Lavoro e disabilità: la sclerosi multipla e le patologie croniche progressive nel mercato del lavoro

  1. Introduzione: il MANIFESTO della F.I.S.H. su “Occupazione e pari opportunità per le persone con disabilità”

  2. La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite: il paradigma dei diritti umani
    di Giampiero Griffo – Membro dell'esecutivo mondiale di DPI.

  3. Persone con disabilità escluse dal mercato del lavoro
    di Pietro Barbieri – Presidente F.I.S.H.

  4. Lavoro e Sclerosi Multipla
    di Mario Alberto Battaglia – presidente Federazione italiana sclerosi multipla

  5. Il lavoro come precondizione di inclusione sociale nell’ambito dei diritti umani
    di Silvia Bruzzone, Avvocato in Genova, Consulente legale A.I.S.M. e collaboratore F.I.S.H.

 

Lavoro e disabilità: la sclerosi multipla e le patologie croniche progressive nel mercato del lavoro

1. Introduzione: il MANIFESTO della F.I.S.H. su “Occupazione e pari opportunità per le persone con disabilità”

Nel MANIFESTO della F.I.S.H. su “Occupazione e pari opportunità per le persone con disabilità” – presentato in occasione della Settimana Nazionale della Sclerosi Multipla 2006 vennero evidenziati una serie di aspetti importanti.
Le persone con disabilità, i familiari, e le associazioni hanno chiesto di vedere rispettata la dignità di ogni essere umano praticando i loro diritti fondamentali, a partire dal diritto alla piena occupazione, attraverso un piano di legislatura che si impegni a:


Promuovere un cambio di paradigma nell’approccio al lavoratore con disabilità al fine di garantire pari opportunità e non discriminazione all’accesso, al mantenimento ed all’avanzamento di carriera attraverso:


- campagne di informazione mirata nazionale diretta ai datori di lavoro, ai direttori delle risorse umane, ai consulenti del lavoro e ai rappresentanti delle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie);

- campagne di sensibilizzazione locali a stakeholder istituzionali e parti sociali e attraverso la comunicazione sui mezzi di stampa generalisti locali, all’intera popolazione favorendo un immagine positiva delle persone con disabilità;

- l’aggiornamento degli operatori dei servizi diretti ed indiretti legati all’inserimento mirato affinché possano per primi veicolare ai datori di lavoro da un lato una rappresentazione priva di pregiudizi di improduttività e dall’altro i vantaggi dell’inclusione sociale.


Sviluppare i livelli essenziali di prestazioni che i servizi del collocamento mirato devono garantire sul territorio nazionale affinché possano essere adottati dalla Conferenza Unificata per divenire diritti esigibili e un’opportunità per il datore di lavoro, attraverso:


- la perimetrazione delle attività dei servizi definendo le prestazioni, i loro processi attuativi ed i professionisti competenti, identificando modelli, governance ed i loro costi;

- la delimitazione delle competenze rispettivamente sanitaria, sociale e lavorativa, nonché l’integrazione di quelle politiche, affinché sia riproposta l’unitarietà della persona evitando che la ricomposizione sia un onere che pesa sulle spalle della persona con disabilità e della sua famiglia;

- la costruzione di procedure condivise e utilizzate omogeneamente sul territorio nazionale, a partire dai servizi informativi ICT (Information & Communication Technology), attraverso l’utilizzo dell'ICF, la classificazione delle disabilità emanata nel 2003 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS);

- la progettazione e programmazione di percorsi territoriali di integrazione tra politiche educative, della formazione professionali e del lavoro affinché le persone con disabilità più grave per interrompere il circuito di passaggio obbligato dalla scuola al centro diurno.


Recuperare una funzione di governance del sistema di impiego in Italia affinché si possano sviluppare strategie ampie di implementazione della legge 68/99, attraverso:


- la promozione di un'unica agenzia nazionale in grado di coordinare le politiche su un piano tecnico e tecnologico, un motore di ricerca in grado di offrire formazione competente e consulenza tecnica, con lo scopo prioritario di promuovere e sostenere l’omogenizzazione e la diffusione dei servizi territoriali del collocamento mirato;
- la concreta elaborazione di dati e statistiche che consentano di fotografare il livello di applicazione di politiche attive del lavoro, includendo tra l’altro il tasso di disoccupazione sin qui assente nelle definizioni statistiche ufficiali;
- la rimozione delle cause normative e di prassi consolidate che originano estensioni interpretative di esonero delle imprese pubbliche e private dall’obbligo di assunzione;
- la riproposizione del ruolo della contrattazione collettiva ai diversi livelli, anche rivedendo le forme di rappresentanza dei lavoratori con disabilità permettendo la partecipazione alle associazioni di promozione e di tutela;
- la definizione dell'azione concertativa per politiche adeguate a sostenere il percorso lavorativo della persona con disabilità e ad incentivare gli impegni delle realtà aziendali tesi a riorganizzarsi per accogliere lavoratori con esigenze diverse anche utilizzando nuove forme contrattuali;
- l’adozione di una o più metodologie di monitoraggio delle tendenze nella gestione delle pari opportunità per i lavoratori con disabilità, a partire dall’adozione del disability manager.

Prestare una particolare attenzione alle donne con disabilità ed alla doppia discriminazione che esse subiscono, attraverso:


- l’incentivazione della loro occupazione con specifiche misure di sostegno e tenendone conto, con politiche di mainstreaming, anche all’interno delle iniziative di sostegno all’occupazione al femminile in genere;

- la promozione della discussione nella prossima legislatura del disegno di legge C4742 a firma dell’onorevole Elena Cordoni ed altri che giace presso l’XI Commissione Lavoro della Camera dall’11 settembre 2004.


Sviluppare un piano di azione per aggredire lo specifico tema del Sud Italia, attraverso:


- la piena partecipazione ai piani di sviluppo locali ed alle politiche attive in genere, affinché la coesione sociale sia implementata a tutti i livelli senza creare discriminazioni tra i discriminati;

- l’adozione di strategie premianti per le piccole imprese non obbligate alle quote di riserva, all’impiego di persone con disabilità;

- l’incentivazione dell’autoimprenditorialità profit e non profit adottando misure specifiche per riconoscerne la funzione sociale;

- la rimozione degli ostacoli che originano discriminazione per la mobilità nazionale ed europea di lavoratori con disabilità.


Favorire l’adozione della strategia di Lisbona per la piena occupazione anche per i lavoratori con disabilità, attraverso politiche di mainstreaming, quali:


- l’attivazione di politiche di mainstreaming nazionali, regionali e provinciali, includendo le esigenze delle persone con disabilità all’interno delle politiche ordinarie sul lavoro. Questo significa inserire in maniera organica le esigenze dei lavoratori con disabilità all’interno del Piano di azione nazionale, degli strumenti regionali di programmazione per l’impiego, delle politiche industriali;

- il coordinamento tra Piano di Azione nazionale e Piano contro la povertà e l’esclusione sociale ed il conseguente sviluppo di politiche di coordinamento delle azioni e delle risorse indirizzate all’incremento dell’occupazione, prevedendo sinergie con l’utilizzo dei fondi FSE (PIT e POR) e con le politiche socio-sanitarie previste dall’applicazione regionale della l. n. 328/2000 (piani sociali o socio-sanitari regionali, piani sociali di zona);

- il potenziamento di ogni strategia innovativa per l’implementazione delle tecnologie avanzate affinché siano rese accessibili e utilizzabili dalle persone con disabilità, nonché restituibili nella formazione e nell’aggiornamento a cui tutti hanno accesso, senza esclusioni;

- la rimozione degli ostacoli amministrativi, economici e politici che impediscono di considerare la competenza del lavoratore con disabilità un’asse indispensabile per le politiche di sviluppo di inclusione e coesione sociale;

- l’eliminazione degli ostacoli culturali che considerano fragili le persone con disabilità e causano la sottovalutazione dell’inclusione nell’impiego da parte delle amministrazioni pubbliche, e nei suoi programmi di incentivazione e sviluppo;

- l’empowerment del lavoratore con disabilità anche attraverso la presa di possesso degli strumenti legali della non discriminazione contenuti nella direttiva europea 78/00, nonché la rivisitazione della sua ratifica nazionale per la corretta attuazione dell’inversione dell’onere della prova.

- il superamento di forme di baratto tra profit e non profit che generano elusione dei principi fondamentali della legge 68/99 (leggi art. 14 del d.lgs.. n. 276/2003), nonché l’eliminazione dei nuovi provvedimenti per l’impresa sociale, affrontando invece il tema del doppio ciclo produttivo (quello specifico della mission aziendale e quello dell’inserimento del lavoratore svantaggiato) attraverso incentivi per la creazione di management, la rimozione di ostacoli e barriere e agevolazioni creditizie.



2. La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite: il paradigma dei diritti umani
di Giampiero Griffo – Membro dell'esecutivo mondiale di DPI1.

Nel mondo vivono circa 650 milioni di persone con disabilità (il 10% della popolazione mondiale) che hanno salutato come un evento storico l'entrata in vigore (3.5.2008) della Convenzione sui diritti delle Persone con Disabilità dell'ONU. Da quella data le persone con disabilità non devono più domandare il riconoscimento dei loro diritti, bensì devono richiedere la loro applicazione ed implementazione. È una trasformazione culturale e politica profonda: si è passati, infatti, dal riconoscimento dei bisogni al riconoscimento dei diritti
L'attenzione che la comunità internazionale ha prestato alla condizione delle persone con disabilità è cresciuta molto velocemente. In soli 35 anni2 la comunità internazionale ha trasformato la visione sulla condizione delle persone con disabilità riconoscendo i nostri diritti umani. Questa approccio ora deve divenire la base per tutte le politiche nazionali.
L'Italia ha ratificato la Convenzione il 24 febbraio scorso, grazie anche alla grande campagna di sensibilizzazione sviluppata dalla FISH e dal Consiglio nazionale sulla disabilità3. Quale sarà l'impatto che l'approccio basato sui Diritti Umani produrrà sulle politiche relative alle persone con disabilità?


Cambiamento di quadro culturale

Il movimento mondiale delle persone con disabilità4 ha rivendicato una nuova base culturale alla propria condizione, non più basata su un modello medico, che vedeva nelle persone con disabilità dei malati e dei minorati, a cui doveva essere garantita solo protezione sociale e cura. Questo modello, criticato dalle associazioni delle persone con disabilità, è stato sostituito dal modello sociale della disabilità, che valorizza le diversità umane – di razza, di genere, di orientamento sessuale, di cultura, di lingua, di condizione psico-fisica e così via – e rileva che la condizione di disabilità non deriva da qualità soggettive delle persone, bensì dalla relazione tra le caratteristiche delle persone e le modalità attraverso le quali la società organizza l’accesso ed il godimento di diritti, beni e servizi. Per cui una persona si trova in condizione di disabilità non perché si muove con una sedia a rotelle, comunica con il linguaggio labiale, si orienta con un cane guida, ma perché gli edifici sono costruiti con le scale, si pensa che comunicare sia possibile solo attraverso il linguaggio orale e orientarsi sia possibile solo attraverso l’uso della vista. Questa rivoluzione copernicana cambia la visione sociale: sono le persone con disabilità che subiscono dalla società condizioni di discriminazione e di mancanza di pari opportunità e sono sottoposte a continue violazioni dei diritti umani.
La Convenzione è molto chiara quando definisce la disabilità come “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri” (preambolo, punto e).
I Principi Generali (Art. 3) della Convenzione perciò non fanno riferimento alla condizione di salute, ma sottolineano valori che non sono mai stai applicati prima alle persone con disabilità: “(a) il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone; (b) la non discriminazione; (c) la piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società; (d) il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa; (e) la parità di opportunità; (f) l’accessibilità; (g) la parità tra uomini e donne; (h) il rispetto dello sviluppo delle capacità dei minori con disabilità e il rispetto del diritto dei minori con disabilità a preservare la propria identità”.
In questo quadro di riferimento, molto importante è il concetto di discriminazione. Non vi sono dati e statistiche che fotografino le discriminazioni che le persone con disabilità vivono. Alcuni esempi di discriminazione lo possono far emergere: il tasso di disoccupazione in Italia nel mercato ordinario (settembre 2008) è di circa il 6,8%, arriva al 75,0% per le persone con disabilità. E se confrontiamo il tasso di disoccupazione al femminile, scopriamo che nel mercato ordinario del lavoro l'impiego delle donne è del 46%, mentre per le donne con disabilità scende al 33%. Le persone in sedia a rotelle hanno accesso ai treni solo per circa il 5-10% in confronto al 100% degli altri passeggeri.
La Convenzione sottolinea che la condizione che vivono le persone con disabilità è una questione di diritti umani. Ogni volta che una persona con disabilità riceve un trattamento differente senza giustificazione, subisce una discriminazione. Ogni discriminazione è una violazione dei Diritti Umani. Le persone con disabilità tutti i giorni subiscono continue violazioni dei loro Diritti Umani.
Per questa ragione la Convenzione delle Nazioni Unite (nell’art. 5 – Eguaglianza e non discriminazione) riconosce che “tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge.
2. Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento. 3. Al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli”.
Altro importante concetto applicato alle persone con disabilità è quello di Eguaglianza di opportunità. La migliore definizione di questo concetto è contenuta nelle Regole Standard delle Nazioni Unite: “24. Realizzare le pari opportunità” significa rendere possibile un processo attraverso il quale le differenti società e i diversi ambienti, così come i servizi, le attività, l'informazione e la documentazione, siano resi accessibili a tutti, specialmente alle persone con disabilità. 25. Il principio dell'uguaglianza dei diritti implica che i bisogni di ognuno e di tutti gli individui sono di eguale importanza, che questi bisogni devono diventare il fondamento per la pianificazione delle società e che tutte le risorse vanno impegnate in modo tale da assicurare che ogni individuo abbia le stesse opportunità per partecipare. 26. Le persone con disabilità sono membri della società e hanno il diritto di rimanere all'interno delle loro comunità. Esse dovrebbero ricevere il sostegno di cui hanno il bisogno all'interno delle ordinarie strutture per l'educazione, la salute, l'impegno e i servizi sociali”.
Basta porsi alcune domande per evidenziare come discriminazione e pari opportunità rivoluzioneranno il prossimo futuro: quanti dei principi dell'art. 3 sono applicati alle persone con disabilità? I nostri diritti (ed i conseguenti bisogni) hanno eguale valore? Vengono utilizzate le risorse ordinarie per garantire eguale opportunità nella fruizione di beni e servizi?
La Convenzione illustra i principi e le norme alla base della parità di trattamento e della non discriminazione da applicare alle persone con disabilità. Essa rappresenta una estensione e chiarificazione della l. n. 67/20065, sulle cui procedure si basa il regime di tutela italiano. Andrà sviluppata una campagna di informazione capillare per far appropriare di questo nuovo strumento di protezione legale le associazioni di promozione e di tutela e le stesse persone con disabilità e loro familiari.


