Cassazione Civile, Sez. Lav., 31 gennaio 2012, n. 1401 - Licenziamento per rifiuto del lavoratore di mutare postazione lavorativa: rifiuto giustificato dalla mancata formazione e informazione richiesta dal lavoratore in relazione ai nuovi rischi


 

 


La Corte territoriale, nel ritenere sostanzialmente ingiustificata e comunque non proporzionata la reazione espulsiva adottata dalla società, ha valutato che il comportamento del lavoratore di rifiuto di mutare postazione di lavoro fosse giustificato, ai sensi dell'art. 1460 c.c., dal mancato adempimento della società alla sua richiesta di specifica formazione e informazione relativamente ai rischi temuti e connessi alla nuova attività e al nuovo posto di lavoro.

In ogni caso, la Corte ha altresì evidenziato, su di un piano di valutazione comparativa del comportamento delle parti, ai sensi dell'art. 1460 c.c. e alla stregua dell'insegnamento di questa Corte, che il comportamento del lavoratore, attivo sindacalmente, era stato di rifiuto di una determinata prestazione e non di ogni prestazione e ha argomentato come esso fosse ispirato non solo al perseguimento di una tutela personale ma anche del miglioramento della sicurezza collettiva dei lavoratori in azienda.


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio - Presidente

Dott. IANNIELLO Antonio - rel. Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere

Dott. BERRINO Umberto - Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza




sul ricorso 11852-2008 proposto da:

D. PREFABBRICATI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA S. ALBERTO MAGNO 9, presso lo studio dell'avvocato SEVERINI GAETANO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato BRACCO FABRIZIO, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

N.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RODI 32, presso lo studio dell'avvocato LAURITA LONGO LUCIO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 48/2008 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 20/02/2008 R.G.N. 1273/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/12/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l'Avvocato GABRIELE PAFUNDI per delega LONGO LUCIO LAURITA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.



Fatto



Con sentenza depositata il 20 febbraio 2008, la Corte d'appello di Torino, riformando la decisione di primo grado, ha accolto la domanda di annullamento (con gli effetti di cui all'art. 18 S.L.) del licenziamento per giusta causa comunicato dalla s.r.l. D. Prefabbricati al proprio dipendente operaio N.I. per avere rifiutato di spostarsi nella nuova postazione di lavoro assegnatagli nel reparto B, continuando a lavorare nel reparto A, nonostante i ripetuti inviti della società e rifiutando altresì di presentarsi in ufficio ove era stato convocato dal direttore generale.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società, affidandolo a sette motivi.

Resiste alle domande N.I. con rituale controricorso, sostenendo preliminarmente l'inammissibilità del ricorso per inesistenza o nullità o irregolarità della notifica e, nel merito, l'infondatezza dell'impugnazione.

 

Diritto




1 - Col primo motivo, la ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 21 e 22, come modificato dal D.Lgs. n. 242 del 1996, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto la necessità di una formazione e informazione del dipendente anche nel caso in esame in cui non vi era stato mutamento di mansioni o trasferimento del lavoratore.

Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito: "Dica la Corte... se, in assenza di trasferimento e/o mutamento di mansioni del dipendente, la datrice di lavoro sia tenuta al rispetto del disposto di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 21 e 22".

2. Col secondo motivo, la difesa della ricorrente denuncia il vizio di motivazione della sentenza per avere la Corte territoriale attribuito piena credibilità alle dichiarazioni del teste A. relativamente all'esistenza di una specifica situazione di pericolo nel reparto B), a causa dell'attrezzatura ivi esistente nonostante che ciò fosse stato smentito dalle dichiarazioni di numerosi altri testimoni e dalla documentazione in atti relativa alla valutazione dei rischi, ove era stato affermato che la lavorazione che si svolge nei vari reparti è di fatto del tutto simile.

3 - Una ulteriore deduzione, col terzo motivo di ricorso, di vizio di motivazione, investe la sentenza nella parte in cui aveva accertato la mancanza sostanziale di una formazione specifica dei lavoratori e ciò in contrasto con la documentazione in atti e sulla base di dichiarazioni di testimoni ( C.N. e Co.) che non erano più dipendenti della società al momento in cui erano stati svolti vari corsi di formazione e informazione risultanti dalla suddetta documentazione.

4- Il quarto motivo di ricorso deduce sia il vizio di motivazione della sentenza impugnata sia la violazione dell'art. 2697 c.c., per avere la Corte affermato che, a posteriori, sarebbe stata accertata dalla ASL una violazione delle norme di sicurezza che "sembrerebbe" attenere proprio al rischio specifico del reparto B), senza spiegare da quale dato processuale ha tratto la propria valutazione, così operando altresì una violazione della regola relativa all'onere della prova, che in proposito gravava sull'appellante.

