Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 12 luglio 2012, n. 27706 - Molestie sessuali sul luogo di lavoro poste in essere da un lavoratore in danno di altro lavoratore: a quale titolo anche il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere in termini civilistici?


 

 

 

 

Presidente Teresi - Relatore Grillo

 

FattoDiritto



Con sentenza dell'11 novembre 2010 la Corte di Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano del 26 febbraio 2010 con la quale A.E.N.A.Y.M. , imputato dei reati di violenza sessuale spa (art. 609 bis cod. pen.) e di lesioni personali aggravate (artt. 61 n. 2 cod. pen. e 582 cod. pen.) in danno di L.C.U.L. , era stato ritenuto colpevole dei detti reati e condannato alle pene di giustizia nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in uno con il responsabile civile G.S. s.p.a. datore di lavoro dell'imputato, revocava la condanna risarcitoria nei riguardi del detto responsabile civile, confermando, nel resto, la sentenza di primo grado. Propone ricorso avverso la detta sentenza la parte civile deducendo due distinti motivi. Con il primo lamenta erronea applicazione della legge penale (art. 185 cod. pen. in relazione all'art. 2049 cod. civ.) per avere erroneamente ritenuto inapplicabile la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., pur in presenza dei presupposti richiesti (esistenza del danno; esistenza del rapporto di preposizione tra committente e ausiliario e sussistenza del rapporto di occasionalità necessaria" (escluso, invece, immotivatamente ed irragionevolmente dalla Corte di Appello).
Inoltre la difesa deduce erronea applicazione della norma penale per avere escluso il carattere oggettivo della responsabilità civile nascente in capo al datore di lavoro per fatto commesso dal dipendente anche perché in contrasto oltre che con l'ordinamento interno anche con l'ordinamento comunitario.

Con il secondo motivo viene dedotta contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione nella parte in cui individua quale locus commissi delicti - con riferimento alla responsabilità dell'imputato - il piano terra in corrispondenza dell'ascensore - montacarichi in cui si trovavano l'imputato e la vittima e - con riferimento alla responsabilità del datore di lavoro quale responsabile civile - al terzo piano della banca ove l'imputato e la donna lavoravano quali addetti alle pulizie in settori diversi. Ulteriore elemento di illogicità viene indicato dalla ricorrente in quella parte della sentenza nella quale la Corte milanese afferma che l'organizzazione del lavoro della vittima e del suo aggressore non erano tali da determinare necessari contatti operando essi su piani diversi di un edificio, laddove un luogo comune (il piano terra) era previsto come obbligatorio per entrambi in relazione alle mansioni svolte in concreto che obbligavano i due soggetti ad incontrarsi. Infine altro elemento di contraddittorietà viene individuato dalla ricorrente nell'affermazione della Corte secondo la quale essendo il fatto accaduto nelle prime ore serali (ore 20 circa) erano presenti altre persone dipendenti della banca che avrebbero impedito il verificarsi di quella occasionalità necessaria esclusa dalla Corte.


Con memoria difensiva depositata in udienza la difesa del responsabile civile deduce l'inammissibilità del ricorso in quanto contenente censure in fatto in vista di una alternativa ricostruzione degli avvenimenti preclusa in sede di legittimità ed in ogni caso la corretta decisione della Corte per avere escluso la sussistenza del rapporto di causalità necessaria e negato che l'attività lavorativa espletata dall'imputato avesse agevolato la commissione dell'illecito verificatosi per uno sconfinamento dell'imputato dai compiti istituzionali affidatagli in ragione della sua specifica attività lavorativa.

Ciò precisato la Corte osserva.

