Categoria: Cassazione penale
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Reato di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dal verificarsi di un infortunio - Il dolo del reato in esame consiste nella consapevolezza della omissione da parte di chi ha l'obbligo giuridico di collocare e di tenere in efficienza gli impianti di sicurezza, oltre che nella rappresentazione del pericolo per la sicurezza dell'ambiente di lavoro e per la incolumità delle persone.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FABBRI Gianvittore - Presidente -
Dott. CHIEFFI Severo - Consigliere -
Dott. GIORDANO Umberto - Consigliere -
Dott. GIRONI Emilio Giovann - Consigliere -
Dott. CORRADINI Grazia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
Sentenza



Fatto

Con sentenza in data 28.2.2006 la Corte di Appello di Venezia ha confermato in punto di responsabilità la sentenza 19.7.2002 del GIP del Tribunale di Venezia che aveva dichiarato V.P., M.L. e M.F. colpevoli del reato di cui all'art. 110 c.p. e art. 437 c.p., commi 1 e 2, ma ha ridotto la pena inflitta a ciascuno degli imputati, ferme restando le attenuanti generiche prevalenti sulla aggravante contestate e la diminuzione per la scelta del rito abbreviato, a mesi due e giorni 20 di reclusione, tenuto conto che tutte le numerose parti civili (Comune di Venezia, Provincia di Venezia, Regione Veneto, Ministero dell'Ambiente e Medicina Democratica), a cui favore erano stati liquidati in primo grado consistenti risarcimenti dei danni, erano state risarcite per conto degli imputati ed avevano revocato le relative costituzioni.
Gli imputati dovevano rispondere del reato di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dal fatto che era derivato un infortunio, poichè, la V. quale responsabile della Gestione Intermedi dello stabilimento Enichem di Porto Marghera, il M.L. quale responsabile della Gestione Acetici dello stesso stabilimento ed il M.F. quale Tecnologo del Gruppo dello stabilimento, omettevano di collocare o fare collocare apparecchi e segnali destinati a prevenire disastri e infortuni sia all'interno che all'esterno dello stabilimento, in particolare alla fiaccola BT 101/3 presso i reparti AC1 e AM4.
La contestazione faceva riferimento al fatto accaduto il 4 maggio 1999 al camino - fiaccola BT 101/3, alto 37 metri, collocato presso il reparto AC 1 e destinato funzionalmente alla combustione della ammoniaca proveniente dal reparto AM 4 assieme al metano di supporto necessario per la trasformazione del gas tossico NH3 nei suoi prodotti di combustione, asseritamente quasi innocui, da inviare in atmosfera.
La fiaccola era stata consegnata, sempre secondo la contestazione, al termine dei lavori di ristrutturazione nei primi giorni del mese di ottobre 1995 dall'Ing. M.L. e dall'Ing. M.F. al caporeparto S., il quale, accortosi subito dopo la consegna che il sistema automatico non funzionava, verificando delle anomalie di aperture improvvise della valvola di integrazione metano denominata PIC/V/101/3, avrebbe avvisato delle anomalie i tre imputati i quali avrebbero assicurato un pronto intervento ripristinatorio dell'automatismo che invece non era stato posto in essere, neppure negli anni successivi e nonostante che i tre ingegneri fossero stati messi al corrente delle anomalie anche a seguito della nota del 4.12.1996 costituente la chiusura della commessa del seguente tenore: "Permangono dubbi sulla corretta risposta del sensore di portata a dispersione termica FSH 101/3 montato ad AM4".
In attesa della messa a norma dell'automatismo, lo S., di sua iniziativa, aveva predisposto un intervento in caso di emergenza, annotando in data 20 ottobre 1995 sull'apposito libro di consegne del reparto AC1 la provvisoria procedura, dandone avviso anche al caporeparto AM 4/6.
