ciò solo adire il giudice, trattandosi di una vicenda rilevante solo nell'ambito dell'educazione e della cortesia reciproca, o magari sul piano morale (cfr. Tribunale Cassino, 18 dicembre 2002, secondo cui il mobbing si differenzia dai normali conflitti interpersonali sorti nell'ambiente lavorativo, i quali non sono caratterizzati da alcuna volontà di emarginare ed espellere il collega o il subordinato dal contesto lavorativo, ma sono legati a fenomeni di antipatia personale ed ambizione); e lo stesso va detto con riferimento p. es. al caso del capufficio caratterialmente poco simpatico, in assenza di ulteriori specifici profili peculiarmente incidenti sullo specifico rapporto con il lavoratore".
A devoluzione al giudice ordinario avvenuta, a seguito della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, la giurisdizione del giudice ordinario è stata riconosciuta dal Consiglio di Stato (sez. V, ordinanza 6 dicembre 2000 n. 6311) nel caso di una dipendente di una Azienda sanitaria locale che asseriva di essere stata mobbizzata. La pronuncia si segnala perché il Consiglio di Stato espressamente ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo anche nel caso in cui il provvedimento giudiziale richiesto incide sull'organizzazione dell'amministrazione, e ciò ove sia spiegata azione contrattuale, ovvero ove sia esperita azione aquiliana, sia che si richieda un pubblico servizio, (richiamando rispettivamente l'art. 68 d.lgs. 29/93, l'art. 2043 c.c. ed infine l'art. 33, co. 2 lett. E) d.lgs. 80/98, come modificato dalla l.. 21 luglio 2000, n. 205), che in materia di pubblici servizi.

Con riferimento ai rapporti di lavoro esclusi dalla contrattualizzazione e privatizzazione, e quindi dalla devoluzione del relativo contenzioso al giudice ordinario, una fattispecie di asserito mobbing è venuta all'esame del Consiglio di Stato nel caso deciso dalla sentenza n. 2515 del 2008, (all. 44) che, nel precisare il carattere contrattuale della responsabilità datoriale, ne ha però in concreto escluso la ricorrenza.

Tar Lazio, sezione prima quater, sentenza n. 3315 del 17 aprile 2007, in un caso relativo alla domanda di un agente scelto della Polizia penitenziaria che aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti per mobbing per comportamento illegittimo e dispotico della direttrice di una casa circondariale, ha ribadito che le controversie relative al mobbing spettano al giudice ordinario se alcuni soggetti danneggiano in modo sistematico un dipendente nel suo ambiente di lavoro e sia fatta valere una responsabilità aquiliana, mentre la competenza è del giudice amministrativo qualora le vessazioni si traducano in demansionamento o nell'emanazione di provvedimenti illegittimi (quali nel caso dei provvedimenti disciplinari) e si faccia valere una responsabilità contrattuale.
La sentenza è interessante anche perché, nei rapporti esclusi dalla privatizzazione e quindi ancora oggetto di cognizione del giudice amministrativo, aderisce all'orientamento affermato dalle Sezioni Unite secondo cui l'azione risarcitoria, proposta davanti al Giudice Amministrativo per lesione di interessi legittimi è ammissibile — dopo lo storico pronunciamento della Corte di Cassazione a SU con sentenza 500/99 — senza essere preceduta, entro gli ordinari termini decadenziali, da tempestiva impugnazione degli atti ritenuti affetti da vizi di legittimità: "A seguito, invece, dell'orientamento di cui alle citate ordinanze della Suprema Corte è ormai possibile proporre azione risarcitoria, per lesione di interessi legittimi, entro gli ordinari termini di prescrizione quinquennale, anche senza previa impugnazione dell'atto lesivo: un orientamento, quello appena indicato, di particolare rilievo proprio in situazioni — riconducibili a mobbing — normalmente connesse a vizi che interessano non un singolo provvedimento, ma una serie di atti, la cui illegittimità, complessivamente considerata, riveli intenti persecutori e sia fonte di danno per la salute del dipendente".
Più di recente, Tar Lazio 28 maggio 2008 n. 5177 (all. 45) si è occupata di un altro caso di asserito mobbing, ed ha affermato la distinzione tra questo ed i meri scontri tra colleghi derivanti da disaccordi personali tra gli stessi.

Sul tema si è pronunciata anche la Corte dei Conti, Sez. III, nella sentenza 25 ottobre 2005, n. 623. Nel caso, si affrontava il problema della configurabilità di responsabilità per danno all'Erario, conseguente a sentenza civile di condanna di un pubblica amministrazione al risarcimento di danni per mobbing in favore di suoi dipendenti (nella specie, alcuni docenti di una scuola avevano lamentato soprusi, violenze morali e condotte moleste di tale gravità da provocare in loro un notevole stato depressivo e d'ansia tanto da indurli a ricorrere a cure mediche ed all'assunzione di farmaci ansiolitici ed antidepressivi).