1. Il fatto storico.
Per come si legge in sentenza all'imputato viene contestato il reato di violenza sessuale (art. 609 bis cod. pen.) "perché costringeva L.C.U.L. a subire atti sessuali contro la sua volontà e, in particolare, spingendo con violenza la p.o. all'interno dell'ascensore e bloccandola con una mano nel petto contro la parete del medesimo ascensore, si abbassava i pantaloni alfine di congiungersi carnalmente con la stessa, non riuscendo nell'intento per fatti indipendenti dalla sua volontà" nonché il reato di lesioni personali aggravate (artt. 582 e 61 n. 2 cod. pen.) "perche, nello spingere con violenza all'interno dell'ascensore con le modalità di cui al capo a), cagionava a L.C.U.L. lesioni personali consiste in trauma chiuso avambraccio destro, trauma chiuso bacino; trauma chiuso dal quale derivava una malattia giudicata guaribile in gg. 7 s.c." [Fatti verificatisi in (omissis) ]. La ricostruzione dei fatti (che sono stati immediatamente denunciati dalla parte offesa) operata dalla Corte territoriale è del tutto coincidente con quella effettuata dal Tribunale, peraltro assolutamente coerente con i dati processuali disponibili (denuncia della persona offesa e interrogatorio dell'imputato).
Ciò puntualizzato, va ulteriormente evidenziato che in piena aderenza all'ormai consolidato orientamento di questa Corte, laddove le due pronunce di primo e di secondo grado risultino concordanti nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a base delle rispettive decisioni, quella di appello si salda e si integra con quella precedente di primo grado (Cass. Sez. 1, 26.6.2000 n. 8886; Cass. Sez. 1, 2.10.2003 n. 46350), con la conseguente piena legittimità da parte del giudice di secondo grado di una motivazione per relationem.
Peraltro si osserva che neanche da parte dell'imputato era stata contestata la ricostruzione dei fatti quanto ai luoghi in cui essi si sarebbero svolti e quanto alle fasi che li avrebbero preceduti.
Può allora darsi per assodato - sulla base della conforme ricostruzione della vicenda effettuata dal Tribunale e dalla Corte di Appello — che i fatti si sono svolti come segue.
Nelle prime ore serali del (.. .)la persona offesa addetta alle pulizie per conto della G. S. s.p.a., ed operante al secondo piano dell'edificio della Deutsche Bank (ove essa lavorava come postazione di lavoro in quanto addetta alla pulizia degli uffici ivi allocati) era scesa da tale piano, servendosi dell'ascensore, fino al piano terra, luogo nel quale dovevano essere gettati i sacchi contenenti la spazzatura raccolta ai vari piani superiori: in quei luoghi si incrociava con l'imputato (da lei conosciuto di vista in quanto collega di lavoro sia pure operante in piano diverso, il terzo), della cui presenza la donna si avvedeva (pur dando le spalle all'uomo) nell'atto di uscire dall'ascensore per gettare i sacchi della spazzatura: l'uomo, nell'occasione, le si era avvicinato offrendole di aiutarla.
Di fronte al diniego della donna, che nel frattempo, dopo aver gettato i sacchi contenenti la spazzatura, era risalita in ascensore per recarsi al suo piano di pertinenza (il secondo), ove effettivamente scendeva, indirizzandosi verso l'ascensore degli impiegati; l'uomo aveva continuato a seguirla, e fermatosi davanti quell'ascensore (sito in quel momento al secondo piano) mentre la ragazza si apprestava ad entrarvi, le si era ancora una volta rivolto, offrendole una opportunità di lavoro presso una signora e dichiarandosi pronto ad aiutarla.
L'uomo quindi entrava nell'ascensore (fermo — come detto — al secondo piano, dove egli non si sarebbe dovuto recare e dove, invece, si era avventurato seguendo la donna che stava rientrando nella propria postazione) insieme alla donna, pigiando il pulsante del terzo piano (quello di sua pertinenza) per rientrare nella sua postazione: appena aperta la porta, l'imputato aveva fatto finta di andare via per ritornare definitivamente alla propria postazione, mentre la ragazza era pronta a ridiscendere al secondo piano; d'improvviso l'imputato - che si trovava vicino al montacarichi (pur esso fermo al terzo piano) - rientrava nell'ascensore in cui ancora si trovava la ragazza in attesa di ridiscendere al proprio piano e, con mossa fulminea ed inaspettata, aveva bloccato con la mano le porte dell'ascensore, spingendo la ragazza verso una delle pareti interne e bloccandola con una mano stretta sul petto e, contemporaneamente si abbassava i pantaloni con l'intento di congiungersi carnalmente con la ragazza, senza tuttavia riuscirvi per la pronta reazione della donna.