ICF e Convenzione

La trasformazione della lettura della condizione delle persone con disabilità è stata definita scientificamente dalla Classificazione Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (OMS 2001). L’ICF, oltre ad essere una classificazione, ha costruito un modello della disabilità definito bio-psico-sociale (vedi figura 1).

Figura 1

Classificazione Internazionale
del Funzionamento, della Disabilità e della Salute – ICF
OMS 2001

Condizioni di salute

(disordine/malattia)

 

Funzioni e
strutture del corpo
Attività
(Limitazioni)
(minorazione)
Partecipazione
(Restrizioni)


Fattori ambientali e sociali


Fattori Personali

Infatti sottolinea che la disabilità è un rapporto sociale, dipendente dalle limitazioni funzionali di una persona e le condizioni ambientali e sociali in cui si svolgono le sue attività. Qualora queste condizioni non tengano conto delle limitazioni funzionali della persona e non ne adattino gli ambienti di vita e di relazione, vengono costruiti barriere ed ostacoli che limitano la partecipazione sociale. Quindi la disabilità non è una condizione soggettiva, poiché non è vero che ad una limitazione nell’uso di funzioni e strutture corporee corrisponda sempre e comunque una diminuzione delle capacità e delle prestazioni. Infatti queste dipendono proprio da fattori sociali ed individuali. In una biblioteca dove non vi sono ostacoli e barriere architettoniche e comunicative e sono state predisposte dotazioni tecnologiche appropriate all’accesso a libri e documenti, una persona in sedia a rotelle o una persona non vedente possono muoversi liberamente e consultare il patrimonio librario senza difficoltà. Se però vi fossero scale, assenza di percorsi tattili ed ascensori, computer non dotati di sintesi vocali e scanner, etc., quegli stessi lettori incontrerebbero ostacoli di varia natura e non riceverebbero un trattamento uguale agli altri lettori.
La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite ha introdotto un quadro di riferimento basato sui diritti umani, assente nel modello del’ICF (vedi figura 2). La prima differenza è nella descrizione delle cause. L’ICF sottolinea che è una condizione di salute che causa una condizione di potenziale disabilità, mentre la Convenzione, all’articolo 3 sui principi generali, afferma “il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana”. Qualsiasi sia la causa della limitazione funzionale e qualsiasi sia la natura, questa è ascrivibile alla diversità umana. In realtà un persona con lesione midollare che le ha causato una paraplegia, non può essere descritta solo sulla base delle sue limitazioni funzionali, e queste ultime, pur potendo produrre condizioni di dipendenza da terzi (per es. per vestirsi, muoversi, lavarsi,.etc.), non è detto che la producono sempre e comunque. Lo stile di vita di quella persona, i percorsi di crescita della consapevolezza e di abilitazione progressiva a gestirsi la vita e trovare soluzioni allo svolgimento delle differenti attività, fanno sì che la limitazione funzionale possa essere superata da ausili tecnologici ed umani, di modifiche dell’ambiente, dalla capacità di autodeterminarsi e vivere una vita in forma autonoma ed indipendente. In effetti l’elemento di compromissione delle capacità funzionali del corpo, interagisce con gli elementi soggettivi e sociali. Sarebbe più corretto definire la compromissione funzionale una delle caratteristiche della persona e non “la” caratteristica da cui partire, altrimenti rischiamo di ridurre quella stessa persona a quella singola caratteristica. Secondo il modello della Convenzione, quindi, piuttosto che parlare di malattie che colpiscono le strutture e funzioni del corpo sarebbe più corretto utilizzare il termine caratteristiche delle persone, basate sulla diversità umana che oltre che essere etnica, culturale, sociale, di storie di vita e di DNA, è anche fisica e di capacità funzionali.
Anche la descrizione delle limitazioni che possono impedire lo svolgimento di un’attività è insufficiente, perché non tiene conto del trattamento diseguale. Utilizzando l’ICF in un contesto educativo, per esempio, non è possibile identificare se l’alunno con disabilità frequenti una classe ordinaria o una classe speciale. Andrebbe quindi inserito il concetto di discriminazione, che determina anche la modalità di partecipazione: questa, infatti, può essere svolta in un contesto discriminatorio o in un contesto inclusivo. Un altro concetto che integra il modello dell’ICF è quello di inclusione, parallelo a quello di partecipazione. La partecipazione infatti può attivarsi in contesti di esclusione o in ambiti ordinari, e la valutazione della qualità dell’inclusione risulta essenziale per identificare i fenomeni di esclusione.

Figura 2

Convenzione sui diritti delle persone con disabilità
(Nazioni Unite 2006)

Diversità umana

(varie cause)

 

Funzioni e
strutture del corpo
(caratteristiche)
Attività
(Limitazioni &
Discriminazioni)
Partecipazione
(Restrizioni &
Inclusione)


Fattori ambientali e sociali
(Impoverimento)


Fattori Personali
(Empowerment)

Un ulteriore elemento di arricchimento del modello dell’ICF si misura quando si analizza la coppia di concetti di impoverimento/empowerment e riabilitazione/abilitazione. Infatti i fattori sociali ed ambientali, comprendenti barriere, ostacoli, discriminazioni, possono produrre impoverimento delle capacità e delle performance delle persone, per cui intervenire per consentire di recuperare la piena cittadinanza, in eguaglianza con gli altri cittadini, comporta un’azione di empowerment delle persone con disabilità e delle loro famiglie, quando sono minori o non possono rappresentarsi da sole, per dare loro nuove competenze e abilità e nuovi poteri decisionali sulla loro vita.
Questa trasformazione rispettosa dei diritti umani porta ad un cambiamento di strategia per sviluppare politiche e sostegni appropriati. La Convenzione infatti riformula il tradizionale concetto di riabilitazione e ne elabora uno nuovo, quello di abilitazione (art. 26):
“1. Gli Stati Parti adottano misure efficaci e adeguate, in particolare facendo ricorso a forme di mutuo sostegno, al fine di permettere alle persone con disabilità di ottenere e conservare la massima autonomia, le piene facoltà fisiche, mentali, sociali e professionali, il pieno inserimento e la partecipazione in tutti gli ambiti della vita. A questo scopo, gli Stati Parti organizzano, rafforzano e sviluppano servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nei settori della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali”.
La riabilitazione è collegata alla possibilità di intervenire sulle limitazioni funzionali per conseguire, con un trattamento prevalentemente medico, il recupero della funzionalità compromessa. L’abilitazione, invece, partendo dalle caratteristiche e capacità delle persone, agisce per sviluppare le competenze per essere autonomi e capaci di autodeterminarsi in tutte le aree della vita, anche se questo può essere fatto in modi diversi da quelli ordinari. Le persone con disabilità leggono ad occhi chiusi, si muovono senza camminare, comunicano senza parlare e si relazionano a cuore aperto. La società ha dimenticato queste persone ed ha costruito servizi, beni e politiche che non tengono conto delle persone con disabilità. Pertanto le azioni corrette di sostegno sono “servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nei settori della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali”. In altre parole, abbiamo bisogno di riabilitare la società ad includere la disabilità in tutte le politiche ed abilitare tutte le professioni ed i politici a saperlo fare, rispettando i nostri diritti umani.
I contenuti della Convenzione (art. 1 – Scopi ) dovranno essere base degli interventi in ogni paese per “promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”.


Mainstreaming6 la disabilità in tutte le politiche

Per tutte queste ragioni mainstreaming la disabilità in tutte le politiche è la principale azione che i governi che vogliano rispettare la Convenzione devono sviluppare. Mainstreaming è una parola che viene usata spesso, come una parola di moda, ma necessita ancora di essere chiarita.

a) Mainstreaming non è solo una metodologia, ma è un contenuto politico
È diffusa un’idea che il mainstreaming sia una metodologia di lavoro, basta includere in maniera formale le persone con disabilità in un bando di progetti, inserire una politica speciale nella lista di politiche ordinarie, fare insomma un gioco di prestigio per aver realizzato politiche di mainstreaming della disabilità. In realtà mainstream significa certo includere le persone con disabilità nelle politiche ordinarie, ma anche rimuovere ostacoli e barriere e promuovere l’egualizzazione di opportunità. Basta riflettere: escludere dai benefici dello sviluppo della società, di acceso a beni e servizi, di godimento dei diritti e delle libertà fondamentali le persone con disabilità è stato semplice, bastava negare accesso e segregare queste persone in luoghi speciali, separati. Garantire che le persone con disabilità possano ritornare a far pare della società e godere degli stessi diritti e delle stesse opportunità degli altri cittadini è un’azione che necessità di azioni positive, soluzioni appropriate di inclusione, capacità di utilizzo delle risorse di tutti per tutti.

b) Includere la disabilità nelle politiche ordinarie significa partire dalla conoscenza del livello di mancanza di pari opportunità e discriminazione che le persone con disabilità vivono
Qual’è il livello di discriminazione e di mancanza di pari opportunità che vivono le persone con disabilità? Mancano dati ed informazioni su questo argomento. Un elemento è certo: abbiamo bisogno di cambiare approccio nel campo della raccolta di dati e statistiche sulla disabilità. Da statistiche basate solo sulla condizione di salute, pensioni e benefici economici, dobbiamo passare a raccogliere dati sul livello e qualità della partecipazione, del godimento dei diritti e della promozione dell’inclusione sociale.
La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità all'articolo 31 (Statistiche e raccolta dei dati) chiarisce che gli Stati “si impegnano a raccogliere le informazioni appropriate, compresi i dati statistici e i risultati di ricerche, che permettano loro di formulare ed attuare politiche allo scopo di dare attuazione alla presente Convenzione. (…) le informazioni raccolte (...) devono essere disaggregate in maniera appropriata, e devono essere utilizzate per valutare l’adempimento degli obblighi contratti dagli Stati (...) e per identificare e rimuovere le barriere che le persone con disabilità affrontano nell’esercizio dei propri diritti.”. E' essenziale che le agenzie nazionali e regionali che raccolgono dati e statistiche inizino ad applicare questo nuovo approccio.
Per mainstreaming le politiche sulla disabilità abbiamo bisogno di raccogliere dati sulle reali condizioni delle persone con disabilità in modo da: a) identificare le barriere e le restrizioni alla partecipazione; b) conoscere le discriminazioni ed i trattamenti inappropriati; c) Mainstreaming la disabilità in tutte le statistiche; d) Valutare le politiche di inclusione sociale attraverso specifici indicatori.

c) Approvare legislazioni non discriminatorie nel campo della disabilità
L’European Disability Forum ha raccolto l’anno scorso 1.360.000 firme per chiedere alle istituzioni europee di discutere ed approvare una direttiva orizzontale sulla non discriminazione delle persone con disabilità. È la prima volta che la società civile organizza una partecipazione diretta dei cittadini europei nelle decisioni legislative comunitarie. È una straordinaria forma di democrazia. Il testo elaborato dalla Commissione Europa è ancora troppo debole nelle tutele e nei campi di azione e non è in linea con i contenuti della Convenzione, che la stessa Unione europea ha deciso di ratificare. Le legislazioni non discriminatorie sono uno dei pilastri delle politiche di mainstreaming, perché rendono tutta la società responsabile (e non solo le istituzioni pubbliche) del processo di inclusione. Il principio di non discriminazione è alla base delle politiche rispettose dei diritti umani, sia a livello europeo che nazionale.
Vorrei ricordare la definizione della Convenzione di “Discriminazione fondata sulla disabilità”, importante per chiarire la legislazione europea e nazionale in questo campo: “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”. Il concetto è ricco ed articolato e necessita di essere trasposto in tutti i campi, rispettando tutti i significati contenuti nella definizione.

d) Adottare concrete misure per rimuovere barriere ed ostacoli e promuovere la pari opportunità
Le politiche di mainstreaming si basano sulla rimozione di barriere, ostacoli e pregiudizi, sia fisici che culturali. Infatti la discriminazione è comune a persone con disabilità, a donne, a immigrati, etc., anche se assume forme differenti. Alla condizione di discriminazione le persone con disabilità vedono aggiungersi ostacoli e barriere fisiche e comunicative e servizi pensati per ospiti della società e non per cittadini, a cui garantire il rispetto dei diritti umani. Per cui le politiche di mainstreaming devono intervenire a rimuovere tutte le barriere esistenti e promuovere servizi di inclusione rispettosi dei diritti umani. In altre parole le politiche devono essere basate sull’Universal design7, tenendo in conto tutte le diversità umane presenti nella società.


