Tribunale di Milano, Sez. Lav., 05 ottobre 2012 - Mobbing e risarcimento del danno: mancanza di prova


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI MILANO
SEZIONE LAVORO

In composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa Chiara Colosimo, ha pronunciato la seguente
SENTENZA



nella controversia di primo grado promossa da
MO.Gi.
con l'avv. Vo.Be. e Avv. Ma., elettivamente domiciliata presso lo Studio dei difensori in Milano,
via (... )
ricorrente contro
AP.PA. S.p.A.
con l'avv. De. del Foro di Mantova e Avv. Fe. del Foro di Milano, elettivamente domiciliata presso lo Studio dell'avv. Fe. in Legnano, via (... )
resistente
Oggetto: mobbing e risarcimento del danno.
All'udienza di discussione i procuratori concludevano come in atti.

 

Fatto



Con ricorso depositato il 24 aprile 2012, Gi.MO. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Milano - Sezione Lavoro - AP.PA. S.p.A., chiedendo al Tribunale di:
- dichiarare illegittimo il comportamento vessatorio della convenuta e dei suoi dipendenti;
- per l'effetto, condannare la convenuta al risarcimento del danno biologico conseguito al suddetto comportamento nella misura di Euro 4.590,00 a titolo di invalidità temporanea e di Euro 271.844,00 a titolo di danno biologico permanente.
Il tutto con rivalutazione e interessi e, in ogni caso, con vittoria delle spese di lite.

Si costituiva ritualmente in giudizio AP.PA. S.p.A. (infra AP. S.p.A.), eccependo l'infondatezza in fatto e in diritto delle domande di cui al ricorso e chiedendo il rigetto delle avversarie pretese.
Con vittoria di spese, diritti e onorari.
Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione e ritenuta la causa matura per la decisione senza necessità di istruzione probatoria, all'udienza del 3 ottobre 2012, il Giudice invitava le parti alla discussione all'esito della quale decideva come da dispositivo pubblicamente letto, riservando il deposito della motivazione a 5 giorni, ai sensi dell'art. 429 c.p.c. così come modificato dalla legge 133/2008.

Diritto

 

Il ricorso non può essere accolto.

Gi.MO., invalida civile al 67%, inserita nelle categorie protette e come tale assunta dalla convenuta (cfr. doc. 2, fascicolo resistente), è stata dipendente di AP. S.p.A. ed ha svolto per la stessa mansioni di sportellista presso il parcheggio (... ) di Milano, con inquadramento nel IV livello C.C.N.L. Terziario e qualifica di operaia, dal 26/11/2009 (cfr. doc. 1, fascicolo ricorrente) al 22/9/2010, giorno in cui ha dedotto di aver rassegnato le dimissioni per giusta causa (cfr. doc. 2, fascicolo ricorrente).

La ricorrente agisce in giudizio al fine di ottenere l'accertamento del comportamento vessatorio tenuto nei suoi confronti dal datore di lavoro - più nello specifico, dei "comportamenti mobbizzanti posti in essere dalla convenuta" che l'hanno "costretta a rassegnare le proprie dimissioni" (cap. 3, ricorso) - e, per l'effetto, la condanna di quest'ultimo al risarcimento del danno così patito.

A questo riguardo deve rammentarsi che, pur in assenza di una definizione legislativa, il concetto di mobbing è stato puntualmente circoscritto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione con pronunce cui questo Giudice ritiene senz'altro di aderire.

La Suprema Corte ha affermato l'esigenza di accertare la sussistenza "di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall'art. 2087 cod. civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguente dannose deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'anione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato" (Cass. Civ., Sez. Lav., 6 marzo 2006, n. 4774).
La Corte ha anche precisato che "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (Cass. Civ., Sez. Lav., 17 febbraio 2009, n. 3785).

