Tribunale Ordinario di Cagliari, Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari e d'udienza preliminare, 13 luglio 2011 - Tre vittime nella raffineria Sarroch: responsabilità individuali ed esclusione della responsabilità amministrativa


 

Responsabilità per la morte di tre operai nella raffineria di Sarroch durante un intervento di manutenzione: le vittime, operai della ditta d'appalto, rimasero intossicate dalle esalazioni presenti in un serbatoio dove stavano effettuando il proprio lavoro di bonifica.

Il Giudice condanna il direttore dello stabilimento, il rappresentante legale della ditta per la quale lavoravano le tre vittime e il direttore generale della spa.

Assolve invece il responsabile dell'area in cui morirono gli operai e il direttore delle operazioni industriali.

Nessuna sanzione inoltre per la spa stessa, chiamata in causa attraverso il proprio legale rappresentante.
Il giudice ha infatti escluso la responsabilità della SA. s.p.a. in ordine all'illecito amministrativo perché il fatto non sussiste, in quanto il reato non fu commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente. La società, che in precedenza aveva già pagato un risarcimento di cinque milioni di euro alle famiglie che non si sono costituite parte civile, non dovrà dunque pagare la sanzione di 800 mila euro chiesta dai pm.

 




 

 

 

 

 

N. 5389/09 RNR

N.22/10 GIP


TRIBUNALE ORDINARIO DI CAGLIARI
SEZIONE DEI GIUDICI PER LE INDAGINI PRELIMINARI E DELL'UDIENZA PRELIMINARE
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE



Dott. GIORGIO ALTIERI
ha pronunciato, in Camera di Consiglio, la seguente
SENTENZA

 

nei confronti di:
1) Sc. DARIO, nato a La Spezia il 4.8.1958, elettivamente domiciliato a Milano, via D. Manin n. 3, presso lo studio dell'avv. Adriano Raffaella
LIBERO PRESENTE

2) Gr. ANTIOCO MARIO, nato a Fonni l'11.12.195,. residente a Cagliari, via Monteverdi n.20,
LIBERO PRESENTE

3) G. GUIDO, nato a Cagliari il 31.3.196,, ivi elettivamente domiciliato, via S. Sonnino n. 169, presso lo studio dell'avv. Francesoo Onnis,
LIBERO PRESENTE

4) At. ANTONELLO, nato a Cagliari il 13.6.1959. ivi elettivamente domiciliato, via S. Sonnino n. 169, presso lo studio dell'avv. Francesco Onnis,
LIBERO ASSENTE

5) Le. FRANCESCO, nato a Cagliari il 3.12.1964, ivi elettivamente domiciliato, via Scano n. 26, presso lo studio dell'avv. Nicoletta Santucciu,,
LIBERO PRESENTE

6) Sa. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore Gian Marco M., elettivamente domiciliata a Milano, via D. Manin n. 3, presso lo studio dell'avv. Francesco Mucciarelli,


IMPUTATI
CAPO A)
• Sc. Dario in qualità di datore di lavoro ai sensi dell'art. 2 lett b., D.Lgs. 81/2008 in quanto procuratore e direttore generale della Sa. con responsabilità dell'organizzazione della stessa e di esercizio dei poteri decisionali di spesa;
• Gr. Antioco Mario, nato a Fonni (NU) il giorno 11.12.1958, in qualità di dirigente in quanto direttore delle operazioni industriali giusta delega del 31.1.2002;
• G. Guido, in qualità di dirigente in quanto direttore di raffineria giusta delega del 27.9.2007;
• At. Antonello, in qualità di dirigente in quanto responsabile dell'Area Produttiva Conversione ed Utilities;
• Le. Francesco, in qualità di direttore tecnico e Legale rappresentante della C.M.S. a r.1. e quindi datore di lavoro;


Del delitto p. e p. dall'art. 589, I°, II° e ult. comma c.p., poiché in cooperazione tra loro cagionavano per colpa - consistita in imprudenza, imperizia, negligenza e, secondo le rispettive competenze e attribuzioni, nella violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro sottoindicate - la morte di So. Luigi, Mu. Bruno e Me. Daniele, dipendenti della C.M.S. ARL ( ditta appaltatrice della Sa. s.p.a.), addetti nell'occasione all'impianto MHC1, in corso di "fermata bonifica" sin dal precedente 13 maggio, ed in particolare comandati alla pulizia degli accumulatori ivi presenti.

Fatto consistito nell'essere il So. entrato o comunque nell'essersi affacciato all'interno dell'accumulatore D 106, ove dovevano essere eseguiti lavori di lavaggio analoghi a quelli già ultimati dalla ditta nei giorni precedenti su altri accumulatori - apparentemente nelle identiche condizioni del D 101 - senza adottare alcuna precauzione e non dotato di rilevatori di ossigeno, perdendo pressoché immediatamente i sensi e restando inanimato all'interno dell'accumulatore, privo di ossigeno essendo in atto un flussaggio di azoto introdotto per mezzo di una manichetta attraverso il passo d'uomo lasciato aperto, e ciò secondo una procedura di bonifica difforme da quella codificata, non prevista e non segnalata agli operatori.
Incidente che determinava l'immediato intervento dei colleghi Mu. e Me. i quali, al fine di soccorrere il So., si introducevano anch'essi nell'accumulatore, tutti decedendo per asfissia. In particolare, nelle qualità sopra indicate:
Sc., in qualità di datore di lavoro, in violazione dell'art. 26, comma 3, D.Lgs.. 81/2008 e dell'art.5, D.L.vo 334/1999 (concernente il controllo dei pericoli di incidenti rilevanti al quale lo stabilimento Sa. è sottoposto):
l) ometteva di elaborare il documento unico di valutazione dei rischi (D.U.V.R.I).) riferito ai lavori in atto, nella circostanza dell'incidente, nell'impianto MHCI e di promuovere la cooperazione ed il coordinamento tra i responsabili della gestione dell'impianto MHCI ed i responsabili delle imprese appaltatrici, e comunque ometteva l'adozione di tutte le misure idonee a prevenire gli incidenti rilevanti ed a limitarne le conseguenze; adottando invece ai fini della sicurezza e del coordinamento con le imprese appaltatrici modalità organizzative riferibili ai cantieri temporanei e mobili (cantieri edili) di cui al Titolo IV° del D.L.vo 81/2008; e prevedendo, altresì, quale strumento organizzativo e di prevenzione ai fini della sicurezza un documento a formazione progressiva denominato "permesso di lavoro" - peraltro non previsto per i dipendenti Sa.-così strutturato:

1° quadro, compilato dal soggetto richiedente, che specifica data di emissione, unità richiedente, tipologia e localizzazione del lavoro.


2° quadro. compilato dal soggetto rilasciante, che indica i rischi specifici e le relative misure di sicurezza da adottare, con designazione del delegato competente al rilascio della autorizzazione: documento nel caso concreto ed ai fini del coordinamento e dell'informazione:
• inadeguato, in quanto recante indicazioni erronee circa gli interventi effettuati;
• generico, quanto alla indicazione dei rischi;
• insufficiente, quanto alle misure di sicurezza imposte;
• incerto, quanto al momento della compilazione e quindi circa l'attualità delle condizioni descritte.

Sc., Gr. e G., in violazione dell'art. 26, comma 1 letto b, D.Lgs. 81/2008
2) omettevano di fornire alla ditta appaltatrice C.M.S. dettagliate informazioni circa i rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui era destinata ad operare, ed in particolare circa il rischio
specifico costituito dalla presenza, all'interno dell'accumulatore DI06 di una manichetta convogliante azoto;

Sc., Gr. e G., in violazione dell'art. 26, comma 2 lett. b, D.Lgs. 81 /2008
3) omettevano di informare le ditte appaltatrici, che dovevano eseguire operazioni all'interno dell'accumulatore D106, circa i rischi specifici dovuti alle interferenze fra i lavori delle diverse
imprese (ivi compresa la Sa. s.p.a.) coinvolte nell'esecuzione dei lavori di bonifica e manutenzione dell'impianto MHCI, e quindi di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui erano esposti i lavoratori.

Sc., Gr. e G., in violazione dell'art. 17, comma 1 lett. a) in combinato disposto con l'art. 28 e 223 D.Lgs. 81/2008:
4) omettevano nella redazione del D.V.R. di cui all'art. 17 D.Lgs. 81/2008, di valutare i rischi specifici connessi al flussaggio con azoto dell'accumulatore DI06 e di adottare le conseguenti misure di sicurezza.

Sc., Gr. e G. in violazione dell'art. 18 lett. z D.Lgs. 81/2008,
5) omettevano di aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi nelle procedure di bonifica dell'accumulatore D106; segnatamente non aggiornando il documento di valutazione dei rischi (DVR) a seguito della decisione di sottoporre il predetto accumulatore, successivamente alla sua ciecatura di isolamento e apertura del passo d'uomo, a flusso di azoto, e ciò in difformità da quanto previsto dalla procedura aziendale codificata, ed in particolare dalle "Istruzioni di Fermata e Bonifica" datate novembre 2007, che prevedono per le operazioni di bonifica degli accumulatori quanto segue:
1. preliminare lavaggio a caldo con idrogeno;
2. prosieguo del lavaggio con idrogeno e successivo graduale raffreddamento;
3. lavaggio con azoto, ripetuto più volte fino al raggiungimento dei valori previsti;
4. bonifica con vapore da effettuare prima dell'apertura dell'accumulatore e previa ciecatura dell'apparecchiatura:
e quindi l'adozione di misure di sicurezza idonee a prevenire i rischi connessi alla diversa procedura adottata.

Sc., Gr., G. e At., in violazione dell'art. 227, D.Lgs. 81 2 2008;
6) omettevano di rendere identificabile la natura del contenuto della manichetta (nel caso di specie adducente azoto) introdotta nell'accumulatore ed i conseguenti rischi connessi
all'avvicinamento (anche casuale) o all'ingresso nello stesso: rischi aggravati dalla decisione di mantenere "in atmosfera di azoto" l'interno del DI06 dopo l'apertura del passo d'uomo, e ciò
in difformità da quanto previsto dalla procedura aziendale codificata (vds supra n.5) che era stata precedentemente adottata per gli altri accumulatori, procedendo quindi alle operazioni di lavaggio con solo azoto e con accumulatore aperto (fin dal 23 maggio 2009).

Sc., Gr., G., At., in violazione dell'art. 163, D.Lgs. 81/2008;
7) non adottavano la segnaletica di sicurezza di cui agli allegati XXIV e XXV del D.Lvo 81/2008 nonostante la condizione di pericolo costituita dal flussaggio dell'azoto all'interno
dell'accumulatore D 106.

Sc., Gr., G., At., in violazione degli arti 63 e 64 comma 1 lett a), D.Lgs. 81/2008;
8) nell'impiego di azoto gassoso all'interno dell'accumulatore DI06, non adottavano misure idonee ad evitare, o comunque a ridurre al minimo, il formarsi di concentrazioni della sostanza asfissiante, ad evitare la diffusione nell'ambiente del predetto gas e comunque a rendere non accessibile l'interno dell'accumulatore, a seguito dell'apertura del passo d'uomo.

Le., in violazione dell'art. 17 in relazione all'art. 28 D.Lgs. 81/2008;
9) ometteva di valutare adeguatamente i rischi connessi all'ingresso negli accumulatori e di conseguenza non predisponeva le procedure per l'accesso negli stessi (accesso previsto nel P.S.C.) e di adottare le conseguenti misure di sicurezza con particolare riferimento al rischio azoto.

Le., in violazione dell'art. 36 e 37 D.Lgs. 81/2008;
10) ometteva di formare adeguatamente i lavoratori sui rischi connessi all'ingresso negli accumulatori e quindi circa la necessità di avvicinarsi ed accedere allo stesso solo previa adozione di misure idonee a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, in totale conoscenza delle condizioni obiettive degli accumulatori.


SC., Gr., G. e AT., per colpa generica consistita:
11) nell'avere consentito e comunque non impedito che di fatto il permesso di lavoro fosse consegnato al caposquadra della ditta C.M.S. prima dell'autorizzazione all'inizio dei lavori da parte del competente funzionano Sa., cosi da ingenerare nei dipendenti della ditta appaltatrice il convincimento che fosse imminente l'inizio dei lavori;
12) nell'avere omesso di inserire nel permesso di lavoro l'analisi e la valutazione dei rischi interferenziali, previo sopralluogo ed accertamento dell'effettivo stato dei luoghi e ciò in particolare durante il periodo di fermata degli impianti che implicava la copresenza di più imprese appaltatrici.
13) nell'avere consentito o comunque non impedito che nonostante la condizione di pericolo estesa anche nelle immediate vicinanza dell'accumulatore (privo di chiusura ermetica) fosse installato un ponteggio utilizzabile per l'accesso all'interno dell'accumulatore.

In Sarroch, il 26.5.2009.

 

CAPO B)
Sa. s.p.a. in persona del legale rappresentante pro-tempore M. Gian Marco, nato a Genova il 29.11.1936, residente in Milano, Galleria de Cristoforis n. 8, presidente del Consiglio di amministrazione:
dell'illecito amministrativo previsto dagli artt. 5 e 25 septies D.L.vo 231/2001, in relazione al reato di omicidio colposo plurimo di cui al capo che precede contestato a Sc., Gr., G. e At. nella qualità il primo di datore di lavoro e gli altri di dirigenti, poiché questi ultimi, agendo nell'interesse della Sa. s.p.a. e con vantaggio per la stessa, omettevano di adottare un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire fatti della stessa specie di quello contestato, o comunque, omettevano di attuarlo efficacemente, in quanto, nel procedere - o consentire di procedere - in difformità da quanto previsto dalle "Istruzioni di Fermata e Bonifica" datate novembre 2007, alle operazioni di lavaggio dell'accumulatore D106 con solo azoto e con accumulatore aperto, come specificato nel capo che precede al punto I):
• omettevano di esplicare i doverosi compiti di pianificazione, di presidio e di accurata vigilanza resi necessari dalla natura "non ordinari"" dell'operazione di bonifica del1'accumulatore, resa, peraltro, ancor più "pericolosa" in quanto effettuata mediante utilizzo di una manichetta di azoto introdotta all'interno di un accumulatore lasciato aperto;
• non promuovevano adeguate azioni di cooperazione, di informazione e di coordinamento con i responsabili dell'impresa appaltatrice in relazione ai rischi interferenziali connessi all'attività di fermata, bonifica e manutenzione dell'impianto MHCl, con particolare riferimento alla procedura adottata per il lavaggio dell'accumulatore D106. risultata difforme rispetto a quella utilizzata per gli altri accumulatori e di cui era stata incaricata la stessa impresa appaltatrice, e comunque non adottavano tutte le misure idonee a prevenire gli incidenti rilevanti ed a limitarne le conseguenze.
Vantaggio consistito nel fatto che, così procedendo, riducevano i tempi - e conseguentemente i costi -della fermata dell'impianto.

In Sarroch, il 26.5.2009.

INDICE

PARTE 1

INQUADRAMENTO GENERALE



1.1) L'incidente sul lavoro del 26 maggio 2009 (p. 5)
1.2.1) I lavori di manutenzione dell'impianto MHCI : la procedura prevista dalle Istruzioni di fermata e bonifica (p. 9)
1.2.2) La bonifica dell'accumulatore HD 106 (p. 10)
1.2.3) I contrasti sulla ricostruzione del procedimento di bonifica, e in particolare sulla bonifica con vapore (p. 15)
1.2.4) Gli adempimenti successivi alla bonifica con vapore (p. 25)
1.3) Il permesso di lavoro (p. 27)


2.1) La condotta di Luigi So. (p. 31)
2.2) La condotta di Renato Valerio Po. (p. 35)
2.3) La condotta di Daniele Me. e Bruno Mu. (p. 37)

3.1) Le posizioni soggettive degli imputati: la ricostruzione del Pubblico Ministero (p. 38)
3.2) La procura conferita al direttore di raffineria (p. 42)
4) L'impostazione della richiesta di rinvio a giudizio e la valutazione dei singoli profili di colpa (p. 48)

PARTE II

I SINGOLI PROFILI DI COLPA CONTESTATI


l.1) La contestazione di cui al capo A), punto l: premessa (p. 52)
1.2.1) I vizi del permesso di lavoro (p. 54)
1.2.2) L'applicazione del titolo IV del D. lgs. 81/2008 (p. 55)
1.3) L'omessa elaborazione del DUVRI (p. 58)
1.4) Conclusioni sul punto I) (p. 65)

2.1) I difetti contenutistici della valutazione dei rischi (punti 4 e 5): l'omessa
valutazione del flussaggio di azoto e il mancato aggiornamento del DVR (P. 66)
2.2) I difetti di informazione e coordinamento (punti 2 e 3): le riunioni di coordinamento (p. 70)
2.3) Il profilo di colpa di cui al capo A), punto 11) e i vizi del permesso di lavoro (punti 1 e 12) (p. 76)

3.1) I profili di colpa di cui ai punti 8) e 13) (p. 86)
3.2) L'omessa adozione della segnaletica e del contenuto della manichetta (punti 6 e 7) (p. 87)

4.1) La posizione di Le.: i vizi del Piano operativo di sicurezza (p. 97)
4.2) L'aggiornamento del POS (p. 99)
4.3) Conclusioni sui punti 9) e 10) (p. 103)


5.1) Conclusioni: la prevedibilità dell'evento (p. 104)
5.2.1) Il nesso di causalità tra le condotte colpose e la morte di So. (p. 106)
5.2.2) Il nesso di causalità tra le condotte colpose e la morte di Me. e Mu. (p. 108)
5.3) Le posizioni individuali degli imputati (p. 111)

PARTE III

LA RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA DELL'ENTE


1) Il concetto di "interesse o vantaggio" quale criterio di imputazione del reato alla persona giuridica (p. 114)

2) Il concetto di interesse o vantaggio nei delitti di omicidio o lesioni colpose con violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (p. 117)

3) La disciplina applicabile (p. 121)
4) L'interesse dell'ente nel caso specifico (p. 123)

PARTE IV

CIRCOSTANZE E DETERMINAZIONE DELLA PENA: LA RESPONSABILITA' CIVILE DA REATO

1) Circostanze e determinazione della pena (p. 127)
2) La responsabilità civile (p. 130)

 

 



CONCLUSIONI DELLE PARTI


P.M.: affermata la responsabilità penale degli imputati in ordine al delitto loro ascritto, con l'attenuante del risarcimento del danno e per Le. con attenuanti generiche, condanna di Sc. e Gr. alla pena di due anni e otto mesi di reclusione ciascuno, di G. a quella di due anni e quattro mesi di reclusione, di At. alla pena di due anni di reclusione e di Le. a quella di un anno di reclusione.
Affermata la responsabilità della Sa. s.p.a. per l'illecito amministrativo contestato, con la riduzione di cui all'art. 12, secondo comma, lett. a), D. Igs. 231/2001, condanna alla sanzione pecuniaria di 800.000 euro.
Parte civile (Avv. Amat): conclude in conformità alle conclusioni scritte.
Parte civile (Avv. Schirò): conclude in conformità alle conclusioni scritte.
Difesa (Avv. Diana): assoluzione di G. con la formula che il giudice riterrà di giustizia.
Difesa (Avv. Raffaello: assoluzione di Sc. con la formula che il giudice riterrà di giustizia.
Difesa (Avv. Santucciu): assoluzione di Le. con la formula più ampia che il giudice riterrà di giustizia.
Difesa (Avv. Mucciarelli): chiede che la Sa. s.p.a. sia assolta dall'addebito ex art. 25-septies perché il reato presupposto non sussiste o in quanto non costituisce reato; ovvero perché il fatto non sussiste per difetto del nesso di causalità; ovvero sia assolta perché le condotte inosservate non furono poste in essere deliberatamente e a vantaggio dell'ente; o infine perché non vi fu un deficit organizzativo, in quanto il modello organizzativo era adeguato, idoneo ed efficacemente attuato.
Difesa (Avv. Onnis): assoluzione di G., Gr. e At. perché il fatto non sussiste, o in subordine perché non costituisce reato. Per Gr. assoluzione per non aver commesso il fatto.




MOTIVI DELLA DECISIONE


Con richiesta di rinvio a giudizio del 20.10.2010 il Procuratore della Repubblica di Cagliari ha esercitato l'azione penale nei confronti di Dario Sc., Antioco Mario Gr., Guido G., Antonello At. e Francesco Le. in ordine al delitto di omicidio colposo aggravato indicato al capo A); ha chiesto inoltre il rinvio a giudizio della Sa. s.p.a. in relazione all'illecito amministrativo contestato al capo B).
All'udienza preliminare, celebrata nella contumacia degli imputati G. e At., si è costituita la Sa. s.p.a.; la FIOM e la CGIL, organizzazioni sindacali danneggiate dal reato, si sono inoltre costituite parti civili.
Esauriti gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti, è stato disposto ai sensi dell'art. 422 c.p.p., l'esame dei consulenti tecnici del Pubblico Ministero e della difesa; il P.M. ha poi prodotto una nota integrativa del proprio consulente, e gli imputati e la Sa. s.p.a., tramite i difensori (muniti di idonee procure speciali), hanno chiesto di essere giudicati con rito abbreviato, richiesta condizionata dalla difesa di Gr., G. e At. all'esame del proprio consulente di parte sulle circostanze oggetto della nota integrativa depositata dal Pubblico Ministero.
Ritenuta l'integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito, è stato disposto il giudizio abbreviato ed è stata ammessa la prova contraria richiesta dal Pubblico Ministero; si è quindi proceduto nuovamente all'esame in contraddittorio dei consulenti di parte, all'esito del quale è stata dichiarata aperta la discussione e le parti hanno rassegnato le conclusioni riportate in epigrafe.
Il contraddittorio, ampiamente articolatosi - oltre che nella discussione orale - con una serie di memorie presentate dalle parti, ha evidenziato tutti gli aspetti di complessità del drammatico incidente sul lavoro che portò alla morte di Daniele Me., Bruno Mu. e Luigi So..
Il fatto, innanzitutto, si verificò all'interno dello stabilimento industriale di un'impresa di grandi dimensioni e con un'organizzazione assai articolata.


Ciò pone una serie di problemi sia nella ricostruzione del fatto, che come sempre in questo genere di reati deriva da una molteplicità di fattori (tra i quali certamente rientra il comportamento di una delle vittime), che nel suo corretto inquadramento giuridico e nella ricostruzione del percorso causale.
Ulteriore fattore di complessità è il tipo di imputazione che è stato formulato, che si correla anche alla responsabilità amministrativa degli enti, ex D. Lgs. 8 giugno 200l, n. 23l.
Infatti non soltanto la contestazione di cui al capo B), ma anche quella elevata al capo A) (in particolare al punto 1), investe i profili generali dell'organizzazione d'impresa riguardo alla sicurezza del lavoro, individuati come causa specifica dell'incidente.


Schematizzando e semplificando, si può infatti dire che secondo l'impostazione accusatoria:
> la Sa. aveva impostato il proprio sistema di gestione della sicurezza dei lavori in appalto, ed in particolare la valutazione dei rischi, in modo non conforme agli standard normativi e sostanzialmente inefficace;
> da ciò sarebbe discesa la mancata valutazione del rischio specifico che portò all'incidente mortale;
> da tale mancata valutazione sarebbe derivata inoltre la mancata previsione delle condotte impeditive idonee a prevenire l'evento e la creazione di una falsa apparenza che, invece, avrebbe contribuito alla sua realizzazione.
Non si può poi trascurare, nella valutazione della responsabilità degli imputati, l'assunto - enunciato nel capo B) - per cui la ragione di fondo di una condotta difforme dalle procedure codificate sarebbe stata una scelta di risparmio economico.
Si tratta dunque di contestazioni che investono in modo radicale un'organizzazione del sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro che, come si è detto e come si vedrà, è particolarmente articolata, sia per il contesto in cui si inserisce, sia per le modalità in cui è concretamente strutturata.


A fronte della complessità delle questioni, anche la motivazione è necessariamente analitica, dovendosi dare conto di ciascuna delle numerose questioni poste dallo sviluppo dialettico del processo; appare però necessario, al tempo stesso, semplificare la vicenda, e ciò richiede un approccio sintetico, una suddivisione degli argomenti in modo schematico e un preventivo inquadramento generale del fatto nel contesto in cui si svolse, da cui poi si discenderà nell'esame delle singole condotte colpose e quindi della responsabilità della persona giuridica. Più precisamente, si procederà secondo il seguente schema:

  • Nella parte I (Inquadramento generale) verranno poste le premesse in fatto e in diritto necessarie per l'esame analitico delle condotte, ed in particolare verranno esaminati (1) l'evento e le procedure industriali e organizzative nell'ambito delle quali esso si svolse, (2) i criteri per valutare l'incidenza della condotta delle vittime, e (3) le posizioni di garanzia dei singoli imputati; nella parte conclusiva (4) verranno richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza In materia di corrispondenza tra l'imputazione e la sentenza nei reati colposi.

  • Nella parte II (I singoli profili di colpa contestati) verranno analizzate le condotte ascritte agli imputati al capo A); verranno in particolare esaminati inizialmente i profili di colpa contestati alla dirigenza Sa., con una distinzione tra quelli in cui si contesta il modello organizzativo generale, quelli che si riferiscono a difetti di informazione e coordinamento e quelli relativi alla mancata adozione di cautele antinfortunistiche, e infine verranno presi in esame gli addebiti di colpa mossi al legale rappresentante della C.M.S.. Verrà poi esaminata la relazione causale tra tali condotte e l'evento e infine il problema, centrale nell'impostazione difensiva, dell'interruzione del nesso causale per effetto della condotta delle vittime.

  • Nella parte III (La responsabilità amministrativa della persona giuridica) verrà esaminata la imputazione di cui al capo B), e in particolare, dopo una premessa generale, il profilo, come si vedrà assorbente, della riconducibilità del fatto all'interesse o vantaggio della Sa. s.p.a.

  • Nella parte IV (Circostanze e determinazione della pena; responsabilità civile) verranno tratte le conseguenze in materia di trattamento sanzionatorio (l) e di responsabilità civile da reato (2).

 

***

PARTE I

INQUADRAMENTO GENERALE

 

1.1) L'incidente sul lavoro del 26 maggio 2009.


Nel primo pomeriggio del 26 maggio 2009, all'interno della raffineria gestita dalla Sa. s.p.a. a Sarroch, si verificò un terribile incidente sul lavoro con conseguenze fatali per tre operai, Luigi So., Bruno Mu. e Daniele Me..
Le vittime erano tutte dipendenti della C.M.S. a.r.l., un consorzio di imprese che era intento all'esecuzione in appalto di lavori di manutenzione (più precisamente di pulizia idrodinamica) dell'impianto MHC1.
L'incidente si svolse davanti ad alcuni testimoni oculari e può pertanto essere ricostruito con precisione, grazie anche alle consulenze tecniche effettuate su incarico del Pubblico Ministero.
Come si vedrà meglio nel dettaglio, la C.M.S. nei giorni precedenti e la mattina del 26 maggio aveva eseguito lavori di pulizia di altri accumulatori dello stesso impianto; in particolare, quella mattina Luigi So. e il suo compagno di squadra, Renato Valerio Po., si erano occupati della pulizia dell'accumulatore HD 102.
Dalla deposizione di Gianpietro Me., caposquadra della C.M.S. (vol. 11, pp. 1 e ss.) risulta che dopo la pausa pranzo - che i dipendenti del consorzio facevano tra le I1:45 e le 12:30 circa - egli si recò presso la carpenteria e ritirò alcuni permessi di lavoro.
Me. rientrò poi verso l'impianto, constatò che era tutto in regola e diede istruzioni agli operai di aspettarlo sulla strada in attesa di fare le verifiche sull'accumulatore HD 106 (un serbatoio che, quando l'impianto è in esercizio, contiene idrocarburi), sul quale avrebbero dovuto lavorare nei giorni successivi.


Nel frattempo, secondo quanto riferito da Valerio Renato Po. nel verbale del 26.5.2009 (II, pp. 10 e ss.), So. si allontanò da solo.
Po. era intento a rimettere in ordine l'attrezzatura; non vedendo il collega nei pressi, egli si incuriosì e pensò che So. potesse essere nelle vicinanze dell'accumulatore HD 106.
Il testimone pertanto andò a controllare, e dopo essere salito su una scaletta si affacciò dal passaggio che permette l'accesso al serbatoio del predetto accumulatore (denominato "passo d'uomo ").
Egli vide subito che So., esanime, era sul fondo dell'accumulatore, con le spalle a terra e le braccia distese all'indietro, e pensando che fosse svenuto invocò a gran voce i soccorsi.
È bene sottolineare sin d'ora che il passo d'uomo (come emerge dai disegni tecnici acquisiti agli atti) ha un diametro di 45,8 cm e una profondità di 71 cm, e si trova ad un'altezza di circa due metri dal suolo.
È dunque da escludere che So. si fosse semplicemente affacciato dall'apertura, come suggerisce la relazione dell'ingegner Gianino e, in alcuni passi, l'imputazione (punti 6 e 13).
Infatti, per cadere all'interno, So. si dovette introdurre con il tronco in modo da superare la fine del passo d'uomo, perché altrimenti il baricentro sarebbe ricaduto nell'apertura e non sarebbe stato possibile che egli precipitasse dentro la cisterna (come efficacemente sottolineato nella relazione tecnica del consulente della difesa ingegner Amsicora Anedda, VI, 78, pp. 11-12).
Secondo quanto risulta dalla testimonianza dello stesso Po. e da quella dell'altro principale testimone, Gianluca F. (Il, pp. 20 e ss.), sentendo le grida d'aiuto di Po. lo stesso F. e il suo compagno di lavoro Bruno Mu. accorsero prontamente.
Po., il quale aveva preso dalla cassetta degli attrezzi una maschera di protezione antigas, per la confusione non riusciva a spiegare cosa fosse successo e continuava ad urlare che So. era "caduto".


Non capendo esattamente cosa stesse accadendo, F. e Mu. salirono al piano superiore dell'impianto e guardarono verso il basso, pensando che So. fosse precipitato dall'impalcatura; essi poi salirono al secondo piano e solo allora, vedendo un faretto acceso sopra la cisterna HD 106, intuirono che So. potesse essere caduto dentro l'accumulatore e si avvicinarono per controllare.
F., con il faretto trovato sul posto, illuminò l'interno e vide So. a terra; pertanto egli si diresse verso la ringhiera per chiamare i soccorsi.
Nel frattempo Mu. si era sporto all'interno della cisterna.
F. gli urlò di non entrare e gli si avvicinò, cercando di trattenere il collega per le gambe, ma non riuscì a far presa a causa dei guanti che indossava e della tuta usa e getta che aveva Mu.; pertanto questi cadde a sua volta all'interno dell'accumulatore.
F., illuminando con la luce, lo vide perdere i sensi e cadere per terra.
Egli andò nuovamente a cercare soccorsi ed arrivarono altri lavoratori della C.M.S., tra i quali Daniele Me., e l'operatore Sa. Mauro Pu..
F. spiegò loro che i due colleghi si trovavano, svenuti, dentro la cisterna, e Me. - afferrata la mascherina antigas che era stata presa in precedenza da Po. - si introdusse a sua volta all'interno, nonostante gli altri tentassero di dissuaderlo.
Al suo rientro nell'impianto, intorno alle 14:30 (secondo la deposizione del testimone: in realtà non erano ancora le 14 quando fu diramato l'allarme), Gianpietro Me. vide l'operaio Daniele Me. che stava entrando nell'accumulatore HD 106.
Lo stesso Gianpietro Me. si affacciò poi dal passo d'uomo e vide due operai esanimi al suolo, mentre Daniele Me. cercava di soccorrerli..
F. iniziava già a sentirsi male, mentre Po. - trovata una mascherina - tornò sul posto.
Daniele Me., come era accaduto ai colleghi, perse subito i sensi e rimase esanime dentro l'accumulatore, fino a quando intervenne il responsabile del reparto sicurezza della Sa., Alberto Ro. (IL pp. 52 e ss.).


Questi, infatti, era stato avvisato alle 13:43 dell'incidente ed era subito giunto sul posto insieme al personale paramedico e ai mezzi antincendio; avuta conferma dal capoturno Mauro Car. della presenza di tre persone all'interno dell'accumulatore, Ro. indossò l'autorespiratore con le bombole di ossigeno ed entrò dal passo d'uomo.
Non riuscendo ad estrarre il corpo di Me. a causa della massiccia corporatura di quest'ultimo, Ro. chiese l'aiuto di un altro operatore, Andrea S., insieme al quale riuscì a tirare fuori i corpi dei tre operai, che vennero poggiati per terra sul grigliato del piano su cui si trova l'accumulatore.
Per circa quaranta minuti il personale medico e paramedico della Sa. praticò le manovre di rianimazione.
Purtroppo le operazioni di soccorso (descritte anche dagli infermieri A.B., II, pp. 30 e s, e A.C., pp. 28 e s.) non ebbero successo, e non rimase che constatare il decesso di Luigi So., Bruno Mu. e Daniele Me..


L'evento fatale era stato causato - secondo quanto emerge dalla consulenza tecnica medico-legale effettuata dal dottor Roberto Demontis e dal dottor Giuseppe Salvatore Porcu (III, 27) - da asfissia da ridotta concentrazione di ossigeno in ambiente confinato.
lnfatti, secondo quanto è emerso dalle relazioni tecniche del professor Francesco Antonio Devillanova (III, 6) e del professor Roberto Gagliano Candela (III, 17), dalle prime analisi sul luogo emerse che all'interno dell'accumulatore non vi era ossigeno in quantità sufficiente per assicurare la sopravvivenza (cioè in percentuale non inferiore al 12 % nell'aria).
La riduzione del livello dell'ossigeno era stata determinata dall'uso di azoto gassoso per bonificare la cisterna, cioè per allontanare dal suo interno residui di gas tossici o infiammabili ed esplosivi.
Infatti nel sangue delle vittime non furono rinvenute tracce di gas idrocarburi e altri inquinanti del petrolio grezzo, ma soltanto segni di carenza di ossigeno (in quanto l'azoto, normale componente dell'aria con una percentuale sino al 78 %, non è rilevabile dalle analisi chimiche).


1.2.1) I lavori di manutenzione dell'impianto MHC1 : la procedura prevista dalle Istruzioni di fermata e bonifica.