La diversità umana e la società inclusiva

L'obiettivo principale della strategia basata sul rispetto dei Diritti Umani è l'inclusione sociale. Le parole Inserimento, Integrazione e Inclusione hanno significati molto distanti ed il loro uso (e applicazione) produce differenti conseguenze.
Inserimento: è l’approccio che riconosce il diritto delle persone con disabilità ad avere un posto nella società, ma che si limita ad inserirle in un posto spesso separato dalla società (es. un istituto o una classe speciale) o in una situazione passiva : la decisione su dove debbano vivere e come debbano essere trattate non è presa dalle persone con disabilità e dalle loro famiglie, nel caso non possano rappresentarsi da sole, bensì dipende da decisioni di altri attori (medici, operatori di istituzioni pubbliche, etc.). L'inserimento spesso è basato su un approccio caritativo e assistenziale;
Integrazione: è il processo che garantisce alle persone con disabilità il rispetto dei diritti all’interno dei luoghi ordinari, senza però modificare le regole e i principi di funzionamento della società e delle istituzioni che li accolgono. Vi è dietro questa impostazione ancora una lettura basata sul modello medico della disabilità. Prevale l’idea che le persone con disabilità siano speciali e vadano sostenute attraverso interventi prevalentemente tecnici. L'integrazione non è un riconoscimento pieno di dignità e di legittimità. Tanto è vero che esso si basa sulle risorse economiche disponibili, quindi è soggetto a parametri esterni al diritto. Se non ci sono i soldi, pazienza con i diritti.
Inclusione: è il concetto che prevale nei documenti internazionali più recenti. La persona con disabilità è considerata cittadino a pieno titolo e quindi titolare di tutti i diritti, come gli altri cittadini. Viene però riconosciuto che la società si è organizzata in maniera tale da creare ostacoli, barriere e discriminazioni, che vanno rimosse e trasformate. La persona con disabilità entra quindi nella comunità con pieni poteri, ha il diritto di partecipare alle scelte su come la società si organizza, sulle sue regole e sui principi di funzionamento, i quali devono essere riscritti sulla base di tutti i membri della società. Insomma le persone con disabilità non sono più ospiti nella società, ma parte integrante della stessa. L’inclusione riconosce la diversità umana e la inserisce all’interno delle regole di funzionamento della società, nella produzione di beni e nell’organizzazione di servizi. Il diritto umano ad essere incluso non dipende dalle risorse disponibili, bensì dalla consapevolezza che tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti.
Le persone con disabilità hanno subito processi di marginalizzazione per secoli. Segregati in luoghi separati dalla società, esclusi da diritti ed opportunità, hanno subito un trattamento culturale e sociale che ha prodotto uno stigma negativo che tocca tutti gli ambiti sociali. Per questo la loro inclusione è un complesso processo di trasformazione di regole, relazioni, comportamenti. L’Inclusione necessita di strumenti di partecipazione e appropriate politiche basate su azioni e programmi mainstreaming. La migliore definizione di inclusione è circolata durante le discussioni all’Ad Hoc Committee dell’ONU sulla Convenzione:
“L'Inclusione è un diritto basato sulla piena partecipazione delle persone con disabilità in tutti gli ambiti della vita, su base di eguaglianza in rapporto agli altri, senza discriminazioni, rispettando la dignità e valorizzando la diversità umana, attraverso interventi appropriati, superamento di ostacoli e pregiudizi, sostegni basati sul mainstreaming, in maniera da vivere nelle comunità locali”.
L’inclusione è quindi un diritto/processo che interviene per riscrivere le regole della società che esclude, che colpisce le persone da più punti di vista: stigma sociale, impoverimento delle persone colpite, marchio di diversità negativa, rifiuto al dialogo. L’esclusione è basata su un’azione semplice: il rifiuto della parità di condizione, la negazione dell’appartenenza attraverso trattamenti differenziati senza giustificazione, la cancellazione dell’altro come persona titolare di diritti umani; l’inclusione è invece un processo faticoso, di crescita di consapevolezza, riscrittura dei principi, recupero di dignità delle persone escluse, di presa in considerazione di nuovi bisogni, di riequilibrio dei poteri all’interno della società.
All’interno del processo di inclusione un ruolo particolare deve essere giocato dalle persone escluse. Se il percorso di inclusione è un riconoscimento di nuovi diritti, valori e principi, questo non può essere fatto se non con le stesse persone soggette a condizioni di esclusione. In altre parole l’inclusione è effettiva solo con la diretta partecipazione delle persone escluse e discriminate. E per permettere loro di partecipare in maniera consapevole e diretta a questo processo, è necessario rimuovere le povertà e gli impoverimenti sociali che le persone vivono in una società che li ha esclusi. Da qui due azioni consapevoli che toccano la sfera sociale ed individuale. La prima – l'abbiamo già segnalato – è l’introduzione di politiche di mainstreaming; il secondo è l’attivazione di strumenti di empowerment individuale e sociale che rimuovano la condizione di impoverimento sociale e personale.
L'inclusione perciò è legata allo sviluppo economico e sociale. Nell’accezione corrente – prevalentemente liberista – lo sviluppo produce costi sociali che spesso corrispondono ai processi di esclusione che abbiamo analizzato. È quasi un pendant dello sviluppo la povertà e l’emarginazione sociale. La teoria liberale non include una parte della società8 e lascia in secondo piano i carichi di violazione di diritti umani che ha prodotto e produce. Il movimento delle persone con disabilità da pochi anni ha iniziato ad interrogarsi sul concetto di sviluppo inclusivo: è sviluppo sostenibile quello che crea esclusione, povertà e mortificazione delle risorse umane? È veramente un peso l’inclusione sociale o invece rappresenta una forma di sviluppo possibile e praticabile?
Ultimo elemento, ma non secondario di questo processo di inclusione, è il riconoscimento e la legittimazione sociale delle persone con disabilità, che permette di inserire all’interno delle diversità umane ammesse in quella società anche questa diversità, che perde il connotato di diversità negativa per divenire ordinaria diversità. Infatti la nozione di diversità è basata su una proiezione indebita che attribuisce la connotazione di diverso a chi non appartiene a quella società, a chi si discosta da caratteristiche considerate “normali”, solo perché appartenenti a persone di quella comunità. In realtà il concetto di normalità è tra i più ideologici e fuorvianti: si possono cristallizzare le caratteristiche delle persone definendo una serie di parametri capaci di descrivere il genere umano? esiste una persona umana uguale ad un’altra persona umana? E questa sostanziale diversità che sembra stranamente cancellata dalla visione sociale delle diversità. Evidentemente quello che agisce è la costruzione storica e sociale di quella diversità, che viene riconosciuta tale proprio perché espunta dall’ordinaria diversità.
La Convenzione (Articolo 4, comma 3 – Obblighi Generali) sottolinea che gli Stati “nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle politiche da adottare per attuare la presente Convenzione, così come negli altri processi decisionali relativi a questioni concernenti le persone con disabilità, (...) operano in stretta consultazione e coinvolgono attivamente le persone con disabilità, compresi i minori con disabilità, attraverso le loro organizzazioni rappresentative”.
Lo slogan che il movimento delle persone con disabilità usa per chiedere la nostra diretta partecipazione nelle decisioni legate alla nostra vita è chiaro: “Nothing about us, without us” (niente su di noi, senza di noi). Noi siamo gli esperti reali della nostra vita, dal momento che la società dimentica le persone con disabilità, perché la società ha perduto le competenze necessarie a rispettare i nostri diritti umani.
“Rendere le società inclusive richiede un lavoro di programmazione e sistematico – ha dichiarato recentemente Thomas Hammarberg, Commissario sui Diritti Umani del Consiglio d’Europa. Ed è incoraggiante che alcuni stati Europei abbiano ora adottato piani e strategie sulla disabilità. Ogni paese dovrà sviluppare questi piani disegnati sulle loro condizioni. Quelli che avranno cercato di identificare priorità, definire scadenze temporali e destinare risorse e responsabilità per l’implementazione saranno premiati generalmente con risultati positivi”. Per questo il movimento delle persone con disabilità vuole che ogni paese costruisca un Piano d’Azione sulla disabilità, come il Consiglio d’Europa ha proposto (2006-2015), basandosi sul rispetto della diversità umana.
Spesso ci dimentichiamo che le diversità umane ci appartengono: conoscete una persona uguale ad un’altra? Nessuno vorrebbe essere clonato e tutti sono gelosi della propria individualità, fatta di tante diversità che ci rendono unici ed irripetibili. È più diverso esser sordo o non essere tagliato per la matematica, leggere un testo attraverso un computer tramite la sintesi vocale o essere analfabeta? guidare con una macchina adattata o non sapere nemmeno andare in bicicletta?
Le società che il movimento delle persone con disabilità vuole costruire sono quelle che rispettano e valorizzano tutte le diversità umane. Quelle dove ognuno è libero di esprimersi secondo le proprie capacità e potenzialità. Il contributo che il movimento delle persone con disabilità offre al mondo è proprio questo: costruire società inclusive dove, il diritto di essere differenti sia considerato una cosa buona. Questa è una convenienza per tutti noi che abbiamo vissuto, viviamo e vivremo un’esperienza di disabilità.


3. Persone con disabilità escluse dal mercato del lavoro
di Pietro Barbieri – Presidente F.I.S.H.9

L’Unione Europea attraverso la cosiddetta “Strategia di Lisbona” indica il percorso dello sviluppo economico dell’immediato futuro verso un'economia e una società basate sulla conoscenza. Ai fini della competitività e dell'innovazione, si intende investire nelle persone combattendo l'esclusione sociale. L’intento programmatico è nella piena occupazione con l’obiettivo di portare il tasso di occupazione al 70% nel 2010, con obiettivi intermedi. Se il 7-10% della popolazione europea è disabile, è di assoluta evidenza che sia coinvolta pienamente in questo processo a partire dall’inclusione sociale.

Proprio in quest’ambito si colloca la promozione della diversità umana che nel nostro Paese annovera buone pratiche e norme di avanguardia spesso sottovalutate. Gli esiti positivi delle battaglie culturali degli ultimi 30 anni sull’integrazione scolastica e sull’inserimento pieno nella vita quotidiana delle persone con disabilità, sono attestati dalla produzione di norme considerate oggetto di studio da parte dell’Unione e degli stati membri. Questo ha prodotto una maggiore qualificazione dei lavoratori con disabilità, che accedono anche a qualifiche alte. Grazie alle politiche di mainstreaming educativo di tutte le persone con disabilità, si è potuta superare la mera concezione dell’aliquota d’obbligo di assunzione, con l’approdo al “collocamento mirato” che si definisce come l’insieme “di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto”, ovvero la persona giusta al posto giusto. Il fulcro della l. n.  68/99 è quindi nell’incontro tra domanda e offerta, basato sulla valorizzazione delle abilità e delle competenze delle persone, non sulla condizione fisica, intellettiva o sensoriale.

È necessario quindi caratterizzare il percorso e gli strumenti che superino le discriminazioni oggettive esistenti di comunicazione tra il lavoratore disabile e il “gruppo” in cui si trova ad operare, che può condurre persino ad un’autopercezione di differenziazione che induce il lavoratore a staccarsi dalla rete di relazionalità con conseguente aggravamento della stima di sé, in termini negativi, della propria capacità produttiva e di innesto nei ritmi e nei tempi di lavoro altrui.

Il percorso, quindi, va individuato:

nell’accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
nell’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
nel mantenimento dell’occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento, accoglienza sul luogo di lavoro.

Il diritto al lavoro delle persone con disabilità è condizionato tuttavia dallo stigma sociale ovvero della percezione negativa che la società ha sulle persone con disabilità, che è visibile nel pregiudizio dell’imprenditore che lo giudica sempre e comunque improduttivo o del gruppo che lo accoglie (responsabili di reparto, responsabili del personale, compagni di lavoro) sulla possibilità di comunicazione e di condivisione di temi di confronto con il lavoratore che si presenta “diverso”, e riguardo della presunta capacità produttiva di una persona che ha ritmi ed orari diversi e può “produrre” con modalità differenti da quelle imposte dall’organizzazione del lavoro o adottate per consuetudine.

Un esempio recente è rappresentato dalle vicenda di Alitalia e dalle procedure di riassunzione del personale necessario presso la nuova Compagnia Aerea Italiana (CAI) che vede esclusi molti lavoratori disabili e molti familiari che fruivano delle agevolazioni per l’assistenza (ex l. n. 104/1992).

