Tribunale di Milano, Sez. Lav., 15 novembre 2012 - Danno alla salute: natura professionale della patologia


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE LAVORO


Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. FABRIZIO SCARZELLA ha pronunciato la seguente

SENTENZA


nella causa iscritta al n. r.g. 8942/2010 promossa da:

MA.DO., con il patrocinio dell'avv. VE.BA. e dell'avv. (...), elettivamente domiciliato in VIA (...), 31 20146 MILANO presso il difensore avv. VE.BA.

RICORRENTE

contro

FONDAZIONE (...), con il patrocinio dell'avv. UB.MA. e dell'avv. BO.SI. PIAZZA (...) 20121 MILANO;, elettivamente domiciliato in VIA (...) 20123 MILANO presso il difensore avv. UB.MA.

RESISTENTE

 

FattoDiritto



La domanda avanzata da Ma.Do. va solo in parte accolta.

In via preliminare di merito va innanzitutto sottolineato come l'art. 2087 c.c., riguardando un'ipotesi di illecito contrattuale e non già di responsabilità oggettiva, ponga a carico del lavoratore, che lamenti un danno alla salute seguito alla asserita violazione, da parte del datore di lavoro, degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, l'onere di provare il dolo o almeno la colpa di quest'ultimo nella mancata adozione di tale misure, l'esistenza di un evento dannoso e il nesso causale tra l'uno e l'altro elemento (v. Cass. nn. 1844/1992; 11120/1995). Solo nel caso tale prova venga fornita il datore di lavoro, per andare esente da ogni responsabilità in ordine all'occorso infortunio, dovrà dimostrare, ex. art. 1218 c.c. - trattandosi di una fattispecie di responsabilità contrattuale discendente dalle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro - sia di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno alla salute dei propri lavoratori (v. Cass. n. 12661/1995), sia l'estraneità di questo alla inosservanza degli obblighi a tal fine posti a suo carico, anche ai sensi dell'art. 32 Cost.

In particolare la responsabilità civile del datore di lavoro resta in genere esclusa, per assenza del nesso causale, soltanto nei casi di dolo del dipendente e di rischio generato da attività estranee allo svolgimento dell'attività lavorativa. Per quanto concerne l'onere probatorio va in particolare evidenziato che "al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro e il nesso causale fra questi due elementi. Quando il lavoratore abbia provato tali circostanze grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno" (16881/2006) e ancora "la responsabilità conseguente alla violazione dell'art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale e, pertanto, applicandosi l'art. 1218 cod. civ., una volta provato l'inadempimento consistente nell'inesatta - esecuzione della prestazione di sicurezza nonché la correlazione fra tale inadempimento ed il danno, la prova che tutto era stato approntato ai fini dell'osservanza del precetto del suddetto art. 2087 cod. civ. e che gli esiti dannosi erano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile deve essere fornita dal datore di lavoro" (10441/2007); "il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 cod. civ., il superamento della quale comporta la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge" (16003/2007).

Sempre in via preliminare va poi evidenziato, quanto alla nozione e alla configurabilità nel nostro ordinamento giuridico del danno non patrimoniale, che per recente e costante autorevole giurisprudenza: "il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, anche in assenza di reato, sempre che si tratti di interessi presi in considerazione negli specifici casi determinati dalla legge o in via di interpretazione da parte del Giudice, chiamato ad individuarne la sussistenza alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona. Partendo da tale premessa, le varie definizioni di danno invalse nella pratica od eventualmente contenute nella normativa vigente (biologico, morale, perdita del rapporto parentale, estetico, ...) non costituiscono distinte fattispecie, ma descrivono un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva non accompagnato da riflessi di ordine economico. In effetti, nell'ampia categoria di danno non patrimoniale (da responsabilità contrattuale o extracontrattuale), il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo denominati, risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno, delle quali comunque il giudice deve tener conto al fine di poter addivenire, con un procedimento logico e corretto, alla determinazione quantitativa del danno in concreto riconoscibile, in modo da assicurare un risarcimento integrale. Il danno esistenziale rientra, al pari degli altri citati pregiudizi, nella fattispecie generale del danno non patrimoniale, ed è da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Il pregiudizio di tipo esistenziale è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno; se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. La gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve infatti essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.). La sussistenza del danno esistenziale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

