Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Corte di Appello di Potenza, Sez. Lav., 09 novembre 2011 - Riconoscimento mobbing e risarcimento del danno


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D'APPELLO DI POTENZA

SEZIONE LAVORO


La Corte di Appello di Potenza - Sezione del Lavoro - nelle persone dei magistrati:

dott. Pio Ferrone - Presidente -

dott.ssa Maura Stassano - Consigliere -

dott.ssa Caterina Marotta - Consigliere relatore -

ha pronunziato all'udienza del 22/9/2011 la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di appello iscritto al n. 788 del ruolo generale appelli lavoro dell'anno 2010

Tra

Ca.Ca., rappresentato e difeso dall'avv. Vi.Vi., giusta mandato a margine del ricorso in appello ed elettivamente domiciliato in Potenza, Piazzale (...), presso lo studio dell'avv. Gi.Sp.;

Appellante

E

Gestione liquidatoria della azienda sanitaria U.S.L. n. (...) di Lagonegro, in persona del Direttore Generale p.t. A.S.P., legale rappresentante e gestore della Gestione Liquidatoria della ex azienda sanitaria U.S.L. n. (...) di Lagonegro, rappresentata e difesa giusta mandato a margine della comparsa di costituzione nel giudizio di appello, dall'avv. Ad.Sa., elettivamente domiciliata in Potenza, via (...), presso la sede centrale A.S.P.;

Appellata

Oggetto: riconoscimento mobbing - risarcimento del danno - Appello avverso la sentenza n. 746/2009 pronunziata in data 4/11/2009 dal Giudice del lavoro del Tribunale di Lagonegro.

 

Fatto

 

Il Tribunale di Lagonegro, in composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, con sentenza pronunciata in data 4/11/2009, rigettava la domanda proposta da Ca.Ca. nei confronti della Azienda Sanitaria U.S.L. n. (...) di Lagonegro, con ricorso depositato in data 28/10/2003, avente ad oggetto il risarcimento dei danni in conseguenza dell'illecito ed illegittimo comportamento tenuto dal datore di lavoro; le spese processuali restavano compensate tra le parti.

Con l'indicato ricorso, il Ca., dirigente medico di Chirurgia generale, aveva esposto che: - era stato assegnato dal gennaio 1998 all'ospedale di Chiaromonte con l'incarico di Responsabile del Modulo di Chirurgia; - a partire dal gennaio 1999 era stato oggetto di continui e reiterati atti persecutori da parte dei funzionari della A.S.L. n. (...) di Lagonegro tanto da essere costretto a rinunciare all'incarico di Responsabile del Modulo di Chirurgia;

- con delibera n. 536 del 17/6/99 la responsabilità di detto Modulo gli era stata di nuovo attribuita ("imposta"); - in data 14/2/2000 aveva nuovamente rinunciato all'incarico conferitogli per la "precaria situazione dell'attività del Modulo in cui si era venuta a trovare per scelte gestionali dell'azienda"; - in data 1/1/2001 la responsabilità del Modulo gli era stata nuovamente attribuita (stante il pensionamento del dirigente, dott. Si., responsabile dell'Area delle Attività Chirurgiche, cui, fino a quel momento, era stata affidata anche la responsabilità del Modulo) contro la sua volontà ed anche questa volta vi aveva rinunciato; - in data 8/2/2001 gli era stata affidata la sostituzione del dott. Si. nell'incarico di Direzione della struttura denominata "Area delle attività chirurgiche" cui aveva fatto seguito altra rinuncia sul presupposto della illegittimità di tale affidamento; - nel febbraio 2003 aveva ricevuto una nota con cui gli veniva comunicato il giudizio negativo sul suo operato. Aveva dedotto che le illegittime e vessatorie imposizioni di incarichi lo avevano costretto a concentrare la propria attenzione su cavillose controversie amministrative ed a subire abusi e prevaricazioni che lo avevano posto in una condizione di notevole disagio impedendogli il normale svolgimento dell'attività e mortificando le sue aspettative professionali; aveva, altresì, evidenziato che con volute e mirate inesatte informazioni ufficiali inerenti all'avviso per l'incarico di Responsabile di struttura Complessa di Chirurgia i dirigenti aziendali lo avevano indotto a non presentare la domanda, con conseguente pregiudizio e che le vessazioni e gli atti di persecuzione e ritorsione avevano determinato un disagio psico - fisico con grave ripercussione sulla sua vita professionale, familiare e di relazione.

Aveva, perciò, chiesto il risarcimento di tutti i danni (ivi compresi quelli morali, esistenziali e biologici) quantificati nella misura di Euro 100.000,00.

Si era costituita in giudizio l'Azienda Sanitaria U.S.L. n. (...) di Lagonegro ed aveva contestato quanto ex adverso dedotto chiedendo il rigetto del ricorso.