Il pregiudizio nei confronti dei lavoratori disabili, a nostro parere si sostanzia in elementi fattuali riscontrabili anche nella V Relazione al Parlamento sull’attuazione della l. n. 68/99 elaborata dal Ministero del Lavoro (per gli anni 2008-2009).
L’elevato numero di esoneri di cui all’art. 5, concepiti per non rendere effettiva l’aliquota d’obbligo per le aziende in stato di difficoltà, risulta essere praticato in maniera assai spregiudicata. Questo elemento indica come il collocamento al lavoro delle persone con disabilità sia vissuto come norma da evadere, come uno dei tanti “lacciuoli” che impediscono il pieno sviluppo economico dell’azienda. Non vi sarebbe la necessità di tale operazione se il lavoratore disabile non fosse ritenuto improduttivo ed il suo collocamento una politica assistenziale.
Nella citata relazione al Parlamento risulta essere poste sotto sanzione (artt. 15-17, della l. n. 68/99) un numero irrisorio di aziende, dimostrando la scarsa efficacia dei controlli pubblici, che a nostro giudizio non può essere ascritta esclusivamente alle carenze di organico e di competenza: fin troppo spesso negli stessi operatori degli ispettorati del lavoro alberga il pregiudizio che genera superficialità e lassismo nella valutazione documentale delle inadempienze.

Le buone prassi che si sono consolidate nel nostro Paese, risiedono nei servizi di inserimento lavorativo (denominati Sil, Sild, Silus, Sal etc.) collocati all’interno del distretto sociosanitario territoriale e posti in relazione funzionale, istituzionalizzata o meno, ai centri per l’impiego. In sintesi, le competenze psicosociali del servizio sociosanitario si integrano con quelle di promozione dell’occupazione e della mediazione lavorativa istituzionalmente preposta, costituendo l’embrione del progetto di inserimento professionale da offrire all’azienda. I professionisti del servizio affrontano le caratteristiche che causano le difficoltà di inserimento, l’eventuale attribuzione di mansioni di minor prestigio, la relazionalità limitata o condizionata perché paternalistica e infantilizzante, l’intolleranza per i ritmi di lavoro e eventuali soluzioni di sostegno o di accompagnamento.

Da questo punto di vista la citata relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della l. n. 68/99, registra importanti e decisivi incrementi sul piano quantitativo anche nei territori del Sud Italia. Nei fatti, l’efficacia dei servizi all’impiego e i supporti al collocamento mirato restano differenti in termini di percentuale e di avviamenti andati a buon fine. Restano elevati (circa il 90%) gli inserimenti per chiamata nominativa che conferma la validità dell’approccio dei servizi del collocamento mirato perché risulta più proficuo in quanto l’azienda, sulla base di un progetto di inserimento personalizzato, ha la possibilità di scegliere la persona più adatta alle mansioni previste.

Sotto l’aspetto qualitativo continuano ad annotarsi discrepanze di procedure e linguaggi che variano enormemente di zona in zona. Molti servizi per l’impiego, in prevalenza al Sud, svolgono compiti meramente burocratici con errori paradossali (es. indicare mansioni manuali ad una persona con spasticità). Il primo segnale della qualità espressa in questi casi è nell’inaccessibilità degli uffici che ospitano i servizi per l’impiego. In questo quadro, l’alto numero di avviamenti per chiamata nominativa rileva anche il rischio di inserire la persona “meno disabile”, escludendo i più gravi o le persone con disabilità intellettiva, ovvero le persone a maggior rischio di esclusione. Questo produce inoltre una difficoltà di molte regioni nello spendere le risorse disponibili. Il legislatore ha istituito le convenzioni di cui all’art. 11 della l. n. 68/99 come strumento efficace proprio per queste tipologie di disabilità ed ha assegnato risorse a questo scopo. La mancanza di servizi di mediazione del centri per l’impiego (cioè comitati tecnici adeguatamente professionalizzati capaci di favorire l’avvicinamento tra domanda ed offerta di lavoro) non consente di utilizzare soprattutto nel sud Italia le risorse finanziarie della legge.

Un nodo delle pratiche discriminatorie emerge dallo spostamento in mansioni residuali, dall’invisibilità nella programmazione e valutazione del lavoro, che si trasforma in pesante visibilità al momento di valutare le assenze (per cura, per riabilitazione) o la limitazione nell’autonomia e nella capacità di sostenere i ritmi degli altri. Tutto ciò comporta inevitabile maggiore precarietà nella conservazione del rapporto di lavoro. Una nuova pratica di importazione europea, il disability manager, è fattore di interessanti risultati su questo terreno, tanto da meritare attenzione nell’evoluzione normativa possibile e nelle politiche attive, al pari dei servizi di inserimento lavorativo territoriali che possano garantire l’eguaglianza delle opportunità nell’accesso al lavoro.

Quanto a norme che provocano chiare discriminazioni, l’art. 14 del d.lgs. n. 276/03 (abrogato con l. n. 247/2007 e nuovamente in vigore ai sensi del combinato disposto del comma 10, lett. m, e comma 11, dell’art. 39 del d.l. n. 112/2008) richiama la mercificazione della persona, nel senso che l'azienda – senza verificare le reali capacità lavorative del lavoratore con disabilità – si libera del lavoratore affidandolo alla cooperativa, toglie la libertà di lavorare in un'impresa qualsiasi alla pari con altri dipendenti, e restituisce un approccio segregante e paternalistico solidarista all’occupazione del lavoratore disabile che rievoca l’improduttività e l’inabilità. A fronte di una norma, la l. n. 30, centrata sull’anagrafe delle competenze anziché la composizione di graduatorie fondate sull’anzianità di iscrizione e sullo svantaggio socio-economico, si è inserito un elemento distorsivo per le sole persone con disabilità. Un duro colpo al quadro delle politiche europee e, nonostante gli sforzi del Ministero del Lavoro, un fallimento applicativo perché introduce una sorta di nuova tassa per le imprese, priva di evidenti vantaggi, se non il ricorso all’elusione della l. n. 68/99. Una recente ricerca sulle cooperative sociali di tipo b), realizzata dal progetto Equal “Albergo via dei matti numero zero”, ha fatto emergere che attualmente questa tipologia di impresa è in crisi, e l’idea di applicare l’art. 14 del d.lgs. n. 276/03 risulta praticamente impraticabile. Va segnalato a tal proposito che l’indicazione emersa dalla stessa ricerca per sostenere le cooperative sociali di tipo b) dovrebbe basarsi su sostegni diversi, valorizzando le capacità di impresa (crediti agevolati, sostegni alla progettualità, qualificazione ed aggiornamento dei lavoratori, etc.). Senza contare che in sede di applicazione dello stesso l’art. 14 del d.lgs. n. 276/03 si corre il rischio che il lavoratore possa ritenersi a ragione discriminato e ricorrere al d.lgs. n. 216/03, avviando un contenzioso oneroso.

L'attuale normativa per i pubblici concorsi, richiede che gli aspiranti alle procedure concorsuali debbano essere in possesso del diploma di licenza media. Alcuni alunni con disabilità non conseguono apprendimenti formalizzati richiesti da una visione tradizionale dell'esame di licenza media, pur acquisendo informazioni ed apprendimenti empirici che consentono loro di inserirsi positivamente nel mondo del lavoro. In tale situazione diviene necessaria una disposizione di legge che precisi l'ammissibilità ai pubblici concorsi di grado meno elevato per i disabili in possesso dell'attestato di adempiuto obbligo scolastico, con la certificazione dei crediti formativi acquisiti.

Inoltre lo stesso problema si pone per l'accesso ai corsi di formazione professionale. Infatti sia l'accordo Stato-Regioni per l'adempimento dell'obbligo scolastico nella scuola superiore tramite corsi di formazione professionale, sia tutte le intese Ministero dell'istruzione-regioni, in applicazione dello stesso, richiedono, come condizione di ammissibilità ai corsi, il possesso del diploma di licenza media. Anche qui occorre una norma, forse amministrativa o negoziale, che stabilisca essere sufficiente il possesso dell'attestato di adempiuto obbligo scolastico con la certificazione dei crediti formativi maturati, al fine dell'ammissione ai corsi di formazione professionale. Una norma simile esiste già per l'ammissione alle scuole superiori ed è contenuta nell'art. 14, comma 5, dell'Ordinanza del Ministero dell'istruzione n. 90 del 2001. Se, il MIUR ritiene valido l'attestato per l'accesso alle scuole superiori, onde garantire le pari opportunità agli alunni con disabilità, perché la formazione professionale deve essere ancora più intransigente con palese violazione del diritto alla formazione e conseguentemente al lavoro?

Un’ultima questione riguarda le risorse per il collocamento mirato. Il Fondo, di cui al comma 4, art. 13 della l. n. 68/99, mira a sovvenzionare le iniziative di sostegno dei percorsi di inserimento lavorativo delle persone con disabilità. La ripartizione tra le Regioni tiene conto dell'effettiva attuazione delle iniziative regionali in materia d'inserimento dei lavoratori disabili e dei risultati concretamente conseguiti. Alcune Regioni non sono destinatarie di finanziamenti perché le risorse assegnate nelle precedenti annualità non sono ancora state programmate. Le persone con disabilità in quei territori subiscono una beffa oltre alla ordinaria discriminazione: non hanno servizi né amministrazioni pubbliche in grado di programmarli, e per questa regione vengono penalizzati non essendo destinatari della ripartizione per l’anno successivo. Si fa presente che il fondo in questione è istituito al fine di sostenere gli avviamenti delle persone con disabilità in situazione di gravità attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali per 5 anni. Il gap si divarica tra nord e sud, allontanando l’inserimento delle persone con disabilità più grave.


Proposte

Lo spirito della legge è la costruzione di un percorso formativo mirato il cui sbocco è un inserimento guidato e ottimale tra il superamento o l’attenuazione della disabilità e la valorizzazione delle capacità e le potenzialità. Occorrono operatori e tecnici con una seria professionalità per una obiettiva valutazione della disabilità e in grado di enfatizzare le potenzialità. Occorre quindi un piano di azione nazionale concertato tra Ministero del Lavoro, Conferenza dei Presidenti delle Regioni, Upi ed associazioni con l’obiettivo di:

1. perimetrare le attività dei servizi definendoli come livello essenziale di prestazione di competenza rispettivamente sanitaria, sociale e lavorativa, affinché possano divenire un diritto esigibile per la persona con disabilità e un’opportunità per il datore di lavoro;
2. adottare una o più metodologie di monitoraggio delle tendenze nella gestione delle pari opportunità per i lavoratori disabili, a partire dall’adozione del disability manager;
3. costruire procedure condivise ed utilizzate omogeneamente sul territorio nazionale a partire dai servizi informativi Ict, attraverso l’utilizzo dell’Icf, la classificazione delle disabilità emanata nel 2003 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità;
4. identificazione di un'unica agenzia nazionale in grado di coordinare le politiche su un piano tecnico e tecnologico, un motore di ricerca in grado di offrire competente formazione e consulenza tecnica;
5. una campagna di informazione e sensibilizzazione nazionale diretta ai datori di lavoro, ai direttori delle risorse umane, ai consulenti del lavoro, ed ai rappresentanti delle Rsu;
6. una particolare attenzione va prestata alle donne con disabilità, incentivandone l’occupazione con particolari misure di sostegno e tenendone conto, con politiche di mainstreaming, all’interno delle iniziative di sostegno all’occupazione al femminile, a partire dal d.d.l. C4742 a firma dell’on. Cordoni ed altri che giace presso l’XI Commissione Lavoro della Camera dall’11 settembre 2004.

La pressoché totale assenza di politiche nazionali in materia, non deve però costituire un alibi per le parti sociali, che non devono mai perdere di vista le relazioni industriali nazionali, locali e aziendali. Si tratta di un’opera su più dimensioni su cui devono convergere risorse di differente natura e che deve presupporre non solo un clima di sereno dialogo sociale, ma anche un forte rapporto con le organizzazioni della società civile prevedendo una partecipazione istituzionale delle associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari.

È necessario quindi rilanciare le dinamiche nel mondo del lavoro. Soprattutto il ruolo della contrattazione collettiva ai diversi livelli (anche rivedendo le forme di rappresentanza dei lavoratori disabili) e l'azione concertativa per politiche adeguate a sostenere il percorso lavorativo della persona disabile e ad incentivare gli impegni delle realtà aziendali tesi a riorganizzarsi per accogliere lavoratori con esigenze diverse.

La legge di riferimento, la n. 68 del 99, a distanza di quasi dieci anni dall’approvazione si prova lungimirante ed avanzata in molti suoi passaggi, nonostante l’opera di graduale svuotamento della sua valenza politica e culturale: non solo inadempienza amministrativa, ma strategica tolleranza dell’elusione fino all’adozione di provvedimenti persino inattuabili che deviano l’attenzione amplificando l’intenzione elusiva dello spirito della norma.

Vi è la necessità di affrontare alcuni nodi della stessa l. n. 68/99 rispetto a procedure, liste del collocamento, Fondo e servizi, a partire dalla necessaria revisione originata dall’innovativo approccio della direttiva 78/00.

1. Per quanto attiene ai certificati di ottemperanza o di richiesta di esoneri, riteniamo obbligatorio identificare con estrema chiarezza, anche attraverso modifiche normative, la responsabilità della funzione del controllo dell’azienda partecipante ad un appalto pubblico (art. 17) e di quelle che, pur avendo fatto domanda di esonero parziale e non avendolo ancora ottenuto, hanno o meno provveduto all’assunzione dei lavoratori disabili.