L'accumulatore HD 106, all'interno del quale avvenne l'incidente, è un serbatoio per idrocarburi; esso fa parte di un impianto - denominato MHCI (l'acronimo significa Mild Hydro Cracking) - utilizzato per processi di idrodesolforazione catalitica dei gasoli prodotti nella raffineria, con l'impiego di idrogeno e di un catalizzatore al nichel-molibdeno.
L'impianto può essere utilizzato come apparecchiatura di conversione, se la carica è composta da gasolio sotto vuoto, e pertanto è inserito organizzativamente nell'area produttiva conversioni (si vedano al riguardo e per la descrizione dei processi lavorativi, per chi non voglia avventurarsi nella lettura del manuale operativo dell'impianto - IV e V -, il documento riassuntivo in VI, pp. I e ss., e la consulenza tecnica dell'ing. Salvatore Gianino, III, 41, in particolare pp. 12 e ss.).

Risulta dall'ampia documentazione acquisita che il 13.5.2009 l'impianto MHCI era stato fermato nell'ambito di una manutenzione programmata ed erano state avviate le operazioni preliminari di bonifica, disciplinate da un apposito manuale denominato "Istruzioni di fermata e bonifica MHCl nov. 2007" (VI).
In estrema sintesi, e per quanto qui interessa, le procedure di fermata e bonifica si articolano in tre fasi fondamentali.
La fase iniziale prevede un preliminare lavaggio a caldo degli accumulatori con idrogeno, procedendo gradualmente al raffreddamento e alla depressurizzazione, in modo da svuotare le apparecchiature dai fluidi di processo per il loro recupero.
La successiva fase prevede un lavaggio con azoto finalizzato a rimuovere l'idrogeno e i residui di gas e vapori di processo ancora presenti, per prevenire situazioni di potenziale pericolo; tale lavaggio avviene in modo discontinuo con pressurizzazioni e depressurizzazioni (cosiddetti soffietti di azoto) e costanti controlli, fino a che il contenuto di idrocarburi raggiunga valori inferiori all'l %.
Le istruzioni citate, infine, prevedono l'effettuazione della bonifica con vapore, attraverso la quale l'apparecchiatura viene scaldata per eliminare le materie che evaporando potrebbero alimentare miscele gassose pericolose (soprattutto in relazione ad eventuali lavori eseguiti a caldo, ad esempio tagli e saldature; che potrebbero provocare scintille o riscaldamenti pericolosi).
Si tratta evidentemente del maggiore rischio che si possa presentare in uno stabilimento petrolchimico, cioè un impianto industriale pieno di sostanze altamente infiammabili ed esplosive, e quindi della prima preoccupazione dal punto di vista della sicurezza, non soltanto degli impianti (come sostenuto dalla parte civile) ma anche delle numerose persone che lavorano nella raffineria o che sarebbero coinvolte nelle operazioni di soccorso.
Quest'ultima operazione, nell'accumulatore HD 106, doveva avvenire prima che esso venisse aperto e messo in comunicazione con l'atmosfera circostante, e previa ciecatura della cisterna, cioè dopo aver isolato l'accumulatore dalla sezione di reazione e dagli scambiatori mediante l'inserimento di dischi ciechi.

1.2.2) La bonifica dell'accumulatore HD 106.


Come si è detto, in base alla procedura tutte le fasi di bonifica fino alla pulizia con vapore e al successivo raffreddamento dell'impianto devono essere effettuate con l'accesso chiuso.
Non è prevista, in particolare, l'immissione di azoto con il passo d'uomo del serbatoio aperto.
Nel corso delle operazioni preliminari si verificò però un inconveniente che portò all'apertura del passo d'uomo dell'accumulatore HD 106 prima che le procedure di bonifica venissero ultimate.
Infatti, secondo quanto emerge dalla documentazione acquisita, ed in particolare dal registro dei capi turno, la ciecatura fu avviata il 20.5.2009, ma ben presto (annotazioni del turno 14/22 del 21.5.2009) si riscontrarono notevoli difficoltà nel disserraggio dei tiranti di chiusura della flangia nella quale era posizionato il disco a otto.
Tale guasto meccanico, secondo quanto riferito in particolare da Giovanni Bi. (II, pp. 75 e ss.), Giovanni Mur. (IL pp. 61 e ss.) e Mauro Pu. (II, pp. 66 e ss.), avrebbe potuto comportare il rischio della presenza di notevoli quantità di idrocarburi liquidi sul fondo della cisterna, non eliminabili attraverso le consuete procedure.
Il capoturno responsabile decise pertanto di procedere ali'apertura dell'accumulatore - che in quel momento era già in atmosfera di azoto, perché, secondo quanto riferito da Pu., non appena vuotata la cisterna si effettua un raffreddamento rapido con azoto liquido con un apposito macchinario dell'impresa A.HAK - per verificare la presenza di idrocarburi liquidi ed eventualmente drenarli con un autospurgo.
Per tale ragione, intorno alle 17 del 23 maggio, operai della impresa CISA procedettero all'apertura del passo d'uomo e alla successiva verifica del contenuto dell'accumulatore, in modo che gli operai del consorzio SOAILA, presenti al momento dell'apertura, potessero drenare i liquidi.
Effettuati i controlli preliminari di sicurezza con l'apposito rilevatore, il responsabile Sa. Alessio Foi. diede il via libera e gli operai della SOAILA iniziarono ad aspirare il fondo della cisterna.
Ben presto tuttavia essi si resero conto che non vi erano quantità significative di fluidi idrocarburici, perciò il responsabile Sa. decise di interrompere le operazioni (cfr. dichiarazioni di Andrea Ca., II, pp. 55 e ss.; Giuseppe Ci., II pp. 58 e ss.; Antonio De., II pp. 40 e ss.; Alessio Fo., II, pp. 69 e ss.; Rinaldo Ga., II, p. 39; Christian Lo., II, p. 49; Efisio Pan., II, P- 38: Pasquale Pi., II, p. 56; Gino Pin., II p. 42; Cristian Roberto Sci., II p. 57; Mario Ur., II pp. 43 e ss.).


Terminati i lavori, gli operai della CO. si allontanarono, in quanto il compito di mettere in sicurezza l'impianto spettava, secondo quanto riferito dal caposquadra Vittorio Pan. ( II pp. 46 e ss.), ai dipendenti della Sa..
Durante l'apertura si erano però verificati dei problemi, in quanto, secondo quanto riferito da Alessio Foi. (II, pp. 69 e ss.), la cerniera del passo d'uomo era bloccata, e pertanto era stato necessario tagliarla e rimuovere la flangia di chiusura sollevandola con un "tirfor" (una sorta di argano), poggiandola a lato del passo d'uomo.
Al momento dell'incidente, come si può vedere chiaramente dalle fotografie (cfr. CD Rom in I, Supporti multimediali)., la flangia di chiusura era ancora appesa al predetto macchinario e sistemata lateralmente; lo stesso ingegner Gianino, al riguardo, ha rilevato che per aprirla era stato necessario tagliare la cerniera.
Per tale ragione il passo d'uomo non fu richiuso con l'apposita flangia: infatti, secondo quanto riferito da Bi. nel verbale del 26.1.2010 (II, 83, P. 7 della trascrizione,, gli operai dell'impresa appaltatrice che aveva aperto il passo d'uomo erano andati via e non era possibile risistemare la flangia di chiusura senza disporre di attrezzatura idonea (che il personale della Sa. non aveva).
Dopo aver inserito all'interno dell'accumulatore una manichetta che flussava azoto allo scopo di mantenere inerte l'ambiente interno, lo stesso Foi. e il tecnico operativo Stefano D.P., in presenza e su disposizioni del capo turno Giovanni Bi., presero una busta di nylon di colore celeste e la fissarono con due dei bulloni della flangia del passo d'uomo.
Tale chiusura non aveva lo scopo di impedire l'accesso alle persone, ma serviva per tenere l'accumulatore in pressione di azoto ed evitare l'ingresso di ossigeno.
La funzione dell'azoto era infatti quella di mettere in sicurezza l'impianto e in particolare di evitare che all'interno dell'accumulatore entrasse dell'aria, che avrebbe potuto creare miscele esplosive o incendiarie (v. ad esempio le dichiarazioni di Bi., II, pp. 75 e ss).


Poiché il serbatoio HD 106, a differenza degli altri accumulatori dell'impianTo MHC1, non aveva una linea dedicata per le operazioni di bonifica, l'azoto fu introdotto con una manichetta collegata ad una linea presso la PV 27 da Andrea To. (11, pp. 63 e ss.) e materialmente inserita da Foi. e D.P., secondo le direttive di Bi., attraverso il passo d'uomo.
Foi. e Bi. hanno concordemente riferito che ultimate tali operazioni essi si allontanarono, senza mettere alcuna segnaletica perché non prevista dalle procedure, e riportando le operazioni effettuate mediante inserimento nell'apposito programma informatico.
Bi. inoltre riferì personalmente circa le operazioni effettuate al capoturno entrante, Ignazio Pi..
Il 24 maggio gli operai del consorzio CISA proseguirono i lavori di ciecatura dell'accumulatore senza ultimarli (dichiarazioni di Antonio De., Massimo Flo., II, p. 45, e Carlo So., IL p. 50 e ss.); le operazioni furono concluse il 25 dalla squadra della quale facevano parte, tra gli altri, Mario Ur. (II, pp. 43 e ss.) e Gino Pi. (II, p. 42).


Numerosi testimoni hanno confermato che in tale arco di tempo il passo d'uomo era chiuso da un telo di nylon di colore celeste, e che non era presente segnaletica di sicurezza (cfr. in particolare dichiarazioni di Massimo Flo., II, p. 45; Cristian Lo., IL p. 49; Gianni Mur., II pp.61 e ss.: Gino Pi., II, p. 42; Carlo So., II, p. 50; Mario Ur., II, pp. 43 e ss.; Andrea To., II pp. 63 e ss.).
Secondo quanto emerge dai documenti, ogni mattina, alle ore 10, vi era una riunione di coordinamento della Sa., alla quale partecipavano Walter Co. (Startup leader), l'ingegner Giovanni Str. (Team leader), il team di pianificazione composto da Mer., Cab. e Sit. e il capoturno giornaliero Gianni Mur..


Nel pomeriggio, alle 14:30, vi era una riunione di coordinamento con i responsabili delle imprese appaltatrici (caposquadra, capocantiere e responsabili della sicurezza), alla quale prendeva parte anche il coordinatore della sicurezza, ingegner Ezio Ca..
Più precisamente, secondo quanto risulta dall'agenda riunioni di fermata (IX, p. 726), era prevista quotidianamente una riunione di sicurezza della durata di dieci minuti e una riunione di programmazione tra la Sa. e le imprese della durata di venti minuti.
In occasione di tali riunioni, secondo quanto riferito da Walter Co. (II, 103, pp. 22 e ss.), fu comunicato alla C.M.S. che l'apparecchiatura HD 106 non era disponibile per i lavori programmati.
In effetti nel verbale della riunione di coordinamento del 25.5.2009, ore 14:30 (VI, p. 706) - riunione alla quale presero parte per la C.M.S. Pi., Mel. e Me. - venne data l'indicazione che l'accumulatore DI06 era "da ciecare" (senza ulteriori specificazioni).
La successiva riunione venne fissata per le 14:30 del giorno dell'incidente e non si tenne a causa di quanto accaduto.
Nonostante ciò, gli operatori della C.M.S. erano convinti che l'inizio dei lavori sull'HD 106 fosse imminente, e che in particolare fosse previsto per lo stesso pomeriggio.
Infatti la mattina, come si è accennato, So. e Po. avevano terminato la pulizia dell'accumulatore HD 102, e secondo quanto riferito da Po. nel verbale del 7.7.2009 (II, pp. 12 e ss.) Gianpietro Me. aveva riferito loro che nel pomeriggio avrebbero dovuto cambiare il programma di lavoro e iniziare a pulire l'accumulatore HD 106.
A parte tale lavoro gli operai non avevano in previsione altre mansioni, salvo quella di mettere dei tiranti in un accumulatore che si trovava a circa cento metri di distanza.
Era tuttavia "un lavoro troppo piccolo per il pomeriggio", tanto che secondo Po. il cambiamento di programmi - improvviso ed imprevisto, dato che gli operai avevano già "i ferri in mano per i tiranti" - era imputabile alla volontà di non sprecare una serata di lavoro.


1.2.3) I contrasti sulla ricostruzione del procedimento di bonifica. e in particolare sulla bonifica con vapore.
Uno dei punti sui quali si è maggiormente sviluppata la dialettica tra le parti processuali è se la bonifica dovesse proseguire con il trattamento con vapore, come previsto dalla procedura, o se invece gli operatori Sa. avessero deciso di omettere tale fase (decisione che, secondo l'impostazione accusatoria formalizzata al capo B, deriverebbe dalla volontà di ridurre i tempi dei lavori e quindi della fermata dell'impianto).
La questione ha una notevole rilevanza, anche se non si collega direttamente agli addebiti di colpa contestati agli imputati (mentre come si vedrà è decisiva per la responsabilità della società), e pertanto appare opportuno trattarla in questa parte introduttiva.
A) A fronte di testimonianze che, come si vedrà, sono sul punto contrastanti e non facilmente interpretabili,, le procedure scritte sono, invece, chiare ed inderogabili e prevedono che la bonifica con vapore fosse un passaggio necessario.
Infatti - contrariamente a quanto affermato da Davide Murg. (v. infra) _ la bonifica dello stabilimento MHCI è regolamentata dalle Istruzioni di fermata e bonifica nov. 2007; gli altri documenti cui ha fatto riferimento lo stesso testimone non esistono.
In base a tale manuale la bonifica con vapore è obbligatoria, senza possibilità di valutazioni discrezionali difformi.
Il Pubblico Ministero, nel corso della discussione e nella memoria difensiva depositata, ha rilevato che in un altro testo - il manuale operativo dell'unità MHCI (IV, p. 268 del manuale e 139 degli atti; il P.M. lo ha indicato come Allegato VIII-D) - si prevede che prima di aprire gli impianti debba essere eseguito "...lo spurgo con vapore o gas inerte in modo che il test dell'esplosivimetro risulti negativo".



In tale manuale, dunque, si riconosce l'alternatività tra lo spurgo con vapore o quello con gas inerte.
Il passo richiamato, tuttavia, non si riferisce specificamente alla fermata e bonifica, ma è una misura di sicurezza di carattere generale che si applica a qualsiasi caso di fermata dell'impianto e di apertura dei serbatoi.
Il caso in esame è più specifico, perché si trattava di una attività che preludeva ad operazioni da effettuare all'interno del serbatoio, nel quale sarebbero poi dovuti entrare gli ispettori della ASL per le verifiche.
Perciò le eventuali sostanze presenti dovevano essere totalmente eliminate, ciò che magari non era necessario per altri tipi di lavori.
Non vi è dubbio, pertanto, che le Istruzioni di fermata e bonifica nov. 2007 fossero il testo specifico elaborato per il caso in esame e fossero obbligatorie.
Questa conclusione è stata confermata dall'imputato Antonello At., il quale nel corso dell'interrogatorio ha tenuto a precisare che non si trattava di "linee guida" dalle quali ciascun operatore si sarebbe potuto discostare, ma di indicazioni vincolanti.


B) I consulenti del Pubblico Ministero e della difesa Sa. sono stati pienamente concordi sulla indefettibilità delle operazioni di bonifica con vapore.
Infatti, superando un apparente contrasto con quanto affermato dal professor Viola, l'ingegner Gianino ha riconosciuto che tale passaggio era indispensabile e non poteva essere surrogato, concludendo cosi: "Che la bonifica con vapore vada fatta e sia obbligatoria è pacifico. Certo sembra incredibile che ci possa essere all'interno di una raffineria qualche persona, qualche operatore, che possa pensare, così come ci ha raccontato, che la bonifica non dovesse essere fatta, la bonifica con vapore... " (XII, verbale d'udienza del 17.2.2011, p. 32). Il tema si è riaperto in seguito ad una nota integrativa dell'ingegner Gianino depositata dal Pubblico Ministero all'udienza successiva (che ha dato origine all'integrazione probatoria cui è stato condizionato il rito).


In tale nota infatti (XII, p. 239) il consulente ha sostenuto che nel caso specifico il lavaggio con vapore potesse essere omesso in considerazione del fatto che gli operai della C.M.S. non dovevano eseguire lavori "a caldo", ma una pulizia idrodinamica e una sabbiatura, operazioni che non determinano un aumento di temperatura o produzione di scintille e quindi non innescano il rischio determinato dalla presenza di residui di idrocarburi.
La pulizia idrodinamica, peraltro, consentirebbe di rimuovere tali residui e rendere disponibile l'apparecchiatura per le successive ispezioni, che non prevedevano lavorazioni a caldo.
Tale affermazione è stata contestata dal professor Viola, il quale ha ribadito che l'unico modo per eliminare i residui ancora presenti è quello del riscaldamento dell'accumulatore in modo da determinare l'evaporazione delle sostanze presenti, che sono comunque potenzialmente pericolose, perché la sola presenza di ossigeno potrebbe determinare reazioni esplosive o piroforiche.
I consulenti, peraltro, hanno convenuto che le sostanze che possono essere presenti nell'accumulatore non sono necessariamente visibili ad occhio nudo, per cui appare logico ritenere che la decisione di procedere direttamente alla pulizia idrodinamica non assicurerebbe la rimozione di residui pericolosi, come invece la bonifica con vapore.
Ad ogni modo, quello che interessa in questa sede processuale non è tanto se la eliminazione della fase della bonifica con vapore fosse tecnicamente fattibile (ovviamente senza rilevanti rischi per la sicurezza), ma se, nel caso specifico della bonifica dell'accumulatore HD 106 in corso al momento dell'incidente, essa dovesse essere fatta o meno.
Anche sul punto i consulenti hanno espresso, come si è detto, opposte opinioni.
Tuttavia, analizzando le relazioni tecniche, si vede con chiarezza che tali divergenze non hanno natura scientifica ma derivano da una diversa interpretazione delle testimonianze.


L'ingegner Gianino, infatti, ha analizzato le dichiarazioni dei testimoni -ed in particolare, come si vedrà, quelle di Davide Murg. - ed attraverso esse è risalito sia alla conclusione della omissione di tale fase della bonifica, sia alla spiegazione di tale condotta.
Il professor Viola, invece, è pervenuto a conclusioni opposte sulla base di una serie di elementi che lo hanno convinto dell'inattendibilità della testimonianza di Murg...
Si deve concludere, dunque, che sotto questo profilo rapporto tecnico dei consulenti non può essere considerato dirimente, perché la valutazione della credibilità dei testimoni non è una operazione che possa essere loro demandata.
C) Come si è anticipato, le deposizioni raccolte, sul punto, sono contraddittorie e di difficile interpretazione.
Si deve considerare, innanzitutto, che le principali testimonianze furono raccolte nella prima fase delle indagini, nella quale non era stata ancora formulata una ipotesi investigativa definita ed era dunque possibile che l'incidente venisse ascritto a colpa dei tecnici Sa. che, materialmente, avevano creato la situazione di pericolo: cioè Giovanni Bi. e i componenti della squadra che, terminate le operazioni di apertura del passo d'uomo e di spurgo, immisero l'azoto nell'accumulatore HD 106.
Tale contesto potrebbe aver condizionato le deposizioni, spingendo i testimoni a giustificare l'operato dei tecnici Sa..
In secondo luogo, dalle deposizioni è emersa con chiarezza l'esistenza di una prassi - necessariamente nota alla dirigenza, perché ogni operazione effettuata veniva registrata sul sistema informatico aziendale, proprio per essere comunicata ai dirigenti - che consentiva agli operatori (capi turno giornalieri e capi turno in turno) di discostarsi dalla procedura prevista dalle Istruzioni di fermata e bonifica; e i profili talvolta si confondono, per cui non è del tutto chiaro se alcuni passaggi delle deposizioni si riferiscano in generale a tale prassi, o specificamente a ciò che era avvenuto sull'impianto HD 106 tra il 23 e il 26 maggio.


A ciò si deve aggiungere che dalle dichiarazioni di alcuni importanti testimoni è emerso che la procedura codificata non era nota a tutti - evidentemente la formazione, sul punto, non era impeccabile -, e che gli operatori andavano avanti più che altro per prassi consolidate.
Giovanni Bi., infatti, ha affermato di non aver mai visto il manuale che regola le operazioni di fermata e bonifica, anche se "sicuramente da qualche parte ci sarà scritto" (II, 83, p. 25), e che tutto si fa per prassi tramandate dalla tradizione orale.
Murg.,, a sua volta, ha escluso di aver mai visto le Istruzioni di fermata e bonifica nov. 2007 ["...si riferisce ad un tipo di fermata differente... questo documento da noi (in impianto) non è passato e le istruzioni seguite nella fermata dell'anno 2009 non sono quelle contenute in tale documento... "].

C1) Fatte queste precisazioni, si deve rilevare che diversi testimoni hanno affermato che la bonifica con vapore non fosse un passaggio sempre necessario.
La prima, e la più inaffidabile, testimonianza è quella di Davide Murg. .
Questi infatti, nelle sommarie informazioni rese il 24.9.2009 (II, pp. 91 e ss.), affermò che la prescrizione - contenuta nel permesso di lavoro - di effettuare la bonifica con vapore fosse errata per una serie di ragioni.
Innanzitutto, l'accumulatore non era predisposto per quel tipo di bonifica e avrebbe dovuto essere appositamente modificato: in secondo luogo, il serbatoio era costruito in acciaio austenitico, materiale che non consente l'utilizzazione di vapore.
Per tali ragioni la bonifica con vapore, secondo il teste, era espressamente esclusa dal manuale dell'impianto MHC (circostanza che non trova alcun riscontro nei documenti).
Nella successiva audizione del 27.10.2009 (II, pp. 96 e ss.) Murg. , rettificando le precedenti dichiarazioni, escluse che l'apparecchiatura fosse in acciaio austenitico (a differenza di altre sezioni dell'impianto), confermando però che la bonifica con vapore non dovesse essere eseguita.


Infatti da un lato il serbatoio non era isolato dalle apparecchiature a monte, costruite in acciaio austenitico, e dall'altro lato esso aveva una schedula (cioè uno spessore) molto elevata, per cui il riscaldamento determinato dal vapore avrebbe comportato notevoli tempi di fermata in attesa del raffreddamento.
Questa affermazione rappresenta la base del ragionamento seguito dal consulente del Pubblico Ministero, il quale, esclusa la plausibilità delle altre spiegazioni fornite da Murg., ha ritenuto che l'unica ipotesi percorribile fosse quella che la fase della bonifica con vapore fosse stata omessa per ridurre i tempi di fermata dell'impianto.
Il fatto che scelte di risparmio di tempi potessero giustificare l'omissione del lavaggio con vapore emerge, però, anche da altre deposizioni, tutte provenienti da tecnici qualificati dell'impianto MHC1.
In particolare, Giovanni Le. - il quale all'epoca dei fatti era responsabile d'esercizio dell'area produttiva conversioni, e quindi il diretto superiore di Bi. (ma al momento dell'evento era in ferie) - ha teso a giustificare l'operato di Bi. affermando che questi avesse il potere di decidere di insufflare azoto, rientrando tale risoluzione nei margini di discrezionalità e nelle responsabilità del capoturno, e che la decisione fosse corretta, perché era necessario inertizzare eventuali sostanze piroforiche.
Questo risultato poteva essere ottenuto con il vapore o con l'azoto; la prima sostanza, tuttavia, avrebbe comportato la necessità di ritardare i lavori in attesa del raffreddamento dell'impianto, per cui correttamente, avendo ritenuto che il vapore non fosse necessario, Bi. aveva optato per l'azoto (II 98, pp. 28 e ss., 34 e ss. della trascrizione).
Le., nel corso della deposizione, ha inoltre suggerito, con riferimento al caso specifico, che non fosse possibile il lavaggio con vapore perché l'accumulatore non era stato ancora isolato dall'HD 101 (p. 34).
Alessio Foi., nel verbale dell'8.6.2009 (II pp. 69 e ss.), ha affermato che si trattava di una "normale procedura da manuale ".




Mauro Car., capo turno, ha a sua volta dichiarato - facendo inequivocabili riferimenti ad una prassi seguita anche in altre occasioni - che "La procedura di immissione d'azoto anziché vapore, visto che non è specificato nell'istruzione operativa di cui a p. 18 ultima riga del punto 19, viene presa autonomamente dal capo turno in turno del giorno relativo ali'apertura del passo d'uomo solo se immediatamente dopo non si procede con il lavaggio dell'accumulatore".
Egli ha dunque ricondotto la decisione al fatto che l'azoto fosse più indicato per una ripresa immediata della lavorazione, perché il vapore avrebbe riscaldato notevolmente l'apparecchiatura e quindi l'ambiente interno sarebbe stato inidoneo al lavoro per diversi giorni (II, pp. 88 e ss.).
L'ingegner Antonello At., il quale era il dirigente dell'area produttiva conversioni (e quindi il superiore di Le.), ha confermato che l'uso del vapore come sostanza inertizzante era alternativo a quello dell'azoto, e ha sostenuto che nel caso specifico il vapore non potesse essere utilizzato, in quanto ciò avrebbe potuto determinare pericoli per gli operai che stavano completando i lavori di ciecatura.
Egli però ha poi affermato, nel seguito della deposizione, che successivamente il lavaggio con vapore doveva comunque essere effettuato (IL 109, pp. 21 e ss.); verosimilmente dunque At., nel suggerire che l'utilizzazione dell'azoto potesse essere alternativa al trattamento con vapore, non si riferiva all'eliminazione definitiva di una fase della bonifica (che sarebbe dovuta avvenire in un momento successivo), ma al momento in cui, aperto il passo d'uomo, era necessario inertizzare il serbatoio.

C2) Le dichiarazioni di Le., di Foi. e di Car. documentano l'esistenza di una prassi - una "normale procedura da manuale", che lo stesso Bi. ha riferito di aver seguito molte altre volte - che consentiva ai capi turno di discostarsi dalla procedura, nel senso riferito e per le ragioni esposte.
Ciò non implica però per necessità logica che anche nel caso in esame fosse stata seguita tale prassi.



Infatti Le. all'epoca era in ferie, e Car. ha detto esplicitamente che egli "presumeva" che le cose fossero andate in quel modo; Foi. non ha reso dichiarazioni specifiche sul passaggio del lavaggio con vapore; quanto a Murg., si è visto che egli in tempi diversi ha reso versioni sensibilmente differenti, e che si è mostrato molto confuso sulle procedure esistenti, sulle norme di buona tecnica e di sicurezza, e sulle caratteristiche dell'impianto.
Del resto, come ha evidenziato la difesa, è possibile identificare un interesse processuale di Murg. a sostenere che la bonifica con vapore non fosse necessaria, avendo egli (come si vedrà nella parte II) sottoscritto - quale delegato responsabile - due permessi di lavoro precedenti nei quali aveva attestato, contrariamente al vero, che la bonifica con vapore era stata effettuata (circostanza peraltro irrilevante rispetto ai lavori cui si riferivano quei permessi, perché dovevano essere eseguiti ali'esterno del serbatoio).
L'unica deposizione diretta, quella di Giovanni Bi., sembrerebbe escludere una deviazione dalla procedura codificata.
Il teste infatti ha esplicitamente negato, anche se in modo da dare adito a qualche equivoco (successivamente chiarito nel corso dell'esame,, che la bonifica con vapore dovesse essere omessa.
Si trattava infatti, secondo Bi., di un passaggio essenziale, perché dopo il lavaggio con acqua (che secondo il teste va fatto prima) potrebbero rimanere delle sostanze volatili che potrebbero formare inneschi esplosivi (II, 83, pp. 23 e ss. della trascrizione).
In sostanza, dunque, secondo Bi. l'azoto non era stato immesso in funzione sostitutiva del lavaggio con vapore, ma come sottofase per inertizzare l'impianto prima di riprendere la bonifica dal punto in cui si era arrestata.

D) Riconducendo a sintesi gli elementi esposti, si deve ritenere che non siano possibili conclusioni in termini di certezza.
I dubbi sollevati dal Pubblico Ministero sulla credibilità delle dichiarazioni di Bi. si fondano, infatti, sul fatto che nei giorni immediatamente successivi (dal 23 al 26 maggio) la bonifica con vapore non fu fatta.

Se dunque la decisione di immettere azoto sul momento poteva essere ambigua, il fatto che poi le operazioni di bonifica non fossero proseguite dimostrerebbe che vi fosse una precisa deliberazione di omettere il lavaggio con vapore (decisione che si giustificherebbe con l'assenza, di fatto, di sostanze piroforiche -confermata anche dai rilievi fatti dai consulenti - e quindi con l'assenza di un rischio di incendi o esplosioni, considerato anche che non dovevano essere eseguiti lavori "a caldo").
Vi è però un particolare importante, richiamato dalle dichiarazioni di At., e che trova conferma nei documenti, che non consente di attribuire rilievo decisivo al fatto che nei giorni successivi la bonifica con vapore non fosse stata effettuata.
Si è detto infatti che nel momento in cui avvenne l'inconveniente che determinò l'apertura del passo d'uomo le operazioni di ciecatura non erano state ancora completate; e in particolare, atteso che il guasto riguardava il dreno di chiusura posto sul fondo dell'accumulatore, quella parte dell'impianto doveva essere ancora ciecata.
Il vapore, però, tende a formare condensa e quindi possono formarsi delle zone particolarmente calde sul fondo; considerato che gli operai dovevano lavorare proprio sul fondo dell'accumulatore per la ciecatura, l'insufflaggio di vapore prima che venissero completate tali operazioni avrebbe potuto comportare pericoli (per fuoriuscita di vapore o contatto con la superficie metallica incandescente) per i lavoratori.
La ciecatura, come si è detto, fu eseguita il 24 e il 25 maggio, e si concluse la sera; di fatto, dunque, l'unico momento in cui sarebbe stato possibile procedere alla bonifica con vapore era la mattina del 26 maggio.
Non si tratta però di un ritardo tanto significativo da smentire categoricamente la deposizione di Bi., che dunque non può essere confutata; ciò anche alla luce della testimonianza di Alessio Foi. (II, pp. 69 e ss.), il quale ha dichiarato che il programma prevedeva la ripresa della bonifica a partire dalle 14 del 26 maggio.


E) Il dato probatorio certo che è emerso, e che come si vedrà è estremamente rilevante, è invece che ai capi turno (i quali non hanno qualifica dirigenziale) era riconosciuta, per prassi assolutamente consolidata, la discrezionalità di scostarsi dalle procedure di bonifica, e in particolare di omettere, se non necessaria, la bonifica con vapore.
Si è detto, infatti, che il dato emerge con assoluta nitidezza dalle deposizioni di Le. e di Car. (che sono state qui riassunte, ma che nella loro lettura integrale sono inequivocabili, le quali dimostrano anche, con chiarezza, che si trattava di una pratica aziendale pienamente accettata dalla dirigenza.
Si è visto del resto che ogni operazione compiuta nell'impianto veniva annotata nel registro informatico per essere portata a conoscenza dei dirigenti, i quali non potevano certo ignorare quella che non era un'iniziativa estemporanea, ma una prassi consolidata.
Un altro punto fermo è che anche se si escludesse che fosse in programma l'eliminazione della bonifica con vapore rimane, comunque, il fatto che Bi. si discostò dalla procedura.
Infatti, come si è detto, le operazioni di bonifica (e in particolare l'immissione di azoto) devono avvenire con l'accumulatore chiuso con l'apposita flangia metallica imbullonata.
Nel caso specifico invece esse proseguirono, e con l'insufflaggio di azoto, con l'accumulatore aperto e interdetto da una protezione provvisoria (un telo di plastica).
Non appare corretto sostenere, come ha fatto la difesa, che si trattasse di una sottofase che si inseriva, senza modificarla, nella procedura codificata, perché l'impianto era già prima in atmosfera d'azoto e così sarebbe rimasto fino alla ripresa della bonifica e quindi al lavaggio con vapore.
In primo luogo, infatti, se è vero che il serbatoio era già in atmosfera di azoto, si deve però rilevare che con l'apertura del passo d'uomo sarebbe, inevitabilmente, entrata aria; infatti l'immissione di azoto serviva proprio per contrastare tale fenomeno.
Non si può dire dunque che le operazioni compiute fossero neutre rispetto al rischio di asfissia, perché se esse non fossero state fatte l'atmosfera - in tre giorni - sarebbe stata sicuramente respirabile.
In secondo luogo, la deviazione dalla procedura consiste comunque nel fatto che il passo d'uomo fu lasciato aperto per tre giorni mentre la bonifica era in corso; il fatto che le operazioni potessero poi riprendere come da procedura non elide questo fatto storico.
In altri termini, anche l'inserimento di una sottofase non prevista è una modifica della procedura.
L'ultimo profilo che appare necessario anticipare si riferisce alla posizione degli imputati, dato che evidentemente la deviazione dalla procedura standard non derivò da una loro direttiva, ma da una scelta prettamente operativa del capo turno e dei membri della sua squadra.
Tale affermazione, corretta, deve però tenere conto - sotto il profilo che interessa, cioè quello della valutazione del rischio - del fatto che comunque era riconosciuto ai capi turno quel tipo di discrezionalità.
Era dunque concretamente possibile, e perciò da prevedere, che essi potessero discostarsi dalla procedura di bonifica, in funzione della quale erano stati studiati i rischi e le conseguenti misure di sicurezza.

 

1.2.4) Gli adempimenti successivi alla bonifica con vapore.


