Cassazione Civile, 22 novembre 2012, n. 20575 - Infortunio mortale e risarcimento del danno


 

 

Fatto


Nel febbraio del 1999, G. B., con M. e S. C., evocò in giudizio, dinanzi al tribunale di Tolmezzo la s.n.c. Impresa C., insieme con R. M. e R. C. e G. Di B., chiedendone la condanna al risarcimento danni conseguenti alla morte del loro congiunto, Giovanni C., deceduto a seguito di un infortunio sul lavoro nell'agosto del 1989.

Il giudice di primo grado - dinanzi al quale vennero riunite la causa risarcitoria e quella di garanzia autonomamente instaurata dai convenuti nei confronti della compagnia assicurativa La Fondiaria - accolse la domanda risarcitoria, rigettando quella di manleva proposta dall'impresa, ritenendo che la polizza assicurativa operasse soltanto per il c.d. "danno differenziale" e per quanto dovuto all'Inail a titolo di regresso, così che le voci di danno liquidate ai superstiti non trovavano copertura in detta polizza.

La corte di appello di Trieste, investita del gravame proposto dai convenuti in prime cure, lo rigettò.

La sentenza è stata impugnata dal fallimento C. e dagli appellanti con ricorso per cassazione sorretto da 6 motivi di doglianza e illustrato da memoria.

Resiste con controricorso La Fondiaria s.p.a.

Diritto


Il ricorso è infondato, e va pertanto rigettato (in tale rigetto assorbita ogni questione, sollevata dalla contro ricorrente, sul tema, pur denunciato in sede di appello e qui riproposto al foglio 7 del controricorso come "questione rilevante non censurabile con ricorso incidentale condizionato", dell'ammissibilità dell'intervento della curatela fallimentare - mentre non colgono nel segno le ulteriori questioni di ammissibilità del ricorso sollevate all'esito della enunciazione, da parte della difesa ricorrente, di quesiti di diritto a conclusione dei motivi di censura della sentenza impugnata, da ritenersi tanto impropria quanto irrilevante quoad iudicium).

Con il primo motivo, si denuncia, della sentenza impugnata, il vizio di insufficiente, petitoria, contraddittoria od incomprensibile motivazione su fatti decisivi per il giudizio, consistenti nelle 1) asserita chiarezza della clausola interpretanda; 2) asserito orientamento della giurisprudenza di cassazione contrario alla contestualizzazione storica dei richiami alla legge contenute nelle clausole da interpretarsi; 3) asserita conformità della fattispecie a quella oggetto delle sentenze 4920/04, 5507/04 e 11679/03 della cassazione; 4) asserita esistenza di una necessaria correlazione fra la valutazione del rischio all' atto della stipula del contratto assicurativo e la natura delle prestazioni dovute a titolo di indennizzo, con conseguente necessitata limitazione della manleva alle sole somme rientranti nell'assicurazione sociale, ex art. 360 n. 5 c.p.c. Il motivo è privo di pregio.

Esso si infrange, difatti, sul corretto (pur se sintetico) impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in cui ha ritenuto, in conformità con la consolidata ed uniforme giurisprudenza di questa corte, che la clausola controversa (l'art. 5 delle condizioni generali di polizza), andasse interpretata - quanto al suo riferimento "alle somme eccedenti l'indennità liquidata a norma dell'assicurazione obbligatoria" - nel senso di ricomprendere in esse quelle specificate in contratto e non altre, con conseguente esclusione di qualsivoglia profilo risarcitorio riconducibile ad ipotesi di danno non patrimoniale, da ritenersi estraneo al sistema risarcitorio previsto dalle disposizioni del DPR 1124/1965 (applicabili nella specie ratione temporis, senza che possa ritenersi rilevante in parte qua l'intervento della Corte costituzionale del 1991 - con la sentenza n. 485 -, recepito poi a livello normativo dal D.lgs. 38/2000), come più volte chiarito da questo giudice di legittimità (Cass. 16376/2006; 28834/2008; 10834/2010, che specificano come, per tali ipotesi, continua a trovare applicazione la disciplina antecedente al poc'anzi ricordato D.lgs. 38 del 2000, mentre non pertinenti).