E' caratteristica propria del mobbing, dunque, la sussistenza di un disegno persecutorio nei confronti del dipendente, realizzato per mezzo di comportamenti i vessatori o, comunque, lesivi dell'integrità fisica e della personalità del prestatore di lavoro, protratti per un periodo di tempo apprezzabile e finalizzati all'emarginazione del lavoratore.

Tali comportamenti rilevano qualora determinino causalmente nel lavoratore l'insorgere di una vera e propria patologia.

Come tale, il mobbing è comportamento senz'altro rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c., che è norma primaria costitutiva di obblighi, con una portata precettiva tale da ricomprendere qualsiasi atto o comportamento comunque lesivo della persona del lavoratore. Si tratta, infatti, di una norma di chiusura destinata a imporre la massima sicurezza possibile: una previsione che qualifica la condotta, non in base al suo contenuto, ma in considerazione del solo bene protetto.

Giova rammentare che l'onere della prova in punto di mobbing grava sul solo lavoratore (ex multis, Cass. Civ., Sez. Lav., 24 ottobre 2007, n. 22305; Cass. Civ., Sez. Lav., 29 settembre 2005, n. 19053).

Poste queste premesse deve altresì preliminarmente osservarsi che, nell'atto introduttivo del giudizio, Gi.MO. si è in parte lamentata dell'incompatibilità tra lo stato di malattia e le mansioni a suo tempo assegnatele (vedi capp. 19 e 24, ricorso).

Sotto questo profilo, tuttavia, pare opportuno precisare sin dal principio che la ricorrente non ha chiesto al Tribunale di accertare l'assegnazione a mansioni incompatibili con il proprio stato di salute.

Ella agisce per ottenere la condanna del datore di lavoro per la condotta vessatoria e mobbizzante dallo stesso tenuta poiché è a quest'ultima che ricollega quello specifico danno del quale chiede ristoro: tra le due ipotesi muta, in sostanza, la causa petendi.

La verifica demandata l'organo giudicante è, dunque, quella dell'effettiva sussistenza di una condotta mobbizzante.

Passando al merito della questione, deve essere evidenziata l'inidoneità delle deduzioni attoree a dimostrare l'effettiva sussistenza della condotta oggetto di doglianza.

La ricorrente infatti, da un lato, ha riferito circostanze oltremodo generiche o valutative, così da rendere inammissibile qualsivoglia accertamento istruttorio sul punto; dall'altro, ha dato conto di episodi che, per l'essere riferiti anche ad altri dipendenti della convenuta, non possono in alcun modo assurgere a prova della sussistenza di una volontà persecutoria diretta nei suoi soli confronti.

Relativamente a quest'ultimo rilievo, si osserva quanto segue.
Parte ricorrente si duole della condotta del collega Do. che, nel dicembre 2009, avrebbe esclamato "se fosse per me non avrei mai assunto due donne" (cap. 8, ricorso).
Deduce, poi, che nelle giornate in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali presso il teatro De.Ar. di Milano, sarebbe stata obbligata "a prendere dai clienti i ticket di pagamento del parcheggio ed inserirli, in luogo degli stessi, nell'apposito meccanismo di sollevamento della sbarra di passaggio onde consentirne l'uscita" (cap. 17): in questo modo, il datore di lavoro l'avrebbe costretta a "respirare i gas di scarico delle auto che si accodavano a causa della lungaggine della procedura" (cap. 18). Sennonché, nel corso dell'interrogatorio libero, la ricorrente stessa ha chiarito che "la richiesta di aiutare i clienti in uscita mediante inserimento del ticket nell'apposita macchinetta era un'attività che veniva richiesta a tutti i dipendenti, ma esclusivamente nelle giornate in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali, ossia dieci mesi su dodici. Preciso che eravamo solo in due colleghi a svolgere questa attività".