Un altro punto fondamentale che deve essere immediatamente sottolineato, perché ha dato luogo a fraintendimenti (ed infatti proprio per cercare di chiarire questo passaggio è stato disposto, ai sensi dell'art. 422 c.p.p., l'esarne dei consulenti), è che la funzione della bonifica con vapore non ha a che fare con il rischio di asfissia, se non in modo indiretto e mediato.
Infatti la bonifica con il vapore non rende respirabile l'atmosfera presente all'interno degli impianti.
Essa, come si è detto, ha soltanto la funzione di riscaldare e far evaporare, in modo da eliminarli, gli idrocarburi volatili ancora presenti, in piccole quantità, dopo le operazioni precedenti (e che, secondo quanto hanno concordemente rilevato i consulenti, non possono essere rimossi con l'insufflaggio di azoto, che ha soltanto la funzione di renderli momentaneamente inerti).
Si tratta dunque di un'operazione necessariamente da compiere prima che rimpianto sia ossigenato, perché è con l'immissione di ossigeno che diviene concreto il pericolo di accensione o di esplosioni.
L'operazione necessaria per permettere la vita umana all'interno degli impianti è la aerazione, che normalmente viene effettuata attraverso l'apertura del passo d'uomo, e se non fosse sufficiente la ventilazione naturale avviene con l'inserimento di una manichetta che pompa aria all'interno del serbatoio.
Infatti, secondo quanto prevede l'art. 3.22 delle Istruzioni per la emissione e gestione dei permessi di lavoro (VII, 85), si intende per ventilazione "...l'immissione di aria, prelevata da zona non inquinata, in uno spazio confinato affinché le persone possano operare all'interno di esso senza far uso di sistemi di respirazione ausiliaria".
Analogamente, il manuale operativo dell'impianto MHCl prevede che "...prima di consentire alle persone di entrare, bisogna eseguire le seguenti operazioni: - aprire i portelli del serbatoio: nel caso di una colonna, aprire i passi d'uomo in modo da creare una corrente; - se non si crea una corrente naturale, iniettare aria compressa... " (IV, p. 268 del manuale).
A tale operazione si collega il principale presidio di sicurezza per i lavori da eseguire negli spazi confinati, che è costituito dalle prove ambientali.
Prima di fare ingresso negli spazi confinati, infatti, devono essere effettuate delle misurazioni strumentali dell'atmosfera, finalizzate, a seconda dei casi, ad accertare che non vi sia presenza di gas tossici o di sostanze esplosive o piroforiche e, per quanto qui interessa, che la percentuale di ossigeno nell'atmosfera sia sufficiente per la respirazione (cioè, secondo quanto emerge dalle perizie sopra richiamate, prossima al 18 %).
Quest'ultimo passaggio è riportato con evidenza - come si vedrà anche nella parte II - in tutti i documenti relativi alla sicurezza sul lavoro.

In particolare, nelle Istruzioni per la emissione e gestione dei permessi di lavoro si precisa a più riprese (ad es. p. 39, pp. 47 e ss., pp. 58 e ss.) che il delegato competente può autorizzare l'inizio del lavoro soltanto dopo aver accertato che siano state eseguite le prove ambientali con esito soddisfacente e in tempi congruenti con quelli di inizio dell'attività (altrimenti le prove debbono essere ripetute), indicando nell'apposita sezione gli orari e gli esiti delle prove e, in particolare, la percentuale di ossigeno rilevata.
Analogamente, nel manuale operativo dell'impianto MHC1, dopo le operazioni già elencate, si prevedono le seguenti:

"- Prima di entrare in qualsiasi tipo di serbatoio, verificare il contenuto di ossigeno all'interno: il valore minimo deve essere del 18 % secondo le norme CSN; - La persona che entra deve essere assicurata con una fune e i suoi movimenti devono essere seguiti da un'altra persona che sorveglia dall'esterno; - Se il contenuto di ossigeno non è nei limiti di sicurezza, si deve usare un apparecchio respiratorio, senza rinunciare alla sorveglianza dall'esterno".

1.3) Il permesso di lavoro.


Come è emerso anche dalle deposizioni dei testimoni citati, e come confermano i numerosi documenti acquisiti, il coordinamento organizzativo tra la Sa. e le imprese appaltatoci è imperniato sullo strumento del permesso di lavoro, regolato da un apposito manuale denominato Istruzioni per la emissione e gestione dei permessi di lavoro (VII, 85).
Si tratta di un altro dei punti centrali intorno ai quali ruota l'imputazione, ed è dunque necessario chiarire come si articoli la procedura.
In estrema sintesi, il permesso di lavoro è un atto giuridico complesso e a formazione progressiva che ha la funzione di autorizzare i dipendenti delle imprese esterne alla Sa. ad operare all'interno dello stabilimento.
Vi è infatti un generale divieto di intraprendere qualsiasi tipo di operazione senza essere muniti del suddetto permesso (art. 2 delle predette "Istruzioni"), che ha quindi essenzialmente una funzione autorizzatone strettamente correlata alla prevenzione di infortuni (cfr. art. 3.10: "Il permesso di lavoro è uno strumento organizzativo e di prevenzione il cui scopo principale è quello di assicurare l'esecuzione dei lavori nelle condizioni di massima sicurezza e nel rispetto delle norme vigenti").
Il permesso di lavoro è strutturato in sei parti ("quadri").
Il primo quadro, compilato dal soggetto richiedente, indica il tipo e la localizzazione dei lavori, l'impresa esecutrice, la durata prevista e la data di inizio dei lavori richiesta; è inoltre indicata la data in cui viene formulata la richiesta.
Il secondo quadro, compilato dal responsabile dell'unità produttiva in cui si svolge il lavoro e controfirmato dal delegato competente per il rilascio dell'autorizzazione all'inizio dei lavori, deve indicare i rischi specifici presenti nell'ambiente di lavoro e le conseguenti misure di sicurezza da adottare.
Il terzo e il quarto quadro si riferiscono alla convalida per ripresa lavori e presa visione e alla sospensione o interruzione dei lavori; il quinto alla conclusione dei lavori e alla consegna delle opere, e il sesto alla effettuazione delle prove ambientali.
I permessi di lavoro emessi vengono inoltre registrati nel sistema informatico dell'azienda, denominato SAP.
Il secondo quadro, che è quello che maggiormente rileva, è quello propedeutico all'autorizzazione all'inizio dei lavori e deve essere sottoscritto, oltre che dal responsabile dell'unità rilasciante, da una serie di figure: il tecnico della sicurezza (se previsto), il responsabile dell'esecuzione dei lavori (cioè il preposto dell'impresa appaltatrice: art. 3.3 delle Istruzioni), e infine il delegato competente, la cui sottoscrizione, corredata da data e ora, costituisce il vero e proprio provvedimento autorizzativo ("Autorizzazione all'inizio del lavoro ").
Tale pluralità di sottoscrizioni corrisponde a diverse attribuzioni funzionali.
Infatti, in estrema sintesi, i. responsabile dell'unità rilasciante deve verificare le condizioni del luogo di lavoro e stabilire le misure di sicurezza necessarie (art. 4.2 delle Istruzioni), la cui idoneità deve essere valutata dal tecnico di sicurezza (art. 4.6).
Il delegato competente, invece, deve verificare l'effettiva attuazione di tali misure di sicurezza, provvedere a fare effettuare o ripetere le prove ambientali, e soltanto all'esito di tali operazioni autorizzare - su richiesta del responsabile esecutore - l'inizio dei lavori (art. 4.4).
Le istruzioni sulla compilazione del permesso prevedono che il delegato competente possa firmare il permesso di lavoro "solo dopo che abbia accertato che siano state eseguite le prove ambientali con esito soddisfacente" (p. 39 delle Istruzioni), con l'obbligo di darne atto nel quadro 6 del permesso.
Una volta che il secondo quadro è stato sottoscritto dal rilasciante, dal tecnico della sicurezza ed eventualmente da chi lo deve firmare per presa visione, esso deve essere consegnato dal richiedente al responsabile dell'impresa appaltante, il quale chiede al delegato competente l'autorizzazione all'inizio del lavoro (art. 4.8, punti 5 e 6).
Il preposto dell'impresa appaltatrice, per espressa previsione dell'art. 4.3 delle Istruzioni, deve "richiedere al delegato competente l'autorizzazione all'inizio dei lavori, a mezzo firma sul PdL, e non eseguire il lavoro se la copia del permesso non è interamente compilata e firmata come dalla presente procedura ".
Il responsabile della esecuzione dei lavori, a sua volta, consegna materialmente il documento agli operai incaricati del lavoro in questione, i quali devono tenerlo sempre con sé anche in funzione di eventuali ispezioni (p. 65 delle Istruzioni).
Secondo quanto riferito da Mario Salonis (II pp. 17 e ss.), tutte e quattro le copie del permesso di lavoro vengono consegnate al responsabile dell'impresa appaltatrice; una di esse viene poi trattenuta dall'operatore "polifunzionale" della Sa., che la riporta sul terminale, e al termine del lavoro le ultime due copie vengono consegnate al responsabile della sicurezza Sa. e al richiedente aziendale.

Nel caso specifico dei lavori sull'accumulatore D106 vennero rilasciati, tra il 21 aprile e il 24 maggio, diversi permessi di lavoro.
Per quanto qui interessa, il 14 maggio venne rilasciato un permesso di lavoro alla Riva & Mariani per la costruzione dei ponteggi per la ciecatura e l'apertura del passo d'uomo, il 18 maggio venne rilasciato un permesso alla KSB per il disserraggio degli accoppiamenti per il D106, il 24 maggio vennero rilasciati tre permessi alla CISA per il taglio dei tiranti sugli accoppiamenti di fondo dell'accumulatore e per la ciecatura del medesimo.
Il 20.4.2009 venne inoltre inoltrata la richiesta dei lavori di pulizia idrodinamica interna dell'accumulatore D106 (permesso di lavoro n. 10605967, sequestrato dalla P.G. alle 19:35 del giorno dell'incidente: I, pp. 76 e ss.).
Il richiedente era Marco Cadoni e il responsabile dell'unità rilassante Gianni Mur., il quale dispose che fossero adottate le seguenti misure di sicurezza: apparecchiatura depressata; apparecchiatura bonificata con vapore; apparecchiatura ciecata; apparecchiatura vuotata; valvole chiuse; spurghi aperti; analisi contenuto 02; sorveglianza esterna: tuta impermeabile: guanti e scarpe; schermo facciale; rilevazione H2S; ponteggio; otoprotezione; controllo perdite; piano di ciecatura; contenitori per rifiuti e stridi; convogliamento controllato liquidi in fogna; illuminazione a 24V.
Nell'elencazione dei rischi era cancellata la dicitura "asfissia".
Il rilasciante indicò come delegato competente all'autorizzazione all'inizio dei lavori "MHC-TAME" e richiese la firma del tecnico di sicurezza (poi effettivamente apposta).
Il permesso era stato già sottoscritto dal responsabile dell'esecuzione dei lavori, Gianpiero Me., ma non vi era ancora l'autorizzazione all'inizio del lavoro da parte del delegato competente, con l'indicazione di data e ora dell'autorizzazione.
Il permesso fu sequestrato a Me. (v. verbale di sequestro del 26.5.2009, I, p. 82), il quale era in possesso di una delle quattro copie originali: le altre tre copie, invece, furono consegnate ai Carabinieri dal responsabile del reparto sicurezza della Sa., Alberto Ro..

2.0 La condotta di Luigi So..

Un'altra premessa necessaria per valutare correttamente gli elementi di prova emersi in relazione a ciascun profilo di colpa contestato riguarda la condotta delle vittime ed in particolare di una di loro, Luigi So..
Si è visto infatti che Po. e Me. hanno concordemente riferito che il caposquadra aveva espressamente ordinato a So. e a Po. di attenderlo dove si trovavano mentre egli andava a farsi firmare i permessi di lavoro.
In quel momento i due operai erano fuori dall'impianto: l'accumulatore DI06 si trova infatti al secondo piano, mentre i due lavoratori erano sulla strada.
Tale circostanza ha trovato conferma anche in altri elementi di prova, e in particolare nella deposizione di E.S. (II, pp. 32 e ss.), il quale, intervenuto quando ancora le tre vittime non erano state estratte dall'accumuaatore, prima di salire al secondo piano dell'impianto incontrò Gianpietro Me., cui chiese dove si trovassero i lavoratori coinvolti nell'incidente; questi, con fare esagitato e in dialetto sardo, gli rispose: "Sono su, non avevano neanche il permesso di lavoro perché non era pronto, gli ho detto di rimanere qui!".
Frasi analoghe di Me. sono state ricordate da diversi testimoni, quali Mauro Pu. (II, pp. 66 e sS.) e Mauro Car. (Il, pp. 88 e ss.).
I difensori hanno sottolineato che dalle prime deposizioni di Po. e Me. - rese nell'immediatezza e in contemporanea, in luoghi diversi, senza dunque che i due testimoni potessero mettersi d'accordo - risulta con chiarezza che i dipendenti della C.M.S. erano ben consapevoli del fatto che nessun lavoro poteva essere iniziato fino a quando non fosse stato rilasciato il permesso di lavoro.
Tale considerazione deve essere condivisa.
Me. infatti, dopo aver spiegato di aver dato istruzioni ai due di aspettarlo in strada perché "non dovevano fare altro", riferì che quando si era verificato l'incidente egli aveva chiesto immediatamente spiegazioni a Po., il quale gli aveva risposto: "È voluto salire ed è entrato".
Il caposquadra, inoltre, escluse che fosse mai accaduto che gli operai iniziassero i lavori senza aver ottenuto il permesso di lavoro, e precisò che "Gli operai sono istruiti rigorosamente in tal senso" (II, pp. l e ss.).
Po., a sua volta, volle subito precisare che "...eravamo a conoscenza di come il lavoro si sarebbe dovuto svolgere. ovvero dovevamo aspettare che il caposquadra fosse in possesso del permesso di lavoro rilascialo dalla Sa.".
Egli infatti, per giustificare l'accaduto, accusò So. di scarsa professionalità e imprudenza, asserendo di averlo dovuto richiamare più volte all'osservanza delle procedure di sicurezza (II, pp. 10 e ss.; sul punto si tornerà nel paragrafo successivo).
Si è detto inoltre sub 1.3) che le Istruzioni per la emissione e gestione dei permessi di lavoro prevedono espressamente, in diversi punti, e in particolare all'art. 4.3, che nessun tipo di lavoro può essere iniziato "...se la copia del permesso non è interamente compilata e firmata come dalla presente procedura".
Ancora, il fatto che la procedura fosse conosciuta dai dipendenti della C.M.S. emerge esplicitamente dalla deposizione di Mario Salons,, il quale, oltre a descrivere nel dettaglio il procedimento, ha altresì precisato che il rilascio del permesso di lavoro deve essere necessariamente preceduto dall'esecuzione delle verifiche riguardanti il contenuto di ossigeno, il cui esito deve essere riportato nell'apposita sezione (quadro 6) del permesso di lavoro (II, pp. 17 e ss.; v. anche dichiarazioni di Po. del 7.7.2009, II, pp. 12 e ss.).
Infine, vi è il dato documentale della frequenza, da parte dei dipendenti della C.M.S. ed in particolare di So., di corsi specifici sulla sicurezza per l'ingresso nella raffineria e sui permessi di lavoro.
Non c'è dubbio pertanto che So., nell'occasione dell'incidente, avesse violato precise direttive organizzative - attinenti al tema della sicurezza - delle quali i lavoratori della C.M.S. erano stati specificamente portati a conoscenza.

Egli inoltre aveva disatteso una specifica indicazione del suo caposquadra e le procedure di sicurezza previste dal Piano di sicurezza e coordinamento (v. parte II), e per accedere all'accumulatore aveva rimosso il telo di nylon con il quale era stata sigillata l'apertura del passo d'uomo.
Su quest'ultimo punto, infatti, si deve osservare che la circostanza riferita da Po. - secondo cui la protezione sarebbe stata strappata la mattina stessa o il giorno precedente da un operaio non identificato - è rimasta del tutto priva di riscontro, non è intrinsecamente credibile (si veda quanto si dirà nel paragrafo successivo sull'ambiguità della posizione di Po.) ed è smentita dai numerosi testimoni indicati sub 1.2).
Del resto non vi erano in quei giorni altri lavori programmati che potessero giustificare la rimozione della protezione, per cui è logico ritenere che essa fosse stata tolta proprio da So..
La condotta della vittima rappresenta dunque una violazione dei doveri incombenti sul lavoratore ai sensi dell'art. 20, secondo comma, lettere b) e g), del testo unico, e pone il problema, spesso ricorrente in questo tipo di reati, della interruzione del nesso causale.
Come è noto, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito un comportamento anomalo del lavoratore, per acquisire, nel caso in cui vi sia anche una violazione del datore di lavoro, il valore di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento, deve essere imprevedibile perché assolutamente estraneo al processo di produzione o alle mansioni attribuite al lavoratore.
Infatti le norme di prevenzione mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia.
Da ciò consegue che la responsabilità del datore di lavoro e delle altre figure su cui gravano responsabilità antinfortunistiche può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore del tutto imprevedibile e inopinato e tale, dunque, da presentare i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive organizzative ricevute (cfr. ad es. Cass., sez. IV, 3 giugno 1999, n. 12115, Grande; Cass., sez. IV, 3 novembre 2004, n. 3455, Volpi; Cass., sez. IV, 7 giugno 2005, n. 36339, Pistolesi; Cass, sez. IV, 27 marzo 2009, n. 18998, Trussi).
La giurisprudenza ha chiarito che può considerarsi abnorme, e quindi idoneo ad interrompere il nesso di causalità ai sensi dell'articolo 41, comma secondo, c.p, solo il comportamento del lavoratore infortunato che per la sua stranezza ed imprevedibilità si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro (v. ad es. Cass., sez. IV, 26 ottobre 2006, n. 2614, Palmieri).
Inoltre, tale interruzione del nesso causale a fronte di un comportamento imprevedibile del lavoratore non si può configurare nel caso in cui l'infortunio sia causato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione che avrebbero potuto neutralizzare proprio il rischio di un siffatto comportamento (v. ad es. Casso 3455/2004 e 36339/2005, cit.).
Infatti, secondo quanto riportato in motivazione da Cass.18998/2009, "...chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui. In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui. quando si è, come nel caso de quo, nella possibilità in concreto di impedirlo. È il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l'incidente dipende dal comportamento dell'agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui".
La stessa sentenza da ultimo citata ha inoltre chiarito che tra le omissioni che escludono comunque l'interruzione del nesso causale vi è quella delle necessarie informazioni che devono essere fornite al lavoratore in merito alla pericolosità del luogo di lavoro.


2.2) La condotta di Renato Valerio Po..

I principi sopra indicati vengono estesi in generale dalla giurisprudenza a qualsiasi caso di affidamento sulla condotta altrui.
Anche in questo caso, infatti, si ritiene che il datore di lavoro, in quanto garante dell'incolumità personale dei suoi dipendenti, non possa invocare a sua discolpa, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, eventuali responsabilità di altri (cfr. ad es. Cass., sez. IV, 29 aprile 2008, n. 22622, Barzagli).
Tale riferimento si rende necessario in relazione alla valutazione della condotta di Renato Valerio Po..
Le parti hanno infatti correttamente evidenziato che vi sono forti dubbi -che emergono con chiarezza dall'andamento dell'esame condotto dal Pubblico Ministero il 7.7.2009 (II, pp. 12 e ss.) - sulla versione dei fatti resa da Po., secondo cui, come si è visto, So. si sarebbe allontanato e diretto verso l'accumulatore senza che il compagno se ne accorgesse.
Innanzitutto, infatti, Gianluca F. - nelle dichiarazioni rese il giorno del fatto (II pp. 20 e ss.) - dichiarò di aver pensato, sentendo le urla di Po. ("Gigi è caduto!"), che So. fosse caduto dall'impalcatura sita al secondo piano, in quanto "...1'avevo visto lavorare lì prima con Renato Po.... Gigi So. e Renato Po. stavano lavorando al secondo piano di grigliate nei pressi dell'ingresso che chiamiamo passo d'uomo e che porta all'interno di una cisterna".
Il teste, dunque, ha direttamente smentito Po..
Si è visto, poi, che Me., quando nell'immediatezza aveva chiesto spiegazioni a Po., si era sentito rispondere: "È voluto salire ed è entrato ".
Tale risposta appare difficilmente compatibile con la ricostruzione suggerita da Po., il quale non ha saputo dare convincenti spiegazioni né sul contrasto tra le proprie dichiarazioni e quelle dei testimoni citati, né sulle ragioni per le quali egli e So. indossavano la tuta bianca (che serve per essere visibili nei lavori in spazi confinati, e secondo lo stesso Po. non viene utilizzata normalmente perché "fa caldo, è di materiale plastico"), né infine sui motivi per i quali, non vedendo So., egli avrebbe dovuto pensare che il collega si trovasse proprio nell'accumulatore D106.
Ancora, la deposizione di Po. non ha trovato alcuna conferma nelle dichiarazioni di altri testimoni.
Lo stesso, infatti, sostenne di aver atteso il rientro di So. a lungo insieme ad altri operai, sulla strada, ma tale circostanza non è stata ribadita da alcuno, anche perché Po. non è stato in grado di indicare specificamente l'identità delle persone che si sarebbero trovate con lui (e neppure l'impresa per cui essi lavoravano).
Infine, nel corso dell'esame del 7.7.2009 il Maresciallo Domenico Valitutto, comandante della stazione Carabinieri di Sarroch, contestò al testimone che questi, nell'immediatezza del fatto, gridava: "Io gli ho detto di non andare li! Non fatemi parlare", e Po. riconobbe di aver pronunciato quella frase, dicendo inizialmente di aver dato tali indicazioni a So. la mattina, salvo poi precisare che non ricordava quando avesse parlato con il collega.
Lo stesso Po., tuttavia, ha riferito che Me. aveva comunicato agli operai che i programmi erano cambiati quando essi, dopo la pausa pranzo, si accingevano ad iniziare un altro lavoro, tanto che avevano "i ferri in mano per i tiranti"
Non è dunque possibile che egli avesse avuto quello scambio di idee con So. la mattina, perché in quel momento essi non sapevano che avrebbero dovuto lavorare sull'accumulatore HD 106.
Valutati congiuntamente, tali elementi indicano in modo piuttosto chiaro che Po. e So. - i quali, secondo quanto riferito dallo stesso Po., avevano avuto indicazioni da Me. che quel pomeriggio avrebbero dovuto lavorare sull'accumulatore DI06 - fossero andati insieme sul posto, disattendendo le indicazioni del caposquadra.

Tale circostanza tuttavia è sostanzialmente ininfluente ai fini della decisione (salvo che per valutare la credibilità di Po., in particolare riguardo al dettaglio della protezione in nylon rimossa; v. sopra).
Infatti la condotta di Po. potrebbe comportare una responsabilità concorsuale di quest'ultimo, ma non una causa sopravvenuta tale da interrompere il nesso causale distinguibile dalla condotta di So., che è del tutto sovrapponibile a quella del testimone.
Di conseguenza, sia che la condotta di So. possa essere considerata imprevedibile nel senso sopra chiarito, sia che non possa esserlo, nulla cambia rispetto alle posizioni degli imputati il fatto che anche Po. possa aver avuto un ruolo nella determinazione dell'evento.

 


2.3) La condotta di Daniele Me. e Bruno Mu..


Ai fini evidenziati nei paragrafi precedenti, e quindi per valutare la condotta degli imputati in relazione a quella delle vittime e alla possibile interruzione del nesso causale, l'omicidio colposo di Luigi So. dovrà essere differenziato da quello delle altre due vittime dell'incidente, in capo alle quali non è ovviamente configurabile la condotta colposa sopra descritta.
Come si vedrà, non possono essere addebitate a Me. e a Mu. violazioni procedurali di sorta, ed in particolare in riferimento alle procedure per il primo soccorso e all'ingresso in ambienti confinati.
Il punto, dunque, è se la condotta di So. possa interrompere il nesso causale anche rispetto ai successivi eventi.
Tale conclusione, anche se si riconoscesse che la condotta di So. fu imprevedibile nel senso sopra definito, non è automatica, dovendosi valutare se vi siano delle violazioni specificamente rilevanti rispetto alla determinazione della seconda parte della catena causale.
In altri termini, si dovrà apprezzare comunque se sia rimproverabile agli imputati il fatto che l'incidente non si sia concluso con la morte di So., ma abbia coinvolto altre due persone impegnate in un soccorso di necessità ad un collega in evidente pericolo di morte.


***

 

3.1) Le posizioni soggettive degli imputati: la ricostruzione del Pubblico Ministero.


Non vi sono dubbi di sorta sull'attribuzione della qualifica di datore di lavoro del consorzio C.M.S. all'ingegner Francesco Le., direttore tecnico e legale rappresentante della persona giuridica (nonché diretto responsabile, come si vedrà, delle condotte colpose..
La ricostruzione delle posizioni di garanzia è invece ben più complessa in relazione alla posizione degli altri imputati, tutti inseriti nell'organizzazione della Sa. s.p.a.
Dagli accertamenti eseguiti presso la Camera di commercio di Cagliari (I, 798, pp. 14 e ss., 69 e ss.) è emerso che l'ingegner Dario Sc. è stato nominato procuratore della società con atto pubblico del 19.3.2003 (procura successivamente ribadita con atti in data 23.1.2007, 7.3.2008, 10.9.2008 e 9.12.2008), con ampi poteri rappresentativi che comprendono (punto 28) l'attuazione di tutti gli obblighi posti a carico del datore di lavoro in materia di sicurezza e prevenzione, e in particolare quelli previsti dal D. lgs. 81/2008.
Al punto 31, lett. D), della procura, vengono riconosciuti all'ingegner Sc. i relativi poteri di spesa, con firma singola, senza limiti di importo.
Allo stesso dunque è stata attribuita nell'imputazione la qualifica - nell'ambito dell'organizzazione della Sa. s.p.a. - di datore di lavoro, sulla base di quanto stabilito dall'art. 2, lett. b), D. lgs. 81/2008, essendo egli titolare dei poteri decisionali e di spesa dell'organizzazione.
L'ingegner Antioco Mario Gr. fu nominato direttore delle operazioni industriali con atto pubblico del 31.1.2002 (pp. 26 e ss.); tale procura, secondo quanto è emerso dalle produzioni difensive, è stata revocata con atto pubblico del 10.10.2007, ma è stata ribadita con successivi atti pubblici del 22.2.2008, 12.9.2008 (pp. 89 e ss. della visura CCIAA citata) e 9.12.2008 (pp. 80 e ss.).

Con tali atti furono conferiti all'imputato ampi poteri rappresentativi in diversi settori, tra i quali però non rientra quello della prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Risulta tuttavia dagli organigrammi acquisiti (L p. 796) che egli è un alto dirigente della società, e che in particolare si trova in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto al direttore della raffineria (posizione che egli ricopriva in precedenza.).

 


È bene ricordare al riguardo due fondamentali principi in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Innanzitutto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che non si ha violazione del principio di correlazione fra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza quando sia rimasta inalterata la condotta omissiva, intesa come dato fattuale e storico contenuto nell'imputazione, ma sia stata mutata solo la fonte (normativa, regolamentare o pattizia) in base alla quale l'imprenditore era tenuto a porre in essere la condotta doverosa omessa.
Infatti non si può ritenere che la fonte di imputazione dell'obbligo sia parte del fatto e che incida, perciò, nella sostanza della fattispecie concreta intesa come accadimento storico che si inquadra nell'ipotesi astratta prevista dalla norma incriminatrice (così ad es. Cass., sez. IV, 10 novembre 2005, n. 47365, Codini).
Tale premessa è rilevante perché nella richiesta di rinvio a giudizio viene indicata quale fonte dei poteri di Gr. la procura del 31.1.2002, che come si è visto è stata revocata.
Siffatta indicazione non rappresenta tuttavia un vincolo, sia per le ragioni processuali indicate, sia perché all'imputato non è attribuita la qualifica di datore di lavoro (che presupporrebbe, come si è detto, l'attribuzione dei corrispondenti poteri decisionali e di spesa), ma quella di dirigente.
Tale argomento conduce al secondo ordine di considerazioni, che si riferisce alla natura della responsabilità del dirigente.
È principio acquisito che la responsabilità del dirigente non deriva da una specifica delega attribuitagli dal datore di lavoro, ma discende direttamente dalle norme di legge (cfr. in tal senso, ad es., Cass., sez. IV, 3 febbraio 2009, n. 19712, Guanella).
La posizione di Gr. (così come quella di G. e At.) dovrà dunque essere valutata in relazione alla definizione data dall'art. 2 lett. d) D. lgs. 81/2008, in base alla quale il dirigente è colui che "... in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali, adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa".
A tale scopo è utile innanzitutto fare riferimento all'organigramma acquisito agli atti nel quale vengono ricostruite le posizioni e responsabilità dei dirigenti e dei preposti in relazione al settore nel quale si verificò l'incidente (1, 457; nell'organigramma non è indicato Gr., il quale come si è detto è il superiore gerarchico di G., come indicato nell'organigramma che precede).

 

 

Come si vede, i preposti dell'impianto MHC1 coinvolti nell'incidente erano alle dirette dipendenze del dirigente dell'area produttiva di conversione, Antonello At. (si è detto infatti sub 1.2.1 che l'impianto può essere utilizzato anche per la conversione di gasolio), a sua volta gerarchicamente dipendente dal direttore di raffineria Guido G., che era subordinato al direttore delle operazioni industriali Antioco Mario Gr..

 

3.2) La procura conferita al direttore di raffineria.


Tale ricostruzione, che rappresenta il fondamento della attribuzione delle posizioni di garanzia indicate nel capo d'imputazione, è complicata dalla specifica procura conferita al direttore di raffineria in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Infatti con scrittura privata autenticata del 27.9.2007 (pp. 35 e ss.), integrativa di una precedente procura del 23.9.2007, l'ingegner Guido G. fu specificamente delegato da Sc. alla "attuazione in raffineria e negli uffici di Sarroch di tutte le misure di sicurezza previste dalla normativa vigente ed imposte dalla normale prudenza" (punto 3.3).
La procura indicava specificamente, tra l'altro, la delega ad attuare le misure di prevenzione e protezione (lett. C) e a "curare, nel caso di affidamento di lavori in appalto, l'attuazione degli adempimenti previsti dall'art. 7 D. Lgs. 626/1994 " (lett. G), nonché a curare la formazione e informazione dei dipendenti in materia (lett. M).
In relazione a tali funzioni, l'ingegner G. fu autorizzato (punto l) a concludere, modificare e risolvere contratti relativi ad acquisto di materiali tecnici, apparecchiature, macchinari ed attrezzi, nonché materie ausiliarie alla produzione, con un limite di spesa di 100.000 euro per ogni operazione (mentre non era previsto un limite complessivo).
Egli inoltre (punto 3.3., ultima parte) fu autorizzato specificamente, in relazione alla materia antinfortunistica, a stipulare i necessari contratti di prestazione di servizi, forniture o appalti con terzi, "facendosi carico di richiedere alle competenti funzioni aziendali la disponibilità dei mezzi finanziari ove gli interventi necessari eccedano i limiti di valore di propria competenza".


Sulla base di tale atto, nella memoria difensiva depositata l' 11.2.2011 (pp. 77 e ss.), la difesa di Sc. ha sostenuto che la qualifica di datore di lavoro debba essere attribuita al direttore di raffineria; inoltre, il riconoscimento di tale qualifica escluderebbe la possibilità di attribuire una corrispondente posizione di garanzia al direttore generale.
Tale prospettazione è in parte fondata, e ha dei riflessi immediati anche sulla posizione di garanzia di Gr..

A) In base al parametro normativo già richiamato [art. 2, letto b), D. Lgs. 81/2008], vi sono effettivamente - come sostenuto dalla difesa di Sc. - tutti i presupposti per l'attribuzione al direttore di raffineria della qualifica di datore di lavoro.
Egli infatti aveva, per via della procura richiamata, pieni poteri decisionali e di spesa, o comunque ampi margini operativi (i limiti di spesa infatti si riferivano alle singole operazioni, ma non vi era un tetto complessivo).
Coerentemente, nel modello organizzativo dell'impresa vigente all'epoca del fatto (revisione dell'8.5.2008: X, 5, p. 32) e nel manuale del sistema di gestione della sicurezza (III, 77, p. 379) G. venne indicato come datore di lavoro ex D. Lgs. 81/2008 per la sede di Sarroch, mentre al direttore generale Scaf. fu attribuita la stessa qualifica per le sedi di Milano e Roma.
In particolare, la identificazione dei pericoli e la valutazione dei rischi e-rano attribuiti, rispettivamente, a G. per la raffineria e a Sc. per la sede centrale della società (cfr. manuale del sistema di gestione della sicurezza. III, 77, p.397..
Non vi è dubbio pertanto sul fatto che l'organizzazione aziendale fosse stata concepita in modo da attribuire la posizione di datore di lavoro riguardo allo stabilimento di Sarroch ali'ingegner G..
Dagli atti acquisiti, inoltre, risulta con chiarezza che tali poteri vennero effettivamente esercitati da G.: si fa riferimento, a titolo di esempio, alle modifiche relative alle istruzioni sulla emissione e gestione dei permessi di lavoro e all'iter di redazione ed emissione delle modifiche del DUVRl che vennero adottate in ottemperanza alle prescrizioni impartite dalla ASL n. 8 in seguito all'incidente (I,pp. 767 e ss.).


B) Tale conclusione, tuttavia, non esclude in linea generale - salvo la necessità di verifica in relazione alle singole contestazioni - la posizione di garanzia dello stesso Sc., al quale, come si é visto, erano attribuiti analoghi (o meglio superiori) poteri decisionali e di spesa.
La premessa è che questi appare correttamente individuato come datore di lavoro "originario", cioè la persona che Patto costitutivo, lo statuto o una decisione del consiglio d'amministrazione possono individuare come datore di lavoro; non si tratta però di una nomina, ma di una individuazione all'interno della struttura societaria della figura cui sono riconosciuti i poteri decisionali e di spesa.
In altri termini, come è stato affermato in dottrina, "un conto, infatti, è individuare le persone fisiche che, all'interno delle organizzazioni complesse, sono titolari dei poteri dai quali deriva lo loro responsabilità in caso di violazione dei doveri inerenti la loro funzione; altro discorso è lo delega di funzioni che riguarda un momento successivo e cioè la possibilità - per queste persone, titolari di poteri (o per gli organi direttivi dell'organizzazione) - di attribuire ad altre persone fìsiche le funzioni da cui può derivare la responsabilità nel caso di eventi di danno o di pericolo".
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che dal principio di inderogabilità delle funzioni di garanzia - che non si pone affatto in contrasto con il principio di effettività ma, anzi, ne costituisce la concreta applicazione per il riferimento a chi ha i poteri di decidere e di spendere - consegue che i poteri originari correlati alla posizione di datore di lavoro non possono essere unilateralmente o convenzionalmente rinunziati.
Vi è dunque una posizione di garanzia primaria che prescinde, in concreto, anche dalla riserva di poteri di controllo (v. al riguardo, ad es., Cass., sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988, Macola; Cass., sez. III, 9 marzo 2005, n. 12370, Bincoletto; e con particolare chiarezza, in motivazione, Cass., sez. III, 19 aprile 2005, n. 29229, Ligresti).
Il principio di effettività non è dunque legato alla concreta organizzazione d'impresa e all'effettiva attribuzione dei poteri impeditivi, come sostenuto nella memoria difensiva citata (in particolare pp. 14 e ss.).
Infatti la titolarità di tali poteri impeditivi è una derivazione necessaria dell'attribuzione dei poteri decisionali e di spesa, che conferiscono poteri e doveri indefettibili..
Nel caso specifico, poi, si deve rilevare che la procura conferita a G. non aveva fatto venire meno i poteri di intervento e controllo di Sc., come emerge in modo chiaro dal contenuto dell'atto.
Infatti, come si é visto, G. - nel caso in cui fosse stato necessario affrontare spese di importo superiore ai limiti della delega - si sarebbe dovuto rivolgere al superiore; e tale integrazione di poteri presuppone un controllo sostanziale sulla spesa e, quindi, sulle scelte ad essa sottese.
Una conferma di tale assunto viene dai documenti in materia di sicurezza, normalmente adottati a doppia firma da Sc. e G..
Ad esempio, tutte le procedure di sicurezza acquisite e allegate alla consulenza dell'ingegner Gianino furono sottoscritte, per l'approvazione, sia da Scaf. che da G.; ciò perché esse non si riferivano soltanto alla raffineria di Sarroch, ma anche alle altre sedi della società.
Si trattava quindi di scelte condivise dai due imputati.
Un esempio ancora più calzante si riferisce alla nomina del coordinatore della sicurezza, che è atto non delegabile del datore di lavoro, e che venne fatta da G. (I, p. 752).
Tale nomina però si fondava su un accordo contrattuale di carattere più generale, e poiché il compenso era largamente superiore ai limiti di spesa entro i quali operava il direttore di raffineria, il contratto con l'ingegner Ezio Ca. fu sottoscritto dal direttore generale Sc. (I, pp. 748 e ss.).