Il primo giudice aveva ritenuto che non il Ca. non avesse in alcun modo ottemperato all'onere di allegare in maniera specifica i fatti posti a fondamento delle sue pretese essendosi limitato ad una generica e sommaria indicazione della adozione di atti amministrativi non graditi ed - a suo dire - mobbizzanti che non integravano quella ripetitività nel tempo delle condotte nonché la loro riconducibilità ad un unico disegno, quello avente ad oggetto l'esclusione, emarginazione del lavoratore. Aveva, in ogni caso, ritenuto che, con riferimento ai dedotti profili di danno, vi fosse una assoluta insufficienza assertiva del ricorso.

Avverso tale sentenza il Ca., con ricorso depositato in data 3/11/2010, proponeva appello, censurando la stessa per: - manifesto travisamento dei fatti ed erronea valutazione degli elementi documentali prodotti; - erronea valutazione degli elementi di prova - errata interpretazione dei fatti di causa; - omessa motivazione su un punto decisivo del giudizio e manifesta violazione del diritto di difesa.

Chiedeva, pertanto, all'adita Corte di Appello di Potenza, Sezione del Lavoro, di voler accogliere le conclusioni, come specificate in epigrafe.

Fissata dal Presidente, ai sensi dell'art. 435 c.p.c., l'udienza collegiale di discussione con decreto del 3/11/2010, si costituiva la Gestione Liquidatoria della ASL n. (...) di Lagonegro con memoria depositata in data 8/9/2011 (per l'udienza del 22/9/2011), pure concludendo come in epigrafe.

All'odierna udienza, all'esito della discussione da parte dei procuratori delle parti, la Corte adita si pronunciava come da dispositivo, di cui veniva data pubblica lettura.

 

Diritto

 

 

Va preliminarmente rilevato che non ha formato oggetto di questione tra le parti la legittimazione a contraddire (in ragione della titolarità del rapporto controverso) in capo alla costituita Gestione Liquidatoria della A.S.L. n. (...) di Lagonegro.

Se è vero, infatti, che il difetto di "legitimatio ad causam", attenendo alla verifica - secondo la prospettazione offerta dall'attore - della regolarità processuale del contraddittorio, è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, l'accertamento della effettiva titolarità attiva o passiva del rapporto, attenendo al merito della controversia, è questione soggetta all'ordinaria disciplina dell'onere probatorio e delle impugnazioni: il difetto di titolarità, cioè, deve essere provato da chi lo eccepisce, deve formare oggetto di specifica censura in sede di impugnazione (né può essere eccepito per la prima volta in Cassazione) - cfr., sul punto, Cass. 15/1/2001 n. 501; id. 5/11/2001 n. 13631; id. 23/2/00 n. 2049; id. 24/7/97 n. 6916; id. 2224/95; id. 3110/95; id. 11190/95 -. Ciò posto, l'appello non appare fondato e, pertanto, va rigettato.

Con primo motivo di gravame censura l'appellante la decisione di primo grado nella parte in cui, ai fini della valutazione della sussistenza di una condotta mobbizzante, il primo giudice "ha inopinatamente aggiunto alle caratteristiche della lesività (sistematica e reiterata) delle condotte quello della c.d. intenzionalità o finalizzazione intenzionale di nuocere alla vittima". Assume, al riguardo, che l'elemento soggettivo o teleologico non è affatto necessario per integrare un inadempimento rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c. ed evidenzia che nella vicenda sottoposta all'esame del giudicante non si sarebbe tenuto conto dei fatto che "ci troviamo di fronte ad una serie di reiterati comportamenti di funzionari amministrativi e sanitari dell'azienda resistente, tesi chiaramente a dequalificare ed emarginare il ricorrente, nell'ambito della struttura ospedaliera in cui questi operava" e del fatto che "i reiterati illegittimi comportamenti tenuti dai dirigenti amministrativi e sanitari dell'A.S.L. resistente abbiano determinato, di fatto, l'isolamento e successivamente il ridimensionamento del ricorrente". Il motivo non è fondato.

Prima di esaminare il merito delle domande occorre rilevare che la fattispecie azionata - avente ad oggetto il risarcimento dei danni asseritamente derivati all'appellante da un complesso di comportamenti vessatori posti in essere dai funzionari dell'Azienda datrice di lavoro - si inscrive nell'ambito della responsabilità contrattuale del datore di lavoro per inosservanza delle prescrizioni imposte dall'art. 2087 c.c.