La sentenza contabile del giudice di primo grado aveva affermato che "la Sezione dubita della azionabilità di un danno erariale connesso a risarcimento economico per danno biologico temporaneo arrecato a soggetti maggiorenni ed idonei alla funzione docente. In altre parole, dall'esame della sentenza civile emerge una qualificazione come "punitivo" del risarcimento così riconosciuto quasi a realizzare una sorta di "tutela" del lavoratore (in quanto parte debole del rapporto) nei confronti della Amministrazione. Per queste caratteristiche tale risarcimento non potrebbe avere, attraverso la rivalsa, riflessi economici sul patrimonio del convenuto, quale responsabile dello stato di disagio in cui si sarebbe trovata una minima parte del corpo insegnante dell'Istituto". La Corte dei Conti, in senso diverso, ritiene la decisione assolutoria del primo giudice non condivisibile in quanto essa si scontra con una duplice pronuncia contraria, del giudice penale l'una, che riconosce l'astratta sussistenza dei reati di offesa e di diffamazione e del giudice civile l'altra, che su tale ineludibile presupposto riconosce e liquida ai docenti lesi il danno morale, presupposti oggettivi sufficienti per l'affermazione della responsabilità amministrativa, posto che "Una volta infatti che il giudice civile abbia legittimamente imposto il risarcimento di un qualunque tipo di danno è evidente che ciò determina una diminuzione patrimoniale per le risorse finanziarie dell'amministrazione interessata e non può non tradursi in un danno erariale. ... Si deve, dunque, escludere che il danno da mobbing, ove esistente, non possa essere oggetto di azione di rivalsa nei confronti dell'agente pubblico".


4.- La dottrina e le principali problematiche giuridiche.
Gli studi editi in materia sono numerosi e, oltre a vari saggi, si registrano una trentina di approfondimenti monografici della dottrina italiana: in questa sede si richiamano solo alcuni interventi che appaiono più utili ad analizzare il fenomeno del mobbing o a focalizzare le problematiche ancora dibattute, tralasciando i riferimenti più generici o relativi ad aspetti ormai condivisi.
In dottrina si è intanto evidenziato che il mobbing è uno dei nuovi rischi da lavoro, e che "se la maggiore attenzione è stata dedicata finora ai fattori connessi a ripetitività, monotonia, carichi di lavoro, ritmi e così via, appare oggi indispensabile considerare alcuni ulteriori aspetti (relativamente) nuovi, nel senso che sono frutto di più recente acquisizione. Faccio riferimento a tutti i fenomeni che attengono agli aspetti relazionali (relazioni fra i lavoratori e fra loro e i superiori), al rapporto persona-ambiente di lavoro-tecniche di lavorazione, a tutte le questioni attinenti al disagio, alla disaffezione, alla insoddisfazione, al malessere e a quel grande complesso di fenomeni riconducibili, in modo semplificativo, allo stress. Ovviamente, non è che tutti questi fenomeni conducano necessariamente a vere e proprie patologie, perché anzi esse dovranno essere dimostrate e provate di volta in volta, come indicato dalla stessa sentenza ;già citata della Corte Costituzionale; ma è pacifico che si tratta di altrettanti fattori di rischio, finora considerati poco o comunque in modo insufficiente". In tale ambito, anche "le cosiddette «incongruenze del processo organizzativo», costituisco certamente aspetti di novità nel contesto dell' organizzazione del lavoro come fattori di rischio" (SMURAGLIA, Le malattie da lavoro, prevenzione e tutela, Ediesse).
Altro studio (BUFFA, in BUFFA e CASSANO, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005(all. 47) ha rivisitato tutto il diritto del lavoro approfondendo gli aspetti immateriali ed esistenziali del rapporto di lavoro, evidenziando tutti i fattori lavorativi che possono incidere sulla salute del lavoratore e sulla sua dignità e sicurezza.
Si è parlato così di:
- lavoro usurante (e di danno esistenziale da mancato riposo, settimanale o feriale o per gravidanza, da diniego di permessi dovuti, da superlavoro o lavoro notturno, da condizioni lavorative anguste, da lesioni gravissime o morte del lavoratore per infortunio o malattia professionale);
- lavoro frustante (e di danno esistenziale da dequalificazione e demansionamento, da assegnazione di mansioni incongrue o di compiti senza mezzi idonei, da diniego o revoca di incarico dirigenziale, da inattività forzata, da elusione di provvedimenti giurisdizionali, da precarietà del rapporto, fittiziamente qualificato, da condotta processuale del datore, da discriminazione e quello da disparità di trattamento, da mancato o ritardato pagamento della retribuzione o da retribuzione insufficiente);
- lavoro molestato (e di danno esistenziale da mobbing, da molestie sessuali sul lavoro, da controlli illeciti del lavoratore, da abuso di visite di controllo della malattia, da atti ingiuriosi o violenti e da riduzione in schiavitù, da uso illecito del potere disciplinare, da trasferimento);
- lavoro compromesso (e di danno esistenziale da licenziamento ingiurioso, licenziamento ritorsivo, licenziamento illegittimo, da mancata reintegrazione a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo, da dimissioni per giusta causa);
- qualità della vita compromessa (e di danno da lesione della tutela dei dati personali e danno correlato alla partecipazione a concorsi pubblici) e vita compromessa (e di danno esistenziale da mobbing estremo e suicidio del lavoratore).