È chiaro dunque che in questo caso la scelta del coordinatore della sicurezza e la relativa spesa non sono imputabili al direttore di raffineria, ma al direttore generale, essendo difficilmente ipotizzabile che G. potesse nominare un soggetto diverso da quello con cui era stato stipulato un contratto che comprendeva anche i lavori di fermata e bonifica dell'impianto MHC1.
Si deve ritenere dunque, come anticipato, che a questi sia stata correttamente attribuita, sulla base del principio di effettività, la qualità di datore di lavoro.
I principi sopra richiamati, estremamente rigorosi, trovano temperamento da un lato nelle regole generali in materia di colpa, che impongono comunque, una volta ricostruita la posizione di garanzia, di accertare in concreto la configurabilità di una condotta di cooperazione colposa riconducibile all'agente (tenuto conto della inoperatività in subiecta materia del principio di affidamento, come ricorda Casso 2922912005 cit.); e dall'altro lato nell'istituto della delega di funzioni ex art. l6 D.Lgs.. 81/2008.
Si dovrà quindi accertare, riguardo alla posizione dell'ingegner Sc., la possibilità di ricondurre al medesimo i profili di colpa riscontrati, e si dovrà verificare se ed entro quali limiti, in relazione alle specifiche condotte colpose, egli possa essere esonerato dalla delega di funzioni fatta a G., ovviamente nei limiti stabiliti dall'art. 16 D. lgs. 81/2008, e tenuto conto della non delegabilità delle funzioni di cui ali'art. 17.
Tale valutazione presuppone l'analisi dei singoli addebiti di colpa e verrà dunque effettuata nella parte II.

C) Appare invece da escludere, in linea generale, la posizione di garanzia attribuita a Gr..
Si é detto, infatti, che questi - in quanto dirigente - risponderebbe iure proprio, e dunque senza necessità di una specifica delega; ma ovviamente la responsabiittà del dirigente é connessa alle sue attribuzioni, e nel caso specifico come si é visto deriverebbe dal fatto che Gr. é il superiore gerarchico di G..
Se però il direttore di raffineria, in base alla procura ricevuta - e a prescindere dal suo inquadramento formale nell'organigramma aziendale, dato che le posizioni di garanzia in materia antinfortunistica sono autonome dalle qualifiche lavorative - deve essere ritenuto, come si é detto, datore di lavoro, questa prospettiva viene radicalmente sovvertita.
La figura del dirigente, infatti, non può essere "a monte" di quella del da-tore di lavoro, perché ciò implicherebbe che questi non avesse - dovendo rispondere gerarchicamente ad un'altra figura - quella pienezza di poteri decisionaii e di spesa che é, invece, insita nella qualifica.
Il direttore di raffineria, dunque, è gerarchicamente subordinato, in linea generale (e quindi con riferimento ad un'attività che è molto più complessa ed articolata rispetto alle attribuzioni in materia antinfortunistica,, al direttore delle operazioni industriali: ma non lo è, in concreto, riguardo alla materia che interessa, perché G. in virtù di una procura specifica, che costituisce per cosi dire un ordinamento parallelo rispetto al generale organigramma societario - aveva pienezza di poteri e, dunque, non aveva necessità (né obbligo) di fare riferimento al proprio diretto superiore.
Si è visto, inoltre, che da un lato tra le attribuzioni specifiche di Gr. non rientrava la materia della sicurezza sul lavoro, e dall'altro lato - in base alla procura richiamata - G., quando fosse stato necessario integrare i propri poteri di spesa (e quindi condividere le relative decisioni), si sarebbe dovuto relazionare direttamente con Sc. (e così materialmente fece); cioè, non a caso, non con un dirigente, ma con un altro soggetto con la qualifica di datore di lavoro, posto in posizione sovraordinata perché da lui proveniva la delega di funzioni.
Ciò appare escludere la responsabilità dell'ingegner Gr..
Infatti la giurisprudenza sopra richiamata, nel prevedere che il dirigente risponda iure proprio, richiede però che esso abbia, nell'organizzazione d'impresa, specifiche competenze in materia di sicurezza sul lavoro (v. anche, per un'ampia ricostruzione storica, Cass., sez. IV, 6 dicembre 2007, n. 6277, in motivazione).

In termini ancora più espliciti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la figura di dirigente, ai sensi della normativa antinfortunistica, presuppone l'esistenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici dai quali si possa desumere l'effettivo esercizio di funzioni dirigenziali, come tali riconosciute in ambito aziendale, anche nel campo della sicurezza del lavoro, con poteri decisionali al riguardo (cfr. Cass., sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 13915, Clari).
Come si è detto, le funzioni del direttore delle operazioni industriali si riferivano, invece, a materie diverse, e nessun atto processuale indica che egli avesse di fatto esercitato un'ingerenza nel campo della sicurezza sul lavoro e che avesse rispetto ad essa effettivi poteri decisionali.
La posizione di garanzia di Gr. appare, dunque, da escludere, e pertanto egli deve essere assolto per non aver commesso il fatto.


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4) L'impostazione della richiesta di rinvio a giudizio e la valutazione dei singoli profili di colpa.

Un altro ordine di premesse che prelude all'analisi delle specifiche imputazioni si riferisce alla struttura del capo A) della richiesta di rinvio a giudizio.
Innanzitutto, infatti, l'impostazione dell'accusa scaturisce da una scelta del Pubblico Ministero di contestare la responsabilità per il delitto al datore di lavoro e ai titolari di qualifiche dirigenziali con responsabilità riguardo al settore in questione; non è stata invece esercitata l'azione penale nei confronti dei preposti, ed in particolare di coloro che materialmente presero le decisioni e omisero di adottare le cautele che portarono all'evento.
Tale impostazione è consequenziale alla convinzione di fondo, implicita nell'imputazione ed esplicitata nel corso della discussione e nella memoria depositata, secondo cui i preposti si limitarono ad eseguire le direttive loro impartite e le procedure previste all'interno dell'impresa.
Ed infatti, come si è detto in premessa, la contestazione è radicale, perché investe innanzitutto l'organizzazione del sistema di gestione della sicurezza del lavoro in ambito Sa., ritenuta inadeguata, inosservante delle disposizioni normative e causa diretta dell'evento.
L'imputazione è estremamente articolata (ben 13 punti) e descrive in modo molto puntuale e minuzioso gli specifici addebiti di colpa contestati agli imputati.
Tale dettaglio comporta tuttavia alcuni problemi di verifica della conformità del!'imputazione al fatto.
Ad esempio, la posizione ricoperta dagli imputati impedisce di ascrivere loro direttamente alcune delle contestazioni, quale quella di cui al punto 6), che si riferiscono a condotte (non aver reso identificabile il gas erogato attraverso la manichetta) che materialmente sono riconducibili ai preposti.
Lo stesso Pubblico Ministero, nel corso della discussione, si è in parte discostato dalle condotte descritte, contestando ad esempio, riguardo ad alcuni profili, non la materiale commissione ma l'omessa vigilanza da parte dei dirigenti, o ancora mettendo in discussione la non conformità del DUVRI ai parametri normativi (mentre al punto I ne viene contestata la mancanza) e ascrivendo a Le. un incauto affidamento nella gestione della sicurezza da parte della Sa., piuttosto che le specifiche condotte indicate ai punti 9) e 10).
Appare dunque utile ricordare sin d'ora che, secondo un orientamento interpretativo assolutamente consolidato, in materia di reati colposi, quando nel capo d'imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto a quelli originariamente contestati non vale a realizzare una diversità o mutazione del fatto, con sostanziale ampliamento o modifica della contestazione.
Infatti, il riferimento alla colpa generica evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente considerata in riferimento all'evento verificatosi, sicché questi è posto in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere (cfr. ad es. Cass., sez. IV, 19 maggio 2009, n. 31968, Raso; Cass., sez. IV, 19 giugno 2007, n. 35666, Lanzellotti: Cass., sez. III, 8 aprile 2010, n. 19741, Miliardi; Cass., sez. IV, 17 novembre 2005, n. 2393, Tucci; Cass., sez. IV, 4 maggio 2005, n. 38818, De Bona).
Da tale premessa consegue che per quanto l'imputazione sia analitica la valutazione giurisdizionale, pur dovendosi confrontare con ciascuno dei profili evidenziati, non si può esaurire nel loro esame meccanico, dovendosi ulteriormente valutare la contestazione di colpa generica per imprudenza, negligenza e imperizia.
Il capo d'imputazione deve essere dunque considerato un parametro con cui è necessario confrontarsi, ma che deve essere valutato con elasticità.
Cosi, per tornare all'esempio fatto in precedenza, non è sufficiente fermarsi alla constatazione che il profilo di colpa evidenziato sub 6) si riferisce in realtà a condotte dei preposti, perché si dovrà ulteriormente verificare se, in relazione alle medesime condotte e al ruolo ricoperto dai singoli imputati, siano comunque ravvisabili in capo ai medesimi responsabilità colpose.

***

 

PARTE II

I SINGOLI PROFILI DI COLPA CONTESTATI



Come si è già detto, l'imputazione è estremamente analitica e articolata in diversi profili di colpa (da l a 13), che per ragioni espositive verranno classificati in alcuni gruppi.
La prima distinzione che si deve fare è quella tra le contestazioni che si riferiscono al datore di lavoro e ai dirigenti della Sa. s.p.a. e quelle - punti 9) e 10) - addebitate a Francesco Le., direttore tecnico e legale rappresentante della C.M.S..
Infatti l'esame delle prime è logicamente preliminare a quello delle seconde, alla luce delle difese svolte dagli imputati e in particolare da Le., il quale -in breve - ha sostenuto che non fosse possibile adottare le misure di sicurezza necessarie, non essendo state trasmesse da parte della Sa. le necessarie informazioni sul rischio.


I profili di colpa contestati a Sc., Gr., G. e At. verranno ulteriormente suddivisi in tre gruppi.
Infatti, come si è detto in premessa, la contestazione può essere cosi schematizzata:
> la Sa. aveva impostato il proprio sistema di gestione della sicurezza dei lavori in appalto, ed in particolare la valutazione dei rischi, in modo non conforme agli standard normativi e sostanzialmente inefficace;
> da ciò sarebbe discesa la mancata valutazione del rischio specifico che portò ali'incidente mortale;
> da tale mancata valutazione sarebbe discesa inoltre la mancata previsione delle condotte impeditive idonee a prevenire l'evento e la creazione di una falsa apparenza che, invece, avrebbe contribuito alla sua realizzazione. Seguendo tale schema (che ovviamente è semplificatorio e non va inteso in senso letterale), si inizierà l'analisi da un primo gruppo di contestazioni, che ha carattere più generale e si riferisce agli strumenti di programmazione in materia antinfortunistica: si tratta dell'addebito di colpa di cui al punto I).
Il secondo gruppo si riferisce ai doveri di coordinamento tra imprese e di informazione gravanti sull'impresa appaltante, e alla valutazione del rischio nel caso concreto; sono compresi in tale capitolo i punti 2), 3), 4), 5) e 12) del capo d'imputazione.
Il terzo e ultimo gruppo di contestazioni comprende i punti 6), 7), 8), 11) e 13), che possono essere ricondotti tutti all'omessa adozione di cautele idonee a prevenire l'evento, ed in particolare di segnalazioni di una situazione di pericolo e di misure atte ad impedire che si creasse un'apparenza potenzialmente tale da indurre in errore i lavoratori.
Non verranno invece analizzate in questa parte le questioni relative alla decisione di non procedere alla bonifica con vapore dell'accumulatore D106 (che verranno invece riprese nella parte III, in riferimento alla responsabilità amministrativa dell'impresa).

Tale aspetto, infatti, non è decisivo per l'esame dei profili di colpa, in quanto - come spiegato nella parte l) - a prescindere dal punto controverso relativo alla immissione di vapore, nella bonifica dell'accumulatore HD 106 venne comunque seguita una procedura diversa da quella prevista dalle Istruzioni di fermata e bonifica nov. 2007, e quindi dalla procedura aziendale codificata in funzione della quale erano stati studiati i rischi e predisposte le misure di sicurezza.
Infatti, come si è detto, tale procedura prevedeva che tutte le operazioni di bonifica dovessero essere effettuate con l'accumulatore chiuso, mentre nel caso specifico, per le ragioni illustrate, a partire dal 23 maggio la bonifica proseguì con il passo d'uomo aperto (v. parte I §1.2.3, punto E).

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1.1) La contestazione di cui al capo A), punto 1: premessa.


Quella di cui al punto l) è, come si è anticipato, l'imputazione più dirompente, perché mette in discussione l'intera organizzazione del sistema di gestione della sicurezza della Sa. in relazione ai lavori in appalto.
Essa - soprattutto se valutata insieme alla contestazione di aver modificato una procedura sicura per risparmiare sui costi - potrebbe sottintendere una volontà dell'impresa di non osservare la disciplina in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, o quanto meno una sua trascuratezza al riguardo.
Tale lettura è però smentita dallo stesso Pubblico Ministero e non trova alcun riscontro processuale.
Il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro della Sa. ha ottenuto infatti, a partire dal 2008, l'attestato OHSAS 18001 rilasciato dalla Lloyd's register quality assurance Italy s.r.l., che rappresenta una delle principali certificazioni di qualità in materia, tanto da avere ottenuto un riconoscimento legislativo.
L'art. 30, quinto comma, D. lgs. 81/2008 prevede infatti che in sede di prima applicazione della legge i modelli di organizzazione aziendale definiti in conformità alle linee guida UNI-INA1L o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumano conformi ai requisiti richiesti dalla stessa disposizione di legge.
Risulta, ancora, che la Sa. - cosi come prescritto dall'art. 4 D.M. 9 agosto 2000 - ha dato attuazione alle best practices esistenti in materia; e ciò vale in particolare, per quanto rileva in questa sede, per lo strumento del permesso di lavoro.
Come si è detto, lo stesso Pubblico Ministero non ha comunque contestato la volontaria inosservanza delle procedure di legge, ma il fatto che il sistema di gestione della sicurezza non rispetterebbe il dettato normativo e sarebbe inadeguato e intrinsecamente pericoloso.
In particolare, l'accusa ha rilevato che "...l'incidente è certamente riconducibile a scelte organizzative che hanno consentito - e forse ancora consentono - agli operatori dell'impianto di apportare modifiche alle procedure senza una preventiva analisi e valutazione dei rischi e, dunque, in difetto della necessaria e consecutiva individuazione delle misure di sicurezza da parte del datore di lavoro. Ciò in contrasto con il dettato normativo che prevede che la valutazione dei rischi sia di esclusiva pertinenza del datore di lavoro e, quindi, non delegabile" (cosi il P.M. a p. 27 della memoria depositata il 20.6.2011).
La frase riportata riassume efficacemente le ragioni sostanziali della scelta di rifiutare letture più immediate e riduttive e di ricondurre l'evento a responsabilità dei vertici dell'impresa.
Essa però fa emergere anche una criticità che, come si vedrà, è rilevante, perché il problema inquadrato non si riferisce, in realtà, all'analisi iniziale del rischio, ma piuttosto al suo aggiornamento in seguito a fatti sopravvenuti.
La contestazione, però, è di mancata adozione del Documento unico di valutazione dei rischi (DUVRI), cioè del documento nel quale, per imposizione normativa, deve essere elaborata la valutazione dei rischi interferenziali.
L'omessa adozione del DUVRl è il punto centrale dell'addebito di colpa in esame, perché se essa fosse esclusa non si potrebbe certo rimproverare agli imputati l'inosservanza dell'art. 26, terzo comma, D. lgs. 81/2008 per il solo fatto di aver affiancato al DUVRI altri strumenti di valutazione del rischio, e segnatamente quello del permesso di lavoro e il sistema normativo di cui al capo I del titolo IV del D. lgs. 81/2008 (cd. "direttiva cantieri", in quanto si tratta di norme che recepiscono la direttiva comunitaria 92/57/CEE in materia di cantieri edili).
Tuttavia la contestazione comprende critiche di inidoneità di tali strumenti in quanto tali da creare incertezza, per cui è necessario comunque affrontare le relative questioni prima di giungere allo snodo fondamentale dell'ottemperanza all'obbligo di adozione del DUVRI.

 


1.2.1) I vizi del permesso di lavoro.

Dalla documentazione acquisita è emerso che il sistema organizzativo del permesso di lavoro non è stato autonomamente elaborato dalla Sa., ma è stato da essa recepito, mutuandolo da best practices nazionali e internazionali diffuse nel settore delle aziende petrolchimiche e, in particolare, nelle raffinerie.
Si fa riferimento in particolare alle linee di indirizzo SGI - AE, elaborate da INAIL, Confindustria energia e sindacati confederali (§ 4.5.3), alla norma UNI 10617:2009 (* 4.4.6), e infine alla norma UNI 10449:2008, che è la disposizione più specifica in materia.
Se cosi è, e come si è detto si tratta di un dato documentale e incontestabile, si deve ritenere che censurare la scelta di applicare questo tipo di procedura organizzativa, con le specifiche caratteristiche riscontrate, implicherebbe la pretesa dagli imputati di qualcosa di più di quanto si possa chiedere all'agente modello.
Tale lettura, suggerita da alcuni passaggi della parte finale del punto l) dell'impugnazione, è stata smentita dallo stesso Pubblico Ministero, il quale, durante la discussione e nella memoria di replica, ha esplicitamente chiarito che non è in discussione la idoneità del permesso di lavoro come utile strumento previsto da best practices nazionali e internazionali, bensì la concreta gestione di tale atto nel caso in esame.

In effetti quasi tutti i difetti della procedura evidenziati si riferiscono allo specifico permesso di lavoro sequestrato a Me., e verranno dunque analizzati nel § 3.2).
L'unica contestazione di ordine sistematico si riferisce alla incertezza della data, che è stata riferita al quadro II ed in particolare alla parte compilata dal "rilasciante ", cioè quella, come si è visto, nella quale vengono indicate le prescrizioni da adottare.
Sotto tale aspetto la procedura del permesso di lavoro adottata dalla SA. è pienamente conforme alla citata nonna UNI 10449:2008.
Tale disposizione stabilisce infatti che la data debba essere vergata al momento dell'emissione del permesso e della conclusione dei lavori, e che data e orario debbano essere necessariamente apposti al momento dell'autorizzazione all'inizio del lavoro.
La Sa. si è pienamente adeguata a tale precetto, prevedendo anzi l'ulteriore prescrizione che debbano essere obbligatoriamente indicate data e ora di effettuazione delle prove ambientali.
Si tratta quindi di un profilo non censurabile per le ragioni esposte.

1.2.2) L'applicazione del titolo IV del D. Lgs. 81/2008.

Le questioni relative alla applicazione della "direttiva cantieri" possono essere affrontate in modo molto schematico.
L'assunto di fondo dal quale è partito il Pubblico Ministero, cioè quello dell'inapplicabilità del titolo IV del D. Lgs. 81/2008 a lavori di manutenzione svolti all'interno di impianti industriali, è in realtà problematico.
La tesi, in breve, è che il sistema previsto dalla cosiddetta "direttiva cantieri" si applica soltanto ai lavori edili e di genio civile; i lavori svolti all'interno di uno stabilimento industriale non possono essere considerati tali, ed in tal senso, infatti, depongono le circolari ministeriali.
Del resto, quello di cui al capo I del titolo IV è un sistema idoneo per prevenire infortuni sul lavoro in relazione ad attività relativamente semplici quali i lavori edili e di ingegneria civile, ma non può essere adeguato in relazione a lavori che si svolgono in una realtà complessa come uno stabilimento industriale (per cui vigono gli obblighi di garanzia di cui al D. lgs. 334/1999).
L'esercizio di un impianto industriale, infatti, implica un coordinamento di uomini e mezzi con attività che si intersecano continuamente, massimizzando i rischi di interferenza, che possono essere compiutamente prevenuti soltanto da chi li conosca perfettamente, cioè dal datore di lavoro dell'impresa committente.
Ed infatti i compiti di coordinamento, per espressa previsione dell'art. 17 D. lgs. 81/2008, non sono delegabili.
Il sistema disegnato dal titolo IV, invece, è imperniato su una figura esterna all'impresa - nella fattispecie l'ingegner Ezio Ca., che, per quanto possa essere professionalmente qualificata, non può avere piena conoscenza (anche perché nel caso specifico non era previsto un efficace coordinamento) di tutti i processi e operazioni che vengono compiuti e in ogni caso non ha, non essendo inserita nell'organigramma aziendale, i poteri tipici del dirigente, e quindi la concreta possibilità di rimediare alle inosservanze con poteri coercitivi.
Dall'inapplicabilità del titolo IV discenderebbe quella dell'art. 96 D. lgs. 81/2008, che stabilisce, in relazione al singolo cantiere interessato, il principio dell'equipollenza dell'accettazione del Piano di sicurezza e coordinamento (PSC) e della redazione del Piano operativo di sicurezza (POS) alla elaborazione del DUVRI.
Tale impostazione, come si vede, si fonda su un'interpretazione letterale e teleologica del D. lgs. 81/2008; interpretazione che però, in letteratura e nella prassi applicativa, è piuttosto controversa.
La formulazione letterale della norma, innanzitutto, è ambigua.
L'elenco dei lavori edili o di ingegneria civile di cui all'articolo 89, primo comma, lettera a) è infatti definito normativamente negli allegati I e II del D. lgs. 81/2008, e comprende "I lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato. in metallo. in legno o in altri materiali".
La dicitura della disposizione, dunque, è ampia e potenzialmente può comprendere anche i lavori in questione, che sono indiscutibilmente di manutenzione di opere in metallo.
Inoltre, l'assunto secondo cui la normativa sarebbe in radice inapplicabile negli stabilimenti industriali appare contraddetta dalla disposizione dell'art. 88, secondo comma, D. Lgs, 81/2008.
Infatti tale norma, escludendo espressamente dal campo di applicazione del capo I i lavori svolti in una serie di impianti industriali, presuppone che la regola sia quella dell'applicazione della normativa anche ai lavori edili e di ingegneria civile svolti nell'ambito di stabilimenti industriali.
E poiché tra le eccezioni figurano (lettera e) le attività di prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio di idrocarburi, si può sostenere che le attività di raffinazione di idrocarburi, non comprese in tale elenco, siano soggette alla disciplina del titolo IV del testo unico.
Il fatto che l'applicabilità dell'istituto alle opere di manutenzione svolte in stabilimenti industriali sia controversa risulta, del resto, dagli atti.
Infatti fra i documenti acquisiti (III, pp. 612 e ss., 618 e ss.) vi sono due pareri legali richiesti dalla Sa. proprio su questo punto specifico.
I suddetti pareri, pur in termini perplessi, conclusero nel senso di ritenere applicabile la normativa alle attività di manutenzione generale, cioè ogni qual volta l'esercizio dell'impianto fosse interrotto per attività di manutenzione; questa infatti era, secondo quanto si sostiene in tali atti, la prassi seguita dalle imprese del settore e consigliata informalmente dal Ministero del lavoro.
Tali circostanze indicano che in una situazione normativa confusa la SA. fece la scelta più conservativa, cioè scelse di applicare le disposizioni in questione per evitare di poter essere ritenuta inadempiente ad obblighi di legge.
Questa scelta non implica però necessariamente la sostituzione del sistema di valutazione del rischio previsto dall'art. 26, terzo comma, D. Lgs. 8I/2008 con quello di cui al titolo.V, essendo compatibile anche con l'affiancamento di due diversi sistemi di previsione del rischio.

1.3) L'omessa elaborazione del DUVRI.

Si arriva dunque al punto nevralgico della contestazione, cioè quello che si riferisce alla mancata elaborazione del Documento unico di valutazione dei rischi (DUVRI) riferito ai lavori in atto, nella circostanza de1l'incidente, nell'impianto MHC1.

A) La contestazione, di per sé, si presta ad equivoci, perché non vi è dubbio che la Sa. avesse regolarmente adottato il DUVRI, che peraltro è stato acquisito - in copia non integrale - nel corso delle indagini (III, all.ti da 143 a 147 alla consulenza dell'ing. Gianino) ed è stato prodotto dalla difesa (all. 261 alla consulenza della KPMG, nel quale è riportato integralmente l'allegato 4 del DUVRI).
Se dunque l'imputazione venisse riferita alla mancanza fisica del documento, essa sarebbe manifestamente infondata.
La questione è però più controversa, perché quello che viene contestato -secondo quanto è emerso dalla discussione e dalla consulenza dell'ingegner Gianino - è che dovesse essere adottato un DUVRI specificamente riferito all'appalto in questione, e quindi ai rischi di interferenza inerenti ai lavori che doveva eseguire la C.M.S..
La Sa., infatti, non adottò uno specifico documento di valutazione dei rischi riferito all'appalto di servizi in questione e ai rischi di interferenza tra le imprese coinvolte, ma emise un documento generale (denominato "DUVRl Master") che comprendeva tutti i lavori in appalto, e che veniva dunque allegato, come previsto dalla legge, a ciascun contratto di appalto.
Proprio su questo punto si sono appuntate le censure del consulente del P.M., il quale ha sostenuto che tale documento non avrebbe le caratteristiche richieste dall'art. 26, terzo comma, D. lgs. 81/2008, ma sarebbe una sorta di "guida per lo compilazione del DUVRI", da adottare poi in relazione ad ogni specifico appalto (impostazione che è stata recepita dal Pubblico Ministero nella memoria depositata).
In questo senso, dunque, deve essere inteso il riferimento nel punto 1) dell'imputazione alla mancata adozione del DUVRI "riferito ai lavori in atto nella circostanza dell'incidente, nell'impianto MHCI".
Il problema non può quindi essere risolto affermando, semplicisticamente, che il DUVRl esisteva.
È necessario, infatti, valutare se si trattasse di un adempimento soltanto formale degli obblighi di legge, di fatto aggirati con l'approvazione di un documento che non aveva i requisiti dovuti per poterlo inquadrare nel!'ambito della disposizione normativa citata.


B1) Non essendo in contestazione la contravvenzione prevista dall'art. 55, quarto comma, lett. d), D. Lgs. 81/2008 (norma che sanziona la violazione dell'art. 26, terzo comma), ma un delitto di evento, non interessa in questa sede esaminare le caratteristiche generali del DUVRI Master rispetto alle prescrizioni di legge; e del resto ciò non sarebbe possibile sulla base del materiale probatorio acquisito, che si riferisce soltanto al!'appalto in esame.
La necessità di un nesso di causalità tra violazione ed evento impone, infatti, la selezione degli aspetti rilevanti riguardo alla morte delle persone offese, e quindi degli specifici rischi che la determinarono.
Il punto ai fini processuali, dunque, non è se il DUVRI Master, in linea generale, avesse le caratteristiche richieste dalla disposizione richiamata (per quanto ci si chieda per quali ragioni un'impresa dovrebbe commissionare a una società specializzata un manuale per la redazione del DUVRI, e poi non darvi seguito in relazione ai singoli appalti).
Si tratta piuttosto di accertare se esso, in concreto, indicasse i rischi di interferenza e le relative misure connessi all'appalto di servizi affidato alla C.M.S..
La risposta è senz'altro positiva.

Come è stato evidenziato, il cosiddetto DUVRI Master della Sa. si compone, oltre che di un documento principale, di una serie di allegati che lo integrano e lo completano.
In particolare, per quello che qui interessa, nell'allegato 1 sono elencate le attività e sub-attività rilevanti ai fini dei rischi di interferenza e nell'allegato 4 sono comprese le schede di valutazione dei rischi per ogni sub-attività.
Tale elenco comprende tutte le attività prevedibili, e tra queste ovviamente rientrano, per definizione, le manutenzioni programmate, quale quella dell'impianto MHCI del maggio 2009.
Come ha evidenziato la difesa, nei punti 1.17 ("Pulizia serbatoi", p. 30 dell'all. 4) e 2.10 ("Apertura serbatoi per la pulizia, p.44) sono previsti e disciplinati i rischi di interferenza relativi ai lavori affidati in appalto alla C.M.S..
In entrambe le schede è segnalato e previsto il rischio di inalazione di sostanze precedentemente presenti negli impianti, ed è prescritta una serie di accorgimenti consistenti nella bonifica da parte degli incaricati Sa., nella successiva verifica dell'efficacia della bonifica, e ancora - nel caso di possibile presenza di sostanze nocive - nell'utilizzazione di una maschera facciale e di rilevatori personali (queste ultime precauzioni sono a carico dell'impresa appaltatrice).
Tali previsioni si integrano con quelle previste dalla scheda aggiuntiva AI ("Lavori in spazi confinati ", p. 65).
In tale scheda è contemplato il rischio di asfissia e si prescrive un duplice ordine di cautele (evidentemente collegate l'una all'altra: la bonifica del sito da parte degli operatori Sa., con successiva verifica del suo esito, e la necessaria autorizzazione da parte della stazione appaltante prima di fare ingresso nello spazio confinato.
Nella stessa scheda, ancora, è previsto il rischio di malore o infortunio dei lavoratori all'interno dello spazio confinato, e le misure conseguenti consistono nel presidio costante di almeno una persona all'esterno, che deve essere dedicata soltanto a tale attività e in costante comunicazione con chi si trova all'interno, nonché nella predisposizione di un sistema di recupero dei lavoratori in caso di malore; adempimenti che sono a carico dell'impresa esecutrice.

B2) Il DUVR1 Master, sul punto, è pienamente coerente con il Piano di sicurezza e coordinamento relativo ai lavori di fermata e bonifica dell'impianto MHC, e pertanto si può escludere che la sovrapposizione tra diversi sistemi di valutazione del rischio possa aver causato confusione negli operatori.
Infatti - al di là del richiamo ad altre misure organizzative, ed in particolare al permesso di lavoro - il PSC relativo ai lavori di manutenzione e fermata dell'impianto MHCl (Documento SA-41- PSC Rev. 0 del "aprite 2009") indica espressamente [punto 5.3, letto b)] i rischi previsti per i lavori all'interno di spazi confinati, ed in particolare il rischio di asfissia e le relative misure.
Tra esse, in specie, è prevista quella - fondamentale - che l'accesso in spazi confinati (tra i quali, anche in questo caso, rientrano per espressa previsione gli accumulatori) debba essere necessariamente preceduto dalla misurazione del contenuto di ossigeno, che non può essere inferiore al 19,5%.
Il Piano di sicurezza e coordinamento prevede inoltre che il personale debba essere informato e specificamente formato sulle procedure da seguire per l'accesso e sull'utilizzazione dei dispositivi di protezione (v. più ampiamente § 5.1).

C)Tali valutazioni dei rischi di interferenza non si riferiscono specificamente all'immissione di azoto attraverso l'apertura del passo d'uomo (anziché con l'accesso sigillato); e proprio su questo il Pubblico Ministero ha fatto leva per sostenere che si tratti di un documento che non rispetta i canoni di cui ali'art. 26 D. Lgs. 81/2008.
Questa impostazione, tuttavia, non è condivisibile.


Infatti non appare concettualmente possibile affermare che la mancata previsione di un rischio e delle relative cautele, in un documento che contiene invece una generale valutazione dei rischi di interferenza per i lavori in appalto (riferito specificamente alla fermata e bonifica dell'impianto MHC1 e alla sottofase del lavaggio idrodinamico), possa determinare un'inottemperanza all'obbligo di adottare il documento.
Si può trattare, in altri termini, di un difetto di contenuto, ma non di una lacuna talmente grave da determinare l'inesistenza giuridica dell'atto, a meno che la previsione del rischio sia talmente generica, e le misure prevenzionali adottate talmente incongrue, da costituire un adempimento soltanto formale dell'obbligo di legge.
Le caratteristiche concrete del DUVRI Master e dei suoi allegati portano ad escludere tale possibilità.

C1) Sotto un primo profilo, si rileva che nelle schede già richiamate il rischio connesso all'ingresso in spazi confinati - in occasione dei lavori di pulizia o indipendentemente da essi - è previsto ed analizzato correttamente, e in linea generale le misure adottate sono idonee.
L'analisi del rischio, e le relative misure di sicurezza, sono infatti di ampiezza tale da riferirsi a qualsiasi caso di atmosfera tossica o non respirabile, sia per la presenza di sostanze dannose (ad esempio, come si vedrà, H2S), sia per l'assenza di ossigeno; e a qualsiasi caso di lavori da eseguire nei serbatoi o, più in generale, in spazi confinati (la cui definizione comprende, espressamente, gli accumulatori).
Quello che è stato definito ''rischio azoto", infatti, non è che una specificazione, priva di autonomia concettuale, del rischio di asfissia: si è già detto infatti che dalla perizia medico-legale emerge inequivocabilmente che il decesso delle vittime fu causato dall'assenza di ossigeno, e non dall'inalazione dell'azoto.
Né si può sostenere che la peculiarità del caso in esame consista nel fatto che l'accesso fosse aperto, perché evidentemente la valutazione dei rischio, riferendosi specificamente all'ingresso nei serbatoi, si fonda sul presupposto che il passo d'uomo sia aperto.