Parte attrice si duole, inoltre, che dal febbraio 2010 "i sigg.ri Do., Ca. ed Er. hanno iniziato a fumare in ufficio (posto all'interno del parcheggio sotterraneo) mentre la ricorrente ivi svolgeva le proprie mansioni di sportellista" (cap. 24), e che "per tutta la durata del rapporto di lavoro, la ricorrente e la sig.ra Br. (all'epoca dei fatti uniche donne dipendenti della AP. nella sede di lavoro della ricorrente) sono state escluse da qualsiasi corso di formazione, corsi ai quali venivano invece ammessi i soli sigg.ri Ca. ed Er." (cap. 31. Si osserva però, in merito, che in sede di interrogatorio libero la ricorrente ha dichiarato: "forse una volta ho partecipato al corso sulla sicurezza, ma non ricordo
bene").

Ulteriore modalità di vessazione sarebbe stata quella relativa alla gestione delle presenze.

Gi.MO. deduce che i colleghi erano soliti redigere un foglio presenze ufficiale e un foglio presenze reale, così da non dichiarare né i giorni lavorati in coincidenza con i riposi contrattualmente previsti né le ore di lavoro straordinario.

Lo straordinario, peraltro, sarebbe stato retribuito sotto forma di trasferte mai di fatto effettuate (capp. 25 e 26, ricorso).

In effetti, in atti vi è documentazione relativa a trasferte della ricorrente (da, Milano a Torino, da Milano a Malpensa e da Milano a Fiera - docc. 10-11, fascicolo ricorrente; docc. 7, fascicolo resistente), nonostante la stessa procuratrice della convenuta abbia dichiarato: "non mi risulta che la ricorrente abbia fatto trasferte in altri parcheggi. Che io sappia la Mo. ha lavorato alla bicocca e basta. A me risulta che le competente a titolo di trasferta le sono state pagate per l'utilizzo fatto dell'autovettura aziendale all'interno della città, quando ha dovuto fare delle commissioni per il parcheggio. Con riguardo alla sig.ra Mo. non saprei dire quali commissioni le siano state richieste o abbia potuto fare" (cfr. verbale udienza 11/7/2012).

Anche ove confermata, tuttavia, e al pari delle altre sin qui vagliate, tale circostanza non potrebbe in alcun modo dimostrare la sussistenza del dedotto atteggiamento persecutorio, in quanto rappresentativa di un comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti della generalità dei dipendenti ("non ho mai chiesto di essere autorizzata all'uso di un'autovettura. Non ho mai lavorato né a Torino, né alla Malpensa, né alla Fiera: non mi sono mai mossa dalla mia sede originaria. Per segnare le ore, Do. aveva istruito Ca. ed Er. perché usassero due computer, in uno c'erano le presente vere, nell'altro le presente false, una parte delle presente venivano trasformate in tra ferie. Era Do., il capo area, a smistare le ore tra vere e false, e a fare i conti di quello che poteva mettere come straordinario e quello che doveva mettere in trasferta. Ho provato a chiedere spiegazioni su quello che accadeva, ma non ho mai capito niente e non mi è mai stato spiegato niente. Lo faceva con tre di noi, con la quarta no perché non si fidava e infatti è stata licenziata dopo poco"; cfr. interrogatorio libero).

Risultano riferibili alla sola ricorrente, invece, le doglianze concernenti la mancata trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full-time (cap. 28) e il divieto opposto allo svolgimento di ore di lavoro straordinario (cap. 29).

A questo riguardo, tuttavia, non può non rilevarsi che il datore di lavoro non ha alcun obbligo di aderire alla richiesta di trasformazione dell'orario di lavoro, né vi è alcun diritto del lavoratore di svolgere ore di lavoro straordinario.

Quanto alla genericità delle ulteriori deduzioni, si osserva quanto segue.