2. Per la costituzione delle liste di collocamento mirato, sarebbe poi utile aggredire il tema delle persone con disabilità che sono costrette ad iscriversi unicamente al fine di percepire le forme previdenziali di carattere assistenziali. Le persone con gravissime disabilità nei fatti non hanno le potenzialità per garantire produttività nelle mansioni lavorative. Ovviamente la loro iscrizione alle liste contribuisce solo all’ingrossamento del numero statistico dei disabili disoccupati.

3. Le caratteristiche della ripartizione del Fondo (comma 4, art. 13 della l. n. 68/99) vanno rimodulate affinché si contempli contestualmente il principio di salvaguardia degli interessi dei soggetti doppiamente svantaggiati perché risiedono in aree con maggiore carenza di servizi, e l’effetto premiante della capacità di investimento del singolo territorio. Ciò detto vanno riservate quote del Fondo, possibilmente incrementato, destinate a sostenere lo sforzo dell’agenzia nazionale per il coordinamento delle politiche per l’impiego delle persone con disabilità (vedi sopra), prioritariamente da effettuarsi in aree di svantaggio sociale.

4. In accordo con la Conferenza unificata, inserire i principi dei livelli essenziali di prestazione della materia giuslavoristica come sopra descritto per garantire adeguati livelli qualiquantitativi di servizi per l’inserimento mirato.

A completamento dell’analisi e delle proposte, si ritiene inderogabile prendere in esame l’area dell’autoimprenditorialità delle persone con disabilità, ovvero la cooperazione sociale di tipo B, evitando di trasferire nelle categorie dell’obbligo, con un’operazione forzosa e fallimentare, ciò che invece attiene ad una mera opzione personale o, al limite, familiare. È indubbio che i principi che danno vita alla cooperazione sociale, possano rappresentare un luogo più affine per la flessibilità del ciclo produttivo in termini di accoglienza delle criticità delle disabilità, specie le più gravi. Le norme di settore nazionali, infatti, suggellano l’atipicità imprenditoriale garantendo fiscalizzazione degli oneri sociali dei soci-lavoratori svantaggiati, priorità nelle commesse pubbliche, e nella progettualità europea. Allo stesso tempo provvedimenti locali, hanno tentato di sostenere la debole iniziativa imprenditoriale. Secondo recenti studi, realizzati da Confcooperative, Legacoop, e specifiche progettualità Equal, la fragilità dimora in vari fattori intrecciati fra loro: la debolezza dei soggetti che sfocia solo nella capacità produttiva di beni e servizi a basso costo ed altrettanta bassa redditività (ad es. produzione di ceramiche e manutenzione del verde pubblico), la conseguente mancanza di investimenti per l’attrazione di risorse umane portatrici di innovazione imprenditoriale e di know-how tecnici e tecnologici, e l’atavica impossibilità di accedere a forme creditizie dignitose per poter creare i piani finanziari necessari. In presenza delle criticità brevemente esposte, si rende necessario uno specifico piano di sostegno all’autimprenditorialità non casuale né forzoso. Anche se parzialmente, di tali esigenze si è fatto interprete il solo d.d.l. 3060 a firma dei senatori Specchia, Bonatesta ed altri, che giace dal 6 agosto 2004 alla X Commissione. È assiomatico che solo attraverso un’ampia discussione nel Paese di politiche di incentivazione dell’autoimprenditorialità centrate sul dibattimento Parlamentare di un provvedimento legislativo, si potrà ambire a sostenere la cooperazione sociale facendo emergere le concrete esigenze di realtà produttive, non già tentazioni discriminatorie basate sul pregiudizio.


4. Lavoro e Sclerosi Multipla
di Mario Alberto Battaglia – presidente F.I.S.M.

La sclerosi multipla (SM) accompagna l’esistenza di 54mila persone in Italia, 450mila in Europa, tre milioni nel mondo. La causa o meglio le cause sono ancora in parte sconosciute, tuttavia la ricerca ha fatto grandi passi avanti, permettendo così di arrivare ad una diagnosi e a un trattamento precoce che consentono alle persone con SM di mantenere una buona qualità di vita per molti anni.

Molte persone con SM affrontano, oltre alle difficoltà comuni alla generalità degli individui (ad esempio perché vivono in situazioni socio-economiche difficili dove il tasso di disoccupazione è elevato) anche atteggiamenti discriminatori dovuti alla diagnosi e posti in essere già nella fase di selezione: sono le donne, i giovani e – in genere – coloro che hanno un basso livello di istruzione, le persone che non riescono a entrare, o rientrare, nel mercato del lavoro. Il caso della sclerosi multipla dimostra che spesso le persone abbandonano il proprio posto di lavoro non per cause legate allo stato di salute. Nel 60% dei casi, infatti, i fattori che spingono il lavoratore disabile alla rinuncia riguardano soprattutto l’ambiente di lavoro e tutta una mancata serie d’interventi – che vanno dall’accessibilità, alla disponibilità di permessi lavorativi, al mancato utilizzo di ausili appropriati – che potrebbero facilmente essere attuati ma spesso non lo sono.

Tra le persone che abbandonano il proprio impiego con maggiore frequenza ci sono soprattutto coloro che lavorano per otto o più ore al giorno, chi deve compiere ampi tragitti casa-lavoro, chi fa “lavori pesanti” dal punto di vista fisico (es. operai, manovali).
Molti fattori possono influenzare negativamente la possibilità di mantenere un’attività lavorativa piena, ma quelli legati ai sintomi non rappresentano un peso superiore al 40%: più frequenti e rilevanti sono gli aspetti legati all’ambiente di lavoro e l’assenza di interventi e “soluzioni ragionevoli”.
Spesso una cattiva conoscenza della patologia fa sì che colleghi e datori di lavoro interpretino male l’affaticamento, scambiandolo per pigrizia. I problemi cognitivi causati talvolta dalla Sclerosi Multipla (in particolare la difficoltà di concentrazione collegata anche alla fatica) possono essere male interpretati dai colleghi e scambiati per problemi psichiatrici, depressione e pigrizia.
È possibile che il datore di lavoro o i colleghi sovrastimino i problemi di mobilità, che possono essere facilmente risolti con un parcheggio più vicino all’ingresso, con un ascensore, con una postazione di lavoro più vicina ai servizi igienici, con qualche pausa in più durante l’orario di lavoro.


Il Numero Verde AISM: un osservatorio importante sulla disabilità.

L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (A.I.S.M.) sostiene, sin dalla sua fondazione, l’approccio interdisciplinare che rende articolata la consulenza “occupazionale” rivolta a persone con disabilità motoria, in modo tale da valutare tutti i fattori (medici, psicologici, sociali, tecnologici e ambientali) che possono avere un’influenza sull’attività di lavoro. Promuove, altresì, il diritto della persona con SM a entrare nel mondo del lavoro e a rimanere attiva in azienda.

Al Numero verde dell’Associazione chiamano diverse tipologie di persone.

1. persone con SM in cerca di occupazione:

- giovani in cerca di prima occupazione: il numero di persone che riescono a raggiungere elevati livelli di istruzione (diploma di laurea, ma anche corsi di specializzazione e master post-universitari) sta progressivamente aumentando.
Soprattutto chi ha sintomi “invisibili” esprime seri timori sull’opportunità di richiedere l’accertamento dell’invalidità civile, rifiutando così intenzionalmente le eventuali possibilità offerte dall’iscrizione presso gli uffici del collocamento mirato. Essi temono che possa derivarne esclusivamente lo “stigma sociale”.
Altri lamentano difficoltà di inserimento, segnalano realtà in cui le reti informali per la ricerca di lavoro sono deboli e talune situazioni in cui i datori di lavoro si pongono – a priori – dei problemi circa la continuità della futura prestazione d’opera da parte del candidato, senza avere una corretta informazione circa la patologia e le possibilità che offrono i tempi di diagnosi e le terapie attuali.

- giovani che hanno già fatto una o più esperienze di lavoro: lamentano la difficoltà di trovare un rapporto di lavoro “maggiormente stabile” che consenta loro di fare dei progetti per il futuro, al di fuori della famiglia di origine.

- persone fra i 35 e 45 anni che vogliono entrare per la prima volta nel mondo del lavoro.
Molto spesso hanno terminato solo la scuola dell’obbligo e non hanno mai avuto modo di inserirsi nel mondo del lavoro per le ragioni più varie: ad esempio perché vivono in zone dove l’offerta potenziale di lavoro è già di per sé sfavorevole o perché i centri per l’impiego, stentando ad adeguarsi alle novità normative, svolgono ancora un’attività caratterizzata da pratiche clientelari ed ideologie assistenziali.
Essendo, oggi, l’ingresso nel mondo del lavoro sempre più condizionato da un buon livello di formazione, dal possesso di competenze specialistiche, dalla possibilità di trasformarle in relazioni alle mansioni svolte, dalla necessità di accettare proposte lavorative in altre regioni rispetto a quella di residenza (se non in altri Paesi), queste persone rischiano realmente di avere scarse possibilità di inserimento. Alcuni di loro non hanno cercato lavoro intenzionalmente, ragionando in termini di “costo-opportunità”: considerando, cioè, più elevati i disagi (mancanza di trasporti pubblici accessibili; lontananza dalla famiglia e dal proprio medico specialista) rispetto ad una possibilità di integrazione del reddito e di realizzazione di una vita autonoma.
In questi casi, quando viene meno l’aiuto da parte dei genitori e della famiglia, si vengono a creare situazioni economiche gravissime, ai limiti della sopravvivenza, che rendono necessario l’intervento dei servizi sociali.

- persone che cercano nuova occupazione dopo aver perso il precedente impiego a causa dell’impossibilità di reinserimento nella stessa azienda.
Le piccole dimensioni di molte aziende italiane e la loro tipologia di attività costringono necessariamente, in determinati casi, alla risoluzione del rapporto di lavoro. Si pensi, ad esempio, ad una donna con SM che lavora come operaia in una piccola impresa artigiana di soli tre dipendenti, tutti impegnati nella creazione di oggetti in pelle: in questo caso il deficit funzionale o i disturbi visivi, piuttosto che la fatica, possono costringerla all’abbandono del posto di lavoro, vista l’impossibilità oggettiva di un mutamento di mansioni all’interno della stessa impresa.

Le segnalazioni che pervengono da queste persone riguardano in prevalenza:

la l. n. 68/99 e più specificatamente la presenza di servizi per l'impiego che svolgono ancora oggi compiti meramente burocratici; l’elevato numero di esoneri ex art. 5; la scarsa efficacia dei controlli pubblici sulle inadempienze agli obblighi di legge; le sanzioni, previste dalla normativa in oggetto, considerate “irrisorie”;

le numerose situazioni di discriminazione: nell’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale; nell’accesso al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione.

2. persone con SM che lavorano come dipendenti o autonomi, liberi professionisti.

Fra le molteplici ragioni che ostacolano la conservazione del posto di lavoro, essi indicano:

• la disinformazione e la non applicazione della normativa vigente;
• l’insufficienza, e talvolta l’assoluta assenza, di interventi di formazione specializzata e di riqualificazione adeguata;
• lo scarso utilizzo del lavoro domiciliare e del telelavoro, anche nei casi in cui il tipo di mansioni lo consentirebbe agevolmente;
• l’assenza di orari di lavoro flessibili;
• la difficoltà nell’individuare mansioni più idonee all’interno dell’azienda a seguito della visita di idoneità (d.lgs. n. 81/2008 e normativa speciale);
• il superamento del periodo di comporto per malattia a causa dell’assenza di disposizioni di miglior favore nella contrattazione collettiva di settore;
• casi di discriminazione nel mantenimento dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera (per il fatto, ad esempio, che si utilizzano i permessi della l. n. 104/1992 e le altre agevolazioni previste dalla vigente normativa a tutela della disabilità), la retribuzione (premi di produttività legati alla presenza a lavoro e non agli obiettivi raggiunti) e le condizioni per il licenziamento;
• l’assenza di aiuti concreti per consentire a liberi professionisti e piccoli imprenditori di proseguire l’attività lavorativa nei periodi più difficili della malattia (non solo non riescono a produrre reddito, ma sono costretti a licenziare i propri dipendenti).
• il mancato utilizzo di ausili e la non applicazione della normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro: non tanto perché ne viene sottovalutata l’importanza come azione positiva, quanto per il timore (spesso fondato, visti gli stanziamenti specifici) dei datori di lavoro di dover sostenere spese ingenti in assenza di un sostegno finanziario o altri incentivi concreti;
• per le donne, la mancata attuazione di programmi di riorganizzazione aziendale che diano loro la possibilità di conciliare lavoro, famiglia e malattia.
• l’inadeguatezza dell’assistenza (da parte sindacale) e della tutela (da parte dei tecnici del diritto) nei casi di discriminazione e di mobbing;
• la mancanza di una persona competente che possa svolgere una concreta attività di mediazione tra lavoratori e azienda e che individui le cd. soluzioni ragionevoli per il mantenimento del posto di lavoro (es. disability manager).
• i trasporti pubblici inesistenti o inaccessibili.