1.1. I profili di responsabilità.
Mentre in merito alla responsabilità dell'imputato nessuna questione è insorta, non avendo lo stesso proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di appello che ha confermato il giudizio di condanna anche in termini di entità della pena e le statuizioni civili risarcitorie, la questione posta all'attenzione di questa Corte concerne esclusivamente la responsabilità della G.S. s.p.a. quale responsabile civile, in quanto l'imputato, autore materiale del fatto illecito, espletava la propria attività lavorative alla dipendenze di tale società (come del resto la stessa persona offesa). Rispetto alla pronuncia contenuta nella sentenza del Tribunale che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2049 cod. civ., la Corte di Appello l'ha esclusa ritenendo non sussistere non solo il nesso di causalità ma lo stesso rapporto di occasionalità. Le censure rivolte dalla parte civile ricorrente attengono in prima battuta proprio alla errata applicazione della norma penale in tema di statuizione risarcitoria nascente da reato (art. 185 cod. pen.) in correlazione con la norma civilistica in tema di responsabilità dei padroni e committenti disciplinata dall'art. 2049 cod. civ..
Una ricognizione delle linee fondamentali dell'istituto si impone come premessa metodologica per un corretto approccio al problema e per una soluzione appagante in linea con la ratio dell'istituto. La questione assume specifica importanza nel caso in esame vertendosi in tema di molestie sessuali sul luogo di lavoro poste in essere da un lavoratore in danno di altro lavoratore (nella specie una donna) e dovendosi verificare a quale titolo anche il datore di lavoro possa essere chiamato a rispondere in termini civilistici per i danni cagionati dalla condotta penalmente illecita del dipendente produttiva di danno a terzi.
La questione, peraltro, non è nuova ed anzi ha acquisito nuovi impulsi alla luce dell'intensificarsi di fenomeni di molestie e/o condotte abusanti o mobizzanti realizzate in ambito lavorativo da parte di dipendenti verso altri dipendenti.
Lo strumento tradizionale di tutela accordato per assicurare protezione alle vittime di molestie sessuali sui luoghi di lavoro è costituito dall'art. 2087 cod. civ. predisposto a carico del datore di lavoro onde garantire l'obbligatoria sicurezza e protezione del lavoratore gli obblighi di sicurezza: si tratta come ripetutamente affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte di una forma di tutela non solo dell'integrità fisica, ma anche della "personalità morale" del lavoratore e tale mezzo di tutela si inserisce nel quadro di una obbligazione contrattuale gravate sul datore di lavoro.
La giurisprudenza prevalente, principalmente di merito, ha statuito che se il datore era a conoscenza o doveva ragionevolmente sapere delle molestie e non è intervenuto per far cessare tali condotte, egli non possa andare esente da responsabilità, da cui deriva il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per il lavoratore, data la natura costituzionale dei beni lesi.