In tutte queste ipotesi si sono esaminate le tutele del lavoratore vittima di lesioni della sua personalità e salute (per un esame generale delle fattispecie, altresì GAROFALO D., Mobbing e tutela del lavoratore tra fondamento normativo e tecnica risarcitoria, Ipsoa, 2004: all. 50).

La dottrina che si è occupata del tema del mobbing ha costantemente evidenziato che caratteristica del mobbing è proprio la sistematicità e la durata degli atti di persecuzione e dell'aggressione (CIMAGLIA, Riflessioni su mobbing e danno esistenziale, in Riv. giur. lav. 2002, I, 93), e che il danno da mobbing si configura come la conclusione in senso cronologico di un processo complesso articolato in condotte logicamente contestuali alla complessiva strategia o progetto di emarginazione del lavoratore (FOGLIA, Danno da mobbing nel rapporto di lavoro: prime linee di sviluppo giurisprudenziale, in Dir. lav., 2000, II, 3 ss., 13).
Vari studi hanno esaminato poi le fattispecie di conflittualità sul lavoro (stalking, straining, ed altri), determinative di danno del lavoratore (EGE, Oltre il mobbing, 2007; MANNA, Mobbing e straining come fattispecie determinative di danno: inutile un intervento normativo?, in Riv. critica dir. lav. 2006, 3, 705); TRAMONTANO, Il risarcimento dei danni da attività lavorativa, Tribuna, 2007), (ali. 51-52-53) ovvero approfondito gli aspetti penali, anche in relazione alla responsabilità delle persone giuridiche (SZEGO, Mobbing e diritto penale, Giuffré, 2007). (all. 54)
Il rapporto tra stress e mobbing, anche alla luce della legislazione sulla sicurezza del lavoro, è analizzato da DE FALCO, MESSINEO, MESSINEO, Stress e mobbing, EPC, 2006). (all. 55)
Non si esclude peraltro che anche il singolo atto, avendo effetti duraturi, possa costituire lesione rilevante della sicurezza del lavoratore. Inoltre, va considerata la rilevanza delle discriminazioni, che assumono rilevanza anche ove uno actu perficiuntur.
In dottrina, si è studiata la tutela antidiscriminatoria (che, come già ricordato, attribuisce rilevanza alle molestie) e si è evidenziata la sua applicabilità ai soli motivi tipici di discriminazione, previsti dalla disciplina dettata dai d.lgs. 215 e 216 del 2003. Si è altresì evidenziato che, al di là di tali motivi, vi sono una serie di motivi che sono discriminatori secondo il senso comune, ma che non sono tali secondo l'ordinamento giuridico, e che possiamo chiamare motivi atipici di discriminazione: pensiamo alla discriminazione del lavoratore per fatti inerenti la sua vita privata, i suoi caratteri fisici, il suo stato di malattia, la sua minore età o per converso la sua anzianità anagrafica o la sua anzianità contributiva, la circostanza che il lavoratore sia discriminato per avere assunto la qualità di parte ricorrente in un giudizio di lavoro contro il datore di lavoro, ovvero abbia semplicemente manifestato mere rivendicazioni economiche. Pensiamo poi al lavoratore -privato o pubblico non fa differenza- discriminato sul lavoro semplicemente perché "poco gradito": si tratta di casi nei quali la tutela antidiscriminatori non può operare proprio per difetto della tipicità dei motivi delle molestie; la regola è infatti quella della tipicità della tutela antidiscriminatoria, e dunque della applicabilità della stessa ai soli motivi previsti dalla legge.
I motivi atipici di discriminazione, intesi così dalla collettività in un dato momento storico e geografico, ma non tipizzate dal legislatore, possono dar luogo a forme di esercizio illegittimo o anche illecito del potere datoriale, ma non consentono l'applicazione delle tutele previste espressamente dal legislatore per i motivi tipicamente discriminatori, ma al più la tutela ex art. 1345 c.c. (per la quale, però, il motivo illecito deve essere determinante ed esclusivo, ed occorre la prova del motivo soggettivo illecito determinante perseguito dal datore di lavoro, laddove l'atto discriminatorio per motivi tipizzati rileva oggettivamente, anche se questi non sono determinanti né esclusivi, e comunque a prescindere dall'animus dell'autore dell'atto vietato) (sul tema, BUFFA, Discriminazione della pubblica amministrazione e tutela del lavoratore. Mobbing e abusi, Maggioli, 2004, 12 ss.). (all. 46)
La tutela dei lavoratori contro il mobbing è del tutto autonoma rispetto alla tutela (quale quella antidiscriminatoria) dei soggetti deboli e dei membri di gruppi sociali svantaggiati; anche sul piano soggettivo, infatti, ad essere colpiti dal mobbing sono il più delle volte lavoratori professionali con un curriculum di ottimo livello e dalle molteplici esperienze — normalmente provenienti da aziende esterne e non assunti ab initio dall'azienda ove si immettono, portatori quindi di una professionalità altamente concorrenziale per gli interni in quanto maturata in altri contesti più evoluti organizzativamente — giacché proprio per questo motivo meno di altri riescono ad adattarsi a vetusti metodi di lavoro o a prassi e relazioni umane consolidate.