3. Familiari di persone con SM

La conciliazione dei tempi di lavoro e di cura, quando sussistono situazioni di disabilità, è una delle sfide più complesse, in considerazione degli attuali mutamenti sociali, culturali ed economici, che chiamano in causa il sistema del welfare pubblico, i servizi, la flessibilità del lavoro.
La presa in carico dell’assistenza a persone con disabilità è un fenomeno socialmente rilevante, che riguarda sostanzialmente i familiari e soprattutto le donne.
In Italia, le disposizioni che prevedono agevolazioni per coloro che prestano assistenza sono diverse, pubblicate in anni successivi, con terminologia che spesso crea non pochi problemi interpretativi ed applicativi. Le circolari emesse dagli enti previdenziali per fornire indicazioni operative determinano ulteriori incertezze e difficoltà pratiche costantemente presentate agli operatori del Numero verde.
Fra gli aspetti di maggiore rilievo va annoverata l’esclusione di ogni diritto per le persone che convivono “more uxorio” prestando assistenza a persona con handicap in situazione di gravità. Inoltre, non vi è ancora alcuna disposizione normativa che prende in considerazione l’ipotesi di offrire forme di prepensionamento per le situazioni più complesse di assistenza continuativa a familiari con handicap grave.


Sclerosi multipla e diritto al lavoro: istanze rivolte alle istituzioni

L’Associazione italiana sclerosi multipla ha dedicato alla Settimana nazionale di sensibilizzazione sulla sclerosi multipla del 2006 il tema del lavoro e ha inviato alle Istituzioni il Libro Bianco “Disabilità e Lavoro”, insieme alla “Carta dei diritti su occupazione e pari opportunità per le persone con disabilità” (elaborata con la FISH).
Sul fronte delle richieste avanzate si pone in evidenza (oltre a quanto già segnalato dalla FISH) la necessità di chiarire i profili interpretativi della l. n . 104/1992.
Spesso i lavoratori con SM si trovano a dover sostenere controlli periodici, terapie mediche (come per l’interferone, a giorni alterni) e riabilitative, con modalità e tempistiche tali da avere la necessità di una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro oppure di poter fruire di giornate di permesso retribuito (ex art. 33 della l. n. 104/1992).
Dalle numerose segnalazioni pervenute negli anni al Numero Verde sono emerse le difficoltà di ottenere il riconoscimento della situazione di handicap grave che hanno reso necessaria la realizzazione del progetto “Linee guida per la valutazione medico-legale della SM”: le valutazioni effettuate dalle commissioni mediche, relative al riconoscimento delle minorazioni civili, prestano poca attenzione alle peculiarità della SM e le sue ripercussioni sulla qualità di vita della persona che riceve la diagnosi. Risulta pertanto molto difficile per le persone, soprattutto per coloro che soffrono di sintomi “invisibili” (ad esempio la fatica) ottenere lo stato di handicap grave.
Tale progetto si è sviluppato in due direzioni: da una parte, verso un coinvolgimento delle commissioni medico-legali ASL, per mettere a punto una adeguata formazione sulla malattia; dall’altra, verso i Neurologi dei Centri Clinici, per contribuire a rendere le loro modalità di certificazione più adeguate rispetto al tipo di accertamento che le persone richiedono (è seguita la predisposizione di un prototipo di certificazione quale strumento per assicurare la corretta e completa certificazione delle condizioni della persona).

Fra le altre richieste avanzate nel Libro Bianco vanno ricordate tanto l’introduzione di una disciplina normativa in tema di part-time analoga a quella vigente per i malati oncologi e per i loro familiari, quanto il rilancio del ruolo della contrattazione collettiva, anche rivedendo le forme di rappresentanza dei lavorati con disabilità, per arrivare a introdurre nei contratti collettivi clausole che predispongano:
- nel caso di patologie invalidanti, il prolungamento del periodo di comporto della malattia
- la sottrazione, dal conteggio dei giorni di assenza previsti nel comporto per malattia, delle giornate di ricovero e di quelle utilizzati per terapie salvavita.
- la valutazione di talune esperienze straniere come “il lavoro a sistemazione flessibile”, da ripensare e contestualizzare rispetto alla realtà italiana.

La particolarità di quest’ultimo modello sta nel fatto che, nonostante le ridotte capacità lavorative, malgrado ritmi di lavoro più lenti, orari di lavoro ridotto, permessi di riposo temporaneo durante la giornata, il datore di lavoro paga lo stipendio pieno alla persona. Quest’ultima ottiene infatti che una quota parte del salario sia erogata dall’ente pubblico, incentivando in questo modo l’occupazione della persona disabile e riducendo l’onere pensionistico.
Questo modello, applicato con successo in Danimarca, ridurrebbe sostanzialmente i costi sociali della malattia, ma soprattutto contribuirebbe, in linea con i principi ispiratori internazionali e normativi nazionali, a una piena inclusione della persona nella società.


L’Associazione Italiana Sclerosi Multipla

Pensare ad un soggetto cui sia stata diagnosticata la sclerosi multipla come una “persona” e non come a un “malato” è fondamentale per il riconoscimento dei diritti civili universali: diritto alla salute e alle cure mediche, il diritto allo studio e al lavoro, il diritto all’accessibilità senza barriere ecc.
Nel Piano strategico dell’Associazione (per il periodo 2008-2013), quale obiettivo nell’ambito della è stato avviato un programma che si prefigge di:
- individuare le lacune tra il livello formale di riconoscimento dei diritti ed il livello sostanziale di attuazione degli stessi su tutto il territorio;
- promuovere una cultura dei diritti presso le persone con SM, la comunità, le istituzioni, per una accresciuta inclusione sociale e un incrementato del livello di diritti riconosciuti come esigibili ed effettivamente attuati;
- progettare ed eseguire azioni specifiche sul lavoro e sui piani sanitari e sociali.

Per tali ragioni è prevista l’istituzione dell’Osservatorio AISM – dei diritti e dei servizi – in cui confluiranno le diverse attività di raccolta, analisi dei dati e formulazione di proposte su tutti i temi della vita delle persone con disabilità e dei loro familiari. Tale fase è propedeutica rispetto alla formulazione di proposte su normative e prassi, presa in carico di casi pilota, l’attivazione di sportelli giuridici, avvio e/o avanzamento di progetti specifici.

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5. Il lavoro come precondizione di inclusione sociale nell’ambito dei diritti umani
di Silvia Bruzzone, Avvocato in Genova, Consulente legale A.I.S.M. e collaboratore FISH

1. Il rispetto dei diritti umani nell’ambito della strategia europea.

Più volte e da più parti, soprattutto nell’ultimo decennio, è stata sottolineata la necessità di affrontare la questione dell’accesso ai diritti sociali attraverso una strategia integrata in grado di offrire una garanzia di riduzione reale delle forme di discriminazione e di disuguaglianza sociale anche per le persone con disabilità: più misure associate che si completino e si rafforzino vicendevolmente nei settori dell’occupazione, dell’educazione, della sanità, della previdenza sociale, ecc. (si veda, ad esempio, il rapporto sull’“Accesso ai diritti sociali in Europa”, presentato alla Conferenza di Malta nel 2002).
Il rispetto dei diritti umani e l’accesso ai diritti economici e sociali sono i due presupposti indispensabili per lo sviluppo, la coesione sociale, la non discriminazione, le pari opportunità. Un mercato del lavoro inclusivo, in particolare, è considerato una precondizione di inclusione sociale, perché l’occupazione è fonte di reddito e canale di partecipazione attiva alla vita sociale ed economica per tutti (anche per le persone con disabilità e per i loro familiari).
L’inclusività del mercato del lavoro non deve essere una proclamazione di principio/obiettivo da perseguire concretamente solo nel 2010 (proclamato Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale), ma anche negli anni futuri.
Il termine inclusione è richiamato numerose volte nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con la l. n. 18/2009 anche dal nostro Paese. Essa comprende gli aspetti della parità di accesso ad un’istruzione di qualità e all’apprendimento permanente, il lavoro, la vita autonoma e la piena partecipazione alla vita sociale: la fruizione concreta di tutti questi diritti è l’obiettivo principale della strategia a lungo termine promossa dall'Unione europea per l’inserimento attivo.
Tale documento rappresenta senz'altro un'eccellente opportunità culturale e politica per dare nuovo impulso all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità, favorendone l'autonomia e l'indipendenza. Sono necessarie, tuttavia, grandi trasformazioni culturali, sociali, politiche e tecniche: dall'approccio basato sulle politiche dell’assistenza e della sanità si deve passare a rivendicare politiche inclusive che considerino il modello sociale della disabilità basato sul rispetto dei diritti umani.
Il principio base appare semplice: la condizione di disabilità non deriva da qualità soggettive delle persone, bensì dalla relazione tra le caratteristiche delle persone e le modalità attraverso le quali la società organizza l’accesso ed il godimento di diritti, beni e servizi. La disabilità è definita come “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri” (preambolo, punto e).

Da tempo la strategia dell’Unione europea in tema di disabilità si basa su specifici pilastri fra cui:

1. la legislazione e le iniziative per combattere la discriminazione, che garantiscono i diritti individuali;
2. l’eliminazione degli ostacoli di natura ambientale che impediscono alle persone con disabilità di sfruttare le loro capacità;
3. la considerazione dell’aspetto della disabilità in tutte le politiche comunitarie che promuovono l’inclusione attiva delle persone con disabilità.

Nel Piano d’azione europeo per il biennio 2008 – 2009 era stato individuato l’obiettivo prioritario dell’accessibilità, ai fini dell’inclusione attiva e dell’accesso ai diritti. In effetti “la disponibilità di beni, servizi e infrastrutture accessibili e l'eliminazione di ostacoli all'istruzione e al mercato del lavoro sono indispensabili per consentire alle persone con disabilità – in una società che invecchia – di partecipare, in forma non discriminatoria e inclusiva, ai molteplici aspetti della vita quotidiana [cfr. Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, La situazione dei disabili nell’Unione europea: il piano d’azione europeo 2008-2009, Bruxelles, 26.11.2007, COM(2007) 738 definitivo].
A giudizio della Commissione europea “migliorare l’accessibilità al mercato del lavoro” significa essenzialmente agire sui diversi versanti, fra cui:
a. adottare strategie che associno programmi di occupazione flessibili, occupazione assistita, inclusione attiva e misure positive, in un quadro che completi la legislazione europea vigente in materia di lotta contro la discriminazione.
b. assumere come punto di riferimento l’approccio della flexicurity per consentire alle persone con disabilità di trovare e conservare più facilmente un impiego: attraverso modalità contrattuali flessibili e affidabili, formule di lavoro temporaneo o a tempo parziale, strategie integrate di apprendimento lungo tutto l'arco della vita e moderni sistemi di sicurezza sociale che garantiscono un adeguato supporto al reddito durante i periodi di disoccupazione.”

La Commissione europea è impegnata per raccogliere ed analizzare esempi di buone prassi: occupandosi delle misure per favorire la partecipazione ed evitare il ritiro anticipato dal mondo del lavoro; valutando le possibilità di riforma dei sistemi di compensazione finanziaria come fonti alternative di reddito; operando con la rete europea dei direttori dei servizi pubblici per l’impiego e semplificando le norme relative agli aiuti di Stato.
Fra gli altri ambiti strategici che rientrano nell’ambito di esame della Commissione per il biennio considerato, e che sono indirettamente connessi anche all’accessibilità al mercato del lavoro, vanno ricordati:
- lo sviluppo dell’accessibilità a beni, servizi e infrastrutture;
- il rafforzamento della capacità di analisi della Commissione per promuovere l’accessibilità;
- la necessità di favorire la messa in atto della Convenzione delle Nazioni Unite e di completare il quadro legislativo comunitario per la lotta contro la discriminazione.

2. La situazione in Italia.

In base alle stime ISTAT ottenute dall’indagine sulla salute e il ricorso ai servizi sanitari, emerge che in Italia le persone con disabilità sono 2 milioni 609 mila, pari al 4,8% circa della popolazione di età superiore ai 6 anni (cfr. Le condizioni di salute della popolazione. Indagine multiscopo sulle famiglie. “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”, riferibili agli anni 1999-2000). Tale dato si basa sul criterio per cui vengono considerate persone con disabilità unicamente quelle che nel corso dell'intervista hanno riferito una totale mancanza di autonomia per almeno una funzione essenziale della vita quotidiana e non considera le persone che – pur soffrendo di una qualche forma di disabilità mentale – sono in grado di svolgere tali attività. In realtà le persone con disabilità sarebbero circa 6 milioni e 600, pari al 12% della popolazione di età superiore ai 6 anni.
Nella V Relazione sullo stato di attuazione della l. n. 68/1999 relativa agli anni 2008 e 2009, il primo e più evidente fenomeno registrato è la retrazione occupazionale derivata dalla crisi economica internazionale iniziata proprio nel periodo analizzato. I consistenti effetti sul mercato del lavoro hanno attirato maggiori attenzioni e risorse su ammortizzatori sociali a favore delle migliaia di persone rimaste senza lavoro o “in mobilità”.
Contemporaneamente questo fenomeno congiunturale ha colpito maggiormente proprio le persone con disabilità che la l. n. 68/1999 intendeva agevolare garantendo una percentuale obbligatoria di assunzioni. La decisa contrazione dei tassi di occupazione e dei nuovi posti di lavoro non poteva che riverberarsi altrettanto negativamente, nonostante l’efficienza e l’efficacia dei servizi per l’impiego siano, secondo la Relazione, migliorate nel periodo in esame.
Su questo e, più in generale, su tutti gli altri aspetti relativi all’occupazione delle persone con disabilità, alle politiche e ai relativi servizi, la Relazione rileva ancora una «profonda demarcazione geografica». Quasi superfluo specificare che il disagio maggiore si rileva al Sud.