Come è noto, tale ultima disposizione sancisce una serie (aperta) di obblighi (del datore di lavoro) di tutela, nell'ambiente di lavoro, dei diritti fondamentali e assoluti (del prestatore di lavoro) alla salute e alla dignità anche sociale, obblighi che entrano, in forza dell'art. 1374 c.c., direttamente nel regolamento contrattuale del rapporto di lavoro subordinato e rappresentano, quindi, altrettanti limiti di legittimità all'uso dei poteri contrattuali da parte del creditore della prestazione: si configura, secondo un orientamento dottrinale, quale norma in grado di tutelare il lavoratore di fronte a tutti i possibili comportamenti lesivi della sua integrità psico - fisica qualunque ne siano la natura e l'oggetto posto che l'ampia formula di tale previsione impone al datore di lavoro di salvaguardare tanto l'integrità fisica quanto la personalità morale del lavoratore, ben oltre il rispetto della normativa infortunistica, secondo quella che è l'intrinseca vocazione della disposizione alla tutela dei valori della persona. L'utilizzazione della direttiva contenuta nell'art. 2087 c.c. permette così di ricondurre al datore di lavoro non solo i comportamenti vessatori a lui direttamente ascrivibili ma anche le condotte ostili di dirigenti, collaboratori e dipendenti (c.d. mobbing orizzontale) che non siano state dallo stesso impedite o scoraggiate (v. Corte cost., 19/12/2003 n. 359 secondo cui la disciplina delle conseguenze degli atti di mobbing sul lavoratore rientra nella tutela e sicurezza del lavoro nonché nella tutela della salute, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire). Orbene, perché si realizzino condotte riconducibili al mobbing, come è stato osservato, è necessario che gli specifici comportamenti siano ripetuti nel tempo e preordinati al raggiungimento dello scopo di danneggiare il lavoratore, id est è necessario individuare in concreto quando la tipica dialettica aziendale subisce un'indubbia alterazione e distorsione rispetto al normale assetto dei rapporti tra datore e prestatore di lavoro ricadendo in una dimensione di ostilità e di sottile avversione: indagine che per sua natura comporta la necessità di andare oltre l'analisi dei singoli episodi ed impone di costruire una cornice all'interno della quale attribuire rilievo unitario ad una serie di comportamenti succedutisi in un determinato arco temporale. In altri termini, la ricostruzione del percorso vessatorio impone di dare rilievo non solo a profili oggettivi, connotati dal verificarsi di una data condotta, ma anche a profili soggettivi e in particolare alla finalità del comportamento.

Invero le violenze morali, le molestie psicologiche e gli atteggiamenti persecutori perpetrati nei confronti dei lavoratori dal datore di lavoro, dai superiori gerarchici e dagli stessi colleghi sono stati oggetto di approfondite ricerche a opera di psicologi e sociologi del lavoro.

La riconduzione di questi comportamenti - caratterizzati dall'aggressività della condotta, dalla reiterazione della stessa nel tempo e dalla finalità di emarginare la vittima per provocarne l'estromissione dall'ambiente di lavoro - a una categoria unitaria, appunto il mobbing, si deve ai primi studiosi del fenomeno sotto il profilo medico - sociale: il mobbing, secondo le definizioni maggiormente accreditate tra gli studiosi di psicologia del lavoro, consiste in una forma di violenza psicologica, fisica e/o morale che si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la personalità della vittima ovvero in un comportamento abusivo che minaccia, con la sua ripetizione o la sua sistematicità, la dignità o l'integrità psichica o fisica di una persona, mettendo in pericolo il suo posto di lavoro o degradandolo ancora in una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizioni superiore, inferiore o di parità con lo scopo di causare danni di vario tipo e gravità alla vittima che si trova nell'impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell'umore che possono portare anche ad invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione. In campo giuridico, in assenza di diretti riferimenti normativi sul mobbing, fenomeno privo di una precisa connotazione e di confini certi o determinati sul piano delle forme e delle modalità attuative, l'opera ricostruttiva e di inquadramento della fattispecie che ci occupa (come, in genere, di quelle portate all'attenzione dei giudicanti) negli istituti giuslavoristi consolidati e nei strumenti classici di tutela dei diritti, non può prescindere dagli apporti dottrinari e giurisprudenziali che alla materia sono stati forniti.

Intanto appare significativo premettere che la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 359 del 19/12/2003 resa nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro) si è così espressa: "la sociologia ha mutuato il temine mobbing da una branca dell'etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo".

Ed è da tale definizione che appare opportuno partire per un compiuto esame delle questioni devolute alla Corte.

La dottrina giuridica che si è occupata del tema del mobbing, mutuando principi già espressi dalla sociologia, ha costantemente evidenziato che caratteristica di tale fenomeno è la sistematicità e la durata degli atti di persecuzione e dell'aggressione e che il danno da mobbing si configura come la conclusione in senso cronologico di un processo complesso articolato in condotte logicamente contestuali alla complessiva strategia o progetto di emarginazione del lavoratore.

La giurisprudenza è ormai generalmente concorde nel riferire il concetto di mobbing a condotte datoriali volte a vessare sistematicamente il lavoratore dipendente, mediante l'impiego di atti e condotte (anche eventualmente, legittime) frequenti e perduranti nel tempo, preordinate a menomarlo sul piano dell'autoconsiderazione e dell'equilibrio psicofisico, al fine, per lo più, di ottenerne la fuoriuscita dal contesto lavorativo, magari per sua iniziativa "spontanea".