C2) Sotto un altro profilo si deve osservare che il documento di valutazione del rischio deve essere emesso prima dell'inizio dei lavori in appalto: esso infatti deve essere allegato al contratto di appalto, e quindi comunicato in quel momento all'impresa appaltatrice.
Esso dunque, per sua natura, non può - al momento dell'adozione - contenere l'analisi di rischi che si siano presentati nel corso dell'esecuzione dei lavori, come avvenne nel caso specifico.
Si è visto infatti nella parte I, § 1.2.2), che la necessità di aprire il passo d'uomo prima che venissero completate le operazioni di bonifica è imputabile ad un fatto sopravvenuto nel corso dei lavori, cioè un guasto meccanico.
Non si può affermare, di converso, che gli operatori della Sa. avessero seguito una prassi che si era di fatto sovrapposta, sostituendola, al procedimento previsto dalle Istruzioni di fermata e bonifica (nel qual caso, ovviamente, sarebbe stato obbligatorio analizzare il rischio nel DUVRI e predisporre le relative misure prevenzionali).
Gli elementi indicati nella parte I non sono infatti del tutto conclusivi, ma fanno propendere per l'ipotesi che si fosse trattato di un evento estemporaneo


Infatti, come si è anticipato, la ragione per cui l'accumulatore era stato lasciato aperto - perché come si è visto la modifica essenziale della procedura (dal punto di vista della rilevanza causale rispetto all'evento) è questa, e non il mancato lavaggio con vapore - è da riconnettere a due eventi diversi.
Essi devono essere inquadrati nelle categorie generali del caso fortuito e della forza maggiore.
Il caso fortuito consiste nel guasto del dreno di fondo che aveva determinato la necessità di aprire l'accumulatore per verificare che non vi fossero sensibili quantità di idrocarburi liquidi sul fondo, e nell'ulteriore malfunzionamento della flangia che aveva costretto a tagliare le cerniere, con la conseguente impossibilità di richiudere il passo d'uomo al termine delle operazioni.
La forza maggiore, invece, si identifica nel fatto che gli eventi precedenti avevano determinato una situazione di pericolo e la conseguente necessità di inertizzare le sostanze ancora presenti nell'accumulatore, risultato che poteva essere ottenuto o mediante l'immediata bonifica con vapore, o attraverso il mantenimento in atmosfera di azoto.

Poiché in quel momento (e fino al termine delle operazioni di ciecatura, che come si è visto si conclusero la sera del 25) il lavaggio con vapore non poteva essere effettuato - sempre per ragioni di sicurezza, perché esso avrebbe comportato condizioni di pericolo per gli operai che stavano completando la ciecatura - l'unica soluzione possibile era il mantenimento del serbatoio in atmosfera di azoto, che dunque fu determinata, come anticipato, da forza maggiore.
La decisione dunque non era predeterminata, essendo derivata dagli eventi descritti; fatti che, come si è visto, sono stati accertati sulla base di plurime testimonianze e di documenti attendibili.
Se è cosi, si deve ritenere - come anticipato - che non si trattasse di una procedura parallela a quella ufficiale (si è visto del resto che l'equivoco è ingenerato da deposizioni che non hanno un contenuto chiaro), ma di una decisione improvvisa e, pertanto, intrinsecamente non prevedibile nel documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 26.
In altri termini, cosi come si è anticipato, il problema sollevato appare riferibile più all'aggiornamento del DUVRI che alla sussistenza dei requisiti di legge al momento della sua emanazione.
Altro problema è invece se dovesse essere previsto in linea generale il rischio di deviazioni dalla procedura standard decise discrezionalmente dai capi turno.


D) Ad ogni modo, se anche si ritenesse provato che gli operatori Sa. seguirono una prassi consolidata, e che pertanto fosse obbligatoria in relazione ad essa l'analisi specifica dei rischi, tale conclusione non potrebbe condurre a ritenere che il DUVRI non fosse stato adottato.
Infatti, come si è detto, si tratta di un documento che ha senza dubbio i caratteri richiesti dall'art. 26, terzo comma, del testo unico.
Per quanto dunque si possa porre in discussione la scelta dell'impresa di emanare, e allegare al contratto d'appalto come previsto dalla normativa, un unico DUVRI che si riferisce a tutti i lavori in appalto - anziché, per ogni singolo contratto, un documento di valutazione che contenga tutti e soltanto i rischi di interferenza e le misure adottate che si riferiscono allo specifico appalto -, non appare possibile in relazione al caso in analisi (appalto di pulizia idrodinamica dell'impianto MHCl affidato alla C.M.S.) affermare che la Sa., e gli imputati, non avessero ottemperato agli obblighi stabiliti dall'art. 26, terzo comma, D. Lgs. 81/2008; quanto meno, non in relazione all'adozione del documento previsto dalla legge.
Si può semmai sostenere che la mancata indicazione del rischio connesso al flussaggio di azoto con l'accumulatore aperto (o in generale del rischio derivante dalla discrezionalità riconosciuta agli operatori di discostarsi dalle procedure e prendere autonomamente decisioni su eventi del tipo verificatosi) determinasse un difetto contenutistico del DUVRI, o originario, o comunque censurabile sotto il profilo del mancato aggiornamento della valutazione dei rischi.
Ma si tratta di una questione ben diversa, che non involge il sistema di organizzazione e gestione della sicurezza, ma la sua concreta attuazione in relazione ad uno specifico appalto (tra le migliaia che, ogni anno, vengono affidati ad imprese terze).

l.4) Conclusioni sul punto l).

Alla luce di tali considerazioni, si deve ritenere che l'addebito di colpa contestato al punto l) del capo A) si fondi su un'interpretazione dei fatti non condivisibile.
Da un lato, infatti, non si può ritenere che la Sa. si fosse resa del tutto inadempiente all'obbligo di redazione del DUVRI, né che vi avesse ottemperato soltanto formalmente, essendo stato emanato un documento che - ferma restando la possibilità di difetti contenutistici - aveva certamente i requisiti di legge, e non può pertanto essere ritenuto inesistente.
Non si può affermare, infatti, che si trattasse di una sorta di manuale per la compilazione del DUVRI, essendo disciplinate le singole attività - tra cui quelle oggetto del contratto di appalto in questione - e i relativi rischi; e non in modo apparente, ma in maniera adeguata alla normalità dei rischi che si presentano in quel tipo di attività.
Per tale ragione, l'adozione del sistema di valutazione del rischio previsto dal titolo IV del testo unico e del sistema organizzativo del permesso di lavoro non può essere, comunque, ritenuta intrinsecamente colposa, non trattandosi di un sistema sostitutivo di quello previsto dalla normativa ma di ulteriori strumenti che si affiancano al DUVRI.
Inoltre, anche sotto il profilo della rimproverabilità, si è detto che emerge che l'adozione della "direttiva cantieri" è ricollegabile alla volontà della società di non rendersi inadempiente ad un obbligo normativo, mentre il sistema del permesso di lavoro rappresenta una best practice nazionale e internazionale alla quale la società si è conformata.
L'addebito di colpa in questione, dunque, deve essere ritenuto insussistente.

***

2.1) I difetti contenutistici della valutazione dei rischi (punti 4 e 5): l'omessa valutazione del flussaggio di azoto e il mancato aggiornamento del DVR.


Le considerazioni svolte nei precedenti paragrafi, escludendo che possa essere messo in discussione (in relazione ai profili rilevanti nella fattispecie) il sistema di gestione dei rischi connessi ai lavori in appalto all'interno della Sa., pongono l'accento sul contenuto dell'analisi e comunicazione dei rischi di interferenza e delle misure adottate.
Ciò vale in particolare per la previsione nel Documento di valutazione dei rischi (DVR) - ma anche in tutti gli altri documenti citati (DUVR1, PSC) - del rischio specifico verificatosi nel caso in esame.
Nel punto 4) del capo A) viene contestata l'omessa valutazione dei rischi specifici connessi al flussaggio con azoto nell'accumulatore HD106 e l'omessa adozione delle conseguenti misure di sicurezza; al punto 5), invece, il mancato aggiornamento delle misure di prevenzione ai mutamenti organizzativi nelle procedure di bonifica dell'accumulatore HD 106.
Le due contestazioni - sebbene una di esse si riferisca alla valutazione del rischio e l'altra alla predisposizione delle relative misure - mettono di fronte ad un'alternativa.
Infatti, se la decisione di modificare la procedura di bonifica avvenne in corso d'opera (e quindi dopo l'adozione del documento di cui agli artt. 17 e 28 D. Lgs. 81/2008), il rischio non avrebbe potuto essere previsto al momento dell'adozione del DUVRI, temporalmente antecedente.
Se invece la procedura fosse stata una prassi che si era di fatto sovrapposta, sostituendola, al procedimento previsto dalle Istruzioni di fermata e bonifica, le misure prevenzionali avrebbero dovuto essere previste nel DVR; non si tratterebbe dunque di un problema di aggiornamento, ma di un difetto originario del documento di valutazione dei rischi.
Come si è detto, appare più convincente la prima alternativa (o quanto meno non è pienamente dimostrata la seconda), e pertanto si deve ritenere non provata la contestazione di cui al punto 4), e ci si deve concentrare sul profilo di cui al punto 5) [che è strettamente correlato, come si vedrà, ai difetti di informazione e coordinamento di cui ai punti 2) e 3), analizzati nel paragrafo successivo].
Si tratta dunque di verificare se il DVR dovesse essere aggiornato al mutamento della procedura organizzativa.
Il passaggio è particolarmente delicato e centrale nella ricostruzione della responsabilità degli imputati.
Infatti, come si è visto, in tutti i principali documenti di valutazione erano previsti i rischi connessi all'ingresso in spazi confinati, e in particolare quello di asfissia; e si è detto che il rischio verificatosi nel caso concreto costituisce una specificazione, priva di autonomia, di tale ipotesi generale.
Il punto, dunque, è se il mutamento della procedura avesse determinato un sensibile mutamento - ed un aggravamento - del rischio rispetto all'ipotesi generale; e se dunque, rispetto a quest'ultima, dovessero essere prese ulteriori misure precauzionali.
Sotto il primo profilo, che è quello cui si riferisce il punto 5), la risposta è senz'altro positiva.
Infatti, sebbene questo dettaglio rimanesse sempre implicito nei documenti di valutazione del rischio, il punto sensibile è che gli spazi confinati, ed in particolare i serbatoi, sono normalmente chiusi; lo sono con flange di metallo serrate con bulloni, che possono essere dunque aperte soltanto con particolari attrezzi (tanto che, come si è visto, gli stessi operatori Sa. non sono in grado di svolgere autonomamente questo tipo di operazioni e devono rivolgersi ad un'impresa esterna); e devono rimanere in tali condizioni fino all'ultimazione delle operazioni di bonifica.
Il rischio che si voleva prevenire, dunque, era quello della possibile presenza di sostanze pericolose dopo che la bonifica era stata ultimata (lo si vedrà anche in relazione alle procedure di soccorso).
Le misure adottate erano senz'altro idonee a raggiungere tale scopo, se accompagnate da un'idonea formazione del personale.
Nel caso specifico, però, vi era un fattore ulteriore che aumentava il rischio, e cioè il fatto che - non essendo stata ultimata la bonifica, ed essendo state fatte operazioni per escludere l'ingresso di ossigeno - l'atmosfera fosse certamente irrespirabile, e tale da non consentire la vita neppure per brevi intervalli di tempo.
Inoltre, poiché l'accesso era aperto, e durante tutta la procedura di bonifica esso deve essere chiuso, vi era un'apparenza esterna potenzialmente idonea - e senz'altro suscettibile nel caso specifico, perché non si può seriamente pensare che So. sarebbe entrato nel serbatoio se egli avesse saputo che l'atmosfera era totalmente irrespirabile - a trarre in inganno sull'ultimazione della bonifica.
Tale aumento (e diversa connotazione) del rischio imponeva l'adeguamento del documento di valutazione dei rischi; ma soprattutto - e qui la questione si connette al problema generale del coordinamento - avrebbe dovuto determinare, ai sensi dell'art. 26, terzo comma, D. Lgs. 81/2008, l'adeguamento del DUVRI.
È dunque effettivamente pertinente, anche se deve essere riferito non alla previsione dei rischi, ma al suo aggiornamento, il rilievo del Pubblico Ministero già richiamato: "...l'incidente è certamente riconducibile a scelte organizzative che hanno consentito - e forse ancora consentono - agli operatori dell'impianto di apportare modifiche alle procedure senza una preventiva analisi e valutazione dei rischi e, dunque, in difetto della necessaria e consecutiva individuazione delle misure di sicurezza da parte del datore di lavoro. Ciò in contrasto con il dettato normativo che prevede che la valutazione dei rischi sia di esclusiva pertinenza del datore di lavoro e, quindi, non delegabile " (p. 27 della memoria depositata il 20.6.2011).
Infatti, per quanto la variazione della procedura di bonifica (nel senso chiarito, cioè effettuazione di operazioni con l'accumulatore aperto) fosse derivata da problemi tecnici e di sicurezza, e fosse quindi imprevedibile, era però pronosticabile in linea generale che gli operatori si potessero discostare dalle Istruzioni di fermata e bonifica.
Si è visto infatti nella parte I, in relazione alla questione della bonifica con vapore, che ai capi turno in turno e ai capi turno giornalieri era riconosciuto un margine di discrezionalità al riguardo, e che secondo i testimoni l'immissione di azoto attraverso l'apertura del passo d'uomo era considerata un'ordinaria operazione di manutenzione.
Da tale discrezionalità, però, doveva discendere un sistema organizzativo che portasse le modifiche a conoscenza dei soggetti incaricati della valutazione del rischio, in modo che, qualora fosse stata riconosciuta l'esistenza di un rischio con connotazioni autonome e specifiche (come nel caso concreto), fosse possibile aggiornare le misure di prevenzione.
Altrimenti - anticipando quanto si dirà in merito alle misure di prevenzione - sarebbe stato quanto meno necessario prevedere come rischio, in generale, il mutamento delle procedure di bonifica, ed imporre in tali casi l'uso di idonea segnaletica di sicurezza.

 

2.2) I difetti di informazione e coordinamento (punti 2 e 3): le riunioni di coordinamento.

L'aspetto da ultimo analizzato si correla ai profili di colpa contestati ai capi 2) e 3), che si riferiscono air inadempimento degli obblighi di informazione e coordinamento previsti in capo alla stazione appaltante.
Si tratta anche in questo caso di profili di importanza centrale.
A) Come è noto, la normativa in materia fu introdotta per la prima volta dall'art. 7 D. Lgs. 626/1994, in quanto nella legislazione precedente - con la sola eccezione dell'art. 5, commi terzo e quarto, D. lgs. 277/1991 - non era mai stata inserita una esplicita norma ad hoc che si incaricasse di individuare esattamente gli obblighi delle parti e di stabilire le relative responsabilità.
L'art. 5 D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, con riguardo ai soli lavoratori autonomi chiamati ad operare all'interno della azienda dell'impresa committente, prescriveva al titolare o legale rappresentante di quest'ultima di rendere edotti costoro dei rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e, nel caso di concessione in uso di macchine o attrezzi, di fornirli dei prescritti dispositivi di sicurezza.
Nonostante la giurisprudenza, interpretando estensivamente il concetto di lavoratori autonomi, avesse finito per includervi anche l'appaltatore costituito ad impresa e i prestatori d'opera da questo dipendenti, la disposizione risultava insufficiente ed inadeguata a regolare in modo appropriato le situazioni di appalto che, per l'elevato indice di pericolosità rappresentato dall'intersecarsi nel medesimo ambiente di lavoro di due o più sfere organizzative distinte, richiedevano un intervento normativo più specifico e puntuale.
Sotto questo profilo, dunque, l'art. 7 D. lgs. 626/1994 ha prodotto un rafforzamento della tutela, imponendo ad appaltanti ed appaltatori precisi doveri di coordinamento e di cooperazione nell'apprestamento delle misure di sicurezza a favore di tutti i lavoratori, a qualunque impresa essi appartengano.

Per cogliere, però, esattamente la portata e i limiti delle disposizioni di tale normativa - poi confluita nel testo unico - deve tenersi nel dovuto conto che l'ordinamento giuridico attribuisce all'appaltatore un'autonoma sfera organizzativa e pieni poteri decisionali, con la conseguenza che egli, al pari di qualsiasi altro datore di lavoro, è il destinatario principale del dovere di provvedere alla tutela della salute e dell'integrità fisica dei propri dipendenti.
Fanno capo invece al committente, oltre all'obbligo preliminare di verifica della idoneità tecnico-professionale dell'impresa appaltatrice a cui affidare l'incarico (dalla cui violazione potrebbe scaturire una culpa in eligendo), l'obbligo di fornire all'appaltatore e ai lavoratori autonomi chiamati ad operare all'interno dell'azienda dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate per combatterli, nonché specifici obblighi di cooperazione e coordinamento degli interventi di protezione e prevenzione dei rischi sul lavoro.
Coordinare, secondo un'efficace definizione dottrinale, significa "collegare razionalmente le varie fasi dell'attività in corso, in modo da evitare disaccordi, sovrapposizioni, intralci che possono accrescere notevolmente i pericoli per tutti coloro che operano nel medesimo ambiente: mentre cooperare è qualcosa di più, perché vuoi dire contribuire attivamente, dall'una e dall'altra parte, a predisporre ed applicare le misure di prevenzione e protezione necessarie".
La cooperazione, però, non può essere intesa come obbligo del committente di intervenire in supplenza dell'appaltatore tutte le volte in cui costui ometta, per qualsiasi ragione, di adottare le misure di prevenzione prescritte a tutela soltanto dei suoi lavoratori, perché altrimenti si risolverebbe in una inammissibile ingerenza del committente nell'attività propria dell'appaltatore, al punto di stravolgere completamente la figura dell'appalto.
Per tale ragione, la giurisprudenza ha temperato il principio normativo, limitandone l'applicazione alle misure di prevenzione rivolte ad eliminare i pericoli che, per effetto dell'esecuzione delle opere appaltate, vanno ad incidere sia sui dipendenti dell'appaltante sia su quelli dell'appaltatore.

La cooperazione, in altri termini, deve ritenersi doverosa per eliminare o ridurre la fascia, spesso molto ampia, dei rischi comuni ai lavoratori delle due parti, mentre, per il resto, ciascun datore di lavoro deve provvedere autonomamente alla tutela dei propri prestatori d'opera subordinati, assumendosene la relativa responsabilità (cfr., in particolare, Cass., sez. IV, 20 settembre 2002; n. 31459).

B) Non vi è dubbio che nel caso specifico ci si trovi di fronte ad un caso tipico di rischio da interferenza.
L'intera procedura del permesso di lavoro, infatti, nasce dal presupposto dell'esistenza del rischio da interferenza, e mira a prevenirlo attraverso interventi di coordinamento che consistono, essenzialmente, nell'accertarsi - subordinando l'inizio del lavoro ad una specifica autorizzazione - che la bonifica sia completata, e nel verificarne l'esito (attraverso le prove di abitabilità).
Non vi è dubbio che il permesso di lavoro sia uno strumento utile non solo a fini organizzativi, ma anche di sicurezza, se accompagnato da un flusso informativo costante e completo.
Tuttavia il principale (e non surrogabile) strumento di cooperazione e coordinamento, e allo stesso tempo di informazione, è rappresentato dal DUVRI.
Il nome stesso di documento "unico" di valutazione dei rischi è espressione della volontà del legislatore di racchiudere in un'unica sede tutte le informazioni pertinenti, per evitarne la dispersione e garantire, quindi, l'effettività della loro trasmissione e conoscenza.
Le contestazioni in esame, dunque, riconducono in parte a quella precedentemente esaminata, perché come si è detto la variazione delle procedure, comportando un aumento del rischio, determinava un obbligo di aggiornamento del DUVRI; obbligo da non intendere in senso meramente formale, ma che costituiva l'adempimento dei doveri di informazione e coordinamento sia sui rischi presenti nell'ambiente, che sull'interferenza con le attività svolte da operatori della Sa..

Il DUVRI, infatti, non poteva essere surrogato dal permesso di lavoro, perché quest'ultimo documento è interamente gestito da soggetti che non hanno neppure una qualifica dirigenziale, mentre l'obbligo di adozione e aggiornamento del DUVRI fa capo al datore di lavoro e per espressa previsione normativa non è delegabile (e non appare sostenibile, data la natura e gravità dei rischi, che i tempi ristretti non consentissero materialmente l'aggiornamento).
L'informazione e il coordinamento, tuttavia, non si riducevano al DUVR1, perché nell'organizzazione della Sa. erano presenti almeno due procedure che avevano la stessa funzione, cioè il permesso di lavoro e le riunioni di coordinamento che si tenevano ogni pomeriggio, con la partecipazione anche del responsabile della sicurezza.
I difetti propri del coordinamento effettuato tramite il permesso di lavoro sono oggetto di una contestazione più specifica e saranno quindi esaminati nel paragrafo successivo (anche perché il permesso di lavoro costituisce uno strumento di coordinamento, ma non di informazione).
In questa sede, invece, appare necessario richiamare brevemente quanto è emerso in ordine alle informazioni comunicate ai rappresentanti della C.M.S. nelle riunioni di coordinamento, per poi valutare la loro conformità al parametro normativo.

C) Come si è visto, nell'ultima riunione prima dell'incidenze - quella del pomeriggio del 25 maggio - era stato comunicato all'impresa appaltatrice, in modo molto sintetico, che l'accumulatore HD106 era indisponibile perché ancora in fase di ciecatura.
Non vi era stato invece alcun cenno alle operazioni compiute fino a quel momento dal personale della Sa., ed in particolare al fatto che il passo d'uomo, alcuni giorni prima, fosse stato aperto e mantenuto in atmosfera di azoto.
Infatti, al di là del fatto che tale particolare è stato esplicitamente escluso dall'ingegner Ezio Ca. - il quale in effetti potrebbe aver avuto interesse a negarlo per escludere responsabilità proprie -, tale comunicazione non è in alcun modo menzionata nel verbale della riunione, e nessun testimone ha affermato che vi fosse stata.
La mancata indicazione dei lavori svolti da operatori Sa. all'ingegner Ca. aveva dunque impedito a quest'ultimo di dare attuazione ad uno degli obblighi posti a suo carico dalla procedura PRD SPP 130 Applicazione D. Lgs. 494/96 (Direttiva cantieri) REV n. 000 del 5.5.2008 (X, all. 1 alla relazione del gruppo di lavoro).
Si tratta in particolare dell'obbligo di "...adeguare il Piano di sicurezza e coordinamento e il fascicolo in relazione all'evoluzione dei lavori e alle eventuali modifiche intervenute...".
Il mutamento della procedura di bonifica, dunque, non aveva portato ad un adeguamento del DUVRI né del PSC, né era stato comunicato alla C.M.S. e al coordinatore per la sicurezza nel corso delle quotidiane riunioni di coordinamento.
Né si può sostenere che tali informazioni fossero disponibili alla C.M.S. perché inserite nelle consegne informatiche lasciate da Bi., trattandosi di un sistema di comunicazione esclusivamente interno alla Sa..
Non si tratta di un caso né di trascuratezza dei soggetti coinvolti, ma del frutto di una precisa impostazione.
Emerge infatti dalle dichiarazioni dei testimoni e dalle stesse difese degli imputati (v. ad esempio la relazione del gruppo di lavoro in all. X, la perizia del professor Viola, le memorie difensive) che i dirigenti e gli operatori della SA. ritenevano che nessuna informazione dovesse essere fornita alle imprese appaltatrici fino al momento della sottoscrizione del permesso di lavoro da parte del funzionario competente.
Fino a tale momento, infatti, i dipendenti delle imprese avevano un divieto di accedere agli impianti, e dunque non veniva fornita alcuna informazione sulle operazioni compiute dai tecnici Sa., addetti a predisporre gli stessi.
Gli imputati, in altri termini, ritenevano che i doveri di informazione iniziassero soltanto nel momento in cui la procedura del permesso di lavoro era perfetta, perché soltanto allora - essendo l'impresa esterna autorizzata ad accedere all'impianto ed iniziare il lavoro - si sarebbe realizzato il rischio di interferenza che costituisce il presupposto dei doveri di informazione e coordinamento.

D) Tale lettura però non può essere condivisa.
Infatti il momento che segna l'inizio dei doveri di informazione e coordinamento è quello in cui ha inizio l'appalto; tant'è vero che il documento unico di valutazione dei rischi deve essere allegato al contratto di appalto.
Non è ammissibile un frazionamento a seconda delle parti dell'impianto e dei singoli lavori che le imprese appaltatrici devono eseguire, né è possibile che si dia notizia all'impresa appaltatrice soltanto dei lavori contemporanei a quelli che la stessa deve eseguire in una parte del cantiere, e non di quelli precedenti e successivi.
Infatti in tal modo, disperdendosi le conoscenze e comunicando a ciascuno soltanto la parte che lo riguarda direttamente e immediatamente, si priverebbe il coordinamento di quelle caratteristiche di direzione unitaria e completezza delle informazioni che sono necessarie per eliminare il rischio di interferenze in modo efficace.
Come si è detto le operazioni compiute sull'accumulatore HD 106 erano tali da comportare un aumento del rischio, e ciò per tutte le imprese che operavano nel cantiere; e il cantiere era l'intero impianto MHCI - cui si riferiva l'appalto - e non l'accumulatore HD 106, il 101, il 108 etc. (cioè tanti cantieri quante erano le parti dell'impianto).
Si deve dunque concludere che il rischio di interferenza era immediato e concreto e doveva essere comunicato.
Questo, a ben riflettere, era il vizio delle procedure (non tanto sotto l'aspetto concettuale, ma nella loro applicazione pragmatica: non che il permesso di lavoro intendesse sostituire il DUVRI: ma che l'aspetto dinamico del coordinamento, che per legge deve essere assolto attraverso un costante aggiornamento del DUVRI e un flusso continuo di informazione, fosse gestito in funzione esclusiva dell'organizzazione del lavoro tramite lo strumento del permesso di lavoro.
La conseguenza di tale prassi applicativa era che le informazioni - in particolare quelle relative alle operazioni effettuate dai dipendenti Sa., i quali predisponevano gli impianti per i successivi lavori - non venivano fornite alle imprese appaltatrici fino al momento in cui il permesso di lavoro fosse stato perfetto.
Nel caso specifico, tale difetto di impostazione fece sì che i lavoratori della C.M.S., non essendo al corrente delle operazioni effettivamente compiute sull'accumulatore HD 106, fossero sì consapevoli di una condizione generale di rischio - si è detto, infatti, che la condotta di So. e Po. era comunque inosservante delle procedure organizzative e delle misure cautelari disposte, sulle quali gli stessi erano stati debitamente istruiti -, ma non delle condizioni specifiche dell'impianto e, quindi, della natura e portata del rischio.
Questa circostanza è emersa in modo chiaro, ad esempio, dalle dichiarazioni dell'operaio C.M.S. Cristian Lo. (II 49): "...mi era stato solamente detto che senza nessun permesso non potevo entrare nell 'accumulatore, ma nessuno mi aveva detto che solamente affacciandomi al passo d'uomo avrei potuto rimetterci la vita, questo nel modo più assoluto lo ignoravo...".
Tale difetto di informazione, come si vedrà, ebbe un'indubbia rilevanza causale nella produzione dell'evento.

2.3) Il profilo di colpa di cui al capo A), punto 11) e i vizi del permesso di lavoro (punti 1 e 12).
Non appaiono, invece, condivisibili i rilievi che si riferiscono allo strumento del permesso di lavoro in sé, alle concrete caratteristiche di quello che si riferiva ai lavori che la C.M.S. doveva eseguire sull'accumulatore D106, e all'osservanza della procedura, con particolare riferimento all'anticipata consegna del permesso di lavoro a Me., che avrebbe indotto quest'ultimo in equivoco facendo sorgere l'errata convinzione (favorita dalle incertezze dei riferimenti temporali contenuti nell'atto) che l'inizio dei lavori fosse imminente.

A) Iniziando da quest'ultimo punto, come si è visto nella parte I, gli operai della C.M.S., ed in particolare So. e Po., erano convinti che il pomeriggio del 26 maggio avrebbero dovuto lavorare sull'accumulatore HD106.
Infatti essi avevano indossato la tuta bianca che serve per essere visibili durante i lavori in spazi confinati e che normalmente non veniva utilizzata al di fuori delle occasioni di lavoro perché "faceva caldo".
La mattina, come si è accennato, So. e Po. avevano terminato la pulizia dell'accumulatore HD 102, e secondo quanto riferito da Po. nel verbale del 7.7.2009 (II, pp. 12 e ss.) Gianpietro Me. aveva riferito loro che nel pomeriggio essi avrebbero dovuto cambiare il programma di lavoro e iniziare a pulire l'accumulatore HD 106.
A parte tale lavoro gli operai non avevano in previsione altre mansioni, salvo quella di mettere dei tiranti in un accumulatore che si trovava a circa cento metri di distanza; era tuttavia "un lavoro troppo piccolo per il pomeriggio", tanto che secondo Po. il cambiamento di programmi improvviso ed imprevisto, dato che gli operai avevano già "i ferri in mano per i tiranti" - era imputabile alla volontà di non sprecare il pomeriggio.
Si può escludere, dunque, che Po. e So. si trovassero sul posto per ragioni estranee all'attività lavorativa (come ipotizzato da Mario Vi., II, pp. 36 e ss., e nella consulenza del professor Viola).
Non è vero che So. fosse entrato nel serbatoio senza fornirsi di illuminazione, perché secondo quanto riferito da Mauro Car. (II, pp. 88 e ss.) all'interno dell'accumulatore, al momento dell'arrivo dei primi soccorritori, vi era un faretto acceso girato verso terra, che Andrea S. aveva girato per fare luce.
È inoltre da scartare l'ipotesi che i lavoratori potessero aver confuso l'accumulatore HD 106 con un altro (e in particolare con l'HD 102 nel quale avevano lavorato la mattina), perché Po. l'avrebbe senz'altro dichiarato e perché, come si è detto, non vi erano altri lavori in programma.
Ovviamente i due non si accingevano ad iniziare la pulizia idrodinamica, perché non avevano gli attrezzi necessari, inverosimilmente essi volevano fare un rapido sopralluogo per rendersi conto delle condizioni del serbatoio.
So., secondo quanto riferito da Vi., aveva anche lasciato i propri effetti personali nella bicicletta, fatto che indica che egli non si dovesse trattenere a lungo.
Gli operai, dunque, avevano una convinzione che è in contraddizione con quanto risulta dalla documentazione dell'ultima riunione di coordinamento, quella del 25 maggio, nella quale era stato comunicato ai rappresentanti della C.M.S. che l'apparecchiatura HD 106 non era disponibile.

B) Le ragioni per le quali Po. e So. avevano tale convinzione non sono state pienamente spiegate.
Si deve tenere conto del fatto che le testimonianze al riguardo non sono pienamente affidabili: infatti ciascuno dei testimoni aveva un interesse diretto e immediato a negare di aver dato indicazioni fuorvianti.
Le deposizioni e gli elementi documentali acquisiti consentono però una ricostruzione approssimativa del fatto (B1) e, soprattutto, portano ad escludere che il fraintendimento fosse stato determinato dall'anticipata consegna del permesso di lavoro (B2) o da vizi propri di tale strumento organizzativo (B3), come ipotizzato nei punti l) e 11) dell'imputazione.

B1) Si è visto che Po. ha ricondotto l'indicazione dell'imminente inizio dei lavori a Me., il quale avrebbe detto agli operai che avrebbero dovuto iniziare il lavoro nell'HD 106 lo stesso pomeriggio, e quindi immediatamente dopo la pausa pranzo.
Tale circostanza appare plausibile, dato che, in effetti, la squadra composta da So. e Po. non aveva in programma altri significativi compiti (come ha confermato Me.) ed anzi, secondo Po., aveva interrotto i preparativi di un altro lavoro.
Gianpietro Me., al riguardo, ha sostenuto (II, pp. I e ss.) di aver dato disposizioni ai due di aspettarlo in attesa di fare le verifiche sull'accumulatore HD 106.
Come egli stesso ha spiegato nel corso dell'audizione, "Per verifica si intende che il sottoscritto deve ricevere dalla Sa. uno specifico permesso di lavoro nonché, caratteristica essenziale, un operatore Sa. deve effettuare delle prove di ossigeno (cd. prove di abitabilità) all'interno dell'accumulatore".
Il caposquadra C.M.S., dunque, sarebbe stato convinto che le operazioni di bonifica fossero terminate e che quindi l'inizio dei lavori di idropulitura fosse imminente e condizionato soltanto all'espletamento delle prove ambientali e al rilascio, condizionato all'esito di tali prove, del permesso di lavoro.
È dunque possibile che Po. e So. avessero frainteso le indicazioni di Me., magari perché espresse troppo sinteticamente, cogliendo soltanto la parte in cui l'inizio del lavoro veniva indicato come imminente (e ritenendo pertanto che l'impianto fosse già in sicurezza).
Si può anche ipotizzare che Me. avesse malinteso quanto era stato detto nel corso della riunione di coordinamento del giorno precedente, come suggeriscono alcuni passaggi delle dichiarazioni di Walter Co. (II, 103).
Questi, infatti, ha sostenuto che vi fosse stata un'approfondita discussione al riguardo (passaggio che è in contraddizione con la deposizione dell'ingegner Ezio Ca. e con il verbale della riunione), ma al tempo stesso ha affermato che quello che era stato detto nella riunione era che l'apparecchiatura era in fase di ciecatura, e "...tutte le operazioni di ciecatura vengono fatte, fino a che non sono completate come il piano di ciecatura... Vengono fatte in azoto. È previsto essere fatte in azoto ecco, nella sezione di reazione" (p. 33 della trascrizione).
Sembrerebbe, in altri termini, che il fatto che l'impianto si trovasse in atmosfera di azoto fosse stato dato per scontato, piuttosto che comunicato esplicitamente.
Inoltre, il fatto che non vi fosse stato alcun cenno al fatto che dovesse essere ancora eseguita la bonifica con vapore (che come si è visto è l'ultima fase prevista dalla procedura), e il rinvio al giorno successivo (e quindi alla prima riunione utile), potevano lasciare intendere che le operazioni di bonifica fossero completate e che non rimanesse che aerare il serbatoio e fare le prove di abitabilità, come inteso da Me..
È dunque plausibile che l'erronea convinzione che l'inizio dei lavori fosse imminente fosse il frutto di una serie di comunicazioni verbali poco chiare tra il caposquadra Me. e i responsabili Sa., e tra lo stesso Me. e i dipendenti.