Quanto al danno morale è principio ormai acquisito nella giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., tra le più recenti, Cass. 19 ottobre 2007 n. 22020) che lo stesso "consegue alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito e, per essere risarcito, non è soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della stessa, ove si consideri che il riconoscimento, ivi contenuto, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale". Ciò nonostante la formula "danno morale" non individua in ogni caso una autonoma sottocategoria di danno ma descrive in genere, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata" (v. Cass. 29832/2008 e sez. un. 26973/2008).

Nel merito risulta attendibilmente provata la responsabilità della resistente, ex art. 2087 c.c., nella concausazione della patologia sofferta dalla ricorrente visto che quest'ultima, come addetta a mansioni di guardarobiera, si occupava, negli anni di causa, fra le altre mansioni, di trasportare nel guardaroba, attraverso la conduzione di appositi carrelli, la biancheria degli ospiti al fine di effettuarne il lavaggio, la stiratura e il confezionamento in pacchetti e, per un periodo anche in via esclusiva, della piegatura degli indumenti anche attraverso il loro posizionamento nel verso corretto (v. dich. Ia., Bo., testi attendibili per essere a diretta conoscenza delle circostanze riferite).

Secondo gli accertamenti peritali svolti in causa l'attività cui veniva adibita la ricorrente dalla resistente, avuto particolare riguardo alla mansione di "piegatura abiti, protrattasi dal 1982 sino al 2008, non può ritenersi priva di efficienza causale" nella patologia sofferta dalla St. ancorché quest'ultima fosse "intrinsecamente predisposta all'insorgenza di una tenosinovite di De. (sesso, età, concorrenza di elementi osteo-artrosici dx)".

"Le mansioni di lavoro svolte dalla ricorrente, ed in particolare correlate ai moti reiterati di flesso-estensione del polso atti a favorire la piegatura degli abiti sono da ritenersi fattore concausale idoneo, unitamente agli elementi predisponenti, a cagionare l'affezione poi diagnostica e, soprattutto, a cronicizzarla con il tempo..."; sia il morbo di De.Qu. a carico del polso di destra sia quello a carico del polso di sinistra sono riferibili, quanto meno in via concausale, alle mansioni svolte, in particolare di piegatura della biancheria con conseguente "incidenza globale sull'integrità psico-fisica della St." in misura non superiore al 5% (v. ctu).

Non paiono sul punto dirimenti le osservazioni sollevate dal ctp di parte ricorrente tenuto conto di quanto esaustivamente e condivisibilmente esposto dal ctu nelle proprie repliche, avuto particolare riguardo all'ampia discussione tenutasi nel contraddittorio delle parti sulla valutazione dei postumi, alle approfondite valutazioni critiche svolte dal tecnico sulla scheda di valutazione del rischio prodotto dalla resistente (v. pag. 21-22 della ctu), alla natura polifattoriale della patologia in esame anche alla luce della circostanza che, in caso contrario, tutti gli eventuali addetti presso la resistente ad attività di guardarobiera con identiche modalità spazio-temporali avrebbero dovuto sviluppare la medesima patologia, alla avvenuta valutazione del ctu dei postumi presenti in entrambi i distretti, alla mancata deduzione, in ricorso, di eventuali sofferenze psiche della ricorrente direttamente connesse con l'evento in esame, alla mancata deduzioni, da parte del ctp, di argomenti tecnici per supportare la valutazione quantitativa dei postumi da lui eseguita nella propria relazione, alla pacifica diversità dei parametri valutativi utilizzati da Inail rispetto a quelli impiegati in ambito di responsabilità civile del datore di lavoro.