Secondo un orientamento giurisprudenziale che può dirsi, pertanto, tendenzialmente conforme, nel mobbing si distingue un elemento oggettivo costituito dalla perduranza di condotte vessatorie reiterate - con la precisazione che, se talora le attività costituenti mobbing sono penalmente rilevanti, più spesso esse sono rilevanti solo sul terreno civilistico; altre volte, si è in presenza di atti o fatti non illegittimi se riguardati singolarmente, e talora addirittura giuridicamente neutri, eppure rilevanti, unitamente ad altri, quali elementi di una fattispecie complessa che nel suo insieme ha portata lesiva della dignità, sicurezza e salute del lavoratore - ed un elemento psicologico costituito dalla coscienza e dalla volontà dell'autore di offendere il soggetto da escludere. Sul punto la Suprema Corte di legittimità nella sentenza n. 22858 dell'11/9/2008 ha così affermato: "Integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) diretti alla persecuzione od alla emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. - ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza". Nella successiva pronuncia n. 3785 del 17/02/2009 la Cassazione ha così precisato: "Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico - fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio". In senso conforme si è espressa la recente Cassazione n. 12048 del 31/5/2011.

Secondo il suddetto conforme orientamento giurisprudenziale (che questa Corte ritiene di condividere) un intento persecutorio è sempre necessario, se non in capo al datore di lavoro comunque - ex art. 2087 c.c. - in capo al soggetto cui è riferita la condotta mobbizzante. In generale quello che si richiede è un generico intento persecutorio, che può essere volto tanto ad allontanare il lavoratore quanto a procurargli fastidio, bloccargli la carriera, isolarlo o metterlo in ridicolo. Si tratta di un atteggiamento ostile e negativo, che può sorgere in base alle dinamiche più varie e che individua la sua vittima senza alcuna regola prefissata, ponendola però al centro di una ripetuta serie di attacchi: è questo, indubbiamente, il tratto distintivo, l'elemento qualificante del fenomeno che attribuisce rilevanza unitaria ad una serie di comportamenti, anche solo materiali, di per sé magari formalmente legittimi, o quantomeno neutri, ma che finiscono per assumere una valenza negativa ulteriore e specifica (cfr. sul punto si veda anche Cass. n. 4774 del 06/03/2006 secondo cui: "L'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente (c.d. mobbing) - che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifichi obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato".

Non può, dunque, prescindersi, nell'accertamento di una situazione asseritamente integrante un comportamento mobbizzante, sia dalla verifica della sussistenza di aggressione o persecuzioni di carattere psicologico, della loro frequenza, sistematicità e durata nel tempo, del loro andamento progressivo, dell'esistenza dell'elemento intenzionale, delle conseguenze patologiche gravi che siano derivate al lavoratore mobbizzato.

Di ciò è evidentemente consapevole lo stesso appellante laddove fa riferimento a "continui e reiterati atti persecutori" messi in atto dai dirigenti e sanitari della A.S.L. "tesi evidentemente ad isolare e dequalificare il dott. Ca.".

L'azione di responsabilità nei confronti del datore di lavoro postula, dunque, non solo per la tesi patrocinata da questa Corte, ma per stessa allegazione attorea, quale elemento costitutivo della domanda il fatto che il complesso delle condotte datoriali denunciate avesse l'intento di perseguire ed emarginare il Ca. allo scopo di distruggerne la persona e, congiuntamente, di provocarne l'espulsione dall'amministrazione. Ora, la responsabilità per mobbing deve essere provata dal lavoratore, come qualsiasi inadempimento contrattuale del datore di lavoro ascrivibile alla previsione generale dell'art. 2087 c.c., e per soddisfare l'onere probatorio il primo dato da dimostrare è strutturale ed oggettivo: l'illiceità della condotta presuppone innanzitutto una ripetitività e/o reiterazione dei comportamenti mobbizzanti, a nulla rilevando situazioni di conflitto solo temporaneo, si che sorge il problema di legare tra loro comportamenti dotati di intrinseca autonomia, giuridica e fattuale, problema che investe tanto comportamenti da qualificarsi (come) illegittimi alla stregua della normativa sul rapporto di lavoro subordinato quanto comportamenti che isolatamente considerati non assumerebbero rilievo per il diritto. Nel primo caso, cioè in presenza di comportamenti datoriali illegittimi (dequalificazione, trasferimenti illegittimi, condotta discriminatoria, reiterazione di provvedimenti disciplinari), la dimostrazione della ripetitività e della reiterazione gioca un ruolo soprattutto, anche se non esclusivamente, sul piano risarcitorio, derivando, sin dalla prima condotta illecita, il diritto del prestatore di lavoro di agire in giudizio per chiederne il sanzionamento si che la ripetitività (e/o la reiterazione) delle azioni riveste in concreto rilievo in quanto si riesca a provare che da esse sia derivato un autonomo danno all'integrità psico - fisica e/o alla personalità del dipendente risarcibile ai sensi della clausola generale dell'art. 2087 c.c.; nel secondo caso, per converso, la valutazione coordinata di vari comportamenti rileva per la stessa prova della sussistenza di un comportamento illecito si che la valutazione dell'elemento soggettivo, cioè la verifica dell'illecita finalità di discriminare, emarginare o recare altrimenti pregiudizio al dipendente vittima, viene a rivestire valenza particolare con la conseguenza che, ai fini della prova della "vessatorietà", la valutazione del profilo finalistico, che integra quello strutturale, risulta fondamentale e indefettibile, incombendo sul lavoratore la prova del necessario collegamento di diversi episodi e della loro riconducibilità nell'ambito di un unico progetto illecito. Ma se l'elemento finalistico assume importanza particolare nell'ipotesi appena richiamata, tuttavia, di esso è da provare l'esistenza ogniqualvolta si intenda attribuire rilievo unitario a una serie di episodi succedutisi nel tempo ancorché alcuni di essi si configurino palesemente illegittimi, posto che, quantunque questi ultimi siano autonomamente sanzionabili (dal punto di vista sia inibitorio che risarcitorio), non può presumersi ipso iure la loro appartenenza a un progetto unitario, dipendendo tale riconduzione dall'accertamento di una serie di elementi non preventivabili in via generale ma che devono formare oggetto di specifica e puntuale valutazione.