B2) Come anticipato, si può invece escludere - e ciò riporta direttamente al punto 11) dell'imputazione - che il fraintendimento fosse stato determinato dall'anticipata consegna del permesso di lavoro.
La contestazione appare infatti fondata su un equivoco alimentato dalle dichiarazioni rese sul punto dal capocantiere C.M.S. Vincenzo Mel. (II, 271), cioè sull'erronea convinzione che il permesso di lavoro fosse stato consegnato anticipatamente in violazione della procedura, e che ciò avesse fatto ritenere che la bonifica fosse stata completata e che, espletati gli adempimenti formali, l'inizio del lavoro sarebbe avvenuto di li a breve termine.
In realtà, come si è visto nella parte I, le Istruzioni per la emissione e gestione dei permessi di lavoro (VII, 85) prevedono espressamente che il permesso di lavoro debba essere consegnato al responsabile dell'impresa appaltatrice subito dopo la sottoscrizione del secondo quadro da parte del rilasciante e del tecnico della sicurezza.
È a cura dell'impresa appaltatrice richiedere al delegato competente l'autorizzazione all'inizio dei lavori (v. in particolare art. 4.3 e 4.8, punti 5 e 6).
La difesa, nella memoria depositata all'udienza del 9.5.2011 (in particolare p. 16), ha ben spiegato le ragioni per le quali il responsabile dell'impresa appaltatrice deve essere preventivamente in possesso del permesso di lavoro, inerenti a profili organizzativi (il caposquadra deve programmare il lavoro e predisporre le attrezzature) e di sicurezza (le prescrizioni devono essere conosciute in precedenza, e non quando è imminente l'inizio del lavoro, perché altrimenti non sarebbe possibile un'adeguata informazione agli operai).

Tale circostanza inoltre è stata confermata, nel corso dell'interrogatorio, dall'ingegner Antonello At., il quale ha dichiarato che di norma il permesso di lavoro viene consegnato all'appaltatore uno o due giorni prima (II, 109, pp. 30 e ss.).
Il fatto che il permesso di lavoro n. 10605967 fosse già in possesso di Me. è dunque perfettamente conforme alla procedura.
Si può escludere, inoltre, che si trattasse di una condotta potenzialmente ingannevole, atteso che, come si è detto, la procedura era nettamente divisa nelle due fasi della previsione delle misure di sicurezza e della verifica della loro attuazione, e tra l'una e l'altra potevano trascorrere anche diversi giorni.
Il permesso veniva consegnato al responsabile dell'impresa appaltatrice con un certo anticipo rispetto all'effettivo inizio dei lavori; il fatto che esso fosse in possesso dell'appaltatore, dunque, non forniva alcuna attestazione del fatto che le misure fossero state effettivamente adottate, né indicazioni temporali sull'inizio dei lavori, e non poteva perciò trarre in inganno nessuno, e tanto meno una persona esperta come Me., o operai che avevano ricevuto sul punto una formazione specifica.
Vi è infatti agli atti la prova documentale che le vittime avevano frequentato corsi di formazione nei quali, tra le altre, era stata trattata specificamente la procedura del permesso di lavoro.
Inoltre, il fatto che i dipendenti della C.M.S. conoscessero bene la procedura nelle sue varie fasi emerge con chiarezza dalle deposizioni dello stesso Po., di Me., di Si. e di Sal. (alle quali fanno da contraltare soltanto quelle di Mel., il quale però ha specificato che egli non si occupava della gestione dei permessi, incombenza che era affidata a Me.).
Si può dunque escludere, come anticipato, che l'erronea convinzione che l'inizio dei lavori fosse imminente derivasse dall'anticipata consegna del permesso di lavoro.
Ancora meno appare possibile affermare - come ha fatto la parte civile che si fosse, di fatto, instaurata una prassi difforme (peraltro smentita da tutti i testimoni, compresi i dipendenti della C.M.S.) di rilasciare i permessi di lavoro in itinere, contemporaneamente o anche dopo l'inizio del lavoro.
Tale tesi si fonda infatti su una deposizione, quella di Alessio Foi. (IL pp. 69 e ss.), che non appare interpretata correttamente.
Il testimone ha dichiarato che prima di eseguire la pulizia idrodinamica bisognava eseguire una serie di operazioni che dovevano essere autorizzate anche da lui, ma - come successivamente chiarito immediatamente dopo - egli non si riferiva alle prove di abitabilità, ma alla prosecuzione della bonifica.
In ogni caso, il fatto che Foi. non sapesse di dover effettuare le prove ambientali non dimostrerebbe che i lavori sarebbero iniziati comunque, ma piuttosto che l'inizio dei lavori non era imminente perché le operazioni di bonifica erano ancora in corso.


B3) Un diverso ordine di contestazioni, contenuto nell'ultima parte del punto l) del capo A), si riferisce non a prassi difformi, ma a vizi propri della procedura del permesso di lavoro.
Anche in questo caso il punto nodale è il nesso di causalità tra le caratteristiche del permesso di lavoro e l'erronea convinzione di Luigi So. che l'inizio del lavoro fosse imminente.
I profili di inadeguatezza e di incertezza dello strumento organizzativo sono stati infatti individuati nella presenza di indicazioni erronee circa gli interventi effettuati - rilievo che non può essere riferito al permesso di lavoro in generale, ma è specificamente formulato riguardo al permesso di lavoro n. 10605967 - e nell'incertezza in ordine al momento della compilazione, e quindi all'attualità delle condizioni descritte.
Sotto il primo aspetto, la contestazione - come è stato specificato dal Pubblico Ministero nel corso della discussione, e come già emergeva da alcuni passaggi della relazione dell'ingegner Gianino - si fonda sull'assunto secondo cui il permesso di lavoro n. J0605967 avrebbe erroneamente attestato che era stata eseguita la bonifica con il vapore.
Tale assunto si fonda però su un presupposto di fatto erroneo, perché come si è detto le indicazioni date dal rilasciante non si riferiscono alle misure di sicurezza attuate, ma a quelle previste.
La verifica della loro adozione è successiva ed è affidata al delegato competente, il quale, prima di apporre la propria sottoscrizione e quindi autorizzare l'inizio del lavoro, deve effettuare tutte le verifiche e in particolare quella, primaria, delle prove di abitabilità (cioè la verifica del contenuto di ossigeno nell'atmosfera).
Il fatto che tra le prescrizioni fosse barrata la casella "bonifica con vapore" non è dunque un'errata indicazione del fatto che tale bonifica fosse stata eseguita, ma semplicemente la previsione che essa dovesse essere eseguita prima che il delegato competente autorizzasse l'inizio del lavoro (e quale condizione per il rilascio dell'autorizzazione).
Una simile indicazione avrebbe potuto trarre in inganno soltanto persone inesperte e non a conoscenza della procedura; ma non certo Me., il quale ha dichiarato, e dimostrato con il contenuto delle proprie dichiarazioni (rese, si badi, nell'immediatezza del fatto), di avere perfetta conoscenza del meccanismo del permesso di lavoro.
Quanto agli operai, il discorso è meramente ipotetico, non essendovi -come ha osservato la difesa Sa. nella memoria depositata - alcun elemento di prova che indichi che essi avessero preso visione del permesso di lavoro, ed essendovi anzi una specifica indicazione che le informazioni fuorvianti provenissero dal caposquadra.
Le osservazioni che precedono risolvono anche i dubbi sollevati in merito alla incertezza del permesso di lavoro, in relazione all'attualità delle condizioni descritte.
Si è detto infatti che il momento della verifica delle condizioni di sicurezza non è quello della sottoscrizione da parte del rilasciante e della consegna al responsabile dell'impresa appaltatrice, ma quello, successivo, nel quale il delegato competente - effettuate le opportune verifiche - autorizza l'inizio del lavoro.

Non si può dimenticare, infatti, che il permesso di lavoro non è un atto ricognitivo, ma ha natura costitutiva, ed è un atto a formazione progressiva e complesso, cioè formato da diversi soggetti aventi ciascuno specifici compiti e responsabilità.
Quella del delegato competente, dunque, non è una "semplice firma", ma un'assunzione di responsabilità che ovviamente non può prescindere dalla verifica che le prescrizioni date dal rilasciante non siano divenute inattuali a causa di qualche evento sopravvenuto; tant'è vero che in questo caso il lavoro deve essere sospeso (v. quadri 3 e 4).
Ne consegue che il momento temporale in relazione al quale si deve avere certezza è proprio quello della sottoscrizione da parte del delegato competente (e quello, altrettanto o più importante, delle prove di abitabilità: quadro 6).
Infatti prima di quel momento non è stata fatta alcuna verifica e il lavoro non può essere iniziato, non soltanto per mancanza dei requisiti formali (autorizzazione all'inizio del lavoro), ma perché non vi è garanzia alcuna che siano stati fatti gli accertamenti che preludono all'autorizzazione,
Non vi sono dunque fraintendimenti possibili, se non in dipendenza dell'ignoranza della procedura.
Ad ogni modo eventuali equivoci avrebbero potuto riguardare la prevista bonifica con vapore, e quindi lo stato di avanzamento della bonifica; ma non certo l'aerazione del serbatoio, che, quale che fosse la procedura seguita, era un momento essenziale e indefettibile.
In altri termini, qualsiasi equivoco in ipotesi riconducibile alla struttura del permesso di lavoro o alle concrete caratteristiche del permesso n. 10605967 poteva forse indurre gli operai della C.M.S. a ritenere che l'inizio dei lavori fosse prossimo, ma non certo a pensare che vi fossero le condizioni di sicurezza per darvi inizio immediatamente (e ciò a prescindere dalla inosservanza della procedura formale).

Quest'ultima considerazione elimina (quanto meno sotto il profilo probatorio) anche il dubbio che So. e Po. fossero stati tratti in inganno da due precedenti permessi di lavoro, i numeri 10624708 e 10624933.
Tali permessi erano stati sottoscritti dal delegato competente Davide Mur. nonostante il fatto che la bonifica con vapore, cautela prescritta, non fosse stata in realtà eseguita (fatto che era peraltro irrilevante in relazione ai lavori cui si riferivano i permessi di lavoro in questione, che concernevano lavori da effettuare all'esterno del serbatoio, mentre la bonifica con vapore serviva per prevenire un rischio di incendi o esplosioni all'interno dell'accumulatore).
Tuttavia i permessi in questione si riferivano a lavori eseguiti da un'impresa diversa (il consorzio CISA), e non vi sono elementi che indichino che i dipendenti della C.M.S. potessero averne preso visione e fossero stati dunque tratti in inganno in relazione allo stato di avanzamento della bonifica in corso.
Si può dunque escludere, come anticipato, che So. e Po. fossero stati indotti in errore da caratteristiche strutturali del permesso di lavoro, da indicazioni specifiche in esso contenute o da violazioni della procedura; con la conseguenza che eventuali profili di colpa ravvisabili sarebbero comunque causalmente indifferenti rispetto all'evento.
Non si può infine ritenere che, come ha ipotizzato il Pubblico Ministero nel corso della discussione, Me. avesse avuto informazioni diverse nella riunione della mattina del 26, perché in realtà la riunione cui partecipavano i rappresentanti delle imprese era quella pomeridiana, mentre la riunione delle 10 era riservata ai dipendenti della Sa..
In conclusione, si deve ritenere che il punto critico, causalmente rilevante rispetto all'evento, non consista nella strutturazione della procedura del permesso di lavoro né nella sua concreta applicazione nel caso specifico.
Il difetto, piuttosto, si identifica nel fatto che, come si è visto nel paragrafo precedente, i doveri di informazione e coordinamento posti in capo al datore di lavoro dell'impresa appaltatrice, che avrebbero imposto un aggiornamento costante della valutazione dei rischi e delle misure di prevenzione durante tutto il corso dell'appalto, erano di fatto - illegittimamente - limitati ad un arco di tempo molto più breve, perché non venivano fornite informazioni alle imprese appaltatrici prima dell'autorizzazione all'inizio dei lavori.

***

3.1) I profili di colpa di cui ai punti 8) e 13).


Per le considerazioni sopra svolte in merito al necessario adeguamento della valutazione dei rischi, il datore di lavoro era altresì obbligato, ai sensi dell'art. 18, primo comma, letto z), D. lgs. 81/2008, all'adeguamento delle misure di sicurezza.
Per stabilire se tale violazione abbia una connessione causale con l'evento è però necessario un ulteriore passaggio, cioè la verifica della necessità o meno di misure di sicurezza ulteriori rispetto a quelle previste dagli strumenti di valutazione adottati; ciò con particolare riferimento alle misure di prevenzione la cui omessa adozione forma oggetto dei punti 6), 7), 8) e 13) del capo A).
Questi ultimi due aspetti di colpa devono essere senz'altro esclusi.
Infatti, per quanto riguarda la contestazione di cui al capo 8), si deve rilevare che l'azoto non è propriamente un gas asfissiante (esso infatti è la componente principale dell'aria, con una percentuale del 79 %).
Si è detto infatti che l'infortunio mortale non dipese dalla presenza di gas tossici, ma dall'assenza di ossigeno in percentuale sufficiente per consentire la vita (v. anche, sul punto, le dichiarazioni rese dal vice presidente CCGR nel verbale di perquisizione e sequestro del 9.7.2009, II, p. 139).
Inoltre, se anche vi fosse stato un rischio di dispersione nell'atmosfera nelle immediate vicinanze dell'impianto, è certo che tale rischio non ebbe alcuna incidenza sull'evento.
Infatti, come si è visto nella parte generale, le caratteristiche fisiche del passo d'uomo sono tali che non è possibile che una persona che abbia un mancamento all'esterno possa cadere all'interno della cisterna, e dunque So. doveva essersi necessariamente introdotto con il torso oltre il passo d'uomo, in modo che il baricentro del corpo ricadesse al!'interno.
L'unico aspetto che rimane da valutare è la contestazione di non aver impedito l'accesso.
Infatti, se come si è detto la flangia di chiusura non poteva essere rimessa a posto nell'immediatezza, il 23 maggio, perché l'impresa esterna che avrebbe dovuto eseguire tale lavoro non era più presente, nulla però impediva di richiamarla il giorno successivo.
Si tratta, tuttavia, di un aspetto meramente esecutivo, difficilmente riconducibile ad una responsabilità del datore di lavoro o dei dirigenti.
Per quanto riguarda invece l'addebito di colpa generica di cui al capo 13) si deve rilevare che il ponteggio che consentiva l'ingresso all'accumulatore non era mobile, ma fisso.
Esso era stato infatti appositamente realizzato il 14 maggio dalla Riva & Mariani, ed ovviamente rimuoverlo avrebbe significato interrompere i lavori sull'accumulatore, che non erano conclusi e che erano andati avanti regolarmente anche nei due giorni precedenti al!'evento.
Poiché quella lasciata era una situazione provvisoria anche sotto il profilo della sicurezza (ed imponeva dunque un'accessibilità dell'impianto per consentire la prosecuzione delle operazioni), una tale scelta non appare pretensibile né censurabile.

*

3.2) L'omessa adozione della segnaletica e del contenuto della manichetta (punti 6 e 7).


Devono essere ritenute fondate, invece, le contestazioni di cui ai punti 6) e 7) del capo A).

A) Come si è visto in precedenza, si deve ritenere che la deviazione dalla procedura standard di bonifica - per quanto necessitata e non programmata - avesse determinato un aumento, o una diversa conformazione, del rischio.
Inoltre, per quanto So. fosse stato incauto e inosservante delle procedure, si deve ritenere che egli fosse entrato nell'accumulatore perché era convinto che non vi fosse una situazione di pericolo reale.
Tale convinzione è correlata ali'apparenza creata dal fatto che il passo d'uomo era aperto - o meglio chiuso in modo evidentemente provvisorio - e che attraverso l'imboccatura passava una manichetta del tipo solitamente utilizzato per soffiare aria, e che nessuna delle persone presenti sapeva che immettesse azoto.
Ad esempio, Alberto Ro. ha dichiarato che quel tipo di manichetta solitamente veniva utilizzato per immettere acqua o aria, e che al momento dell'intervento egli aveva chiesto informazioni in merito al capoturno, il quale gli aveva assicurato che la manichetta era collegata al rubinetto di alimentazione aria servizi (Il, pp. 52 e ss.).
Ancora al momento del sopralluogo, l'ingegner At. cioè il dirigente dell'area produttiva da cui dipende l'impianto - era convinto che la manichetta soffiasse aria; soltanto seguendone il percorso a ritroso egli e l'ingegner Gianino accertarono che essa era collegata alla rete di azoto (II, 109, p. 34).
Il capo squadra C.M.S. Gianluigi Tiddia, poi, era ancora convinto che si trattasse di una manichetta di vapore ("il posto è pieno di manichette del genere") quando fu sentito dalla P.G. il 28.5.2009 (IL pp. 35 e ss.).
Si è detto poi che le operazioni di bonifica, secondo il manuale, vengono fatte con il passo d'uomo chiuso (cioè con la flangia metallica imbullonata), per cui l'apertura della flangia era, obiettivamente, un segnale potenzialmente ingannevole.
Vi era ad ogni modo, a prescindere dall'apparenza che si era creata e dalla idoneità della stessa a trarre in inganno, una situazione di pericolo che, in base all'art. 163 D. Lgs. 81/2008, e alla luce di quanto si è osservato sull'aumento del rischio e sulla necessità di un adeguamento delle misure di sicurezza alle deviazioni dall'ordinaria procedura di bonifica, avrebbe ordinariamente imposto l'adozione di segnaletica.

B) Giovanni Bi. e Alessio Foi., al riguardo, hanno dichiarato che non erano stati messi dei cartelli di pericolo perché ciò non è previsto da nessuna procedura (IL pp. 75 e ss, 69 e ss.).
Analogamente, Mauro Pu. ha dichiarato che non è prassi mettere della segnaletica, perché gli operatori Sa. conoscono perfettamente le condizioni degli impianti, e gli altri non possono accedervi senza uno specifico permesso di lavoro (II, pp. 66 e ss.).
In modo colorito, Giovanni Le. - cioè il quadro da cui dipendevano direttamente coloro che effettuarono le operazioni sull'accumulatore HD 106 - ha anzi sostenuto che "...per me il cartello è anche controproducente, perché nel momento in cui noi mettiamo i cartelli in un 'apparecchiatura dove ci scriviamo vietato l'accesso... e va bene, nel momento in cui noi ci dimentichiamo di mettere un cartello uno ci entra e muore... Quindi è sempre meglio non metterli i cartelli!... magari, uno nel momento in cui si dimentica di mettere il cartello, uno trova un'apparecchiatura aperta, dice Ok non c'è il cartello, entro, e quindi non credo che sia una cosa corretta" (II 98, p. 38; peraltro lo stesso teste ha precisato che "La cosa corretta è non lasciare aperte le apparecchiature").
Tali dichiarazioni dimostrano con chiarezza che la mancata apposizione di cartelli di pericolo (e di segnali che consentissero di identificare il tipo di gas e-rogato dalla manichetta) non derivò da un difetto di cautela da parte degli operatori, ma dalla mancanza di una procedura aziendale codificata.
Questo difetto trova pieno riscontro documentale.
Nel manuale del sistema di gestione della sicurezza, sezione IV, p. 17- nella versione approvata a seguito della revisione del 29.4.2008 - si prevedeva che per la segnaletica di sicurezza "dovrà essere emanata apposita procedura" (III, 77, p. 414).
La stessa dicitura è riportata nel modello di organizzazione, gestione e controllo, revisione al 22.7.2008, nell'allegato alla parte speciale "D", che si riferisce alla prevenzione dei reati di omicidio colposo e lesioni colpose.

Riguardo all'art. 163 D. lgs. 81/2008 si rimanda infatti ad una bozza di procedura sulla segnaletica, ancora da approvare (X, all. 4, p. 90).

C) Secondo quanto si afferma nella relazione finale del gruppo di lavoro istituto dall'organo di vigilanza (X, 3, p. 49), la mancata adozione della segnaletica discenderebbe dal sistema di organizzazione del lavoro attraverso l'utilizzo dei permessi di lavoro, che consentirebbe la deroga all'obbligo di legge.
Infatti, ai sensi dell'art. 163 l.cit., la segnaletica di sicurezza deve essere adottata riguardo ai "...rischi che non possono essere evitati o sufficientemente limitati con misure, metodi, ovvero sistemi di organizzazione del lavoro.... "; e nel caso specifico, tale effetto di limitazione del rischio sarebbe stato garantito dalla procedura dei permessi di lavoro.
Questo concetto è stato elaborato, in modo molto sofisticato e sottile, nella memoria difensiva depositata all'udienza del 9.5.2011 (pp. 76 e ss.).
La difesa ha infatti evidenziato, sotto il profilo della causalità, che le connotazioni fattuali dell'evento dimostrano un atteggiamento da parte di So. "ribelle a qualsiasi forma di adeguamento a strumenti programmati ed eteroimposti di protezione dell'incolumità individuale": egli infatti aveva volontariamente violato la procedura del permesso di lavoro, sulla quale era stato specificamente istruito, e specifiche direttive del caposquadra, e non si era limitato ad accedere all'impianto, ma si era addirittura introdotto in un'apparecchiatura, rimuovendo una protezione che - comunque - indicava chiaramente che erano in corso operazioni e l'accumulatore non era accessibile.
Le altre due vittime, a loro volta, conoscevano i protocolli di gestione delle emergenze, percepivano una condizione di evidente pericolo, ed erano state specificamente avvertite di non entrare nella struttura (esse avevano anzi superato dei tentativi di trattenerle fisicamente).
Non vi sarebbe, dunque, la controprova che la formulazione di avvertimenti espressi sulla situazione di pericolo avrebbe potuto superare da un lato un atteggiamento insofferente a qualsiasi imposizione, dall'altro una condotta determinata dalla contingente e drammatica situazione.

Sotto il profilo della colpevolezza, la difesa ha invece rilevato che il sistema organizzativo e preventivo era perfettamente idoneo, se non consapevolmente violato, a prevenire l'evento; di contro, "....qualsiasi strumento comunicativo atto a suggerire valutazioni o tentativi di comprensione individuale da parte dei lavoratori (i) non solo non previene comportamenti pericolosi (le connotazioni del fatto, appena sopra evocate, ne fanno prova): (ii) bensì e soprattutto amplifica l'equivocità e la complessità dei contesti, poiché pone i coesistenti sistemi di prevenzione in termini di potenziale antagonismo ..
Tale impostazione, per quanto fine e suggestiva, non può essere accolta.

C1) Per quanto riguarda il profilo della colpa (mentre riguardo al nesso causale si rinvia al § 4), per quanto la tesi proposta abbia una sua coerenza dal punto di vista organizzativo, essa non appare pienamente coerente con il canone normativo.
La disposizione di legge richiamata, infatti, prevede con chiarezza che l'obbligo giuridico di predisporre la segnaletica di sicurezza é la regola, e l'adozione di misure organizzative alternative l'eccezione.
Una scelta generale ed estesa all'intera organizzazione di una realtà complessa come la Sa. di non apporre segnaletica di sicurezza appare, quindi, incompatibile con il precetto legislativo.
Tanto più che la disposizione richiamata prevede che tale scelta possa essere fatta "anche a seguito della valutazione effettuata in conformità all'articolo 28"; ma si è visto che, nel caso in esame, è censurabile (sotto il profilo del mancato aggiornamento alle evenienze) anche la valutazione del rischio.
In ogni caso, non può essere surrogato attraverso il ricorso a sistemi organizzativi l'obbligo di rendere identificabili agenti chimici pericolosi, previsto dall'art. 227, terzo comma, D. Lgs. 81/2008.
La norma in questione, infatti, non prevede equipollenti,, ed anzi il suo presupposto è proprio la mancanza della segnaletica, e quindi - in base all'art. 163 - la presenza di misure idonee ad escludere o limitare sufficientemente il rischio.
La disposizione dell'art. 227, terzo comma, è sicuramente applicabile nel caso specifico.
Non può infatti essere condiviso l'assunto difensivo secondo cui, essendo l'azoto un gas normalmente presente nell'aria, non si tratterebbe di sostanza pericolosa.
L'obbligo di rendere identificabile l'agente chimico, infatti, non si riferisce soltanto alle sostanze tossiche, ma a tutti gli elementi comunque pericolosi.
Ci si deve dunque rifare alla definizione normativa di cui all'art. 2 lett. r) del testo unico, in base alla quale si intende per pericolo la "proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni".
Non vi è dubbio, anche perché ve n'è purtroppo la drammatica controprova fattuale, che l'immissione di azoto avesse la potenzialità di causare danni del tipo verificatosi.
Infatti, anche se è vero che l'accumulatore era già in atmosfera di azoto prima dell'apertura del passo d'uomo, è vero però - come emerge ad esempio dalla deposizione di Bi. (II pp. 75 e ss.) - che tale gas tende naturalmente a rarefarsi e dissolversi nell'atmosfera, sia attraverso l'apertura del passo d'uomo che attraverso i collegamenti dell'impianto (la cui ciecatura non era stata completata).
Si è detto infatti che l'azoto fu immesso proprio per escludere l'ossigeno, che era la sostanza che avrebbe potuto determinare inneschi incendiari, ed evidentemente tale operazione non sarebbe stata necessaria se la naturale conseguenza dell'apertura del passo d'uomo non fosse stata la ventilazione e quindi l'ingresso di ossigeno.
Escludere l'ossigeno, però, significava rendere l'atmosfera irrespirabile e, quindi, creare una situazione di pericolo nel senso sopra definito; più precisamente un pericolo di asfissia, cioè proprio il tipo di rischio che si concretizzò nel caso specifico.

C2) Gli elementi di prova sopra richiamati suggeriscono inoltre che il razionale di fondo indicato dalla difesa sia il frutto di una elaborazione ex post, piuttosto che di una reale ricostruzione dei percorsi che portarono alla mancata approvazione di una procedura sulla segnaletica.
Infatti, al di là delle dichiarazioni riportate, il manuale del sistema di gestione della sicurezza, come già si è visto, non prevedeva affatto una scelta di sostituire la segnaletica, in generale, con il sistema organizzativo imperniato sul permesso di lavoro, che pure era esplicitamente richiamato nella pagina precedente.
Il modello organizzativo, nella versione vigente all'epoca del fatto, indica piuttosto una volontà contraria, perché si rimanda espressamente ad una procedura in corso di elaborazione; ciò che sottintende la volontà di approvare uno specifico protocollo, e quindi di adempiere all'obbligo legislativo, e non di considerarlo assolto attraverso misure organizzative equipollenti.


C3) La considerazione che appare decisiva è però un'altra, cioè che l'obbligo previsto dall'art. 163 del testo unico (e quello, più specifico, di cui all'art. 227, terzo comma) non si riferisce ad un rischio di interferenza tra imprese compresenti nello stesso cantiere, ma ha carattere generale: si applica infatti a qualsiasi tipo di pericolo.
Di converso, lo strumento organizzativo del permesso di lavoro non ha carattere generale, ma si riferisce soltanto alle imprese esterne presenti nello stabilimento di Sarroch, e quindi al coordinamento con le imprese appaltatici.
Ne consegue che l'elaborazione proposta dalla difesa è troppo specificamente ritagliata sull'incidente del 26.5.2009.
L'esenzione dall'obbligo di legge, infatti, sarebbe stata giustificata da misure organizzative di carattere generale, ma non possono concettualmente surrogare in assoluto la segnaletica strumenti organizzativi e di sicurezza che si riferiscono esclusivamente alla prevenzione di rischi di interferenza.

D) Tale rilievo non ha carattere meramente formale, ma è sostanziale.
Ad esso si riconnettono infatti le ragioni per le quali non si può ritenere -con riferimento al caso specifico - che il rischio potesse essere escluso o sufficientemente limitato, in generale, attraverso il sistema di organizzazione del lavoro indicato.
L'art. 163 l.cit. non fornisce dei parametri che possano consentire di stabilire quando un sistema di organizzazione del lavoro sia idoneo ad escludere o limitare sufficientemente il rischio.
I criteri valutativi devono essere dunque desunti dai principi generali in materia di colpa, ed in particolare si correlano alla prevedibilità e prevenibilità dell'evento.
Poiché l'evento che si doveva prevenire era un comportamento umano imprudente, vi è un'evidente relazione tra l'argomento in trattazione e il tema, richiamato nella parte I, della rilevanza della condotta inosservante delle persone offese.
Se infatti, come si é visto, la condotta imprudente o illegittima del lavoratore può esimere da responsabilità, determinando un'interruzione del nesso causale, soltanto quando essa sia assolutamente imprevedibile (sulla base dei parametri evidenziati), appare coerente ritenere che una misura organizzativa possa essere ritenuta idonea a eliminare o ridurre considerevolmente un rischio con connotazioni simili a quelle presentatesi nel caso in esame quando essa sia tale da poter essere superata soltanto da condotte imprevedibili..
In relazione al caso specifico, si dovrebbe dunque ritenere che il divieto di iniziare qualsiasi lavoro senza autorizzazione facesse ragionevolmente escludere che i lavoratori lo potessero violare, e che ciò fosse sufficiente a prevenire il rischio.

D) Tali conclusioni sarebbero possibili soltanto se le persone potenzialmente esposte al rischio fossero stati soltanto i lavoratori dell'impresa appaltatrice coinvolti in quella frazione dell'appalto cui si riferiva il permesso di lavoro; quindi, nel caso specifico, Po. e So. (e il loro caposquadra).
Ma come si é visto non é così, perché nell'incidente persero la vita due persone che non avevano violato la procedura del permesso di lavoro, e che intervennero per soccorrere un compagno in difficoltà.
La tragica morte di Mu. e Me. fa dunque emergere in modo eclatante la inidoneità della misura organizzativa a sostituire l'obbligo di legge di predisporre la segnaletica.
Il sistema del permesso di lavoro, infatti, si rivolge ai lavoratori delle imprese esterne che devono effettuare degli interventi, ma non è idoneo ad informare dei fattori di effettivo pericolo che si presentano in concreto e in quel determinato momento storico tutti i terzi che, per qualsiasi causa, si trovino in prossimità di un impianto.
Se infatti chiunque può rendersi conto che può essere pericoloso introdursi in un impianto industriale, si tratta però di una conoscenza generica e astratta, e non di un'informazione sulla natura e gravità del pericolo.
Si ricordano ancora, per rendere meglio l'idea, le dichiarazioni di Cristian Lo. (11, 49): "...mi era stato solamente detto che senza nessun permesso non potevo entrare nell'accumulatore, ma nessuno mi aveva detto che solamente affacciandomi al passo d'uomo avrei potuto rimetterci la vita, questo nel modo più assoluto lo ignoravo... ".
Detto in altri termini, e riprendendo una metafora di Giovanni Le. -"...logicamente non posso avere un operatore per ogni persona che circola in raffineria, è come se io mettessi un carabiniere o un poliziotto in tutti i cartelli di vietato l'accesso nelle strade" (II, 98, p. 31) - vi era un divieto di accesso; ma non una segnalazione di pericolo, che è qualcosa di concettualmente e normativamente diverso.
É semplicistico, dunque, risolvere la questione dicendo che nessuno può accedere allo stabilimento senza autorizzazione e che tale divieto è segnalato da appositi cartelli.
Una tale affermazione non tiene conto, infatti, della possibilità che per un caso fortuito o per forza maggiore dei terzi possano, invece, dover entrare nell'impianto, e della conseguente necessità che essi siano posti in condizione di rendersi conto della natura e gravità di eventuali pericoli.

Né si può obiettare che il caso fortuito per sua natura non é immaginabile, perché non si tratta di pronosticare una specifica evenienza, ma di preventivare che, per un qualunque caso fortuito, qualcuno si trovi nella necessità di accedere ad un impianto.
Questo é il limite - in riferimento ali'obbligo di cui all'art. 163 - di una procedura che, per sua natura, non é rivolta a chiunque, come invece un cartello, ma é conoscibile soltanto da specifici soggetti.
Non si tratta, con tutta evidenza, di una ipotesi scolastica.
Infatti Mu. e Me., nel caso specifico, accorsero per un soccorso di necessità; ma, come é stato giustamente evidenziato nel corso della discussione, nella stessa condizione di pencolo non segnalata si vennero a trovare, dopo l'incidente, i Carabinieri, i Vigili del fuoco, lo stesso Pubblico Ministero in occasione del sopralluogo.
Nessuno di questi soggetti, essendo essi estranei all'attività d'impresa o quanto meno (nel caso delle ulteriori vittime) ai lavori da eseguire sull'accumulatore HDI06, aveva la possibilità di conoscere le condizioni dell'impianto, la natura dei pericoli, l'esistenza o meno di un permesso di lavoro.
Tanto ciò è vero che, come dimostrano le testimonianze sopra richiamate, nemmeno qualificati operatori Sa. (capimmo, il responsabile d'esercizio, il dirigente dell'area produttiva in cui avvenne l'incidente) erano in grado di percepire il rischio.
Da tali considerazioni discende che la omissione della segnaletica di sicurezza, a fronte di un pericolo mortale e non previsto (essendovi stata comunque, sebbene per il caso fortuito descritto, una deviazione dalla procedura di bonifica standard), costituisce una violazione di legge e un profilo di colpa a carico dei responsabili.

***



4.1) La posizione di Le.: i vizi del Piano operativo di sicurezza.