Non paiono neppure dirimenti le considerazioni svolte dalla resistente visto che pacificamente la ricorrente, negli anni di causa, era anche addetta, per un periodo anche in via esclusiva, ad attività di piegatura, che la natura concausale delle attività lavorative svolte dalla ricorrente negli anni di causa implica comunque una loro efficienza causale nella verificazione della patologia in esame e che la valutazione medico-legale effettuata dal ctu tiene già conto, nella quantificazione dei postumi, di tale circostanza. Non pare comunque dirimente che la ricorrente, nel corso della sua prolungata assenza dal lavoro, non abbia riferito variazioni di rilievo della sintomatologia in oggetto trattandosi comunque, nel caso di specie, di postumi invalidanti ormai stabilizzati. Per quanto concerne la contestata responsabilità datoriale, rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c., va rilevato che la resistente, nonostante le risultanze dei numerosi certificati e accertamenti medici relativi alle condizioni fisiche della ricorrente negli anni di causa, avuto particolare riguardo anche alla diagnosti di "morbo di De.Qu." stilata dalla clinica del lavoro Devoto nel 2004, continuava ad adibire la St. a mansioni potenzialmente dannose per la sua incolumità fisica, come accertato dalla ctu in atti o, comunque, a non adottare misure idonee ad evitare un peggioramento o una cronicizzazione della patologia dalla stessa sofferta.

La stessa ctp di parte resistente non contesta del resto la natura concausale della mansione lavorativa svolta. Va in ogni caso evidenziato, a tal fine, l'avvenuto riconoscimento della natura professionale della patologia in esame da parte del Tribunale di Milano.

In base a quanto fin qui esposto e a quanto previsto dalle vigenti tabelle elaborate dal Tribunale di Milano (aggiornate al 2011) e alla data di nascita della ricorrente (31.7.1954), tenuto conto della natura ed entità delle lesioni e dei postumi invalidanti permanenti riportati, pare equo e congruo riconoscere il diritto della St. a vedersi corrispondere dalla resistente, a titolo di danno biologico, la somma di Euro 6.143,00, aumentato a Euro 8.000,00 a titolo di danno morale, tenuto anche conto del lungo decorso temporale della patologia in oggetto, dei numerosi interventi e visite mediche effettuate dalla ricorrente nel periodo oggetto di causa e dei relativi ed evidenti disagi psico-fisici patiti; sull'importo in oggetto vanno corrisposti gli interessi legali, dalla data della presente pronuncia al saldo, sull'importo annualmente rivalutato, ex. art. 429 c.p.c.

Dall'importo in oggetto andrà scomputato quanto eventualmente corrisposto da Inail alla ricorrente, per la medesima patologia, a titolo di danno biologico permanente.

Quanto fin qui esposto pare assorbente rispetto all'esame delle restanti istanze ed eccezioni delle parti tenuto comunque conto della mancata specifica deduzione e dimostrazione, da parte della ricorrente, di ulteriori danni non patrimoniali a patrimoniali eziologicamente connessi con l'operato della resistente.

Compensi professionali come da dispositivo, secondo il principio di soccombenza, tenuto conto della natura, del valore e della durata della causa.

 

P.Q.M.


Il Tribunale di Vigevano, definitivamente pronunciando,

1) dichiara Fondazione (...) in parte responsabile del danno biologico riportato dalla ricorrente;

2) condanna Fondazione (...), in persona del legale rappresentante pro-tempore, a risarcire alla ricorrente Euro 8.000,00, oltre interessi legali dalla presente pronuncia al saldo sulla somma annualmente rivalutata;

3) condanna Fondazione (...), in persona del legale rappresentante pro-tempore, a rimborsare alla ricorrente i compensi professionali liquidati in complessivi Euro 2.700,00, oltre accessori di legge.

Sentenza esecutiva.