L'imprenditore, quindi, per effetto della norma suddetta è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure necessarie a tutelare non solo l'integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti; tale obbligo di protezione implica che il datore di lavoro il quale sia a conoscenza del compimento di molestie sessuali nell'ambito della sua impresa, deve intervenire ed adottare tutte le misure, ivi comprese quelle di tipo disciplinare (licenziamento, sospensione, etc.) oltre che organizzative idonee a garantire appieno la tutela dei dipendenti. Ma la fonte della responsabilità a carico del datore di lavoro in ipotesi siffatte non si esaurisce con l'istituto in esame inserendosi in questo ambito anche al fine di evitare pericolose sacche di impunità risolventisi in pregiudizi per l'integrità del lavoratore che rappresenta un valore costituzionalmente garantito in uno alla sua sicurezza, l'istituto previsto dall'art. 2049 cod. civ. che disciplina il sistema delle responsabilità dei padroni e dei committenti per fatto del dipendente.
Si tratta di uno strumento di tutela in un certo senso residuale nei limiti in cui non sia possibile accertare la violazione degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro e in altro senso alternativo al primo.
Si tratta quindi di una particolare forma di responsabilità che vede coinvolto il datore di lavoro (o committente che dir si voglia) per fatto illecito commesso dal proprio dipendente nello svolgimento delle funzioni assegnate e in solido con lo stesso.
Il datore di lavoro va esente da responsabilità solo nel caso in cui il dipendente autore del fatto illecito abbia agito con dolo e al di fuori del cd. "rapporto di occasionalità necessaria" con le proprie mansioni, vale a dire quando l'evento lesivo si sia verificato sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale.
Non basta quindi ad escludere ex sé la responsabilità del datore di lavoro la condotta dolosa del dipendente in quanto ciò non è sufficiente ad elidete il rapporto di occasionalità necessaria con le mansioni affidategli, tutte le volte in cui tale condotta sia resa possibile oppure agevolata dal rapporto di lavoro con il committente, il quale quindi è chiamato a risponderne ai sensi dell'art. 2049 cod. civ..
Secondo l'orientamento prevalente, il fondamento giustificativo della responsabilità civile cd. "indiretta" prevista dall'art. 2049 cc, trova le sue origini nell'antico brocardo cuius commoda eius et incommoda, e viene in rilievo attraverso la teoria del rischio di impresa, in forza della quale colui che trae vantaggio dall'opera svolta da un preposto deve rispondere altresì degli eventuali rischi connessi all'esercizio della propria.
Quale condizione essenziale per la configurabilità di tale peculiare forma di responsabilità che costituisce una vistosa deroga al principio della responsabilità per colpa rientrando invece nel novero della responsabilità oggettiva, si pone, anzitutto, l'esistenza di una condotta produttiva di danno: in altri termini solo ove la condotta del dipendente abbia causato un danno risarcibile nei confronti di un terzo scatta quella solidarietà che ingloba la responsabilità anche del committente. Il rapporto che si instaura tra autore del fatto illecito e responsabile indiretto viene solitamente definito come "rapporto di preposizione" il quale consiste nell'incarico da parte di un soggetto (preponente) con altro soggetto a lui gerarchicamente sottoordinato (dipendente) che a sua volta si renda responsabile di un fatto produttivo di danno.
L'esercizio delle incombenze richiamato espressamente dall'art. 2049 cit. vale come limite a tale forma di responsabilità in quanto distingue gli atti del preposto di cui sono chiamati a rispondere preposto e preponente da quelli di cui è chiamato a rispondere il solo preposto. Laddove, quindi, l'evento dannoso non si pone come conseguenza immediata e diretta dell'attività lavorativa e non è nemmeno riferibile anche a titolo indiretto a necessità esigenze o ragioni di lavoro, nessuna responsabilità datoriale è configurabile (in termini Cass. Sez. 3, Civ. 4.1.1980 n. 20). Ed è l'attore che agisce per il risarcimento (ovvero la parte civile se costituita nel giudizio penale) a dovere fornire la prova del cd. rapporto di occasionalità necessaria che si pone quindi come terzo elemento costitutivo della fattispecie codicistica e che di fatto completa il campo di tale particolare forma di responsabilità.
Il detto rapporto pone in collegamento l'esercizio delle mansioni con l'evento - danno concretamente determinato, nel senso che l'incombenza (o mansione) disimpegnata dal preposto abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e la produzione del danno; rimane irrilevante quindi la circostanza che il dipendente possa aver travalicato i limiti connaturati alla funzione svolta sempre che egli abbia operato nell'ambito dell'incarico affidatogli così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro (così Cass. Sez. 3, civ. 24.1.2007 n. 1516; Cass. Sez. 3, 11.1.2010 n. 215). Proseguendo in tale analisi esegetica non poche difficoltà insorgono nel caso in cui la questione della responsabilità datoriale indiretta oggettiva afferisca a condotte illecite penalmente rilevanti sui luoghi di lavoro (violenze sessuali, etc.) in quanto è la peculiarità di tali condotte a rendere più complessa la ricostruzione dei presupposti della responsabilità indiretta del datore di lavoro, stante una situazione di eccezionalità e difficile prevedibilità.
Vero è che la previsione di cui all'art. 2049 c.c. risponde a criteri di razionalità, di giustizia e di rischio (si parla, a riguardo, di responsabilità da rischio lecito) in forza dei quali viene riconosciuta in capo al datore di lavoro una forma di responsabilità senza che sia anche richiesta la colpa, essendo comunque consentita la prova liberatoria: il che importa la configurabilità della responsabilità in tutti quei casi nei quali la mansione affidata dal datore di lavoro al suo dipendente abbia reso possibile il fatto illecito, collegando, in tal modo, l'esercizio delle incombenze, cui un lavoratore è adibito, e la commissione da parte del datore di lavoro se non proprio con un nesso di causalità (che non è richiesto dalla uniforme giurisprudenza di questa Corte), quanto meno con un rapporto di occasionalità necessaria.
Ma è evidente che una eventuale defaillance da parte del datore di lavoro sul piano della organizzazione dell'impresa e del lavoro all'interno di essa costituisce dato di partenza per enucleare una fonte autonoma di responsabilità per il datore di lavoro.
Invero muovendo dalla considerazione della sempre maggiore frequenza di episodi di molestie e/o violenze sessuali all'interno dei luoghi di lavoro, non può certo considerarsi inesigibile l'obbligo gravante esclusivamente sul committente di predisporre modelli organizzativi tali da prevenire la commissione di reati da parte dei dipendenti, le cui modalità di svolgimento delle singole attività lavorative potrebbero agevolare la commissione del fatto illecito laddove per esempio non siano state adottate tecniche organizzative tale da scongiurare eventi del tipo di quelli all'esame di questa Corte.
Può quindi, conclusivamente, affermarsi il principio che ove il comportamento dell'agente venga ritenuto riferibile sia pure marginalmente o indirettamente alle mansioni in concreto esercitate ed affidategli dal datore di lavoro questi deve essere chiamato a rispondere per fatti illeciti commessi dal dipendente in danno di terzi, mentre quando la condotta sia frutto di una iniziativa estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni svolte (oltre che affidate) manca quel nesso di occasionalità necessaria che solo può giustificare una attribuzione di responsabilità in capo al datore di lavoro, non ponendo rientrare in tale concetto un semplice elemento di collegamento di tipo temporale o spaziale.
In altri termini solo ove tali incombenze abbiano reso possibile o almeno agevolato il verificarsi dell'illecito può parlarsi di responsabilità a carico del datore di lavoro esclusa dalla Corte di Appello stalla base di argomentazioni logiche e complete.