[2008: 721.827 disabili iscritti alle liste speciali di collocamento
2009: 706.568 disabili iscritti alle liste speciali di collocamento]
[Il 60% degli iscritti alle liste è al Sud e nelle Isole]

Gli iscritti alle liste
Le liste di collocamento previste dalla l. n. 68/1999 riguardano le persone con disabilità e, in misura molto più limitata, quei soggetti indicati dall’articolo 18 della stessa norma (orfani e coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, ovvero in conseguenza dell’aggravarsi dell’invalidità riportata per tali cause, nonché i coniugi ed i figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di guerra, di servizio e di lavoro ed i profughi italiani rimpatriati).
La formale iscrizione alle liste di collocamento era condizione essenziale per poter ottenere l’assegno mensile di assistenza riservato agli invalidi civili parziali. Recenti modifiche legislative consentono di dimostrare l’inoccupazione con un’autocertificazione che dichiari il non svolgimento di attività lavorativa. Questa “semplificazione” ha ridotto, pur marginalmente, il numero degli iscritti alle liste “speciali”.
Le liste sono mantenute, come noto, presso gli Uffici provinciali competenti. Il dato relativo al 2008 è di 721.827 disabili iscritti, dato che scende al 706.568 nel 2009. Una contrazione significativa di oltre 15.000 unità.
Anche in questo caso, i dati territoriali dimostrano una fortissima differenza: gli iscritti alle liste al Sud e nelle Isole rappresentano il 60% del totale. Un dato consolidato da anni.

[Assunzioni nel 2008: 28.306 persone
Assunzioni nel 2009: 20.830 persone]
[2008: 7.132 risoluzioni di rapporto di lavoro
2009: 4.403 risoluzioni di rapporto di lavoro]
[In 135 Centri per l’impiego ci sono barriere architettoniche]

Le assunzioni
La crisi iniziata nella seconda metà del 2008 si è fatta sentire sensibilmente: il numero delle assunzioni da 28.306 nel 2008 è sceso a 20.830 nel 2009. Si tratta del dato più basso dal 2000.
Il dato è fortemente preoccupante anche perché verosimilmente sarà confermato per il 2010 e il 2011.
Inoltre, per una corretta interpretazione di questo segmento di mercato del lavoro, vanno tenute in considerazione anche le risoluzioni dei contratti. In questi casi la Relazione ammette di disporre di dati incompleti non essendo stati rilevati o trasmessi da tutte le Province.
Ma, anche se frammentarie, le informazioni che si ricavano dalla Relazione sono piuttosto inquietanti. Nel 2008 ci sono state 7.132 risoluzioni di rapporto di lavoro (part-time, full-time, apprendistato, tempo determinato e indeterminato), mentre nel 2009 le chiusure dei rapporti di lavoro sono state 4.403 che sono, comunque, proporzionalmente molte.
Dalla Relazione, indirettamente, emerge un altro elemento circa il ruolo effettivamente svolto dagli Uffici competenti delle Province che, lo ricordiamo, dovrebbe essere principalmente quello di mediazione, di promozione attiva degli inserimenti, di supporto alle aziende e al singolo. Al contrario risulta ancora troppo elevato il numero di Province che si limitano a raccogliere dati su domanda e offerta di lavoro unicamente in funzione di archivio (soprattutto nel Sud). Altrettanto ingiustificato è il numero (135) di Centri per l’impiego che dichiarano la presenza di barriere architettoniche considerando, peraltro, solo gli ostacoli alle disabilità di tipo motorio (il 66,7% sono nel Sud).

[2009: il numero di posti totali riservati non occupati da disabili erano oltre 67.000]
[Aziende private 2008: 244.804 posti riservati ai disabili; non occupati 64.866 posti
Aziende private 2009: 209.443 posti riservati ai disabili; non occupati 52.638 posti]
[Aziende pubbliche 2008: 67.456 posti riservati; non occupati 13.344
Aziende pubbliche 2009: 60.717 posti riservati; non occupati 14.886]

Le “scoperture”
La l. n. 69/1999 prevede che i datori di lavoro pubblici e privati siano obbligati ad avere tra i propri dipendenti un certo numero di lavoratori con disabilità.
Il numero varia a seconda della “dimensione” dell’azienda:
- un lavoratore disabile se l’azienda ha un numero di dipendenti che va da 15 a 35;
- due lavoratori disabili se il numero di dipendenti è compreso fra 36 a 50;
- il sette per cento dei lavoratori se i dipendenti sono più di 50.
La norma esclude dal computo del numero dipendenti su cui calcolare la quota di riserva i disabili assunti obbligatoriamente, i lavoratori con contratto di lavoro a tempo determinato di durata non superiore a 9 mesi, i dirigenti, i soci di cooperative di lavoro e i lavoratori part-time.
Altre esclusioni e disposizioni particolari sono previste per i partiti, le organizzazioni sindacali e gli enti non-profit, i corpi di polizia e della difesa.
Infine è prevista l’esenzione dall’obbligo per quanto concerne le aziende che hanno richiesto la Cassa Integrazione, quelle con procedure di mobilità, e quelle che applicano contratti di solidarietà, situazioni queste ultime piuttosto frequenti negli ultimi anni.
Detto questo, la Relazione ci offre i dati del biennio 2008-2009 relativi alle quote di riserva, cioè indica quelli che sarebbero i posti da riservare all’assunzione di persone con disabilità.
Iniziamo dalle aziende private: nel 2008 la quota di riserva, calcolata secondo le modalità che abbiamo appena illustrato, era di 244.804 unità; nel 2009 i posti riservati erano 209.443.
Questi dati sono “ottimistici” poiché ben 11 Province non hanno risposto alla rilevazione.
Di fronte a questi obblighi, nel comparto privato risultavano scoperti 64.866 posti nel 2008 e 52.638 posti nel 2009. Il tasso di “scopertura” è circa del 25%.
Non meno grave, pur proporzionalmente, la scopertura nel comparto pubblico.
Le “aziende” pubbliche con oltre 50 dipendenti sono circa 4.000.
Erano 67.456 i posti riservati nel 2008 che sono scesi a 60.717 nel 2009. Pur essendo diminuiti i posti riservati di quasi 7.000 unità, il numero di scoperture ha seguito il trend inverso: 13.344 posti non coperti nel 2008, 14.886 nel 2009.
Possiamo quindi affermare che nel 2009 il numero di posti riservati ma non occupati da disabili erano oltre 67.000.
E fra i dati negativi vi è anche l’elevato numero di sospensioni temporanee (dall’obbligo di assunzione) autorizzate per il 2009 (pari a 4.261); così come il numero risibile di accertamenti amministrativi effettuati e di sanzioni comminate.
Infine, in un Paese in cui risultano esistere circa 4 milioni e trecentomila piccole aziende, non soggette all’obbligo di assunzione ex l. n. 68 (hanno un numero di dipendenti inferiore a 15), occorrerebbe indagare meglio le modalità con cui si è riusciti ad effettuare – nonostante la crisi – 2.174 assunzioni nel 2008 e 1.985 nel 2009. Una risorsa e una buona prassi che sicuramente potrebbe insegnare qualcosa.

[2009: il 49% degli avviamenti con convenzione e il 41,9% con richiesta nominativa]

Come si assume
La l. n. 68/1999, come modificata dal successivo d.lgs. n. 276/2003, prevede varie modalità di assunzione delle persone con disabilità: la chiamata nominativa (l’azienda segnala la persona iscritta che intende assumere), la richiesta numerica (l’azienda chiede agli uffici competenti la segnalazione delle persone da assumere), le convezioni (l’azienda stipula, con forme e contenuti molto diversi, una convenzione con gli Uffici provinciali competenti).
Nel 2008-2009 viene confermato il sorpasso delle convenzioni sulla modalità della richiesta nominativa. Nel 2009 il 49% degli avviamenti avviene per mezzo di convenzione e 41,9% per richiesta nominativa.
Una distinzione merita il ricorso alle diverse tipologie di convenzioni: le convenzioni di programma e di integrazione (art. 11 della l. n. 68), quelle di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formative (artt. 12 e 12-bis) e infine quelle disciplinate dall’art. 14 del d.lgs. n. 276/2003 con il coinvolgimento della cooperazione sociale.
Fra le diverse tipologie risulta quasi esclusivo il ricorso alle convenzioni di programma e di integrazione (art. 11) rispetto alle altre che pure sono state fortemente sospinte da decisi interventi legislativi che appaiono ora piuttosto inefficaci.
La richiesta nominativa si conferma come la seconda modalità più diffusa di avviamento.
Sempre limitata la chiamata numerica: questa è attestata al 9% del totale degli avviamenti, ma rimane una modalità ancora molto usata nelle regioni del Sud.
Va segnalata, per la prima volta negli anni, una prevalenza in termini assoluti delle assunzioni a tempo determinato, che sopravanzano anche se di poco quelle a tempo indeterminato (full-time e part-time insieme).

Dubbi e interrogativi
Restano una serie di dubbi già evidenziati per le precedenti Relazioni. Nel reperimento dei dati attraverso moduli informatici servirebbe raccogliere anche altri dati utili ad evidenziare possibili situazioni di discriminazione multipla e altri dati utili per sviluppare concrete politiche attive del lavoro.
Il titolo di studio è uno dei fattori che influenzano il percorso di ingresso e di permanenza nel mercato del lavoro. Tuttavia in nessuna parte della Relazione sono indicati più dettagliatamente (almeno per indirizzi generali) i titoli di studio conseguiti dalle persone con disabilità iscritte nelle liste del collocamento mirato.
Non vi sono approfondimenti rispetto all’area geografica di appartenenza delle persone stesse, per cui non si comprende in quali aree geografiche le persone riescono a conseguire più elevati livelli di istruzione.
Analogamente non vi sono indicazioni fra il titolo di studio e il tipo di lavoro offerto a chi è stato avviato al lavoro, per cui non si riesce a comprendere quante persone sono collocate effettivamente in posti corrispondenti anche al percorso formativo compiuto (oltre che all’idoneità psico-fisica alla mansione).
Si tratta di una grave lacuna perché la l. n. 68/99 e i relativi dati non si dovrebbero leggere come un dato a sé, ma dovrebbero essere strettamente collegati almeno con i dati sull’integrazione scolastica e sulla formazione in generale.
Nella parte relativa al numero di avviamenti al lavoro effettuati suddivisi per modalità (chiamata numerica o nominativa, oppure convenzioni) si distingue per sesso e per area geografica ma non si fa riferimento né all’età, né al titolo di studio. Sono elementi che, invece, sappiamo bene avere rilevanza e che possono determinare situazioni di discriminazione nella fase di inserimento. Si pensi al caso di un lavoratore cinquantenne che a seguito di patologia acquisita durante la vita lavorativa deve smettere di svolgere un lavoro faticoso che richiede resistenza e forza (ad esempio il muratore, l’operaio, il cuoco). Normalmente si tratta di persone con titoli di studio limitati alla scuola dell’obbligo per cui si pongono problemi di riqualificazione legati ad un’età anagrafica difficilmente appetibile per le aziende.
Nella relazione in oggetto viene dedicato un capitolo specifico alla donne. Anche in esso vi sono suddivisioni rispetto alle aree geografiche, ma non vengono considerate/esplicitate ulteriori distinzioni rispetto all’età, al titolo di studio, alla stato di famiglia, alla nazionalità. Tutti aspetti che hanno notevole importanza nell’ambito lavorativo e che originano varie situazioni di discriminazione multipla.
L’assenza di dati utili per individuare possibili situazioni di discriminazione multipla (ad esempio riferimenti alla nazionalità, all’età, alla religione) si rende evidente anche nel capitolo sui lavoratori extracomunitari. Si rileva, inoltre, l’assenza di dati chiari sui lavoratori non italiani, ma comunitari.
In nessuna parte della Relazione vengono forniti dati suddivisi per patologia (né quando si indica il numero di avviamenti, né quando si fa riferimento alle diverse modalità in cui avvengono gli stessi, o al tipo di convenzione o di contratto proposto). È un altro ambito in cui si possono verificare, per quanto consta, delle situazioni di discriminazione da parte dei Centri per l’impiego che, talvolta, “privilegiano” più o meno consapevolmente l’inserimento di persone con patologie maggiormente “stabilizzate”.
Ultima lacuna rilevata quella che riguarda le risoluzioni dei rapporti di lavoro: non ci sono indicazioni specifiche sulle cause di risoluzione: dimissioni più o meno volontarie, licenziamenti per non superamento del periodo di prova, licenziamento per inidoneità alla mansione. Non è un elemento da poco, perché sarebbe utile a descrivere un fenomeno tutt’altro che marginale.