Esaurita la trattazione dei profili di colpa addebitati alla dirigenza Sa., nella valutazione della responsabilità di Le. - datore di lavoro della C.M.S. - si può partire da un punto fermo.
L'impresa, e quindi l'imputato, non erano in condizioni di conoscere le condizioni di specifica pericolosità dell'accumulatore HD 106, perché effettivamente non era stato loro comunicato il mutamento sopravvenuto nelle procedure di bonifica.
Questo punto è alla base delle difese di Le., il quale ha sostenuto che tale difetto informativo gli avesse impedito di assolvere gli obblighi propri del datore di lavoro della C.M.S., ed in particolare quelli di valutazione dei rischi e di formazione che formano oggetto delle contestazioni nei suoi confronti [capo A, punti 9) e IO)].
In realtà questa conclusione è insufficiente, perché si è detto che la condotta di So., a prescindere dal difetto informativo evidenziato, era comunque imprudente (e ciò a prescindere dalla violazione della procedura del permesso di lavoro), perché nell'accumulatore avrebbero potuto essere presenti in ogni caso sostanze nocive, anche dopo la bonifica.
Si tratta dunque di valutare se a causare questa imprudenza possano aver contributo difetti nelle procedure adottate e nella formazione impartita dalla C.M.S..
Quanto a Mu. e Me., poiché come si è detto essi seguirono i protocolli per il primo soccorso previsti dal POS, si tratta di valutare se in detto atto - e nella relativa attività di formazione - fossero stati correttamente valutati i rischi anche in riferimento a questo tipo di situazione di emergenza.
Sotto entrambi i profili, il Piano operativo di sicurezza (POS) adottato dalla C.M.S. (e approvato dall'ingegner Ca. con e-mail del 22.4.2009, IX, p. 808) era evidentemente carente.
Il Piano di sicurezza e coordinamento predisposto dall'ingegner Ca. (IX, pp. 809 e ss.) prevedeva espressamente - in un'apposita sezione - l'ingresso in spazi confinati ed i relativi rischi, ivi compreso quello di asfissia (facendo così seguito al DUVRI, che come si è detto prevedeva tali attività nella scheda aggiuntiva Al..
Infatti, come si è già accennato in precedenza, il PSC - al  §5.3, lettera b) (p. 10) - indicava tra le principali fasi critiche e interferenze in cantiere il rischio connesso a lavori in spazi confinati, "quali ad esempio silos, locali chiusi privi di aerazione, tubi, canali, serbatoi, reattori ecc.", segnalando la possibilità di carenza di ossigeno o presenza di concentrazioni tossiche o esplosive di gas o di vapori.
Il principale rischio per la salute venne individuato nella presenza di "...atmosfere che possono provocare asfissia... ", e conseguentemente il PSC stabiliva che "...Prima di iniziare l'attività è necessario valutare e misurare la quantità di ossigeno presente mediante controllo ambientale, indossare i necessari dispositivi di protezione individuale... pianificare e programmare le attività in modo da ridurre al minimo il tempo di permanenza all'interno degli spazi confinati, avvertire i propri colleghi dell'inizio delle attività all'interno di spazi confinati e monitorare continuamente l'ambiente attraverso misuratori di concentrazione ossigeno fissi o portatili"..
Il PSC prevedeva poi una serie di cautele da adottare durante lo svolgimento delle attività e in particolare la necessità, qualora la ventilazione naturale non fosse stata sufficiente, di predisporre un sistema di ventilazione forzata, nonché se del caso di utilizzare degli autorespiratori.
Il paragrafo in questione si conclude con la frase: "Sarà oggetto dei POS delle ditte la descrizione della procedura di ingresso in recipienti".
Tale procedura, invece, non fu adottata nel Piano operativo di sicurezza della C.M.S. (IX, pp. 874 e ss.)'.
In tale documento, infatti, non era proprio previsto l'ingresso in spazi confinati, nonostante al loro interno si dovessero svolgere i lavori di pulizia idrodinamica appaltati.
Di conseguenza non furono analizzati i relativi rischi, tra i quali quello di asfissia, né furono previste le conseguenti cautele da adottare, e tale vuoto di disciplina si riscontra sia nella parte generale che nella scheda n. 16 (p. 105), relativa alle pulizie idrodinamiche.
L'evidente criticità, sotto questo profilo, delle previsioni del POS (e della conseguente formazione impartita ai lavoratori) è comprovata dal fatto che l'impresa, in seguito, ritenne necessaria una specifica integrazione.

4.2) L'aggiornamento del POS
È agli atti, infatti, un documento datato 20.5.2009 ed intitolato "Integrazioni al Piano operativo di sicurezza" (IX, pp. 945 e ss.), che si riferisce "essenzialmente all'ingresso in recipienti per la pulizia e la rimozione dei fondami",
In effetti il documento si riferisce esclusivamente a tale aspetto, e corrisponde pienamente al Piano di sicurezza e coordinamento e al DUVRI e alle esigenze di prevenzione del rischio, eliminando i vizi sopra evidenziati.
L'integrazione infatti prevede il rischio di lavori in spazi confinati (contenitori), definisce tali spazi, e prevede tra i vari rischi la "presenza di atmosfera pericolosa", puntualizzando altresì: "Un aspetto su cui riflettere è quello nei casi di emergenza, quasi sempre vengono coinvolti anche coloro che si apprestano a soccorrere un compagno di lavoro in difficoltà".
Al punto 1.3.1 ("Formazione e presenza di atmosfere pericolose") si prevede che "All'interno di apparecchiature può verificarsi una carenza di ossigeno", e si precisa ulteriormente che la pericolosità dell'atmosfera può essere determinata sia dalla presenza di sostanze nocive che dalla "carenza di ossigeno (pericolo di asfissia) ".
Al punto 1.3.2 si prevede la necessità di disporre di idonei impianti di ventilazione per eliminare l'atmosfera pericolosa, mentre il punto 1.3.3 è dedicato ai dispositivi individuali di protezione, distinti tra quelli richiesti "per lavori in spazi confinati e con prova di abitabilità positiva " e quelli "per lavori in spazi confinati non completamente bonificati".
In entrambi i casi è richiesto, in particolare, l'uso di rilevatori personali per H2S e O2, e nel secondo caso si prevede anche la necessità di indossare una maschera a pieno facciale per il rifornimento d'aria, un cappuccio a rifornimento d'aria, ed una cintura di sicurezza legata alla fune di salvataggio.
Il punto 1.3.4 contempla la necessità di una continua assistenza dall'esterno, mentre il punto 1.3.5 è dedicato ai soccorsi in caso di malore o infortunio a persona che opera all'interno dei recipienti; la procedura prevista è la seguente:
"...il sorvegliante non deve prestare subito soccorso. ma deve, come regola operativa primaria, provvedere prima a chiamare rinforzi... L'allontanamento dell'infortunato dalla zona di pericolo deve avvenire nel modo più sollecito possibile. Le persone che entrano in colonne, recipienti etc. devono indossare una cintura di sicurezza.... nonché assicurarsi mediante fune di sospensione... In caso di soccorso anche l'addetto alla sorveglianza deve disporre di un'analoga cintura di sicurezza con fune di trattenuta.
Pur con queste misure di cautela, il sorvegliante non deve assolutamente entrare nel recipiente se a sua volta non è assistito da altre persone chiamate in aiuto: questo concetto scaturisce da due circostanze elementari:

  • L'allontanamento di un infortunato dalla zona pericolosa da parte di una sola persona risulta, in pratica, pressoché impossibile;

  • Il soccorritore, sia pure dotato di mezzi protettivi, il più delle volte non conosce le cause che hanno determinato la debilitazione del compagno ali'interno dell'apparecchiatura;

  • Spesso il miglior modo di portare soccorso è quello di non fare niente o limitarsi a fare il meno possibile;

  • Un intervento mal eseguito, specie da qualcuno che non abbia la necessaria esperienza e le adeguate cognizioni, può aggravare le conseguenze dell'infortunio e, addirittura, mettere in serio pericolo la vita dell'infortunato;

  • Si suggeriscono qui alcuni comportamenti tesi, prima di tutto, ad impedire l'aggravamento dell'infortunio".

Appare del tutto evidente che questo documento, privo di data certa, non è stato certo formato il 20.5.2009, ma è stato elaborato sulla base del tragico incidente del 26 maggio e, dunque, successivamente al fatto.
Innanzitutto, infatti, il documento prevede, in modo molto più dettagliato rispetto a tutti gli altri rischi analizzati nel POS, tutti e soltanto i rischi connessi all'incidente in questione, in entrambe le sue componenti (procedure per l'accesso agli spazi confinati e per il primo soccorso: si noti che il soccorso agli infortunati non è specificamente regolamentato nel POS in relazione a nessun altro tipo di lavorazione).
Tali rischi, inoltre, sono previsti in modo che appare ritagliato sulle caratteristiche specifiche del fatto.
Basti pensare ad esempio ai diversi dispositivi di sicurezza richiesti per l'accesso in recipienti bonificati e in spazi confinati non completamente bonificati, previsione quest'ultima piuttosto anomala, dato che evidentemente la prima regola di sicurezza nel caso in cui la bonifica non sia stata completata è di non entrare nell'impianto.
Al di là di tali considerazioni logiche, l'inesistenza di tale documento prima dell'incidente è comprovata dal fatto che esso, in occasione dei vari accessi per perquisizioni, sequestri e acquisizione di documenti avvenuti in prossimità dell'evento, non fu rinvenuto né presso la Sa., né presso il coordinatore per la sicurezza, né presso la C.M.S. (cfr. verbali del 26, 28, 29.5.2009 e l e 3.6.2009, II, pp. 113 e ss.).
Esso invece fu rinvenuto, sia presso la Sa. che presso la C.M.S., in occasione degli accessi per l'acquisizione di documentazione del 4 e dell'8.9.2009 (II, pp. 140 e ss.).
Nel corso dell'accesso presso la Sa. dell'8.9.2009, in particolare, vennero chieste delucidazioni sul punto all'ingegner Ca., il quale "...riferiva di non ricordare la materiale ricezione della stessa e dell'approvazione di sua competenza, comunque desunta antecedente all'incidente del 26.5.2009" (così il verbale di acquisizione citato).
Questo dettaglio è smentito documentalmente, perché è agli atti la stampa di una e-mail datata 19.6.2009, con la quale Ca. approvò l'integrazione del POS (IX, p. 873); ed appare manifestamente inverosimile che egli avesse impiegato un mese per verificare e approvare una procedura di poche pagine, tanto più in un caso in cui essa verteva su un difetto procedurale che aveva causato un incidente sul lavoro con tre morti.
Infine, se si esamina la successiva revisione del POS del 15.6.2009 (IX, pp. 948 e ss.) emerge con chiarezza che le procedure per l'accesso agli spazi confinati sopra descritte non sono né integrate nel documento, né riprodotte (il contenuto della seconda revisione, sul punto, è infatti sovrapponibile a quello del POS originario, anche riguardo alle parti in contraddizione, né menzionate a p. 2 nell'elenco delle revisioni e modifiche (dove si parla soltanto dell'adozione del POS e della revisione n. 2), né infine elencate tra gli allegati.
Tali elementi, valutati complessivamente, portano a ritenere che l'integrazione del POS fosse successiva all'evento.
In ogni caso, risulta documentalmente che tra il 20.5.2009 (data apposta sul documento) e il 26.5.2009 (giorno dell'incidente) non venne effettuata alcuna giornata di formazione.
L'unica informazione specificamente rilevante riportata nelle riunioni di formazione precedenti - ed in particolare in quella dell'11.5.2009, alla quale partecipò So. (IX, p. 1046) - era che "gli impianti durante la fermata possono essere non completamente bonificati, possono sussistere condizioni di pericolo. È obbligatorio utilizzare i DPI appropriati".
La formazione relativa alle nuove procedure, ed in particolare alle precauzioni nel caso di lavori in spazi confinati e di soccorso alle persone colpite da infortuni all'interno dei recipienti, furono invece fornite nelle riunioni del 16 e del 19.6.2009 (IX, pp. 1051 e ss.).
Dunque, se anche le nuove procedure fossero state adottate prima dell'evento, è certo che i lavoratori non erano stati formati in relazione ad esse; e non ne erano stati neppure informati, perché a differenza del POS (corredato dalle firme in calce di tutti gli operai) il documento in questione non risulta comunicato ai dipendenti.
Si deve aggiungere infine, per completezza, che dalla documentazione acquisita presso la C.M.S. (I, pp. 657 e ss.) risulta che gli operai dell'impresa avevano regolarmente ricevuto i dispositivi di sicurezza indicati nel POS, ma non quelli previsti nella suddetta integrazione.
In ogni caso, dunque, non sarebbe stato possibile osservare le nuove procedure, quanto meno in riferimento all'obbligatoria utilizzazione di sistemi di recupero dall'esterno.

 

4.3) Conclusioni sui punti 9) e 10).

Sulla base degli elementi sopra sinteticamente esposti si deve ritenere pienamente provata la violazione delle disposizioni poste a fondamento delle contestazioni di colpa specifica elevate nei confronti di Le., che come si è visto prescindono totalmente dalla asimmetria contrattuale e informativa che è stata rilevata dalla difesa nel corso della discussione.
In relazione alla valutazione dei rischi e alle misure di sicurezza (punto 9), il Piano operativo e di sicurezza adottato dall'imputato per conto della C.M.S. non prevedeva infatti - contravvenendo ad una specifica prescrizione del PSC - alcuna procedura per l'accesso agli spazi confinati, e dunque nessun tipo di rischio.
Se è vero che l'imputato non poteva essere a conoscenza della presenza di azoto nell'accumulatore, perché come si è detto le relative informazioni non erano state comunicate dalla stazione appaltante, si deve però tenere conto del fatto che la presenza di azoto (o meglio la assenza di ossigeno) costituiva semplicemente una specificazione di un rischio più generale, quello di asfissia, sempre immanente per i lavori in spazi confinati, e che quindi poteva e doveva essere previsto (anche perché era stato esaminato sia nel Piano di sicurezza e di coordinamento che nel DUVRI).
In altri termini, se ciò che si può censurare nella condotta di G. e Sc. è la mancata informazione sull'aumento del rischio nel caso concreto, a Le. deve essere invece rimproverata la mancata informazione sul rischio in generale, a prescindere quindi dalle connotazioni assunte nello specifico.
Questo difetto ebbe dei riflessi anche sulla formazione degli operai (punto 10), perché una cosa è essere informati del fatto che nonostante la bonifica possano esservi sostanze dannose, altro è avere una piena cognizione del tipo e dell'intensità dei rischi e delle misure di sicurezza da adottare.
Se dunque l'imprudenza di So. fu indubbiamente una delle cause dell'evento, si deve però ritenere che tale atteggiamento non fu soltanto il frutto di un'indole personale, ma anche di una formazione insufficiente.
Ancora più evidenti sono poi i difetti di previsione del rischio e di formazione dei lavoratori in relazione alle operazioni di primo soccorso in spazi confinati.
Ciò emerge innanzitutto dalla procedura approvata con la revisione del POS, perché se Me. e Mu. fossero stati specificamente formati sul punto è da ritenere che essi avrebbero agito con maggiore cautela e che il primo non sarebbe incorso nell'errore che gli costò la vita, cioè quello di ritenere che la maschera indossata potesse consentirgli di intervenire in condizioni di sicurezza sufficienti (v. meglio infra).


***

5.1) Conclusioni: la prevedibilità dell'evento.

 

5.1) Conclusioni: la prevedibilità dell'evento.


Le condotte colpose sopra individuate - cioè, riassumendo, i difetti di informazione e coordinamento di cui ai punti 2) e 3), l'omesso aggiornamento delle misure di prevenzione contestato al capo 5), l'omessa adozione della segnaletica di cui ai punti 6) e 7), le manchevolezze nella previsione del rischio e nella formazione dei lavoratori di cui ai punti 9) e 10) - si riferiscono tutte a profili di colpa specifica.

I criteri di imputazione dell'evento sono, dunque, diversi da quelli seguiti riguardo alla colpa generica.
Infatti, lo stesso tenore letterale dell'art. 43 c.p. richiede la sussistenza di un preciso nesso tra la violazione della regola cautelare e l'evento non voluto.
Si tratta di un aspetto che è strettamente correlato alla natura della colpa come criterio di imputazione soggettiva del fatto tipico: se l'inosservanza della regola precauzionale fosse sufficiente per imputare il fatto all'agente, invero, la colpa non costituirebbe altro che una forma larvata di responsabilità oggettiva, perché il suo accertamento discenderebbe automaticamente da quello del nesso di causalità.
Nella colpa generica si richiede dunque, quale criterio di imputazione soggettiva della responsabilità, la concreta possibilità dell'agente di prevedere quel tipo di evento e di prevenirne la verificazione.
Riguardo alla colpa specifica, invece, il legislatore - codificando delle massime d'esperienza - ritiene ex ante che l'osservanza di determinate leggi, regolamenti, ordini o discipline possa prevenire certe categorie di eventi che sono dunque, per presunzione legislativa, prevedibili ed evitabili (ciò spiega l'affermazione giurisprudenziale secondo cui nella colpa specifica la prevedibilità è insita nella stessa violazione del precetto: si v. ad es. Cass., sez. IV, 13 novembre 1997, n. 10333, Pretto; Cass., sez. IV, 6 novembre ]990, n. 14434, Severino).
Tale presunzione è valida solamente nei limiti in cui l'evento verificatosi sia proprio del tipo sotteso alla norma cautelare; ed infatti sia la dottrina che la giurisprudenza identificano come elemento essenziale della colpa per violazione di legge la tipicità dell'evento rispetto alla previsione della regola di cautela (v. sul punto, in particolare, Cass., sez. IV, 2 febbraio 1990, n. 1501, Iannuzzi).
Nel caso specifico, non ci sono dubbi sul fatto che l'evento corrisponda pienamente al tipo astratto che le disposizioni violate tendevano a prevenire.

 

5.2.1) Il nesso di causalità tra le condotte colpose e la morte di So..

 

Le condotte sopra descritte sono causalmente ricollegabili, con alta probabilità razionale, all'evento verificatosi il 26.5.2009.

A) Gli argomenti a sostegno di tale affermazione sono stati, in parte, analizzati nel corso dell'esposizione precedente, ma appare utile riassumerli in un ordine logico mirato al tema in esame.
Si è visto, innanzitutto, che ciò che innescò la catena di eventi fu la condotta iniziale di So., riconducibile, indubbiamente, ad una inosservanza da parte del lavoratore delle procedure di organizzazione e sicurezza e delle direttive che gli erano state impartite.
Tale circostanza però non implica che specifiche misure di segnalazione dei pericoli sarebbero state verosimilmente inefficaci, perché - come si è già avuto modo di osservare - altro è un divieto di accesso o una misura organizzativa, altro una segnalazione di pencolo.
Può dunque ipotizzarsi che So. fosse per sua natura insofferente alla disciplina (così come ha sostenuto Po., anche se come si è visto tale affermazione deve essere vista con una certa cautela); e probabilmente l'affermazione secondo cui era stata creata un'apparenza di apparecchiatura bonificata prova troppo, perché non si può certo giudicare la sicurezza di un impianto a colpo d'occhio.
Tuttavia So. non entrò certo nell'accumulatore perché era animato da intenzioni suicide; egli era dunque convinto che non vi fosse un pencolo concreto, non quanto meno di tale portata, e questa opinione è sì imputabile ad una notevole imprudenza - e ai difetti nella sua formazione -, ma anche ad una ignoranza della situazione reale dell'impianto.
Se dunque So. fosse stato informato adeguatamente dell'esistenza all'interno del serbatoio di una atmosfera irrespirabile si deve ritenere, con alto grado di credibilità razionale, che egli non sarebbe entrato nell'accumulatore, e il tragico evento non si sarebbe verificato.
Ne consegue che le violazioni individuate rappresentano altrettante misure impeditive, ciascuna delle quali - un corretto adempimento dei doveri di informazione, l'aggiornamento degli strumenti di prevenzione ai mutamenti nella procedura di bonifica, l'apposizione di segnali nel luogo di lavoro, per quanto riguarda gli adempimenti a carico della Sa.; una corretta previsione del rischio nel POS e una adeguata formazione, dal lato C.M.S. - avrebbe, con alta probabilità razionale, scongiurato l'evento.

B) Le considerazioni svolte in precedenza portano altresì, sotto un'altra prospettiva, ad escludere che il nesso causale possa essere stato interrotto dalla condotta colposa della persona offesa.
Considerato che diversi testimoni escussi (ad esempio Gianpietro Me.) hanno affermato che non era mai successo in precedenza che qualcuno violasse la procedura sul permesso di lavoro, si potrebbe anche sostenere che la condotta fosse imprevedibile.
Tuttavia, come si è detto, un comportamento imprevedibile del lavoratore non interrompe il nesso causale quando l'infortunio sia causato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione che avrebbero potuto neutralizzare proprio il rischio di un siffatto comportamento (v. ad es. Casso 3455/2004 e 36339/2005, cit).
In particolare, ciò vale quando la condotta sia causata dalla mancanza delle necessarie informazioni che devono essere fornite al lavoratore in merito alla pericolosità del luogo di lavoro e dalla mancata predisposizione delle relative opere provvisionali (Cass. 18998/2009, ci!.).
In tal caso, infatti, non si può ritenere che la condotta del lavoratore sia imprevedibile, perché essa discende da un difetto informativo imputabile al datore di lavoro.
Questo è ciò che avvenne nel caso specifico.
Si è visto infatti che una delle concause del comportamento imprudente di So. fu certamente la mancanza di specifiche informazioni sullo stato dell'impianto, che avrebbero potuto e dovuto essere fornite quanto meno nel corso delle riunioni di coordinamento, essendovi una deviazione dalla procedura standard di bonifica.

5.2.2) Il nesso di causalità tra le condotte colpose e la morte di Me. e Mu..

Indipendentemente dalle considerazioni svolte nel precedente paragrafo, è sicuramente collegabile alle inosservanze sopra ricostruite la seconda parte della serie causale, cioè la morte di Daniele Me. e di Bruno Mu..

A) Non appare infatti sostenibile, alla luce delle circostanze di fatto prese in esame, l'assunto difensivo secondo cui i due operai erano talmente presi dalla gravità della situazione che nessun tipo di cautela ne avrebbe potuto frenare il generoso impeto.
AI riguardo, infatti, si deve rilevare che all'interno degli accumulatori possono essere presenti diversi tipi di atmosfere pericolose, non soltanto per l'assenza di ossigeno - come nel caso specifico -, ma anche per la presenza di gas asfissianti quali ad esempio idrogeno solforato, ossido di carbonio e anidride carbonica.
Tali sostanze sono comunque nocive, ma non sono tali da portare necessariamente alla morte immediata.
Ad esempio, nel manuale operativo dell'impianto MHC1 (X, vol. 1, p. 255) si spiega che la respirazione di aria o di gas contenente idrogeno solforato può portare ad un'intossicazione subacuta nel giro di 2/15 minuti.
Il fatto dunque che le condizioni di So. segnalassero una condizione di pericolo, verosimilmente riconducibile alla presenza di gas - anche se Mu. e Me. potevano anche essere convinti che il collega avesse avuto un malore o un incidente, atteso che Po. urlava "È caduto! " e che l'unico fatto immediatamente percepibile era che So. aveva perso i sensi - non era dunque sufficiente per far capire ai soccorritori che all'interno del serbatoio vi era un'atmosfera che non consentiva la respirazione neppure per un istante.
La prova che Mu. e Me. non avessero (e non potessero avere, non avendo avuto informazioni e non essendovi una segnaletica) l'esatta cognizione di che sostanze fossero presenti all'interno dell'accumulatore, e delle conseguenti precauzioni da adottare (che non erano in alcun modo richiamate nel POS, che anzi dava indicazioni potenzialmente fuorviami), è data dalle modalità della loro condotta.
Mu., infatti, si introdusse cautamente nel passo d'uomo senza entrare nel serbatoio; purtroppo però egli perse i sensi e cadde all'interno.
Me., invece, prima di entrare raccolse da terra una maschera antigas (che era stata in precedenza lasciata li davanti da Po.), cioè adottò una precauzione che, se fosse stato presente un gas tossico, avrebbe potuto essere idonea a prevenire l'evento.
Poiché però, come si è detto, l'irrespirabilità dell'atmosfera interna non derivava dalla presenza di gas nocivi, ma dalla assenza di ossigeno in quantità sufficiente, l'unica cautela che avrebbe potuto proteggere i soccorritori sarebbe stata l'impiego di una maschera con autorespiratore, come quella che utilizzò poco dopo Ro. (evidentemente più esperto in operazioni di soccorso e più attrezzato).
In conclusione, dunque, Mu. e Me. si resero ben conto dell'esistenza di una situazione di pericolo ed agirono in modo tutt'altro che scriteriato.
Tuttavia il difetto di informazioni a loro disposizione discendente dalle condotte colpose descritte - fu loro fatale, perché essi, non potendo sapere che l'atmosfera era priva di ossigeno, adottarono delle cautele che, in presenza di altri tipi di atmosfera tossica, avrebbero verosimilmente consentito loro di soccorrere il compagno in pericolo senza correre a loro volta il rischio di morire; e comunque essi scelsero deliberatamente di correre un rischio, ma la loro scelta, per il difetto informativo evidenziato, non poté essere pienamente consapevole.
Vi è dunque un nesso immediato e diretto tra le condotte colpose e l'evento.

B1) Anche in questo caso, inoltre, si deve escludere radicalmente che il nesso di causalità possa essere stato interrotto dalle condotte inosservanti delle vittime.
Me. e Mu. non violarono alcuna norma cautelare.
Infatti il Piano operativo di sicurezza (POS) della C.M.S. - in conformità a quanto previsto dal manuale dell'impianto MCH1 (p. 241) - prevedeva che in caso di avvelenamento da gas tossico si dovesse portare subito il colpito all'aria aperta in zona incontaminata, iniziare la respirazione artificiale e somministrare ossigeno, coprire e tenere al caldo l'infortunato (I, 886; sul punto si tornerà in merito alla posizione di Le.).
Poiché come detto i due operai, non essendo in condizioni di sapere che tipo di atmosfera vi fosse dentro l'accumulatore, potevano presumere che So. avesse inalato gas tossici (questa infatti era l'ipotesi più probabile, perché anche dopo aver completato la bonifica è possibile che vi siano residui di sostanze pericolose, come del resto ricordato nel POS), essi cercarono - in conformità alla procedura indicata - di portare il compagno all'aria aperta prima possibile.
Essi dunque agirono secondo il protocollo stabilito nel POS della C.M.S. per le operazioni di primo soccorso, e non violarono alcuna procedura della Sa..
Né si può affermare, in una situazione di pericolo cosi evidente, che la loro condotta possa essere tacciata d'imprudenza o sconsideratezza.


B2) Si può escludere d'altro canto che il nesso causale tra la condotta colposa e la morte di Me. e Mu. possa essere stato interrotto dalla condotta imprudente di So..
La questione, lasciata aperta nella parte introduttiva, può infatti essere risolta in modo inequivocabile alla luce dello svolgimento dei fatti e delle concrete caratteristiche della condotta colposa.
Si è detto infatti che Me. e Mu., trovandosi nella stessa situazione di rischio, sarebbero stati in grado di evitare ulteriori conseguenze se essi fossero stati correttamente informati sullo stato effettivo dell'impianto e se vi fossero stati idonei segnali di pericolo; o ancora, per quanto si riferisce alla responsabilità di Le., se essi fossero stati debitamente formati (e ciò presupponeva a monte la previsione del rischio) sulle procedure per il soccorso a persone colpite da malore in spazi confinati.


5.3) Le posizioni individuali degli imputati.


Le contestazioni di colpa di cui ai punti 9) e 10) sono direttamente imputabili a Le., per la sua posizione di datore di lavoro e perché egli adottò il Piano operativo di sicurezza.
Per quanto riguarda invece i profili di colpa evidenziati nel corso dell'esposizione che si riferiscono a responsabilità dell'organizzazione Sa. (cioè, come si è detto, quelli di cui ai punti 2, 3, 5, 6 e 7), essi riconducono a responsabilità apicali.
Gli stessi infatti non si riferiscono a condotte imprudenti o inosservanti di lavoratori dipendenti o di quadri, ma discendono da alcuni aspetti dell'organizzazione aziendale, condivisi in particolare da Sc. e da G. nei principali documenti - a doppia firma - sull'organizzazione della sicurezza del lavoro.
Si è detto, infatti, che gli addebiti di colpa di cui ai punti 2), 3) e 5) derivano dall'interpretazione che veniva data nell'ambito dell'impresa al coordinamento e dalla mancata corrispondenza tra il potere discrezionale di deviazione dalle procedure di bonifica riconosciuto ai capi turno e una consequenziale valutazione del rischio.
La strutturazione del coordinamento sulla base di un concetto di interferenza non condivisibile portava infatti a non fornire informazioni ai lavoratori delle imprese appaltatrici sulle operazioni svolte negli impianti - o a fornire, nel corso delle riunioni di coordinamento, informazioni aspecifiche e comunque non tradotte nei documenti di valutazione del rischio - fino al momento in cui esse erano chiamate ad operarvi effettivamente perché era completata la procedura del permesso di lavoro.

Tale impostazione come si è detto è criticabile, perché il coordinamento inizia già nella fase contrattuale e non si presta ad essere frazionato in tale modo, e discende da una scelta di vertice, come è emerso con chiarezza anche dall'impostazione delle difese degli imputati.
Gi stessi, infatti, hanno sostenuto - per escludere l'inosservanza - che nessuna informazione dovesse essere fornita, perché So. e Po. non erano autorizzati ad accedere all'impianto.
Per altro verso, la possibilità che le deviazioni dalla procedura standard conducessero a situazioni impreviste di rischio - ampiamente prevedibile, essendo riconosciuto agli operatori un potere discrezionale al riguardo - avrebbe dovuto essere sviluppata negli strumenti di valutazione del rischio, almeno con la previsione che, in una tale evenienza, il pencolo venisse evidenziato con idonea segnaletica.
Si è visto infatti che questa, in ultima analisi, era l'ulteriore cautela che sarebbe stata necessaria e sufficiente per prevenire il caso specifico.
Anche sotto questo profilo l'omissione rimanda a responsabilità di vertice.
Infatti la mancata apposizione di segnaletica di sicurezza e di indicazioni sul gas introdotto attraverso la manichetta discendevano dalla mancata approvazione di procedure che pure erano previste dal manuale del sistema di gestione della sicurezza e dal modello di organizzazione e gestione, ma che erano ancora in corso di approvazione.
Si tratta, dunque, di omissioni riconducibili al datore di lavoro, e nello specifico caso concreto tale affermazione si traduce in una responsabilità di G. e di Sc..
Infatti come si è detto i poteri decisionali e di spesa erano condivisi, il direttore generale aveva comunque doveri di controllo (non eludibili a fronte di carenze macroscopiche come quelle evidenziate: v. Cass., sez. III, 19 aprile 2005, n. 29229, Ligresti), e soprattutto tutte le procedure di sicurezza venivano approvate a doppia firma, e quindi erano concretamente il frutto di una decisione concordata.

Dario Sc., Guido G. e Francesco Le. devono essere dunque dichiarati colpevoli del delitto loro ascritto.

Per quanto riguarda invece At. si deve, innanzitutto, rilevare che tra i profili di colpa evidenziati sono stati contestati all'imputato soltanto quelli di cui ai punti 6) e 7).
Essi non appaiono riconducibili alla sfera di responsabilità del dirigente dell'area produttiva conversioni.
Infatti, la responsabilità del dirigente è legata all'attuazione delle direttive del datore di lavoro (come evidenzia la definizione di dirigente data dall'art. 2 lett. d del testo unico); ma nel caso specifico, come si è detto, mancavano proprio le direttive.
Certo si potrebbe affermare che, trattandosi di un obbligo che scaturisce direttamente dalla legge, ed essendo il dirigente un destinatario primario delle norme antinfortunistiche, egli avrebbe comunque avuto l'obbligo, essendo a conoscenza della situazione di fatto (in quanto registrata nel sistema informatico interno dell'impresa, che aveva proprio la funzione di tenere i dirigenti costantemente aggiornati), di adempiere alle prescrizioni.
Tuttavia, tale obbligo presupporrebbe una specifica indicazione da parte del datore di lavoro, al quale è rivolta la prescrizione di cui all'art. 163 D. lgs. 81/2008.
Al contrario, come si è visto, dalle deposizioni testimoniali è emerso che la direttiva del datore di lavoro, di fatto - cioè per come la scelta di vertice era stata tradotta all'interno dell'organizzazione aziendale e tramutata in una prassi applicativa - era quella di non adottare alcuna segnaletica.
Da ciò discende che At., per adempiere all'obbligo legislativo, avrebbe dovuto sovrapporre la propria valutazione a quella dei superiori, andando contro le loro direttive, e ciò non rientra nei poteri del dirigente né nei suoi doveri, elencati dall'art. 18 T.U.
L'imputato, dunque, deve essere assolto per non aver commesso il fatto.
Per quanto riguarda invece il direttore delle operazioni industriali Gr., si rimanda alle considerazioni svolte nella parte I sull'assenza di un obbligo di garanzia.

 

PARTE III

LA RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA DELL'ENTE



1) Il concetto di "interesse o vantaggio" quale criterio di imputazione del reato alla persona giuridica.

Come è noto, la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, prevista dal D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 si riferiva inizialmente ad una serie limitata di delitti dolosi: quelli di indebita percezione di erogazione, truffa o frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, concussione e corruzione.
Tale catalogo è stato successivamente ampliato da diversi interventi legislativi ad una serie nutrita di delitti dolosi (e ad alcuni reati societari contravvenzionali, comunque necessariamente dolosi) e ad un'unica categoria di delitti colposi: quelli di omicidio e lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, in base all'art. 25-septies, introdotto dall'art. 9, primo comma, legge 3 agosto 2007, n. 123, e successivamente modificato dall'art. 300 del testo unico sulla sicurezza sul lavoro.
È noto, e l'argomento è stato approfondito dalla difesa Sa., per cui non appare utile ripercorrerlo, che tale intervento legislativo è stato in qualche modo inopinato e che ha posto problemi di coordinamento estremamente difficili e rilevanti, in quanto il legislatore si è limitato ad ampliare il catalogo dei reati senza però adattare la disciplina generale ad illeciti che hanno una struttura completamente diversa da quelli, dolosi, per i quali l'impianto normativo era stato concepito.