Come già emerso dall'esame della giurisprudenza, spesso le attività costituenti mobbing sono già in sé illegittime o addirittura criminali e contrastanti con previsioni di legge, e qui operano le tutele tradizionali del lavoratore, alle quali, se del caso, può aggiungersi la tutela applicabile al mobbing; altre volte, invece, gli atti del datore di lavoro o di soggetti dei quali egli deve risponder risultano in sé astrattamente legittimi e tuttavia, pur non contrastando formalmente con disposizioni normative specifiche, sono in concreto, per le modalità con cui sono poste in essere o per i fini perseguiti dal loro autore, contrastanti con il generale dovere di buona fede e correttezza che permea il contenuto dell'obbligazione datoriale ed anche causativi di un danno ingiusto e quindi illecite.
Il mobbing è fenomeno difficile da dimostrare proprio perché non sempre ci si trova innanzi ad atti illegittimi, ma spesso ad atti neutri, con la conseguente difficoltà di distinguere gli atti che arrecano danni risarcibili da quelli che invece rientrano nella normale gestione, pur conflittuale, dei rapporti di lavoro e sociali. Si tratta d'altra parte di aspetti problematici proprio perché spesso involgono giudizi di carattere morale o sociale propri di un dato momento storico e di un dato ambiente (e dei quali il giudice, con la sua personalità, sensibilità, formazione e cultura, deve farsi interprete).
Significativo è così quanto affermato in tema (MERLO, Il mal d'ufficio, ultima trovata della filosofia buonista, in Corriere della Sera, suppl. Sette, 26.11.98, n. 47): "l'ultima trovata della filosofia buonista è il mobbing, il mal d'ufficio, il malessere provocato dalle calunnie dei colleghi, dalle prepotente dei capetti e dei concorrenti, la maldicenza che ti ostacola la carriera, le piccole sevizie subite quotidianamente sul lavoro, il doppiogioco del compagno. Medici e sindacalisti, giornalisti e professori vorrebbero che gli uffici italiani fossero dunque finalmente purificati dal morbo del mobbing, niente più calunnie o invidie". Si evidenzia, dunque, la difficoltà di distinguere tra ciò che è normale conflittualità al lavoro da ciò che giuridicamente può assumere rilievo; in altri termini, "i conflitti sono la vita stessa di un ufficio, e non si può pretendere -e quindi sanzionarne la mancanza- educazione, rispetto, sorrisi, perché la vita è spesso anche maldicenza e calunnia, invidia e trabocchetti".
Purtuttavia, l'importanza dell'individuazione della categoria del mobbing (vista appunto come framework di condotte eterogenee, pur ove -in sé considerate- siano irrilevanti) risale proprio in ciò, per l'unificazione di condotte in sé astrattamente irrilevanti o inidonee a suscitare una reazione adeguata dell'ordinamento e che tuttavia, riguardata nel loro insieme, possono essere valutate nella loro portata lesiva reale; correlativamente, la considerazione unitaria del fenomeno consente di colpirlo superando l'approccio tradizionale delle corti che sanzionano solo particolari degenerazioni di elevato impatto lesivo.
Il mobbing diviene così un legal framework, che consente di decodificare, unificare e collegare quei diversi comportamenti, indipendentemente dalla illiceità di ciascuno di essi, in un unicum connotato da disvalore e rilevanza giuridica autonoma (BONA, MONATERI, OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul luogo di lavoro, Giuffré, 2000, 550; BONA, MONATERI, OLIVA, La responsabilità civile nel mobbing, IPSOA, 2007, 21 (all. 56)). Tale costruzione è peraltro utile sia con riferimento al mobbing verticale che con riferimento al mobbing orizzontale (per un approfondimento delle responsabilità del datore di lavoro indiretta, DEL BORRELLO, in AA.VV., I danni alla persona del lavoratore nella giurisprudenza, CEDAM, 2006, 109) (all. 64)