1.2 Le argomentazioni della Corte di Appello.
Sulla base di tali principi di diritto osserva questa Corte che il giudice territoriale ha correttamente richiamato le regole che governano la responsabilità dei padroni e committenti per fatto commesso dal dipendente, anche se non è stata affermata in modo chiaro la insussistenza del rapporto di occasionalità necessaria.
Invero la Corte meneghina oltre a ritenere del tutto insussistente il rapporto di causalità (il che, comunque non rileva ai fini della soluzione della questione), ha comunque adoperato una disgiunzione (od) per evidenziare come fosse assente anche il rapporto di occasionalità necessaria ancorché erroneamente accostato al rapporto di causalità dal quale doveva e deve essere ben distinto: non dunque coincidenza tra i due concetti (nesso di causalità e rapporto di occasionalità necessaria) come prospettato dalla ricorrente, ma ulteriore esplicitazione da parte del giudice di merito di un concetto coerente con l'elaborazione giurisprudenziale che colloca al centro della responsabilità oggettiva datoriale il rapporto di occasionalità necessaria da intendersi nel senso precedentemente chiarito.
Così operando la Corte ha inteso escludere entrambi i rapporti per poter affermare come in nessun caso fosse ipotizzabile una responsabilità dell'azienda committente ove prestava la sua opera l'imputato.
Il riferimento al rischio di impresa che costituisce uno degli elementi fondanti di tale tipo di responsabilità oltre ad apparire corretto in sé è anche congruo rispetto alle emergenze fattuali esaminate dalla Corte, la quale ha correttamente sottolineato come il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere di qualsiasi evento produttivo di danno posto in essere dal dipendente ma solo di quelli commessi nell'ambito dell'incarico affidato al singolo dipendente. D'altra parte tale ragionamento è in linea con quell'orientamento altrettanto consolidato secondo il quale non è sufficiente ai fini della configurabilità della responsabilità il mero dato della coincidenza temporo-spaziale con una attività occasionale o favorita dallo svolgimento delle mansioni (Cass. Sez. Lavoro 13.11.2001 n. 14096; Cass. Sez. 3, Civ. 20.6.2001 n. 8381).
Tale indagine è stata condotta dalla Corte di merito in termini tali da non prestare il fianco a vizi logici avendo essa escluso sulla base di una analisi delle circostanze ambientali che non vi è spazio alcuno per considerare il comportamento dell'autore della condotta illecita rientrante tra le incombenze a lui affidate.
Come precisato dalla giurisprudenza di questa Corte occorre ai fini della affermazione della responsabilità che la condotta del preposto derivi dal perseguimento di finalità coerenti con quelle per le quali le mansioni sono state affidate, con la conseguenza che, laddove risulti che il datore di lavoro rispetto alle iniziative autonome assunte dal dipendente e non rientranti nelle incombenze a lui affidate, risulti del tutto estraneo anche indirettamente, nessuna responsabilità può essere ipotizzata a suo carico (Cass. Civ. Sez. 3, 22.5.2001 n. 6970). 1.3 Conclusioni.
La tesi della parte civile ricorrente, pur muovendo da premesse esatte quanto alle intrinseche caratteristiche che deve possedere l'istituto della responsabilità oggettiva del datore di lavoro, erra nel momento in cui afferma che la Corte di Appello, sottraendosi all'onere motivazionale e per altro verso erroneamente interpretando il concetto delineato dall'art. 2049 cod. civ., si è limitata ad escludere — ai fini della revoca delle statuizioni risarcitorie — la sussistenza del rapporto di causalità, obliterando il concetto del rapporto di occasionalità necessaria. La Corte ha inteso chiarire che i due protagonisti operavano in piani diversi e non erano mai destinati ad incontrarsi per come predisposto dall'organizzazione aziendale, evidenziando così quella impossibilità di incontro in luoghi comuni fuori dal circuito di sicurezza apprestato dall'azienda.
In modo sintatticamente forse non felice la Corte ha spiegato che l'aggressione sessuale è avvenuta in un piano dell'edificio (il terzo) in cui l'uomo aveva attratto - con la mossa improvvisa di pigiare il pulsante dell'ascensore occupato dalla donna che doveva recarsi al secondo piano - la ragazza: in questo senso va letta l'espressione "non può, in conclusione, rapportarsi ai rischio di impresa la condotta di un dipendente che attragga una collega di lavoro in luogo di lavoro diverso da quello a lei assegnatoci suo piano, il terzo dell'edificio), ove ella non avrebbe motivo di recarsi ed ivi cerchi di commettere molenda sessuale" (pag. 8 della sentenza). È evidente, infatti, che l'espressione tra parentesi "il suo piano, il terzo dell'edificio" va riferita all'uomo e non certo alla donna. Correttamente quindi è stato escluso il rapporto di occasionalità necessaria, peraltro richiamato esattamente nei suoi tratti essenziali, sulla base di un esame globale delle circostanze di fatto scrupolosamente esaminate.