5 - Col quinto motivo viene dedotta la violazione dell'art. 1460 c.c. nella valutazione operata dalla Corte territoriale relativamente alla giustificatezza dell'inadempimento del ricorrente a fronte della mancata formazione specifica; la società sostiene che l'appellante non aveva indicato al datore di lavoro, come avrebbe dovuto (Cass. 21479/05), le misure da adottare per escludere o ridurre il rischio, prima di procedere al rifiuto della prestazione nel reparto B. Da ciò deriverebbe l'impossibilità di valutare la gravità del preteso inadempimento della società in rapporto alla reazione del lavoratore.

6- Il sesto motivo denuncia ancora la violazione dell'art. 1460 c.c. e il vizio di motivazione della sentenza, per avere la Corte territoriale trascurato di considerare le dichiarazioni di testimoni, anche indotti da N., secondo le quali le lavorazioni del reparto B non erano più pericolose di quelle del reparto A nonchè i dati acquisiti relativi al numero degli infortuni verificatisi in azienda negli ultimi anni, che evidenzierebbero una maggiore incidenza nel reparto A rispetto al reparto B, come del resto noto al resistente per avere lavorato nel reparto B) nel 2001.

Il quesito di diritto che conclude la parte in diritto della censura è del seguente tenore: "Dica, se il lavoratore che, come il sig. N.I., ha già svolto la prestazione che gli viene richiesta e che, pertanto, conosce nel dettaglio la minore pericolosità della stessa rispetto a quella in precedenza svolta in azienda, possa essere considerato in buona fede se rifiuta di eseguire tale seconda lavorazione senza neppure esplicitare nel dettaglio la tipologia delle proprie richieste di ulteriore formazione ed informazione rispetto a quelle già ricevute".

7 - Infine, l'ultimo motivo denuncia la violazione dell'art. 2697 c.c. laddove la Corte territoriale aveva ritenuto non raggiunta la prova relativamente al rifiuto del lavoratore di recarsi in ufficio ove era stato convocato dal direttore generale, nonostante che nello stesso ricorso introduttivo la difesa del lavoratore avesse dichiarato che questi non vi si era recato in quanto "intimidito".

Preliminarmente va respinta la deduzione del controricorrente di nullità e/o inesistenza della notifica del ricorso per cassazione, formulata in ragione del fatto che, avendo il lavoratore, residente in Fossano, conferito in grado di appello la procura agli avv.ti Mirella Brizio e Lorenzo Baccini, iscritti all'ordine degli avvocati di Cuneo ed eletto domicilio in capo a se stesso personalmente, presso lo studio dell'avv. Giuseppe Mosso, in Torino, la società avrebbe irregolarmente notificato il ricorso: 1 - al sig. N. personalmente nel domicilio eletto in violazione del combinato disposto degli artt. 330 e 170 c.p.c.; 2 - al sig. N., consegnandone copia al suo procuratore avv. Mirella Brizio, elettivamente domiciliato in Torino presso lo studio dell'avv. Giuseppe Mosso; 3 - al sig. N., consegnandone copia al suo procuratore avv. Lorenzo Baccini, elettivamente domiciliato in Torino presso lo studio dell'avv. Giuseppe Mosso.

Va infatti al riguardo richiamata la condivisa giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la notifica del ricorso per cassazione alla parte personalmente, anzichè al difensore costituito nel giudizio nel quale è stata resa la sentenza impugnata, non ne determina l'inesistenza giuridica, ma semplicemente la nullità (cfr. ad es. Cass. 27 settembre 2011 n. 19702), come tale sanabile anche per effetto della costituzione in giudizio del destinatario.

Più in generale, questa Corte ha ripetutamente affermato che l'inesistenza della notifica in caso di errore nella consegna è ipotizzabile unicamente nel caso in cui questa venga effettuata con consegna di copia dell'atto in luogo o a persona privi di qualsiasi rapporto con H suo destinatario.

Infine e con specifico riferimento ad una ipotesi analoga a quella qui in esame, è stato condivisibilmente affermato che "ove risulti dall'intestazione dell'atto di appello un domicilio eletto dalla parte, la notificazione della sentenza va effettuata presso detto luogo, dovendosi ritenere che il difensore (che operi fuori della circoscrizione di appartenenza), con la sottoscrizione del ricorso e la correlata autenticazione della firma della parte, abbia fatto proprio l'intero contenuto dell'atto, compresa l'elezione di domicilio" (cfr, Cass. 25 marzo 2009 n. 7196).