Si è pure acutamente detto (AMATO, in AA.VV., Il mobbing, Giuffré, Milano, 2002, 48) che proprio sul versante della tutela risarcitoria si apprezza meglio il salto qualitativo derivante dalla ricostruzione della fattispecie di mobbing come fenomeno unitario: infatti, anche qualora tutte le singole condotte considerate fossero sanzionabili (cosa che peraltro spesso non è, come si è detto), la riconduzione ad unità si mostrerebbe comunque indispensabile per una migliore valutazione del danno, in quanto gli effetti dannosi dal mobbing non sono una semplice sommatoria degli effetti dannosi delle singole condotte, atteso che ogni singola condotta persecutoria crea un precedente nella psiche e/o sul corpo della vittima sicché il danno successivamente inferto opererà su un substrato psicofisico già indebolito e compromesso.
La rilevanza del mobbing è stata poi evidenziata sotto un profilo obiettivo, a prescindere quindi dalla illegittimità formale degli atti ovvero dell'intento soggettivo persecutorio (MEUCCI, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, 2006, 72) (all. 57).
Ad ogni modo, il principale problema resta quello del superamento della soglia della ordinaria conflittualità e della rilevanza della fattispecie. È certo difficile sceverare, nell'ambito di fatti in sé neutri, quei fatti che possono rilevare quali integrativi del mobbing; specie ove i rapporti tra i dipendenti siano conflittuali, può risultare problematico stabilire in concreto fin dove si spinga la subordinazione del dipendente e dove emerga l'abuso del superiore, fin dove i conflitti lavorativi rientrino nella normale dinamica dei rapporti umani sul lavoro e dove sfocino invece nella patologia dei rapporti, fin dove i disagi e gli stress da lavoro siano irrisarcibili in quanto normali (anche se mal tollerati dal dipendente: sulla tutela della felicità del dipendente sul posto di lavoro, GRAGNOLI, Soddisfazione professionale e promozione delle libertà personali. I limiti ai poteri del datore di lavoro e la tutela risarcitoria, in atti dell'incontro di studi "Il mobbing nei rapporti di lavoro", organizzato dal Centro studi Domenico Napoletano in Cosenza, 2006 (all. 58)) o frutto di disciplina particolarmente serrata e dove invece essi diventino oggettivamente intollerabili o espressione di abuso (Sull'abuso del diritto come limite generale ai poteri datoriali, con specifico riferimento al mobbing, LEARDINI, in PEDRAZZOLI, Vessazioni ed angherie sul lavoro, Zanichelli, 2007 (all. 59)). Si tratta indubbiamente di valutazioni da effettuare in relazione al singolo caso di volta in volta oggetto di giudizio.

Altro problema rilevante, per quanto poco battuto in dottrina, riguarda la precisazione dei limiti di configurabilità del nesso causale tra condotta e danno nel caso in cui il soggetto che asserisce il mobbing sia un soggetto debole o "predisposto" al danno.
Sul punto può rilevarsi che, alla base della ricostruzione delle fattispecie di mobbing vi è l'esigenza di protezione dei lavoratori, esigenza che, se spesso -nel mobbing sia orizzontale che verticale- trova espressione nei confronti di persone brillanti e motivate sul lavoro e perciò obiettivo dell'invidia dei colleghi, trova espressione anche nei confronti dei lavoratori più deboli e fragili, restando così rilevante l'obbligo di protezione del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. anche nei casi in cui il danno alla sfera psicofisica del lavoratore sia in parte ascrivibile alla personalità non normale dello stesso (perché più debole e come tale bisognosa di maggior protezione: sul punto, AMATO in AA.VV., Il mobbing, Giuffré, 2002, 35 ss., e CARACUTA, Mobbing e tutela giudiziaria, in www.diritto.it, 2000, che incisivamente ricordano che l'art. 32 Cost. e l'art. 2087 c.c. proteggono e tutelano sia i soggetti forti sia quelli deboli e fragili; vedi pure TULLINI, Mobbing e rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2000, 2, 258; e TRONATI, Mobbing e straining nel rapporto di lavoro, Ediesse, 2007, 43). (all. 60)
Per converso, un limite al riconoscimento della tutela del lavoratore è stato ben individuato a monte, nella polifattorialità eziologica delle malattie psichiatriche (MARIGLIANO, in AA.VV., Accertare il mobbing, Giuffré, 2007, 223 ss.). (all. 61)

Vari ed interessanti anche per il giurista sono poi gli studi medico legali del mobbing; sotto tale profilo, si è evidenziato che tra le conseguenze più frequenti sul piano patologico, la neuropsichiatria individua appunto una diagnosi specifica di "disturbo postraumatico da stress", formula che indica quell'insieme di disturbi psichici (come depressione, ansia, pensiero ossessivamente concentrato, stato di tensione perpetua e di iperallerta), che compaiono dopo un trauma psichico acuto o cumulativo. Altre volte la diagnosi è di "disturbo dell'adattamento", che ha gli stessi caratteri del disturbo postraumatico da stress ma in forma meno intensa e senza conseguenze croniche: spesso derivano sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia, disappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto con conseguente frequente ricorso all'uso farmacologico di ansiolitici, antidepressivi, e disintossicanti (Sul tema, AA.VV., Patologia psichiatrica da stress, mobbing e costrittività organizzativa. La tutela dell'INAIL, ed. INAIL, 2007). Vi è poi la "sindrome del burn-out", connesso al senso di inutilità e di insoddisfazione professionale ed esistenziale del lavoratore vittima di isolamento e di vessazioni.
Il mobbing presenta notevoli difficoltà anche in ordine all'accertamento medico legale dei danni derivanti dallo stesso (sul tema, che qui non può essere trattato, si rimanda a BONZIGLIA, MARIGLIANO, BONA, MONATERI, OLIVA, Accertare il mobbing, Giuffré, 2007(all. 61); QUERINI e SUNI La consulenza tecnica in materia di mobbing,, Utet, 2007 (all. 62); EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Giuffré, 2002).