Nel mobbing, dunque, l'elemento finalistico rappresenta un dato costitutivo della fattispecie, presupposto per la prova del datum e del nesso causale tra questo e la condotta. Il lavoratore, qualora lamenti di essere stato perseguitato, non si può allora limitare a provare l'esistenza di una serie di comportamenti materiali (quali, ad es., per dirla con i casi più comuni nel panorama giurisprudenziale, il "comportamento offensivo e violento sul piano verbale", le "scenate" e i "toni critici ai limiti dell'insulto", fino alla "emarginazione logistica e fisica") e giuridici (quali, ad es., l'esercizio plateale o esasperato del potere disciplinare per illeciti inesistenti o di lieve entità o con avvio della procedura poi non seguita dall'irrogazione della sanzione o l'utilizzo abnorme del potere di controllo con richieste continue di giustificazioni e chiarimenti, senza adozione peraltro di provvedimenti sanzionatoli), ma deve anche fornire la prova della loro finalità illecita, non risultando possibile censurare gli atti datoriali in ragione della loro oggettiva offensività nei confronti del dipendente.

Del resto è proprio l'accertamento delle motivazioni illecite determinanti che, come è stato rilevato, consente di ampliare l'area di tutela sino a includervi gli atti materiali e le condotte neutre o astrattamente corrette, ma in concreto preordinate a uno scopo discriminatorio (si pensi agli atti discriminatori "innominati" e non definiti dall'art. 15 del c.d. statuto dei lavoratori).

Orbene, nella fattispecie, è del tutto carente la prova già dell'elemento oggettivo e strutturale, id est della ricorrenza di condotte mobbizzanti (e necessariamente di una ripetitività e/o reiterazione delle stesse), oltre che, comunque, del loro collegamento e della loro riconducibilità ad un unico progetto illecito.

Intanto non si rilevano illegittimità negli atti adottati dalla A.S.L. e posti dall'appellante a base delle pretese risarcitorie.

Con l'adozione della delibera n. 114 dell'8/2/2001 l'azienda, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ha attuato le disposizioni di cui all'art. 18 del C.C.N.L. dell'8/6/2000. Tale norma così prevede: "1. In caso di assenza per ferie o malattia o altro impedimento del direttore di dipartimento, la sua sostituzione è affidata dall'azienda ad altro dirigente con incarico di direzione di struttura complessa da lui stesso preventivamente individuato con cadenza annuale. Analogamente si procede nei casi di altre articolazioni aziendali che, pur non configurandosi con tale denominazione, ricomprendano secondo l'atto aziendale più strutture complesse ....... 2. Nei casi di assenza previsti dal comma 1 da parte del dirigente con incarico di direzione di struttura complessa, la sostituzione è affidata dall'azienda ad altro dirigente della struttura medesima con rapporto di lavoro esclusivo. ....... 3. Le disposizioni del comma 2 si applicano anche nel caso di strutture semplici che non siano articolazione interna di strutture complesse ed in cui il massimo livello dirigenziale sia rappresentato dall'incarico di struttura semplice. ... 4. Nel caso che l'assenza sia determinata dalla cessazione del rapporto di lavoro del dirigente interessato, la sostituzione è consentita per il tempo strettamente necessario ad espletare le procedure di cui ai DPR. 483 e 484/1997 ovvero dell'art. 17 bis del d.lgs. 502/1992. In tal caso può durare sei mesi, prorogabili fino a dodici". Lo stesso articolo, poi, al co. 7, chiarisce: "Le sostituzioni previste dal presente articolo non si configurano come mansioni superiori in quanto avvengono nell'ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria. Al dirigente incaricato della sostituzione ai senti del presente articolo non è corrisposto alcun emolumento per i primi due mesi. Qualora la sostituzione dei commi 1 e 2 si protragga continuativamente oltre tale periodo, al dirigente compete una indennità mensile di Lire 1.036.000 (...)".

Le disposizioni contrattuali applicabili al rapporto per cui è causa, quindi, prevedono in modo specifico la possibilità di affidamento in via temporanea di un posto vacante di dirigente di struttura complessa (dirigente di 2 livello) ad altro dirigente medico, senza che ciò configuri l'attribuzione di mansioni superiori, ma solo "per il tempo strettamente necessario ad espletare le procedure" per la copertura del posto vacante e, in ogni caso, per non più di 12 mesi.