Nel merito il ricorso è infondato.

Il primo motivo è inammissibile, per inidoneità del relativo quesito di diritto, che difetta di ogni riferimento al fatto concretamente accertato dai giudici di merito e qualificato come mutamento di mansioni del lavoratore e in relazione al quale questi hanno ritenuto applicabili il D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 21 e 22.

Secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte, infatti, il quesito di diritto di cui all'art. 366-bis c.p.c., che nel regime di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 deve essere necessariamente presente nel ricorso per cassazione con riferimento ad ogni motivo, deve comprendere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice e la diversa regola giuridica che ad avviso del ricorrente si sarebbe dovuta applicare nel caso di specie.

Ne consegue che il quesito in esame, limitandosi a chiedere a questa Corte di accertare se vi sia stata nel caso in esame errata applicazione delle norme di legge citate in assenza delle condizioni ivi previste per la loro applicazione (senza specificare quale fatto il giudice ha qualificato come mutamento di mansioni) è inammissibile e rende inammissibile il relativo motivo.

Gli altri motivi contengono in buona parte denuncie di difetto di motivazione (anche il settimo, come verrà di seguito specificato), che conviene trattare congiuntamente.

In proposito, e per quanto qui interessa va premesso che il controllo di legittimità in ordine alle valutazioni di fatto del giudice di merito non può spingersi fino alla rielaborazione dello stesso alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente raggiunta, da sovrapporre, quasi a formare un terzo grado di giudizio di merito, a quella operata nei due gradi precedenti, magari perchè ritenuta la migliore possibile.

Tale controllo riguarda viceversa (attraverso il filtro delle censure mosse con il ricorso) unicamente il profilo della coerenza logico - formale e della correttezza giuridica delle argomentazioni svolte, in base all'individuazione, che compete esclusivamente al giudice di merito, delle fonti del proprio convincimento, raggiunto attraverso la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, scegliendo tra di esse quelle ritenute idonee a sostenerlo all'interno di un quadro valutativo complessivo privo di errori, di contraddizioni e di evidenti fratture sul piano logico, nel suo interno tessuto ricostruttivo della vicenda (cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n. 5802 e, più recentemente, ex ceteris, Cass., nn. 6288/11, 27162/09, 26825/09 e 15604/07).

Nè appare sufficiente, sul piano considerato, a contrastare le valutazioni del giudice di merito il fatto che alcuni elementi emergenti nel processo e invocati dal ricorrente siano in contrasto con alcuni accertamenti e valutazioni del giudice o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti.

Ogni giudizio implica infatti l'analisi di una più o meno ampia mole di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra di loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, compete al giudice nei due gradi di merito in cui si articola la giurisdizione (cfr. ad es. Cass. nn. 15156/11 v e 5241/11).

Occorre quindi che i fatti della controversia dedotti per invalidare la motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante o determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (in proposito, cfr., ad es. Cass. nn. 2272/07 e 14973/06).

Va infine ricordato che, ove la denuncia di vizio di motivazione riguardi la mancata considerazione di determinate prove testimoniali o di documenti ritualmente acquisiti in giudizio, il ricorrente ha l'onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (cfr. ad es. Cass. nn. 17915/10 e 6023/09).

Poste tali premesse di principio e di metodo, va rilevato che la Corte territoriale, nel ritenere sostanzialmente ingiustificata e comunque non proporzionata la reazione espulsiva adottata dalla società, ha anzitutto accertato che la prova testimoniale non avesse confermato il rifiuto del lavoratore di recarsi presso il direttore generale dopo che era stata esaudita la sua richiesta di essere assistito da un rappresentante sindacale.

Ha inoltre valutato che il comportamento dello N. di rifiuto di mutare postazione di lavoro fosse giustificato, ai sensi dell'art. 1460 c.c., dal mancato adempimento della società alla sua richiesta di specifica formazione e informazione relativamente ai rischi temuti e connessi alla nuova attività e al nuovo posto di lavoro. In ogni caso, la Corte ha altresì evidenziato, su di un piano di valutazione comparativa del comportamento delle parti, ai sensi dell'art. 1460 c.c. e alla stregua dell'insegnamento di questa Corte (citando ad es. Cass. nn. 4743/98 o 8880/00, ma anche n. 21479/05), che il comportamento del lavoratore, attivo sindacalmente, era stato di rifiuto di una determinata prestazione e non di ogni prestazione e ha argomentato come esso fosse ispirato non solo al perseguimento di una tutela personale ma anche del miglioramento della sicurezza collettiva dei lavoratori in azienda.