Alla luce di quanto sin qui detto non può di certo affermarsi che la Corte di merito sia incorsa in contraddittorietà della motivazione per avere individuato su basi diverse le responsabilità del dipendente e del datore di lavoro: il locus commissi delicti, contrariamente alla tesi della ricorrente (che intende collocarlo al piano terra per poi ricavare da ciò il concetto della occasionalità necessaria) è stato esattamente individuato dalla Corte di Milano non già al piano terra dove i due protagonisti casualmente si erano incontrati, provenendo da piani diversi per gettare la spazzatura raccolta ai piani di pertinenza, ma nel breve momento di sosta dell'ascensore al terzo piano in cui l'uomo aveva condotto, suo malgrado, la donna, e in particolare nell'atto in cui costei si apprestava a ridiscendere al secondo piano. Dunque nessuna occasionalità determinata dal piano comune (quello terreno) in cui i due protagonisti della vicenda si sono incontrati per un momento, avendo avuto cura la Corte di distinguere le varie fasi e collocare temporalmente la condotta in un segmento temporale che confermava la condotta estemporanea ed inaspettata dell'imputato oltre che del tutto estranea alle mansioni.
Né si evidenzia alcuna contraddittorietà per avere la Corte affermato che nell'orario di accadimento del fatto fossero presenti altre persone, avendo ritenuto ben possibile tale eventualità rispetto all'orario ed anche rispetto alle modalità organizzative adottate dal datore di lavoro che prevedevano l'esclusione di aree isolate e dunque insicure per il lavoratore, al fine di azzerare possibili rischi di incontri indesiderati e di consequenziali intrusioni non consentite.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.