Un altro problema particolarmente rilevante è costituito dalla individuazione dell'obbligo di intervento del datore a tutela del dipendente mobbizzato al fine di rimuovere la sitruazine lesiva, e dalla correlativa possibilità di esigere dal datore di lavoro il comportamento atteso anche se occorra incidere sulla sfera della organizzazione dell'impresa ovvero dell'amministrazione pubblica.
In altri termini, l'obbligo del datore di inibire condotte mobbizzanti e di assicurare la sicurezza dell'ambiente di lavoro si traduce talora nella necessità di comprimere le prerogative di libertà imprenditoriale (quanto al lavoro privato) ovvero la tutela incondizionata dell'interesse pubblico (nel caso di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni).
La richiamata risoluzione del 2001 del Parlamento europeo sul mobbing ha evidenziato l'importanza dell'organizzazione in relazione la fenomeno del mobbing, ed ha esortato la Commissione a prendere ugualmente in considerazione, nelle sue comunicazioni relative a una strategia comune in materia di salute e sicurezza sul lavoro e al rafforzamento della dimensione qualitativa della politica occupazionale e sociale nonché nel libro verde sulla responsabilità sociale delle imprese, fattori psichici, psicosociali e sociali connessi all'ambiente lavorativo, inclusa l'organizzazione lavorativa, invitandola pertanto ad attribuire importanza a misure di miglioramento dell'ambiente lavorativo che siano lungimiranti, sistematiche e preventive, finalizzate tra l'altro a combattere il mobbing sul posto di lavoro e a valutare l'esigenza di iniziative legislative in tal senso.

Sul punto non ci si può soffermare in questa sede, salvo ad evidenziare che la questione non è affrontata dalla discipline del mobbing ed è presente solo in parte in uno solo dei disegni di legge all'esame del Parlamento. È opportuno peraltro ricordare che vi sono nell'ordinamento alcune norme (art. 4, comma 4, e 10, comma 3, legge n. 68 del 1999, in relazione agli invalidi interni e 42 del d.lgs. 81 del 2008, sulla sicurezza sul lavoro, in relazione alla sopravvenuta inidoneità alle mansioni) che in date materie consentono, pur garantendo l'intangibilità dell'organizzazione datoriale, di garantire la tutela del soggetto in posizione di debolezza.

Nella materia del mobbing incidono larga misura tutte le questioni affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza i relazione al tipo di danno risarcibile e, più a monte, alle categorie di danno configurabili: ci si riferisce in particolare alla categoria del danno esistenziale, che in materia inoltre rileva in particolare in ragione della operatività, per molti aspetti alternativa, delle tutele risarcitoria e previdenziale.
In proposito, va qui ricordato che l'art. 10 del testo unico sugli infortuni sul lavoro e malattie professionali n. 1124 del 1965 stabilisce l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro ove operi l'assicurazione relativa, sempre che il datore di lavoro non abbia riportato condanna penale per il fatto dal quale l'infortunio è derivato (la giurisprudenza ha peraltro inteso la norma nel senso che l'illiceità penale del fatto, pur accertata incidentalmente dal giudice civile, può escludere l'operatività dell'esonero del datore). Ora, poiché all'esito della riforma del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, è oggetto di copertura assicurativa il danno biologico non lieve, ma non anche il danno esistenziale (al pari del danno morale, del danno biologico di lieve entità e del danno biologico temporaneo) è evidente che l'ambito delle nozioni di danno biologico e di danno esistenziale contribuiscono a precisare i margini dell'intervento previdenziale e, rispettivamente, della portata dell'esonero della responsabilità datoriale (sul punto, altresì LA PECCERELLA, Il mobbing. Responsabilità e danni, ed. INAIL 2007; (all. 63) sul tema, AA.VV., Patologia psichiatrica da stress, mobbing e costrittività organizzativa. La tutela dell'INAIL, ed. INAIL, 2007).

Un ultimo problema evidenziato anche in dottrina riguarda poi la liquidazione del danno da mobbing. Si tratta di problematica su cui non può soffermarsi in questa sede, riguardando essa il generale problema della liquidazione del danno non patrimoniale, ma che consente di richiamare alcune riflessioni espresse in dottrina.