Tale possibilità, giustificata dall'esigenza di assicurare la continuità nei compiti organizzativi ed assistenziali che facevano capo al sanitario assente o impedito, come si rileva chiaramente dal testo della norma pattizia, ben può essere applicata all'ipotesi di assenza per cessazione dal servizio.

Nel caso di specie, la cessazione dal servizio del dott. Si. (dirigente medico di 2 livello cui era affidata la responsabilità dell'Area delle Attività chirurgiche (struttura complessa articolata in due moduli, uno dei quali - e cioè quello di chirurgia struttura semplice - affidato al Ca.) aveva determinato la scelta aziendale di cui alla delibera n. 114 "dell'8/2/2001 e cioè l'affidamento allo stesso dell'incarico di direzione dell'Area delle attività Chirurgiche per il tempo necessario all'espletamento delle procedure di cui al D.P.R. n. 484/1997 e per la durata di 60 giorni (si veda la deliberazione del Direttore Generale n. 292 del 6/4/2001 di rettifica errore materiale della precedente delibera n. 114 dell'8/2/2001 nella parte in cui si era fatto riferimento all'art. 20 del C.C.N.L. in luogo dell'art. 18).

Invero sostiene il ricorrente che egli non poteva essere destinatario di tale attribuzione provvisoria per essere sprovvisto dell'incarico di dirigente di struttura semplice in ragione della rinuncia alla direzione del modulo di Chirurgia in cui si articolava la struttura complessa.

Va, al riguardo, evidenziato che quella che lo stesso appellante indica come "rinuncia", stando al tenore delle comunicazioni in data 11/1/2001 (ritirata in data 12/1/12001 "a seguito di colloqui avuti e dopo approfondimento della vicenda"), in data 18/1/2001 ed in data 29/1/2001 a firma del Ca., era più che altro un modo per sollecitare l'adozione di iniziative (investimenti sul personale e sulla dotazione strumentale) per un potenziamento della struttura.

La questione non è, in ogni caso, rilevante sol che si consideri che una rinuncia unilaterale non era sufficiente a sottrarre ad un dirigente medico di 1 livello, quale era il dott. Ca., la responsabilità connessa a tale qualifica e, dunque, la responsabilità di una struttura semplice e ciò specie laddove non sussistano, nell'immediato, per l'amministrazione, soluzioni alternative (e tale era la condizione della A.S.L., con riguardo alla responsabilità del Modulo di Chirurgia, a seguito del pensionamento del dott. Si.). In detto contesto non possono, di certo, considerarsi vessatorie o anche semplicemente pretestuose le plurime richieste rivolte al Ca. aventi ad oggetto la predisposizione dei turni, trattandosi di un'attività ineludibile ed indispensabile per il corretto funzionamento della struttura.

Del resto, poiché ai sensi del citato co. 7 dell'art. 18 una sostituzione come quella in questione non si configura come attribuzione di "mansioni superiori", la stessa non può essere assimilata al conferimento di un ulteriore incarico dirigenziale rispetto a quello di struttura semplice, conferito al Ca. con delibera n. 1160 del 29/12/2000 e, prima ancora, con delibera n. 536 del 17/6/1999. Per tale sostituzione, infatti, non è richiesta la stipula di un contratto individuale ovvero una variazione ai sensi dell'art. 13, comma 11 del medesimo C.C.N.L. (si consideri che al dirigente incaricato della sostituzione non è corrisposto, a termini dell'art. 18, alcun compenso per i primi due mesi, volendo la disposizione pattizia con ciò sottolineare che tale sostituzione avviene nell'ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria).

Peraltro, nel caso in questione, non è in discussione che, all'inizio di ciascun anno, siano stati previamente stabiliti i criteri per le sostituzioni ai sensi dell'art. 18 co. 2 e che, per l'anno 2001, tali criteri portassero ad individuare nel Ca. il dirigente di struttura semplice cui attribuire l'incarico di sostituzione.

Né appaiono fondate le censure relative all'affidamento, in via temporanea, della direzione di un reparto richiedente una competenza specialistico - funzionale di cui il Ca. sarebbe stato privo e che, nella prospettazione attorea, avrebbe inficiato di validità l'affidamento medesimo.

L'organizzazione di una struttura complessa e, dunque, di una struttura comprendente al proprio interno (sub)strutture e/o moduli operativi anche diversi, con distinte competenze specialistico - funzionali, ben può essere affidata, specie se a titolo provvisorio, a chi abbia la responsabilità (e le specifiche competenze) di una di tali (sub)strutture e/o moduli in cui è articolata e ciò risulta evidente se si legge l'art. 15, comma 6, del D.Lgs. n. 502 del 30/12/1992: "Ai dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa sono attribuite, oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura, da attuarsi, nell'ambito degli indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza, anche mediante direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l'adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l'appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata".

Nello specifico la struttura organizzativa già affidata alla responsabilità del dott. Si. comprendeva al proprio interno, per ragioni di omogeneità ed affinità, la struttura semplice denominata "attività modulare di Chirurgia generale" e la struttura semplice denominata "attività modulare di Ostetricia e Ginecologia". Dunque legittimamente l'incarico dirigenziale è stato temporaneamente affidato al responsabile di una di dette strutture

semplici senza che ciò implicasse la necessità di una competenza specialistica per operare all'interno dell'altra (sub)struttura.