I reati disciplinati dagli artt. 589 e 590 c.p. sono infatti delitti colposi di evento, e quindi - per definizione - reati nei quali l'evento non è voluto dall'agente.
Diverse disposizioni della parte generale del D. Lgs. 231/2001, però, utilizzano quale criterio di imputazione della responsabilità o di esclusione della stessa la direzione finalistica del reato.
I principali problemi interpretativi specificamente rilevanti nel caso in esame si pongono, in particolare, in relazione alla disposizione di cui all'art. 5.
Tale norma - oltre ad individuare la gamma delle persone fisiche la cui condotta penalmente rilevante può impegnare la responsabilità dell'ente - stabilisce infatti il criterio di imputazione del fatto alla persona giuridica, richiedendo che il reato sia commesso "nel suo interesse o a suo vantaggio" (primo comma) e, in negativo, che l'ente non risponda se i rei abbiano agito "nell'interesse esclusivo proprio o di terzi" (secondo comma).
La ratio di tali norme è individuata dagli interpreti e dalla stessa relazione al D. Lgs. 231/2001 nel fatto che l'imputazione dell'illecito alla società si fonda sul rapporto di immedesimazione organica tra i soggetti agenti e l'ente, nesso che - conformemente ai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza civile - sarebbe interrotto nel caso in cui il reo avesse agito per motivi del tutto estranei all'attività dell'ente.
Dottrina e giurisprudenza si affannano a rassicurare sul fatto che non si tratta di un'endiadi, ma che i concetti di interesse e di vantaggio sono diversi, perché il primo si riferisce all'aspetto soggettivo, e cioè alla tensione della condotta verso un risultato favorevole, e il secondo al profilo oggettivo, cioè all'utilità effettivamente conseguita (in tal senso, nella giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, D'Azzo; Cass., sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, Mussoni).
Peraltro è stato evidenziato in dottrina che l'interesse, pur così interpretato, non deve essere inteso in senso puramente soggettivo - cioè in riferimento alla rappresentazione e volontà da parte dell'agente -, ma deve avere una sua oggettività, essendo riconoscibilmente connesso alla condotta illecita (alcuni commentatori, al riguardo, hanno proposto di ancorare la relativa valutazione ai criteri della idoneità e della non equivocità degli atti compiuti, mutuandoli dall'art. 56 c.p.).
L'altro punto su cui gli interpreti convergono, sebbene la norma non lo specifichi, è che si tratti normalmente, ma non necessariamente, di un interesse o vantaggio patrimoniale; in effetti in alcune disposizioni di parte generale vi è un riferimento alla natura patrimoniale del profitto [ad es. l'art. 12 lett. b) fa riferimento al danno patrimoniale di speciale tenuità, e l'art. 13 lett. a) prevede che una delle condizioni per l'applicazione di sanzioni interdittive sia che l'ente abbia ricavato un profitto di rilevante entità], ma per alcuni reati appare difficilmente ravvisabile un interesse patrimoniale: si pensi ai delitti commessi per finalità di terrorismo o eversione (art. 25-quater).
Il punto su cui gli interpreti appaiono divergere riguarda invece il rapporto tra interesse e profitto, ed in particolare la relazione tra il primo e il secondo comma dell'art. 5.
Secondo una prima lettura, che si fonda essenzialmente sul fatto che nel primo comma si parla di interesse o profitto, e quindi su un dato letterale, i due termini sono in alternativa e quindi è sufficiente che la condotta sia commessa nell'interesse dell'ente, anche se lo stesso poi non ne abbia ricavato un profitto, ovvero il contrario, cioè che l'ente ne abbia tratto vantaggio anche se questo non era lo scopo del reo (sembrerebbe avallare tale interpretazione, anche se in termini problematici, Cass.3615/2005, cit.).
Un secondo orientamento, sostenuto in dottrina e nella relazione al decreto legislativo (§ 3.2), valorizza invece il fatto che nel secondo comma si faccia riferimento all'esclusione della responsabilità nel caso in cui il reo abbia agito per un interesse esclusivo proprio o di terzi, per argomentare nel senso di escludere la responsabilità dell'ente quando la condotta, non intenzionalmente diretta a tale scopo, ridondi a vantaggio della persona giuridica per una sorta di caso fortuito.
Il riferimento al vantaggio, dunque, sarebbe del tutto pleonastico.
Quest'ultima interpretazione potrebbe essere ulteriormente avvalorata dal fatto che la circostanza attenuante di cui all'art. 12 prevede (lettera a) che l'autore del reato abbia commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi, e che l'ente non ne abbia ricavato un vantaggio o che il vantaggio ottenuto sia minimo; non è contemplata dunque l'ipotesi in cui il reo abbia agito per un interesse esclusivo proprio, e ciò appare indicare che - anche quando la persona giuridica ne abbia conseguito un vantaggio - tale ipotesi rientri nel secondo comma dell'art. 5.
Ad ogni modo, quale che sia l'interpretazione seguita - e senza tacere che le norme sono mal coordinate e che l'alternativa è tra una interpretatio abrogans del secondo comma o del "vantaggio" quale criterio di imputazione della responsabilità - si può ritenere assodato che i due requisiti dell'interesse e del vantaggio non debbano essere compresenti; e ciò con riferimento a tutti i reati contemplati dal D. Lgs. 231/2001.


2) Il concetto di interesse o vantaggio nei delitti di omicidio o lesioni colpose con violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.


I primi commentatori dell'art. 25-septies D. Lgs. 231/2001 hanno da subito evidenziato che la disposizione dell'art. 5, primo comma, se riferita all'evento, è incompatibile con la natura della responsabilità colposa.
Se infatti, in ipotesi, la morte o le lesioni subite dal lavoratore potessero corrispondere all'interesse della società o provocare alla medesima un vantaggio, la finalizzazione della condotta in tale direzione escluderebbe la natura colposa del reato.
Per risolvere tale problema la dottrina ha proposto diverse soluzioni interpretative, che sostanzialmente possono essere raggruppate in tre filoni di pensiero: quello che sostiene l'inapplicabilità del requisito dell'interesse o del vantaggio ai delitti di cui all'art. 25-septies; quello che, viceversa, propugna l'inapplicabilità della disciplina della responsabilità degli enti a tale categoria di reati (interpretazione che è stata proposta dalla difesa); ed infine la soluzione secondo cui tale requisito dovrebbe essere riferito non all'evento, ma alla condotta del reato.

Le prime due soluzioni possono essere scartate.

La prima, infatti, otterrebbe l'effetto paradossale e perverso di applicare agli enti, riguardo a reati colposi, una disciplina più rigorosa di quella prevista per i delitti dolosi.
La seconda suggerisce esplicitamente una interpretatio abrogans della fattispecie, che non rientra nei poteri dell'interprete, il quale è sempre tenuto a dare un senso applicativo alle norme, salvo evidenziarne le incongruenze anche sotto il profilo della legittimità costituzionale.
Non rimane dunque - e questa è la strada seguita dalle prime pronunce giurisprudenziali di merito (Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Novara, 26 ottobre 2010; Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Pinerolo, 23 settembre 2010) che la terza opzione.


A) Quest'ultima, oltre ad evitare gli inconvenienti evidenziati, è sicuramente rispondente alla ratio dell'inserimento dei delitti di omicidio e lesioni colpose nel catalogo di cui al D. lgs. 231/2001.
Si deve tenere conto infatti che l'intera disciplina della responsabilità degli enti va letta nell'ottica di una funzione di prevenzione speciale che si rivolge alla logica imprenditoriale.
Il legislatore muove dal presupposto che le scelte d'impresa, anche quando si tratti di optare tra una condotta lecita e un'alternativa illecita, siano fatte da un imprenditore razionale, e quindi sulla base di un'analisi costi/benefici; si tratta dunque di rendere la condotta illecita meno conveniente di quella lecita.
Nella materia che interessa, se è ben difficilmente ipotizzabile che l'evento possa rappresentare un interesse dell'ente o apportare ad esso un vantaggio economico (e tanto meno non patrimoniale), è invece facilmente prevedibile che la persona giuridica possa adottare condotte tese a risparmiare sui costi, talora notevoli, connessi alla sicurezza sul lavoro.

La funzione dell'incolpazione dell'ente - in tale ottica - è evidentemente quella di disincentivare questo tipo di scelte illecite.
B) La difesa ha acutamente sottolineato che una tale operazione ermeneutica implica un'estensione in malam partem della disposizione, in quanto la stessa - come si è già detto - non si riferisce alla condotta, ma al reato; ciò potrebbe determinare, dunque, una violazione del principio di tassatività.
Tale obiezione, tuttavia, non appare fondata, alla luce delle considerazioni sopra svolte sui concetti di "interesse" e "vantaggio" in base alla disposizione in esame.
In proposito si deve, infatti, evidenziare che i due termini appaiono, rispettivamente, riferibili alla condotta e all'evento del reato: l'interesse, ponendosi in una prospettiva soggettiva ed ex ante, esprime infatti la direzione finalistica della condotta, mentre il vantaggio, essendo il risultato materiale dell'azione delittuosa, presuppone la verificazione dell'evento.
Se tuttavia, come si è concluso in precedenza, i due termini non devono essere necessariamente compresenti, ed in particolare è eventuale che l'ente ricavi un vantaggio, è sistematicamente accettabile che non soltanto in ordine al caso concreto, ma in linea generale - in relazione ad una determinata tipologia di reati - il profitto non sia configuratole; e che quindi si debba prendere come unico termine di riferimento la condotta e la sua direzione finalistica (considerata oggettivamente).
La particolarità del caso concreto (ma anche di altri reati: ad esempio quello doloso di cui all'art. 25-quater), è che trattandosi di un delitto non soltanto colposo, ma anche contro la persona, non vi è coincidenza tra l'elemento psicologico del reato e lo scopo perseguito dall'agente.
In altri termini, mentre per la maggior parte dei delitti compresi nel catalogo di cui al D. lgs. 231/2001 vi è normalmente corrispondenza - anche quando non sia richiesto, ai fini dell'incriminazione, un dolo specifico - tra la volontà dell'evento e l'interesse che muove l'agente, è però compatibile con il dettato normativo che, invece, questa simmetria non vi sia, e che l'interesse si riferisca ad un fine del tutto estraneo all'evento del reato.

C) In tale ottica, appare dunque corrispondente alla ratio e alla lettera della norma un'interpretazione che riferisca l'interesse perseguito dal reo alla condotta in violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro sottese ai delitti di cui agli artt. 589 e 590 C.p.
Perché però la condotta possa essere nell'interesse della persona giuridica, nel senso sopra ricostruito, si deve trattare innanzitutto di un'azione o omissione consapevole e volontaria; ciò che esclude, ad esempio, tutte le ipotesi di imperizia, ma può - a seconda del caso concreto - comprendere diverse ipotesi di negligenza, di imprudenza e anche di colpa specifica.
In secondo luogo, la volontarietà della condotta non deve derivare da una semplice sottovalutazione dei rischi o da una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma deve - oggettivamente - rivelare una tensione finalistica verso un obiettivo di risparmio di costi aziendali che può o meno essere effettivamente conseguito.
La volontarietà della condotta e il fatto che essa sia il frutto di una deliberazione con lo scopo di conseguire un profitto è infatti un'opzione illegittima, ma compatibile con la struttura del delitto colposo, perché non implica necessariamente la volizione dell'evento, neppure nella forma del dolo eventuale.
È infatti possibile in concreto - a seconda ovviamente del grado di rischio determinato dalla violazione e delle conseguenti proiezioni sulla sfera psicologica dell'agente - che si verifichino situazioni che coprono un ampio spettro dell'elemento soggettivo del reato, potendo andare dal dolo eventuale, alla colpa con previsione dell'evento, alla colpa incosciente (nel caso in cui l'agente, pur essendo mosso da un interesse, abbia commesso una violazione nella convinzione che non ne sarebbero discese conseguenze).


3) La disciplina applicabile.


L'impostazione sopra indicata - che come si è detto è quella sinora seguita dalla giurisprudenza in materia - consente di dare un senso alla disposizione dell'art. 5, primo comma, in relazione ai reati in esame, ma non risolve i problemi applicativi.
Infatti non solo la norma indicata, ma l'intera parte generale del D. lgs. 231/2001 è modellata sulla responsabilità per dolo.
Come si è già detto, il secondo comma dello stesso art. 5 esclude la responsabilità dell'ente quando gli agenti abbiano "agito nell'interesse esclusivo proprio odi terzi".
L'art. 12, lett. a), prevede una diminuzione della sanzione quando l'autore del reato abbia "commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo".
Infine, l'art. 6 lett. c) stabilisce che una delle condizioni di esonero della responsabilità dell'ente che abbia adottato efficaci modelli di organizzazione e gestione sia che il reo abbia commesso il reato ''eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e gestione ..
Tutte queste norme formano un sistema coerente se il reato presupposto è un delitto doloso (e, si può aggiungere, commissivo, perché emerge altresì da diversi passaggi letterali che il legislatore non si è posto il problema della responsabilità omissiva).
Ciascuna di esse è invece problematica quando si tratta di adattarle ai delitti di cui all'art. 25-septies.

A1) Per quanto riguarda innanzitutto il comma secondo dell'art. 5, se si può ipotizzare come si è detto che il reo agisca per un interesse dell'ente di risparmio di costi, appare invece arduo immaginare che la condotta colposa sia motivata da un interesse personale dell'agente o di terzi.
La disposizione di cui all'art. 5, secondo comma, è dunque inapplicabile ai reati in esame.
Tale conclusione, di per sé accettabile, pone evidenti problemi (che emergono con chiarezza da alcune delle prime pronunce giurisprudenziali) se la norma viene considerata simmetricamente opposta a quella di cui al primo comma, e se dunque dal mancato riconoscimento di un interesse personale del reo si fa discendere automaticamente che la condotta sia nell'interesse della persona giuridica.
Infatti, non essendo configurabile in radice l'interesse personale dell'agente, tale ragionamento porterebbe a concludere che ogni delitto di omicidio o lesioni colpose con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro sia imputabile all'ente.
Per evitare tale conclusione è necessaria un'operazione di adattamento interpretativo, ed in particolare si deve affermare - in coerenza con le conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente - che non è imputabile all'ente la condotta colposa che, pur non essendo diretta a soddisfare un interesse personale del reo, non sia neppure volontaria e finalisticamente orientata dall'interesse dell'ente.
In altri termini, se come si è detto in relazione ai delitti dolosi il primo e il secondo comma dell'art. 5, nella parte in cui si riferiscono all'interesse, sono simmetrici (e ridondanti), in merito ai delitti colposi questa simmetria viene rotta, perché è possibile proprio per la natura del criterio di imputazione - che la condotta, pur non essendo inquadrabile nella fattispecie del secondo comma, non sia riconducibile alla persona giuridica.

A2) Per quanto riguarda l'art. 6, il termine "fraudolentemente" implica una volontà di inganno che non si vede come possa essere compatibile con una responsabilità colposa.
Si pone dunque l'alternativa tra il ritenere inapplicabile l'esimente (che è l'unica prevista nel caso di reati commessi da persone in posizione apicale) o riempirla di contenuti diversi, ad esempio prevedendo che il modello di organizzazione e gestione debba essere eluso "volontariamente" dal reo.
Questo tipo di operazione ermeneutica, tra l'altro, è stato fatto dalla SA., la quale nel modello organizzativo ha previsto che lo scopo del modello fosse di impedire che le disposizioni fossero violate "fraudolentemente", e che in relazione ai delitti di cui agli artt. 589 e 590 c,p, fossero "comunque" disattese dagli agenti.

In relazione ali:art. 12 lett. a) si pone la stessa alternativa: o si esclude che la norma si possa applicare, o la si adatta arbitrariamente, ad esempio elidendo il primo termine (riferito all'interesse e alla condotta) ed applicando la riduzione della sanzione pecuniaria ai casi in cui l'ente abbia ricavato un vantaggio minimo o nullo.

B) Si tratta, come si può vedere, di operazioni ermeneutiche connotate da ampi margini di soggettività, per cui qualsiasi risultato interpretativo è talmente opinabile da essere, più che un punto di equilibrio, un equilibrismo.
Ciò si traduce, in termini giuridici, in un difetto di tassatività.
Sotto questo profilo, dunque, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla difesa non appaiono manifestamente infondate.
Alla luce delle premesse sopra svolte sul concetto di interesse dell'ente nei reati in esame, si deve ritenere che esse non siano tuttavia rilevanti nel caso specifico, ex art. 23, secondo comma, legge 11 marzo 1953, n. 87.

*


4) L'interesse dell'ente nel caso specifico.


La condotta, infatti, non fu commessa nell'interesse della Sa. s.p.a., nel senso sopra definito, e non è dunque imputabile a tale società.
La direzione finalistica della condotta è stata infatti individuata dal Pubblico Ministero, nell'imputazione formulata al capo B)"nel fatto che, così procedendo, riducevano i tempi - e conseguentemente i costi - della fermata dell'impianto".
Tale impostazione discende dai rilievi effettuati nella consulenza dell'ingegner Gianino e attiene alla questione, più volte esaminata, della bonifica con vapore.
Si è detto infatti che il consulente, escluse le alternative prospettate da Davide Murg., concluse che la modifica della procedura fosse stata determinata dalla volontà di ridurre i tempi di fermata dell'impianto MHC1 e quindi della ripresa della produzione, perché l'accumulatore HD 106, se sottoposto a lavaggio con vapore, sarebbe stato inaccessibile per diverso tempo a causa della temperatura elevata.

A) La difesa, da subito, ha contestato tale impostazione, rilevando in particolare che un tale interesse non sarebbe configurabile in radice, in quanto l'accumulatore HD 106 - come risulta dal cronogramma acquisito - è al di fuori del cosiddetto "percorso critico", cioè delle attività il cui tempestivo compimento condiziona la possibilità di riavviare l'impianto.
Tale considerazione non ha tuttavia valenza decisiva, perché dalle dichiarazioni dei tecnici Sa. riportate nella parte I emerge comunque che la prassi era quella di non compiere operazioni che avrebbero determinato tempi di fermata non giustificati, ciò che potrebbe rientrare in una politica generale dell'impresa.
Tuttavia, come si è visto nella parte I (§ 1.2.3), non appare possibile nel caso specifico affermare con certezza che gli operatori avessero deciso di omettere la bonifica con vapore; e ciò escluderebbe la sussistenza del!'interesse sotto il profilo probatorio.

B) La considerazione che appare risolutiva è però legata all'interpretazione dell'art. 5, primo comma, D. lgs. 231/2001.
Se infatti, come si è detto, si deve aderire alla lettura secondo cui il requisito dell'interesse, in relazione ai delitti di cui agli artt. 589 e 590 c.p., deve essere riferito alla condotta del reo e non all'evento rimane però il fatto che si tratta di un reato di evento.
Da ciò deriva che anche nella valutazione dell'imputabilità del fatto all'ente il nesso causale funge da criterio selettivo.
Di conseguenza, l'interesse non può essere connesso ad una qualsiasi condotta dell'agente, ma deve determinare la direzione finalistica della condotta colposa che ha cagionato l'evento; cioè, nel caso specifico, delle condotte contestate al capo A), punti 2), 3), 5),6) e 7).

L'omessa bonifica con vapore è invece un antecedente delle condotte colpose, del tutto irrilevante da un punto di vista causale.
Infatti, come la difesa ha ripetutamente ed efficacemente sottolineato nel corso della discussione e nelle memorie depositate, e come si è ampiamente visto nella parte introduttiva (§ 1.2.4), lo scopo di tale passaggio era quello di eliminare residui di idrocarburi che avrebbero potuto determinare rischi di incendi o esplosioni, e non di rendere l'atmosfera respirabile.
La sua omissione, dunque, sarebbe causalmente rilevante se si fosse verificato quel tipo di rischio, ma è del tutto indifferente rispetto ad un rischio di asfissia.
Tale impostazione è stata condivisa, nella memoria di replica, anche dal Pubblico Ministero, il quale - dopo aver ripetutamente evidenziato che il lavaggio con vapore è operazione del tutto distinta dalla ventilazione - ha sottolineato: ''Pertanto, nel caso concreto. la condizione di pericolo non era certo rappresentata in sé dal non aver effettuato la bonifica con il vapore; è dunque non pertinente e fuorviarne il modo in cui è stato interpretato dalla difesa questo passaggio argomentativo dell'accusa: l'unica condizione di pericolo era rappresentata dal flussaggio con Azoto che nelle procedure codificate era previsto che fosse effettuato con passo d'uomo ancora chiuso, così come previsto per la bonifica con vapore. Il fatto che il passo d'uomo fosse stato aperto e lasciato aperto, in assenza di diversa indicazione e informazione, stava ingannevolmente ad indicare che sia il trattamento con Azoto che il trattamento con vapore fossero stati già effettuati ".
Questa considerazione è stata utilizzata dal P.M. per respingere le argomentazioni difensive in relazione alla responsabilità degli imputati, sulla base del rilievo che la omissione della bonifica con vapore non rientra tra gli addebiti di colpa di cui al capo A).
Ma proprio per questa ragione, come si è anticipato, la decisione di non effettuare la bonifica con vapore, anche se fosse dipesa da valutazioni di risparmio economico, non potrebbe consentire l'imputazione dell'illecito alla società, in base alla disposizione di cui all'art. 5, primo comma, D. Lgs. 231/2001, in quanto tale condotta non determinò l'evento e non è, in sé, rimproverabile.

C) Sul punto appaiono necessarie tre ulteriori puntualizzazioni.
C1) In primo luogo, si deve escludere che l'omessa bonifica con vapore possa costituire un antecedente causale delle condotte colpose, comunque rilevante nella produzione dell'evento.
Infatti, come si è ripetuto più volte, le condotte colpose furono innescate da una deviazione dalle procedure codificate nelle Istruzioni di fermata e bonifica; ma tale scostamento non si identifica nell'aver saltato la fase del lavaggio con vapore, ma nell'aver inserito azoto con l'accesso dell'accumulatore aperto.
E come si è visto quest'ultima condotta non è, a sua volta, causalmente discendente dalla decisione di non bonificare con vapore, perché fu determinata da un guasto meccanico e dalla conseguente necessità di aprire l'accumulatore HD 106.
La relazione eziologica, semmai, potrebbe essere inversa: gli operatori, una volta verificato il contenuto del serbatoio e inertizzati con l'azoto i residui idrocarburici in esso presenti, potrebbero aver ritenuto superfluo un ulteriore passaggio (si è visto, infatti, che fino alla conclusione delle operazioni di ciecatura, quindi nei primi tre giorni di flussaggio di azoto, la bonifica con vapore non sarebbe stata possibile).

C2) In secondo luogo, la modifica della procedura fu deliberata da persone diverse dagli imputati.
Considerata la struttura della disposizione - che stabilisce un nesso tra la responsabilità dell'ente e quella del reo - non appare possibile che l'interesse sia ricondotto a persone diverse dall'autore della condotta colposa, perché questo significherebbe che la condotta di quest'ultimo non è finalisticamente orientata.

C3) Infine, le condotte colpose non erano certo una derivazione necessaria della modificazione delle procedure di bonifica.
La rimproverabilità a titolo di colpa, infatti, discende proprio dall'omessa adozione delle cautele che avrebbero dovuto seguire a tale modificazione, che non sarebbe stata colpevole, né avrebbe causato l'evento, se fossero state fornite adeguate informazioni alle imprese appaltatrici, se fosse stata adeguata la valutazione dei rischi e se fossero state adottate le necessarie segnalazioni di pericolo, così come si è visto nella parte II.

D) Si deve dunque conclusivamente ritenere, per i convergenti ordini di argomentazioni sopra sviluppati, che l'interesse indicato nell'imputazione di cui al capo B) non sia correlatole al reato e, dunque, non consenta di ascrivere l'illecito alla Sa. s.p.a.
Per completezza - per quanto ciò vada oltre le valutazioni imposte dal principio di correlazione tra l'accusa e il fatto - si deve comunque rilevare che le condotte colpose ritenute sussistenti non sono riconducibili ad una scelta di carattere economico della società, quanto piuttosto a carenze nell'impostazione di alcuni profili di un sistema di gestione della sicurezza complessivamente adeguato e non certo impostato in un'ottica di risparmio.
Pertanto, ai sensi dell'art. 66 D. Lgs. 231/2001, la responsabilità dell'ente deve essere esclusa con l'unica formula prevista dal legislatore, cioè quella dell'insussistenza del fatto, con specificazione della causa nel dispositivo della sentenza.
Tale conclusione assorbe le questioni sollevate in merito all'idoneità del modello organizzativo.

***

PARTE IV

CIRCOSTANZE E DETERMINAZIONE DELLA PENA ; LA RESPONSABILITA' CIVILE DA REATO


1) Circostanze e determinazione della pena.
È stato sottolineato che la responsabilità per omicidio colposo non può essere differenziata sulla base della gravità dell'evento, perché l'evento è tipizzato dalla norma incriminatrice e consiste nella morte di una persona, cioè la più grave lesione che non solo l'ordinamento giuridico, ma la coscienza umana può concepire; il trattamento sanzionatorio, dunque, dovrebbe essere differenziato sulla base di altri parametri, ed in particolare di quelli che si riferiscono al grado di rimproverabilità della condotta.
Tuttavia, e nella consapevolezza che la pluralità di vittime è a sua volta una evenienza tipizzata, in un caso del genere l'evento è di tale enormità da permeare di sé l'intera vicenda e non può certo essere indifferente al trattamento sanzionatorio: basti pensare, al riguardo, all'agghiacciante racconto di F. su Mu. che scivolava dentro l'accumulatore mentre egli cercava disperatamente di trattenerlo, o alla generosità che spinse Me. a sacrificare la propria vita per cercare di salvare quelle dei compagni.
Tali considerazioni - a dispetto di una personale convinzione del fatto che il catalogo delle pene, che rappresenta uno dei punti più critici del diritto penale moderno, rivela in modo particolare la propria inadeguatezza rispetto ai reati colposi, per i quali appare del tutto incongrua la punizione con una sanzione detentiva - impongono uno scostamento significativo dai minimi edittali.
Gli altri parametri presi in considerazione dall'art. 133 c.p. sono tutti favorevoli agli imputati.
Si deve tenere conto, innanzitutto, che il fatto avvenne nell'ambito di un'organizzazione che, come emerge dalla esposizione che precede, è enormemente complessa; fatto che di per sé è intrinsecamente pericoloso, e rende meno riprovevoli manchevolezze che, come si è ampiamente visto, non discesero da condotte inosservanti volontarie, né tanto meno sono imputabili ad una volontà deliberata di risparmiare sui costi della sicurezza.
Quanto al grado della colpa, si deve escludere che sia configurabile una colpa cosciente, e non può non darsi peso al concorso colposo di So..
La condotta di vita antecedente e successiva al reato e il comportamento processuale degli imputati sono stati impeccabili: essi personalmente, e le intere organizzazioni Sa. e C.M.S., hanno pienamente e lealmente collaborato all'accertamento dei fatti, e la prima ha anche commissionato un'inchiesta interna per ricostruire la dinamica dell'incidente, condotta che sottintende la volontà di far emergere eventuali carenze e di porvi rimedio ed è dunque da valutare positivamente.
Non si può sottovalutare, ancora, il fatto che il danno subito dai familiari delle vittime sia stato integralmente risarcito dalla Sa., anche se da ciò non può discendere il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6) c.p., in quanto la stessa ha natura soggettiva e non può quindi essere applicata a persone diverse dall'autore del risarcimento (cfr. ad es. Cass., sez. IL 24 marzo 2010, n. 12366, Sola; Cass., sez. V, 25 febbraio 2000, n. 996, Fagiuoli).
Devono essere dunque riconosciute agli imputati circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, e in una valutazione sintetica degli elementi di cui all'art. 133 c.p. - tenuto conto del fatto che l'entità della pena è determinata dalla gravità dell'evento, per cui le posizioni individuali non possono essere differenziate in modo significativo - si può ritenere adeguata la pena di due anni di reclusione ciascuno, così determinata:

  • pena base due anni e sei mesi di reclusione;

  • pena ridotta ex art. 62-bis c.p. ad un anno e dieci mesi;

  • pena aumentata ex art. 589, ultimo comma, c.p. - norma che disciplina il concorso formale nell'omicidio colposo, e non è dunque una circostanza bilanciabile - di complessivi un anno e due mesi (di cui quattro mesi per
    l'omicidio di So., che è indubbiamente l'evento meno rimproverabile), per un totale di tre anni di reclusione;

  • pena ridotta per la scelta processuale.

Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.
In considerazione della personalità degli agenti e della natura colposa del reato, devono essere riconosciuti i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna.

***



2) La responsabilità civile.


I rei devono essere, infine, condannati al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese processuali - liquidate in dispositivo - in favore delle parti civili costituite, FIOM Sardegna e CGIL Sardegna.
Come già precisato nelle ordinanze emesse nel corso dell'udienza preliminare, si devono condividere interamente i principi enunciati dalla recente sentenza della Cass., sez. IV, 18 gennaio 2010, n. 22558, Ferraro, la quale - con un orientamento innovativo - ha riconosciuto la legittimazione delle associazioni sindacali a costituirsi parti civili nei procedimenti penali per delitti di omicidio o lesioni colpose commessi con violazione della normativa antinfortunistica, a prescindere dalla iscrizione dei lavoratori colpiti a quella associazione sindacale.
Infatti, in seguito ad un'ampia ricostruzione dell'impianto normativo, la Corte ha riconosciuto che nel diritto del lavoro moderno viene riconosciuto alle associazioni sindacali un ruolo di "soggetti istituzionali nella garanzia della sicurezza sul lavoro"; compito che si è rafforzato e consolidato nel testo unico, ad esempio nelle disposizioni che prevedono tre diverse tipologie di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, in quelle che prevedono la presenza sindacale nella Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro costituita ai sensi dell'art. 2 presso il Ministero del lavoro, o ancora in quelle che prevedono un potere di interpello al Ministero del lavoro da parte delle stesse organizzazioni sindacali.
A tale ruolo attivo attribuito alle organizzazioni sindacali può corrispondere dunque, in caso di incidente sul lavoro, una "...innegabile ripercussione sull'immagine e la reputazione delle organizzazioni sindacali inducendo nei lavoratori un effetto di sostanziale sfiducia nelle associazioni di categoria e nella loro idoneità ad incidere con efficacia pratica in materia di sicurezza ".
Il presupposto di tale tutela risarcitoria è, coerentemente, che le funzioni in materia di sicurezza sul lavoro vengano concretamente svolte dalla associazione sindacale costituita parte civile nell'impresa nel cui ambito si è verificato l'infortunio: soltanto a tali condizioni, infatti, si può "...ritenere ammissibile, senza il predetto limite della iscrizione, la costituzione diparte civile dei sindacati nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commesse con violazione della normativa antinfortunistica, dovendosi ritenere che l'inosservanza di tale normativa nell'ambito dell'ambiente di lavoro possa cagionare un autonomo e diretto danno patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità all'azione dagli stessi svolta" (così, in motivazione, la sentenza citata).
Sulla base di tali presupposti, appare senz'altro riconoscibile la sussistenza di un danno risarcibile in capo alla CGIL, organizzazione direttamente rappresentata in ambito Sa.; non vi è dubbio infatti che la gravità dell'evento sia tale di per sé ad incidere sul prestigio di chi è deputato a garantire la sicurezza sul lavoro.
Appare invece necessaria qualche ulteriore precisazione (anche alla luce delle ordinanze contrastanti emesse nel corso dell'udienza preliminare) in merito alla posizione della FIOM.
Quest'ultima, infatti, è un'organizzazione sindacale di categoria, e rappresenta in particolare i lavoratori metalmeccanici, cioè una categoria diversa da quella cui appartengono i dipendenti della Sa. s.p.a.; a prima vista, dunque, la legittimazione alla costituzione di parte civile sarebbe da escludere, non potendosi configurare - per il difetto di rappresentanza interno all'impresa - quel danno di immagine dal quale, come si è visto, discende il diritto al risarcimento.
Tuttavia la situazione è più complessa, perché, come efficacemente ha rilevato il difensore della parte civile, e come emerge dalla documentazione prodotta all'atto del rinnovo della costituzione, la FIOM è invece rappresentata in ambito C.M.S. e, più in generale, nelle imprese che eseguono lavori di manutenzione alla Sa., che di solito appartengono al settore metalmeccanico.
La conseguenza più immediata di tale fatto è che la FIOM è senz'altro legittimata alla costituzione di parte civile nei confronti di Le., legale rappresentante della C.M.S.; ma tale legittimazione deve essere riconosciuta anche nei confronti della Sa..
Si deve considerare infatti che la C.M.S. (e le società che formano il consorzio) sono imprese che eseguono abitualmente lavori per la Sa.: esse infatti sono inserite nell'elenco delle imprese appaltatrici allegato al DUVRI Master, e risulta dalla documentazione di cantiere che contemporaneamente all'appalto relativo all'impianto MCH1 la C.M.S. aveva in corso diversi altri appalti ed impiegava alla Sa. decine di operai.
Inoltre quello che appare più rilevante è che, trattandosi di lavori in appalto, il sistema delle responsabilità antinfortunistiche è suddiviso tra l'appaltatore e la stazione appaltante; non si tratta però di due sistemi di prevenzione distinti e separati, ma di un unico sistema integrato, per cui non appare possibile - a fini non formali ma sostanziali, cioè per verificare se il sindacato abbia subito un danno di immagine distinguere meccanicamente l'impresa nella quale l'organizzazione sindacale è rappresentata da quella in cui non lo è, trattandosi piuttosto di un concorso di responsabilità, che ai sensi dell'art. 2055 cc. impegna la responsabilità solidale degli imputati.
In concreto, la gravità dell'incidente sul lavoro, sia sul piano della colpa, sia soprattutto su quello delle conseguenze, è indubbiamente tale da incidere sensibilmente sul prestigio delle parti civili nel senso sopra riferito; considerata la risonanza nazionale dell'accaduto, il danno può essere liquidato, secondo equità, in 25.000 euro per ciascuna delle parti civili.

 

P.Q.M.


IL GIUDICE

Visti gli art. 62-bis, 69 c.p., 442, 533 e 535 c.p.p., dichiara Dario Sc., Guido G. e Francesco Le. colpevoli del delitto ascritto al capo A), limitatamente alle condotte colpose individuate ai punti 2), 3), 5), 6), 7), 9) e 10), con attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, e con la diminuente per il rito li condanna alla pena di due anni di reclusione ciascuno, nonché al pagamento delle spese processuali.

Visti gli art!. 163 e 175 c.p., concede a Sc., a G. e a Le. i benefici della sospensione condizionale della pena per un periodo di cinque anni e della non menzione della condanna.
Visti gli art. 538 e ss. c.p.p., condanna Sc., G. e Le. al risarcimento dei danni in favore delle parti civili CGIL Regionale della Sardegna e FIOM Sardegna, determinandone l'ammontare in euro 25.000 per ciascuna parte civile, nonché alla rifusione alle stesse delle spese processuali, che liquida per ciascuna parte civile in euro 2.481 per diritti e onorari, oltre 12,5 % per spese generali, IVA e CPA nella misura di legge.


Visto l'art. 530 c.p.p., assolve Antioco Mario Gr. e Antonello At. dal delitto loro ascritto al capo A) per non aver commesso il fatto.
Visti gli artt. 5 e 66 D. lgs. 231/2001, esclude la responsabilità della SA. s.p.a. in ordine all'illecito amministrativo contestato al capo B) perché il fatto non sussiste, in quanto il reato non fu commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente.
Visto l'art. 262 c.p.p., dispone la restituzione di quanto ancora in sequestro.
Visto l'art. 544 c.p.p, indica il termine di sessanta giorni per il deposito della sentenza.

Cagliari, 4 luglio 20I1.

IL GIUDICE


DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 13 LUGLIO 2011