La piana interpretazione della clausola in esame, pertanto, già sul piano soltanto letterale, conduce alla conclusione espressa dalla corte territoriale, atteso che l'esplicito riferimento, contenuto nel contratto, allo disposizioni legislative (quelle vigenti all'epoca) risulta tranchant rispetto a qualsiasi ulteriore dubbio interpretativo in argomento.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione della fondamentale regola iuris di cui al primo comma dell' art. 1362 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.

Con il terzo motivo, si denuncia ulteriore violazione dell'art. 1362 c.c. comma l nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto di prescindere dalla contestualizzazione storica del richiamo al DPR 1124/1965; motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo. Con il sesto motivo, si denuncia motivazione contraddittoria ed insufficiente su fatto decisivo.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente attesane l'intrinseca connessione, non hanno giuridico fondamento. Alcuna "contestualizzazione storica", alcuna "innovativa interpretazione del quadro normativo" era consentita, difatti, al giudice di appello a fronte delle inequivoche indicazioni provenienti, in subiecta materia, dalla giurisprudenza di questa corte regolatrice (del tutto fuori fuoco appalesandosi, per converso, quella citata dal ricorrente, afferente a diverse fattispecie), mentre la restante parte delle articolate argomentazioni della difesa di parte ricorrente anelano, in realtà, non diversamente dalla censura contenuta nel primo motivo del ricorso, ad una re-interpretazione della clausola contrattuale, attraverso un complesso coacervo di censure irrimediabilmente destinati ad infrangersi, ancora una volta, sull'incensurabile impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello, dacché essi, nel loro complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all'impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle - fra esse - ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione un elemento di prova con esclusione di altri, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello dì indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E' principio di diritto ormai consolidato quello per cui l'are. 360 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto - delle valutazioni compiute dal giudice d'appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove ed. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte la rivalutazione di un processo di interpretazione negoziale (ormai cristallizzato quead effectum) sì come emerso nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello - non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

In particolare, quanto all'interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto della clausola della convenzione negoziale per la quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati ai giudice di merito, ma esclusivamente il- rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore agli artt. 1362 ss. c.c.) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n.2074/2002) : l'indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata) , con la conseguenza che deve essere 'ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Con il quarto motivo, si denuncia mancata applicazione dell' art. 1362 comma 2 cc; motivazione contraddittoria.

La doglianza non può essere accolta, prima ancora che per la sua infondatezza nel merito (le provvisionali versate dalla compagnia assicurativa afferivano al risarcimento dei danni materiali e morali da reato, impregiudicata, pertanto, la questione del risarcimento del danno non patrimoniale) attesane sua non redimibile inammissibilità: il ricorrente, nel lamentare la mancata considerazione, da parte del giudice territoriale, del comportamento tenuto dalle parti dopo la conclusione del contratto, omette del tutto di indicare alla corte in quale fase del giudizio di merito la questione (di cui manca ogni traccia nella sentenza di appello) sia stata tempestivamente sollevata e illegittimamente pretermessa.

Con il quinto motivo, si denuncia mancata applicazione dell' art. 1370 c.c.; contraddittoria motivazione sopra un fatto decisivo.

La censura è infondata.

L'interpretazione contra stipulatorem, difatti, è consentita al giudice sol che le regole ermeneutiche poste (secondo un preciso ordine gerarchico) dal legislatore agli artt. 1362- 1365 non consentano di pervenire ad un soddisfacente risultato interpretativo, onde la chiarezza ed univocità del senso letterale delle espressioni usate in seno alla clausola negoziale in contestazione non consentono il ricorso ai successivi criteri di cui agli artt. 1366-1371.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese - che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate - segue come da dispositivo.

P.Q.M.



Decidendo sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi e dichiara interamente compensate le spese del giudizio di cassazione