In particolare, un'attenta dottrina (MEUCCI, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, in www.dirittolavoro.web1000.com) ha lamentato i limitatissimi risarcimenti concessi dai giudici e rileva che, a fronte di comportamenti che ledono i primari diritti della personalità dei prestatori di lavoro e che pregiudicano e segnano indelebilmente il mobbizzato (o demansionato), nella carriera, nella salute, nella vita familiare e relazionale, c'è nel nostro Paese una sottostima -a differenza che nel mondo anglosassone e a prescindere dalla problematica e/o ammissibilità dei cd. "punitive damages" — dei danni non patrimoniali, sicché "(al di là delle affermazioni di principio in positivo), tramite simili risarcimenti non combattono il fenomeno del mobbing ma lo legittimano nella sostanza, in quanto - svuotati i risarcimenti del carattere della deterrenza alla reiterazione -indirizzano ai "concreti" datori di lavoro il messaggio (tutt'altro che subliminale) che possono cavarsela con poche decine di milioni (nel caso si tratta come visto di molto meno) per perseverare in comportamenti illeciti (che, se vanno silenziosamente in porto, conducono alle dimissioni del soggetto inviso e, se non vanno in porto, si pagano con somme modeste)"(sul tema, altresì, BUFFA, La liquidazione del danno da mobbing "nummo uno", in Corti pugliesi, 2007, I). (all. 49)
Del resto, il riconoscimento di danni da mobbing in misura notevole dovrebbe derivare proprio dalla stesa (corretta) enucleazione della categoria del danno esistenziale, quale danno riferibile non a situazioni bagatellari proprie dei piccoli fastidi della vita di ogni giorno, bensì ai soli casi di lesioni rilevanti di interessi fondamentali (selezionando in tal modo la tutela attraverso i filtri della ingiustizia del danno e della gravità dell'offesa, oltre che della natura dell'interesse: BUFFA, in BUFFA e CASSANO, Il danno esistenziale nel rapporto di lavoro, Utet, 2005). Allora, se la copertura del danno esistenziale può essere affermata nelle fattispecie in cui l'illecito attinge interessi non patrimoniali particolarmente rilevanti e provoca danni gravi, "ipotesi tutte -com'è palese- di aggressioni e collisioni non da poco, ciascuna all'origine di seri imbarazzi per l'equilibrio personale per l'attore", non dovremo stupirci allora se l'illecito divenga "fonte di risarcimenti con molti zeri" (CENDON, Premessa a BUFFA e CASSANO, cit.).

Infine, con riferimento ai criteri di liquidazione, va poi ricordato che in linea generale, in dottrina, sono stati teorizzati differenti sistemi di liquidazione (su cui SBARRA, Mobbing e tecniche risarcitorie, relazione al Convegno del Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro D. Napoletano, sezione di Bari, su "Il Mobbing dinanzi al giudice" del 13-14 maggio 2005, Cacucci)., richiamandosi da taluni un modello di liquidazione che sempre ha a base la retribuzione, mentre altri, più opportunamente, prescindono da un parametro retributivo di riferimento e richiamano come criteri di liquidazione i precedenti giurisprudenziali e l'ordine di grandezze seguito, la graduazione degli interessi nell'ordinamento, il tempo di durata della violazione, il grado della lesione, la posizione delle parti (VIOLA-BUFFA-CASSANO, Il danno esistenziale, Atti dell'incontro di studi sul tema organizzato dal Centro studi Ateneo, Bologna, 2.10.03, Maggioli). Una tale pluralità di criteri consente in fatti di superare il rischio legato (come nel danno biologico) ad un appiattimento eccessivamente egualitaristico dei risarcimenti, che prescindano dal concreto atteggiarsi, caso per caso, dei diritti non patrimoniali lesi, e permette una "personalizzazione" della liquidazione del danno.

(Red. Francesco Buffa)

 

Il direttore aggiunto
(Luigi Macioce)



Riferimenti normativi

Decreti legislativi 215 e 216 del 2003
Decreto legislativo 9. 4.2008, n. 81.
Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4)
Art. 2087 cod. civ.
D.p.r. 1124 del 1965 art. 10
Legge regionale del Lazio 11 luglio 2002, n.16,
Legge Regione Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26
Legge Regione Umbria 28 febbraio 2005, n. 18
Legge Regione Friuli Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7
Regolamento Regione Liguria 19 maggio 1997, n. 2
D.m. 27 aprile 2004
Ministero per la Funzione Pubblica direttiva 24 marzo 2004
INAIL circolare 17 dicembre 2003, n. 71
accordo europeo quadro dell'8 ottobre 2004 contro lo stress su lavoro
accordo interconfederale del 9 giugno 2008 (all. 11).