Il fatto, poi, che sia stata attivata la procedura prevista dal D.P.R. n. 484/97 per il conferimento di un incarico di dirigente di struttura complessa di chirurgia generale (come assume l'appellante "solo" chirurgia), non integra una discrepanza tra l'incarico temporaneo conferito al Ca. e quello già rivestito dal dott. Si. dovendo escludersi che la nuova configurazione (frutto di una autonoma e legittima determinazione della P.A. che aveva portato a sostituire l'U.O.C. di Chirurgia generale con l'"Area dell'Attività Chirurgica") potesse avere effetto retroattivo, connotando anche l'istituto della sostituzione.

Di certo non è emerso un atteggiamento persecutorio laddove, di contro, gli incarichi di volta in volta attribuiti lungi dal sostanziarsi in atti idonei a ledere oggettivamente la dignità, l'immagine e la reputazione professionale del Ca., depongono per una valorizzazione delle sue competenze che ha, di contro, trovato la ferma resistenza da parte dello stesso beneficiario. Del tutto infondatamente si duole, perciò, l'appellante del giudizio negativo espresso dal Dirigente Responsabile dell'U.O. di Chirurgia Generale in data 21/2/2003 (destinato al Presidente del Nucleo di valutazione della A.S.L.) proprio con riferimento alla scarsa propensione all'assunzione delle responsabilità proprie della qualifica dimostrata dal Ca. Del pari infondatamente deduce l'appellante l'esistenza di un atteggiamento ostruzionistico dei dirigenti dell'A.S.L. che sarebbe giunto al punto da negare allo stesso il riconoscimento, ai fini del conseguimento del periodo minimo di servizio per ottenere il diritto alla pensione, dei periodi di partecipazione a missioni umanitarie ONU, costringendo così il Ca. a proporre ricorso innanzi alla Corte dei Conti per ottenere, poi, la sentenza favorevole n. 10 del 16/1/2010. Quella devoluta al giudice contabile (e cioè l'equiparabilità del servizio prestato in missioni umanitarie all'estero sotto l'egida dell'ONU a quello degli ufficiali delle FF. AA. nelle zone di guerra) è, infatti, una questione oggetto di mutevoli ed oscillanti orientamenti giurisprudenziali, come tale giustificativa di un atteggiamento prudenziale dell'Azienda, a tanto tenuta da precise esigenze di contenimento della spesa pubblica.

Quello che l'appellante lamenta appare, invero, più che altro riconducibile alle dinamiche conflittuali che possono insorgere in ogni luogo in cui vi è comunanze di uomini e cose, laddove non è sempre agevole comprendere chi ne è stato la causa originaria e chi ne ha subito l'effetto (l'innesco, infatti, genera reazioni a catena, con effetti perversi non sempre prevedibili e sovente indesiderati).

Ma questa contrapposizione nei luoghi di lavoro non è automaticamente mobbing, in difetto di tutti gli altri presupposti, anche ove esso venga vissuto dal lavoratore come tale, fino a pregiudicarne la salute psico - fisica.

Più specificamente, l'inserimento in un'organizzazione aziendale che possiede sue caratteristiche e persegue suoi obiettivi può creare problemi e difficoltà ambientali derivanti però da connotati caratteriali piuttosto che dagli atteggiamenti ostili del datore di lavoro o di altri dipendenti determinando "un male di ufficio" che pure può sfociare in condizioni intollerabili per l'espletamento da parte del dipendente della prestazione dovuta, senza assumere tuttavia rilevanza agli effetti del mobbing, in quanto non imputabili ad atti o comportamenti di soggetti ostili. La scarsa capacità di adattamento alle condizioni di lavoro e di vita all'interno dell'azienda è allora a base (dell'insorgere) della situazione di disagio e sofferenza, in cui versa il prestatore di lavoro, che non si radica così in comportamenti del datore e degli altri dipendenti (la cui maggiore correttezza e comprensione non potrebbe alleviare in misura significativa la sua afflizione).

A ciò è da aggiungere che, nel caso di specie, è comunque del tutto carente la specifica (e necessaria) allegazione di elementi, modalità e peculiarità della situazione in fatto attraverso i quali poter ricavare la prova dei pretesi lamentati danni. Il fondamento della responsabilità del datore di lavoro che ponga in essere comportamenti lesivi anche della personalità morale del lavoratore risiede, come detto, nell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c.: posto che quella del datore di lavoro si configura come una responsabilità derivante dall'inadempimento di una obbligazione ex art. 1218 c.c., il danno alla personalità morale subito dal lavoratore è da ricondurre al danno non patrimoniale (l'art. 2087 c.c. nell'individuare il bene della personalità morale riconosce implicitamente la risarcibilità conseguente alla sua lesione).