La società, col settimo motivo, contesta in realtà, come anticipato e nonostante l'indicazione nell'intestazione della violazione dell'art. 2697 c.c., un vizio di motivazione della sentenza, consistente nella mancata considerazione di un decisivo elemento probatorio, attestante il fatto che il lavoratore, dopo il rifiuto di mutare reparto, avrebbe aggravato il proprio comportamento, rifiutandosi di recarsi in ufficio ove era stato convocato dal direttore.

Deduce infatti la ricorrente che nello stesso ricorso introduttivo del giudizio, la parte aveva dato atto di tale rifiuto, motivato con l'affermazione che il lavoratore era rimasto intimidito dalla richiesta di un incontro col direttore senza alcuna assistenza.

Senonchè la Corte territoriale, nella sua valutazione, non ha obliterato tale indicazione, ma ha rilevato che il rifiuto non vi era più stato dopo che era stato consentito al lavoratore di incontrare il direttore con l'assistenza di un delegato sindacale, rilievo che non viene specificatamente contestato dalla ricorrente.

Deduce inoltre la ricorrente (citando Cass. n. 21479/05), col quinto motivo di ricorso, che prima di contestare un inadempimento della società, al quale fosse legittimo contrapporre un proprio inadempimento, il lavoratore avrebbe dovuto preliminarmente indicare le misure idonee ad escludere o ridurre il rischio denunciato.

Risulta peraltro dalla sentenza che il lavoratore ha appunto richiesto informazioni e formazione, unica misura in grado di sollecitare, non conoscendo perfettamente l'assetto produttivo del nuovo reparto (diversamente da quanto apoditticamente affermato in questa sede dalla ricorrente dopo che la Corte territoriale aveva al riguardo specificatamente motivato nel senso opposto) e indicando, con l'assistenza del delegato sindacale, quanto gli risultava, vale a dire un determinata caratteristica dell'impianto ritenuta pericolosa e il fatto che per un'ora al giorno avrebbe dovuto operare in reparto da solo.

Col secondo, terzo quarto e sesto motivo di ricorso la società contesta la valutazione delle prove operata dalla Corte territoriale, sostenendo che questa avrebbe trascurato l'esame di prove documentali e testimoniali che avrebbero escluso la presenza di una specifica situazione di pericolo nel reparto B e avrebbero attestato l'avvenuta formazione del ricorrente, come degli altri lavoratori, utile anche per l'attività da svolgere nel reparto B. Trattasi di rilievi che fondano per lo più su estrapolazioni dal testo di documenti (ad es. quello di valutazione dei rischi) o dalle dichiarazioni di alcuni testimoni, spesso esprimenti meri giudizi.

Altri elementi sono rappresentati dalla riproduzione del titolo di alcuni momenti di formazione e informazione del personale. In ogni caso tali deduzioni vengono utilizzate dalla ricorrente per contrapporre al giudizio complessivo della Corte territoriale una propria diversa ricostruzione della vicenda rappresentata in giudizio, anche attraverso la contestazione dei diversi ragionevolmente argomentati giudizi di attendibilità dei testimoni effettuati dai giudici di merito, come non appare ammissibile in questa sede di controllo di legittimità, secondo i principi sopra richiamati.

Anche i dati statistici che la ricorrente riporta e che dimostrerebbero la minore pericolosità del reparto B rispetto a quello ove era addetto il lavoratore non vale a contrastare l'accertamento dei giudici di merito in ordine alla presenza in azienda di un numero di infortuni sul lavoro "sensibile" (e quindi alla correttezza di una richiesta di miglioramento) e di una specifica situazione di pericolo segnalata nel reparto B, indicata dalla Corte territoriale e da questa ritenuta comprovata da un accertamento ispettivo successivo relativo a tale reparto (valutazione contestata dalla società nel quarto motivo, senza peraltro indicare a quale diverso reparto si riferiscano i rilievi ispettivi segnalati).

Concludendo, in base alle considerazioni svolte le censure di vizio di motivazione si rivelano infondate; con la conseguente infondatezza anche alle censure di violazione di legge (1460 e 2697 c.c.) ad esse associate, in quanto rinvenienti la loro giustificazione in una diversa valutazione dei fatti di causa sostenuta con le censure di difetto di motivazione.

Il ricorso va pertanto respinto, con le normali conseguenze in ordine alle spese di questo giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al resistente le spese di questo giudizio, liquidate in € 60,00 per esborsi ed € 3.500,00 per onorari oltre accessori di legge (12,50% IVA e CPA)

Così deciso in Roma il 7 dicembre 2011

Depositata in Cancelleria 31 gennaio 2012