3. Accessibilità e “soluzioni ragionevoli” per conservare il posto di lavoro.

Il diritto al lavoro delle persone con disabilità è spesso condizionato dal pregiudizio del datore di lavoro e/o dal pregiudizio del gruppo che lo accoglie (responsabili del personale, compagni di lavoro). Tale pregiudizio si basa talvolta sui dubbi circa le possibilità di comunicazione, altre volte sulla presunta capacità produttiva di una persona che può avere ritmi e orari diversi, con modalità diverse da quelle imposte dall’organizzazione del lavoro o adottate per consuetudine.
I fattori che influenzano positivamente l’attività lavorativa delle persona con disabilità sono molteplici. Oltre alla collaborazione da parte dei colleghi e al sostegno della famiglia occorre garantire “l’accessibilità”: all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o forniti al pubblico, sia nelle aree urbane che in quelle urbane” (così art. 9, Conv. ONU).
In termini concreti significa fornire reali possibilità circa l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’utilizzo tanto dei mezzi di trasporto quanto degli ausili e della tecnologia utile.

Per quanto attiene più strettamente il rapporto di lavoro nella maggior parte dei casi i problemi sorgono per l’assenza di “accomodamenti ragionevoli”.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità fornisce (art. 2) un’ampia e chiara definizione di “accomodamento ragionevole” ritenendo tali “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Di accomodamento ragionevole viene fatto specifico riferimento anche nell’art. 27, lett. i, della Convenzione, rispetto ai luoghi di lavoro.
Sono “soluzioni ragionevoli” l’orario di lavoro flessibile e il part-time per conciliare il proprio lavoro con l’impegno di cura di sé stessi o dei familiari; le brevi pause regolari per coloro che hanno bisogno di prendere medicine o di riposare; il telelavoro (ved. Codice di buone prassi per l’occupazione, Decisione dell’Ufficio di Presidenza del Parlamento Europeo del 22 giugno 2005), ma anche il mutamento di mansioni, l’utilizzo di ausili, una postazione di lavoro che rispetti i principi ergonomici, la corretta osservanza delle norme in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ecc.


4. Le azioni chiave.
Lo scorso 15 novembre l’Unione Europea, con l’intento di integrare la Strategia di Lisbona per garantire «una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» ha approvato la nuova Strategia Europea per la Disabilità 2010-2020 COM (2010) 636 definitivo, Strategia europea sulla disabilità 2010-2020: un rinnovato impegno per un’Europa senza barriere si pone quale ideale prosecuzione del precedente Piano di Azione per la Disabilità 2004-2010, il cui monitoraggio ha fatto emergere come le attività e le strategie mirate all’inclusione delle persone con disabilità producano positive ricadute nella vita economica, politica, sociale. Tra le principali criticità emerse occorre, peraltro, segnalare gravi situazioni di discriminazione multipla, soprattutto per taluni gruppi particolarmente “vulnerabili” (ad esempio le donne con disabilità e le persone con disabilità mentali), oltre a persistenti barriere infrastrutturali che limitano l’accessibilità e al ritardo nel riconoscimento della libertà di movimento e di partecipazione alla vita politica.

Il documento, che è articolato in una serie di centoventi azioni chiave; a loro volta suddivise in otto diverse aree: Accessibilità, Partecipazione, Uguaglianza, Impiego, Istruzione, Protezione Sociale, Salute e Azione Esterna, prevede finanziamenti, azioni di sensibilizzazione alla disabilità e misure per incitare i governi nazionali a collaborare per rimuovere gli ostacoli all’integrazione; l’elaborazione di politiche per un’istruzione di qualità per tutti e per l’apprendimento permanente; la collaborazione con la Piattaforma europea contro la povertà al fine di dedicare particolare attenzione alla situazione di vita delle persone con disabilità; la creazione di una tessera riconosciuta in tutta l’UE, per garantire parità di trattamento quale che sia il paese in cui decidono di lavorare, vivere o viaggiare le persone; l’elaborazione di standard di accessibilità per i seggi e i materiali elettorali; l’inserimento della disabilità nei programmi di aiuto allo sviluppo e a favore dei paesi candidati all’adesione.
Per implementare l’occupazione si ritiene possano essere nevralgiche le politiche finalizzate a sostenere il lavoro autonomo (attraverso il microcredito e il FSE), la qualità del lavoro, l’ imprenditorialità sociale e la sensibilizzazione delle imprese nel contesto della responsabilità sociale. Tra gli aspetti più urgenti si collocano invece l’acquisizione di dati dettagliati attraverso un modulo ad hoc elaborato per il 2011 (si veda sul punto Doc. Eurostat/F/09/DSS/02/2.2EN) e la diffusione di soluzioni ragionevoli e buone prassi di inserimento e mantenimento dell’occupazione.

La nuova Strategia Europea elaborata sulla base della Convenzione sui Diritti delle persone con disabilità, approvata dall'ONU nel dicembre del 2006 (sottoscritta dall'Italia nel marzo del 2007 e ratificata dal nostro Parlamento con la l. n. 18/09) si pone come strumento di collegamento tra i principi delineati dalla stessa e le azioni concrete intraprese dai Paesi europei, per determinare tradurre tali principi in un reale miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità.
La Convenzione, inoltre, rappresenta una interessante opportunità culturale e politica per dare nuovo impulso all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità, favorendone anche l'autonomia e l'indipendenza. Molte sono le trasformazioni culturali, sociali, politiche e tecniche che il testo introduce: dall'approccio basato sulle politiche dell’assistenza e della sanità si passa a rivendicare politiche inclusive che considerino il modello sociale della disabilità basato sul rispetto dei diritti umani.
Il principio base è il seguente: la condizione di disabilità esula dalle qualità soggettive delle persone e rappresenta la relazione tra le caratteristiche delle persone e le modalità attraverso le quali la società organizza l’accesso ed il godimento di diritti, beni e servizi. Pertanto È fondamentale favorire a tutti i livelli delle occasioni di confronto sui principi espressi che vedano coinvolti le rappresentanze associative (www.edf-feph.org), i tecnici e gli operatori, le persone con disabilità ed ai loro familiari e, non ultime, le istituzioni nazionali e locali. Un confronto che non deve essere solo semantico, fra quanto realizzato e garantito dalle politiche nazionali e territoriali attuali e le indicazioni cogenti della Convezione ONU, al fine di predisporre specifici rapporti sia governativi (art. 35 Conv.), sia della società civile.
La convenzione interviene su diversi aspetti: la rimozione di ostacoli e barriere e la promozione di eguali opportunità, attraverso azioni positive, soluzioni appropriate di inclusione, capacità di utilizzo delle risorse di tutti per tutti; l’inclusione della “disabilità” nelle politiche ordinarie, partendo dall’individuazione del livello di discriminazione e di mancanza di pari opportunità (art. 31 “Statistiche e raccolta dei dati”) sul principio per cui solo con dati appropriati è possibile elaborare politiche efficaci; la valutazione delle politiche di inclusione sociale (e il loro progresso) attraverso specifici indicatori.
Nell’art. 27, rubricato “Lavoro e occupazione”, vi è un elenco dettagliato di principi, in gran parte relativi alla non discriminazione nell’inserimento e nello svolgimento del lavoro, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato. Viene sottolineata l’importanza di incentivare le opportunità nel cd. mercato aperto del lavoro, insistendo sulla promozione di opportunità per l’imprenditorialità, lo sviluppo di cooperative e l’avviamento di un’attività in proprio.
Tali principi sono stati indicati anche dal Consiglio d’Europa (cfr. Raccomandazione Rec (2006)5) che più volte ho ribadito come l’approccio basato sui diritti umani, volto a garantire l’integrazione e la piena partecipazione delle persone con disabilità nella società, deve essere inglobato in tutti i settori attraverso politiche coerenti ed un’azione coordinata a livello internazionale, nazionale, regionale e locale.

A tal fine il Consiglio d’Europa raccomanda ai governi degli stati membri di integrare nelle proprie politiche, nella propria legislazioni e nelle proprie procedure i principi del Piano d’Azione del Consiglio d’Europa (2006-2015) per la promozione dei diritti e della piena partecipazione nella società delle persone con disabilità.
Nella Linea d’azione numero 5, relativa a “Occupazione, orientamento professionale e formazione”, sono esposte le azioni specifiche: assicurare che le persone con disabilità possano accedere ad una valutazione obiettiva ed individuale delle occupazioni potenziali, spostando l’attenzione esclusivamente sulle abilità nel campo lavorativo; assicurare l’accesso all’orientamento, alla formazione professionale e ai servizi connessi all’occupazione per il livello di qualifica più alto possibile; assicurare la tutela contro la discriminazione in tutte le fasi lavorative, soprattutto nella selezione ed assunzione applicando procedure (ad esempio pubblicità, colloquio, valutazione, selezione) che assicurino effettive pari opportunità. Non solo, è necessario assicurare altresì che i provvedimenti di sostegno, come il lavoro protetto, siano disponibili per quelle persone le cui necessità non possano essere soddisfatte senza il sostegno personale nel mercato aperto del lavoro. Allo stesso modo anche la normativa in materia di sicurezza sul lavoro deve includere le necessità delle persone con disabilità per evitare discriminazioni; assicurare che i giovani con disabilità possano beneficiare degli strumenti formativi e dei contratti a contenuto formativo utili ad acquisire capacità e considerare, infine, le necessità delle donne con disabilità al momento di creare programmi e politiche legati alle pari opportunità per le donne nel lavoro, inclusa l’assistenza per i figli.

Dall’esame della normativa comunitaria e da alcune esperienze straniere possono derivare utili spunti di operatività per colmare le lacune normative del nostro ordinamento ed integrare i provvedimenti esistenti. Un esempio fra tutti la legislazione inglese in tema di diritti delle persone con disabilità, regolata dal Disability Discrimination Act (DDA) del 1995 ed integrata – nel 2005 – con una serie di disposizioni che hanno esteso la tutela per le persone con patologie progressive (ad esempio cancro, HIV, sclerosi multipla) a partire dal momento stesso della diagnosi e non da quando si verifica una compromissione della capacità lavorativa. Ciò si traduce in permessi lavorativi per le visite di controllo in ospedale, disposizioni più flessibili per fare la fisioterapia, pause più frequenti durante l’orario di lavoro, l’adozione di misure che rendano l’ambiente di lavoro accessibile (es. utilizzando la cd. tecnologia assistita).

Meriterebbe, infine, una più ampia diffusione la figura del Disability Management – inteso come flessibile organizzazione del rientro del lavoratore in azienda modulato da interventi ed azioni di tipo riabilitativo, ergonomico, organizzativo (es. part-time), in relazione alle concrete necessità, professionalità e con i cicli produttivi aziendali. È un processo ormai consolidato negli Stati Uniti, dove numerosi studi ne hanno dimostrato i vantaggi per tutti gli attori in campo: prevede un contenimento delle spese per i Governi; il risparmio economico e aumento della produttività per i datori di lavoro; una miglior protezione dell’occupazione dei lavoratori. In Italia si hanno interessanti iniziative soprattutto in Veneto, dove si sta sviluppando un patrimonio conoscitivo che prevede competenze molteplici (del medico legale, del tecnico del rischio, dello specialista della riabilitazione, dell’analista dei processi produttivi, dello psicologo).


1 Disabled Peoples’ International, membro dell'European Disability Forum, è una organizzazione internazionale che accoglie tutti i tipi di disabilità, lavorando per proteggere i diritti umani delle persone con disabilità nei 134 paesi dove è rappresentata, attraverso 6 organizzazioni regionali in tutti i continenti ed è riconosciuta con lo status consultativo in tutti i più importanti organismi internazionali (vedi www.dpi.org, www.dpieurope.org).
2 Una disamina del percorso realizzato a livello internazionale si può trovare in G. Griffo, I diritti umani per le persone con disabilità, in Pace Diritti Umani, n. 3, settembre-dicembre 2005, pp. 7-31.
3 Vedi i siti web www.cnditalia.it e www.superando.it.
4 Il termine persone con disabilità è universalmente accettato a livello internazionale. Per una spiegazione dell’utilizzo di questo termine vedi “Le buone prassi nell’uso delle parole: le parole sono pietre” in Le idee vincenti. Esempi di buone prassi nello sviluppo della cultura imprenditoriale e dell’accoglienza. Pesaro, progetto Equal Albergo via dei matti numero zero, [2005].
5 Legge 1° marzo 2006, n. 67,
Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6 marzo 2006).
6 Mainstreaming è una parola che, partendo dal fatto che vi sono fiumi che hanno affluenti, paragonando i primi alle politiche generali ed ordinarie ed i secondi a quelle speciali e dedicate, esprime l'esigenza di ricondurre le politiche speciali verso le persone con disabilità all'interno delle politiche ordinarie indirizzate a tutti i cittadini.
7 L'art. 2 della Convenzione così lo definisce “per “progettazione universale” si intende la progettazione di prodotti, strutture, programmi e servizi utilizzabili da tutte le persone, nella misura più estesa possibile, senza il bisogno di adattamenti o di progettazioni specializzate. La “progettazione universale” non esclude dispositivi di sostegno per particolari gruppi di persone con disabilità ove siano necessari”.
8 Vedi l’illuminante testo di Martha Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Bologna, Il Mulino, 2002, sulla inadeguatezza della teoria liberista di includere e tutelare le persone con disabilità.
9 La Federazione italiana Superamento Handicap si propone di promuovere politiche di superamento dell’handicap, partendo dai principi di tutela dei diritti umani e civili delle persone con disabilità. Interviene per garantire la non discriminazione, la eguaglianza delle opportunità, l’integrazione sociale di tutti gli ambiti della vita (vedi www.fishonlus.it e www.superando.it).