Orbene, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore al risarcimento del danno (di qualsiasi specie) subito a ragione di un di lui inadempimento deve fornire la prova del danno stesso, non essendo sufficiente, alla luce (del disposto) degli artt. 1218 1223 e 2697 c.c., la mera potenzialità lesiva del comportamento illecito (v. Cass. n. 21025 dell'8/10/2007, per la quale sono necessarie l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche nonché la prova del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, in quanto riconoscere il risarcimento del danno al cospetto della prova del solo inadempimento (cosiddetta liquidazione equitativa in re ipsa) significherebbe assegnare a essa una funzione di sanzione civile punitiva estranea al sistema risarcitorio previsto dal codice civile; v. anche, Cass. sez. un., n. 26972 dell'I 1/11/2008 secondo cui l'art. 2087 c.c., "inserendo nell'area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l'integrità fisica e la personalità morale)", implica che, nel caso in cui l'inadempimento abbia provocato la loro lesione, sia dovuto il risarcimento dei danni non patrimoniali, danni - conseguenza "sotto il profilo della lesione dell'integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa" (i quali ultimi "(...) altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale"), che devono essere allegati e provati, non potendo, nel caso di lesione di valori della persona, il danno ritenersi in re ipsa in quanto finirebbe così per essere snaturata la funzione del risarcimento "(...) che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo", v. anche Cass. sez. un., n. 3677 del 16/2/2009).

In altri termini, come ancora sottolineato, "accanto all'antigiuridicità (...), l'altro elemento essenziale del danno ingiusto (di qualsiasi danno rilevante giuridicamente) consiste nella privazione o diminuzione di un bene o valore (il pregiudizio effettivamente conseguente alla lesione); un'evenienza ipotizzabile non solo in relazione a beni che vengono scambiati sul mercato, ma anche in rapporto ai beni, e agli attributi, della persona" (v. a es. Cass. n. 3686 del 18/4/1996, secondo cui, quanto al danno biologico, il prestatore è onerato della prova della sussistenza in concreto della compromissione dell'integrità psico - fisica; più di recente, Cass. n. 2729 del 5/2/2008 n. 2729 ha precisato che la condotta lesiva del bene protetto non dimostra di per sé il nesso causale tra dequalificazione e danno all'integrità psico - fisica lamentato dal dipendente con la conseguenza che il lavoratore che lamenti una sindrome depressiva dovuta alla frustrazione da demansionamento deve provare, mediante idonea documentazione medica, la riconducibilità della patologia riscontrata alla situazione di disagio lavorativo in base a un ragionevole criterio di probabilità scientifica e non in termini di mera possibilità; v., altresì, Cass. n. 7905 dell'11/8/1998; Id., n. 13580 del 2/11/2001; Id., n. 6992 del 14/5/2002; Id., n. 16792 dell'8/11/2003, secondo cui sia con riguardo al danno alla professionalità che con riguardo al danno biologico "il lavoratore ha l'onere di provare l'esistenza e l'entità del danno, nonché il nesso di causalità con l'inadempimento del datore di lavoro, dimostrazione senza la quale non è possibile procedere ad una valutazione equitativa (...)" posto che "la violazione di un dovere non equivale a danno, che non può essere dedotto automaticamente dalla violazione del dovere" occorrendo, in forza dei principi generali (art. 2697 e 1223 c.c.), "l'individuazione di un effetto della violazione su di un determinato bene perché poi possa procedersi alla liquidazione del danno (eventualmente anche in via equitativa)"; cfr. in tal senso anche Cass. n. 28849 del 5/12/2008; Cass. sez. un., n. 3677 del 16/2/2009 che, in particolare con riguardo al danno morale, ha precisato che "in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del pregiudizio").

Ancora, come affermato dalla S.C. (v., Cass. sez. un., n. 6572 del 24/3/2006), con riguardo al "danno professionale" che ha contenuto patrimoniale e può consistere "sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno", il riconoscimento presuppone ad esempio la deduzione dell'"esercizio di un'attività (...) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo".

Di tutto ciò l'appellante non ha fornito alcuna prova né appare utile, al riguardo, il deferito interrogatorio formale ovvero la prova testimoniale articolata in sede di ricorso introduttivo del giudizio, vertendo detti mezzi istruttori su circostanze già documentalmente provate ovvero affidate a mere valutazioni soggettive.

Logico corollario delle superiori premesse è che l'appello deve essere respinto. La regolamentazione delle spese del grado non può che seguire la soccombenza.


P.Q.M.



La Corte di Appello di Potenza, Sezione Lavoro, definitivamente pronunziando sull'appello proposto da Ca.Ca. con atto depositato in data 3/11/2011 nei confronti della Gestione liquidatore ex AS U.S.L. n. (...) di Lagonegro avverso la sentenza del Tribunale di Lagonegro, giudice del lavoro, n. 746/2009 pronunziata in data 4/9/2009, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa così provvede:

1) rigetta l'appello;

2) condanna l'appellante al pagamento, in favore dell'appellata, delle spese processuali del presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 1.575,00 di cui Euro 600,00 per diritti, Euro 800,00 per onorari ed Euro 175,00 per rimborso forfettario oltre IVA e CPA come per legge.