Gi.MO. ha dedotto che "la convenuta, a mezzo del sig. Er., sottoponeva per tutta la durata del rapporto di lavoro la ricorrente ad un continuo controllo dell'operato, allo scopo di provocare nella stessa un forte stato di tensione" (cap. 13), che "in particolare, il sig. Er., anche dopo il termine del proprio turno di lavoro, contattava continuamente la ricorrente sul proprio telefono cellulare o si recava sul luogo di lavoro di persona, durante le ore di vendita dei biglietti per il parcheggio, in concomitanza con gli spettacoli teatrali, in assenza di una fondata ragione ed allo scopo di indurre in errore nella vendita o nella gestione della cassa" (cap. 14), che "il sig. Er. controllava continuamente l'operato del ricorrente minacciando di riferirne gli errori al sig. Do. ed esporla a sanzioni disciplinari" (cap. 16), che "il sig. Do., nel corso di tutto il rapporto di loro, ha modificato i compiti assegnati alla ricorrente in assenza di qualsivoglia preavviso al solo scopo di rimproverarla con tono di voce alterato, ed alla presenta degli altri dipendenti, per l'erronee (a suo dire) mansioni svolte" (cap. 17).

Dai capitoli di prova appena richiamati emerge in primo luogo il contenuto valutativo che caratterizza la maggior parte delle deduzioni attoree (capp. 13, 14, 16). Tutte le suddette circostanze, inoltre, risultano viziate da un'inemendabile genericità che attiene tanto al contenuto concreto dei fatti e degli episodi oggetto di doglianza, quanto alla collocazione temporale degli stessi.

Peraltro, nemmeno nel corso dell'interrogatorio libero parte ricorrente è riuscita a fornire un'indicazione più precisa degli episodi nei quali si sarebbe estrinsecata la condotta mobbizzante della parte datoriale, poiché ha sostanzialmente riferito di circostanze oltremodo generiche e, comunque, di un comportamento scorretto agito nei confronti di tutti i dipendenti.

Gi.MO. ha, infatti, dichiarato: "Do. mi cambiava i compiti nel senso che, ad esempio, quando ci fu la nevicata, mi mandò improvvisamente fuori al freddo alla cassa automatica, non so a far cosa. Lo fece anche con un altro collega e ci lamentammo per questo. Era una cosa inutile, sarebbe bastato alzare la sbarra. A me veniva sempre chiesto di pulire i bagni, anche se nel contratto effettivamente era previsto. Comunque era sempre così, le cose normali che facevo prima non le potevo fare, continuavano sempre a intervenire, era una persecuzione unica, di Do. e di Er. Perseguitavano tutti, siamo andati via tutti. Io mi sarei dovuta occupare di preparare i biglietti prepagati al computer, controllare con la videocamera quando arrivavano i clienti e correre a portare i biglietti; nonostante lavorassimo al gate dovevamo andare anche ai piani sotterranei per spostare le transenne per far entrare i clienti che entravano; dovevo anche operare da ausiliario della sosta. Non mi facevano fare quello che ero capace di fare, con questa ditta non si capiva e non si faceva nulla: non sarei mai dovuta andare ai piani di sotto, anche tenuto conto dei miei problemi di salute, non sarei dovuta andare davanti alla cassa automatica, non avrei dovuto spalare la neve. Quel parcheggio si allagava sempre e noi dovevamo anche andare giù a spostare le transenne, a spazzare e a togliere le foglie.
Tutti venivano obbligati a farlo, era un ricatto unico, non ho mai lavorato così in sette anni... Eravamo obbligati a firmare ogni cosa che ci mettessero sotto il naso... Eravamo obbligati a firmare tutto, cose non vere: mascherine non date, trasferte non fatte e così via" (cfr. verbale 11/7/2012).

Infine, episodi esemplificativi dell'atteggiamento discriminatorio e vessatorio della parte datoriale sarebbero stati, secondo la prospettazione attorea, quelli del 31/12/2009 e del 14/2/2010.