Riferimenti giurisprudenziali

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Corte cost. 27 gennaio 2006, n. 22,
Corte cost. 22 giugno 2006, n. 238 e 239
Corte Cost. n. 179/1988
Cass. SU 4 maggio 2004, n. 8438
Cass. SU 12 giugno 2006, n. 13537
Cass. SU 27 novembre 2007, n. 24625
Cass., VI sez. pen., 22 gennaio 2001, n. 10090
Cass. 29 agosto 2007, n. 33624
Cass., VI sez. pen., 21 settembre 2006, n. 31413
Cass., VI sez. pen., 11 giugno 2007, n. 22702
Cass. VI sez. pen., 7 novembre 2007, n. 40891
Cass. 19 gennaio 1999, n. 475
Cass. 6 marzo 2006, n. 4774
Cass. 20 maggio 2008, n. 12735
Cass. 29 gennaio 2008, n. 1971
Cass. 24 ottobre 2007, n. 22305
Cass. 29 settembre 2005, n. 19053
Cass. 11 settembre 2008, n. 22858
Cass. 20 luglio 2007, n. 16148
Cass. 29 agosto 2007, n. 18262
Consiglio di Stato 9 ottobre 2002, n. 5414
Consiglio di Stato 6 dicembre 2000 n. 6311
Consiglio di Stato n. 2515 del 2008
Corte dei Conti, Sez. III, 25 ottobre 2005, n. 623
tar Lazio n. 5454 del 2005
tar Veneto 8 gennaio 2004
tar Lazio 5 aprile 2004
tar Lazio 25 giugno 2004
tar Lazio 17 aprile 2007, n. 3315
tar Lazio n. 5177 del 2008
trib. Lecce 25 luglio 1995
trib. Milano 20 maggio 2000
trib. Lecce, 23 agosto 2001
trib. Cassino 18 dicembre 2002
trib. Como 22 febbraio 2003
trib. Lecce 4 giugno 2003
trib. Trieste 23 dicembre 2003
trib. Bari 12 marzo 2004
trib. Torino 3 maggio 2005
trib. Lecce 9 giugno 2005
trib. Bergamo 20 giugno 2005
trib. Civitavecchia 20 luglio 2006


Riferimenti dottrinali principali
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4. Bianchi Leonardo, Ammalarsi di lavoro, Edizioni Entropie, 2001
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7. BONZIGLIA, MARIGLIANO, BONA, MONATERI, OLIVA, Accertare il mobbing, Giuffré, 2007
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11. BUFFA, Il mobbing apicale tra responsabilità dell'ente e responsabilità personale del mobber, in www.personaedanno.it e in www.ipsoa.it/ngonline
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40. MEUCCI M., "Considerazioni sul mobbing' e analisi del d.d.l. n. 4265 del 13 ottobre 1999", in Dir. Rel. Ind. 11/1999, 491 e ss
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50. Oliva U., Mobbing. quale risarcimento?, in Danno e responsabilità, 2000, 27
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65. SZEGO, Mobbing e diritto penale, Giuffré, 2007
66. TRAMONTANO, Il risarcimento dei danni da attività lavorativa, Tribuna, 2007
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69. VIOLA-BUFFA-CASSANO, Il danno esistenziale, Atti dell'incontro di studi sul tema organizzato dal Centro studi Ateneo, Bologna, 2.10.03
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72. ZOLI C., Il mobbing. brevi osservazioni in tema di fattispecie ed effetti, in Lav. giur. 2003, 4, 337.


1 In particolare, si richiamano:
- la direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976 relativa all'applicazione del principio di uguaglianza tra uomini e donne per quanto concerne l'impiego, la formazione, la promozione professionale e le condizioni di lavoro;
- la direttiva quadro 89/391/CEE del Consiglio del 12 giugno 1989, relativa all'applicazione delle misure finalizzate alla promozione del miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori sul lavoro;
- la risoluzione del Consiglio del 29 maggio 1990, concernente la protezione della dignità della donna e dell'uomo al lavoro secondo la quale "ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale, o qualsiasi altro comportamento basato sul sesso, che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, può in determinate circostanze essere contrario al principio della parità di trattamento ai sensi degli articoli 3, 4 e 5 della Direttiva del Consiglio 76/207/CEE". La medesima risoluzione contempla, inoltre, l'ipotesi della creazione di un "ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante" (c.d. molestia ambientale);
- la raccomandazione 92/131/CEE della Commissione del 27 novembre 1991, sulla protezione della dignità degli uomini e delle donne al lavoro alla quale è allegato un codice di condotta su come evitare e combattere le molestie sessuali;
- la direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, relativa all’applicazione del principio di uguaglianza di trattamento delle persone indipendentemente dall’origine razziale o etnica;
- la direttiva 2000/78/CE, del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro e per la quale le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato sulla base della religione o delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o delle tendenze sessuali e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

2 Sotto il primo profilo (Article L. 122-52 nouveau (dispositif sur la charge de la preuve), si prevede che "En cas de litige relatif à l'application des articles L. 122-46 et L. 122-49, dès lors que le salarié concerné établit des faits qui permettent de présumer l'existence d'un harcèlement, il incombe à la partie défenderesse, au vu de ces éléments, de prouver que ces agissements ne sont pas constitutifs d'un tel harcèlement et que sa décision est justifiée par des éléments objectifs étrangers à tout harcèlement. Le juge forme sa conviction après avoir ordonné, en cas de besoin, toutes les mesures d'instruction qu'il estime utiles".
Sotto il secondo profilo (L. 122-54 nouveau (dispositif sur la médiation), si disciplina il nuovo istituto della mediazione: "Une procédure de médiation peut être engagée par toute personne de l'entreprise s'estimant victime de harcèlement moral. Elle peut être également mise en oeuvre par la personne mise en cause. Le choix du médiateur fait l'objet d'un accord entre les parties".


Fonte: cisaluniversita.org