In occasione del primo, Gi.MO. sarebbe stata "costretta dai sigg.ri Er. (dipendenti della convenuta) e Ca. a sottoscrivere una lettera di scusa da inviare alla sede principale della AP. a mezzo fax" per un'errata registrazione dell'incasso (cap. 12, ricorso), a differenza di quanto accaduto per un errore commesso dal collega Ca. nei cui confronti non sarebbe stato preso provvedimento alcuno.
In occasione del secondo, dopo essere stata invitata dal collega Do. a lasciare la sbarra sollevata per consentire l'immediata uscita degli utenti dal parcheggio, la ricorrente avrebbe ricevuto da quest'ultimo un sms del seguente tenore: "... ma tu ti rendi conto in che posizione metti il tuo responsabile se con li quella persona (vigile di polizia sig. vi.) dici che io ve l'ho sempre detto e ieri c'era casino. In teoria come dicevo io si dovrebbe affermare che le macchine escono in poco tempo invece sicuramente, per togliersi dei problemi a quella persona (comandante viola vigile) avrete detto che c'è sempre casino, che la gente si lamenta che voi l'avete detto e che avete ricevuto quelle disposizioni dalla collaborazione" (cap. 23, ricorso).

Ebbene, è evidente che, anche ove provati, i suddetti episodi mai avrebbero consentito di ritenere fondate le pretese attoree.

Due soli eventi, infatti, anche ove espressione di una sconveniente, illegittima o arbitraria condotta datoriale, non potrebbero in alcun caso dimostrare la sussistenza di quel disegno persecutorio, di quell'elemento soggettivo, sul quale parte ricorrente fonda tutte le proprie domande e il cui accertamento è necessario ai fini dell'accoglimento delle stesse.
D'altronde, si è già avuto modo di osservare che il mobbing sussiste solo nel caso di una "molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio" (Cass. Civ., Sez. Lav., 17 febbraio 2009, n. 3785): di tutto questo nel caso di specie non vi è prova alcuna poiché mancano quelle circostanze puntuali, quegli episodi specifici che, solo ove collegati fra loro da un intento persecutorio e lesivo, potrebbero portare all'accertamento della sussistenza di un comportamento mobbizzante o, più in generale, vessatorio.

Sicché, così come prospettata in ricorso, la vicenda lavorativa della ricorrente non pare di per sé idonea a fondare una domanda di risarcimento del danno per responsabilità ex art. 2087 c.c. per il titolo ivi azionato.

In mancanza di prova del fatto illecito dedotto dalla parte ricorrente, ogni indagine circa la sussistenza di un nesso causale tra la presunta patologia e le condizioni lavorative risulta a priori preclusa, e preclusa risulta quindi anche ogni pronuncia in merito al danno del quale si chiede ivi ristoro.

Per tutti questi motivi, il ricorso deve essere integralmente rigettato.
Alla luce di quanto emerso nel corso del giudizio in ordine all'ingiustificato pagamento in favore della ricorrente di somme a titolo di trasferta (cfr. docc. 7, fascicolo resistente), consegue l'obbligo di provvedere - ex art. 36 D.P.R. 600/1973, così come modificato dall'art. 19, legge 413/1991, e dall'art. 37, co. 31. D.L. 223/2006 ("i soggetti pubblici incaricati istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza nonché gli organi giurisdizionali, requirenti e giudicanti, penali, civili e amministrativi e, previa autorizzatone, gli organi di polizia giudiziaria che, a causa o nell'esercizio delle loro funzioni, vengono a conoscenza di fatti che possono configurarsi come violazioni tributarie devono comunicarli direttamente ovvero, ove previste, secondo le modalità stabilite da leggi o norme regolamentari per l'inoltro della denuncia penale, al comando della Guardia di finanza competente in relazione al luogo di rilevazione degli stessi, fornendo l'eventuale documentazione atta a comprovarli") - alla trasmissione degli atti alla Guardia di Finanza per quanto di competenza.
In considerazione della qualità delle parti e della peculiarità della vicenda, si ritiene sussistano giuste ragioni per procedere alla compensazione integrale delle spese di lite.

Stante la complessità della controversia, visto l'art. 429 c.p.c., si riserva la motivazione a 5 giorni.

P.Q.M.

Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso.
Compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Riserva a 5 giorni il deposito della motivazione.