Verso le 21,50 del 4 maggio 1999, in occasione dell'abbattersi di un fulmine in prossimità del reparto AM4 che aveva fatto mancare la tensione agli strumenti elettronici di controllo DCS dell'impianto AM4, evento per cui il sistema di sicurezza avrebbe previsto il blocco dell'impianto stesso con l'invio a fiaccola dell'intero flusso dell'ammoniaca insieme al metano di supporto della combustione, a causa della mancata attivazione e del mancato funzionamento del sistema automatico di attivazione immediata, pur proposto dall'azienda e riportato nelle relazioni e negli studi di sicurezza dello stabilimento, che risultava non funzionante dal 1995, solo dopo circa quindici minuti poteva essere attivata la procedura manuale di intervento per i casi di emergenza, ma nel frattempo era stata immessa in atmosfera una quantità di gas ammoniaca pari a circa mezza tonnellata, secondo la stima dell'azienda, mentre al momento dell'entrata in funzione del sistema manuale erano finite in torcia circa dieci tonnellate di ammoniaca; ciò determinava un incidente non comunicato immediatamente nè al personale interno dello stabilimento nè alla popolazione residente nelle vicinanze, nè alle autorità proposte, in conseguenza del quale derivavano bruciori agli occhi e disturbi respiratori ad un numero imprecisato di persone che si trovavano a Malcontenta e cioè nel primo centro abitato sito a circa 2,5 chilometri a sud rispetto al camino BT 101/3 lungo la direzione del vento ed a quelle residenti lungo la statale Romea ed in particolare a P.U., P.P. e G. E. che avevano denunciato il fatto.
Secondo la ricostruzione della Corte territoriale, operata sulla base della perizia d'ufficio eseguita per incarico del GIP dall'Ing. Sc., il ritardo verificatosi nell'afflusso di metano di supporto alla combustione all'ammoniaca, cagionato dai tempi tecnici necessari per l'espletamento della procedura manuale, aveva determinato la fuoruscita di ammoniaca incombusta dal camino della torcia BT 101/3 per un intervallo di tempo stimato dai 15 ai 20 minuti e per una quantità massima di 1.638 Kg con la immissione di sostanze azotate rilevabili all'olfatto in località Malcontenta per un tempo stimabile ugualmente fra i 15 ed i 20 minuti.
La Corte territoriale ha ritenuto che il fatto fosse stato correttamente qualificato come ipotesi di reato ai sensi dell'art. 437 c.p. aggravato dall'infortunio poichè si era trattato di un fatto verificatosi in conseguenza della omissione dell'approntamento di strumenti nel luogo di lavoro, dipeso da lacune nei sistemi di sicurezza previsti per l'esercizio di una attività lavorativa e quindi collegabile alla omissione contemplata nella norma, che aveva determinato un pericolo per la pubblica incolumità e da cui era derivato un infortunio, secondo la ipotesi alternativa prevista dal capoverso dell'art. 437 c.p.p., che, se pure non aveva assunto dimensioni disastrose, peraltro aveva determinato a un numero imprecisato di persone affezioni patologiche di breve durata, non rilevando poi che l'infortunio avesse interessato persone estranee all'ambiente lavorativo poichè il capoverso della norma citata non ripeteva la formula "sul lavoro" così significando che poteva trattarsi anche di un infortunio riguardante persone estranee allo stabilimento.
Quanto alle cause dell'infortunio, la Corte ha rilevato che i sistemi automatico e semiautomatico (cioè automatico da quadro) di apertura delle valvole erano stati disattivati per decisione assunta dal caporeparto S. il 20.10.1995 poichè lo stesso aveva riscontrato delle anomalie nel funzionamento della valvola del flussostato del metano, documentata nel quaderno delle consegne in data 20.10.1995 e riscontrata dalla perizia che aveva accertato tali anomalie poichè esisteva un problema al riduttore di pressione dell'aria di servizio e dell'inversione del segnale inviato dal regolatore POIC 101/3, oltre che dalla relazione tecnica redatta da ENICHEM il 14.5.1999 e cioè pochi giorni dopo l'evento, che, in seguito ad una indagine, aveva riscontrato che la valvola PV 101/3 presentava una staratura al riduttore di invio dell'aria pneumatica di comando dell'azionanamento della valvola stessa, dovuta probabilmente al lungo tempo di non utilizzo, mentre risultava non pertinentemente configurata l'azione del regolatore TCS con inversione dei segnali che giungevano a quadro. Ad avviso della Corte, pertanto, sia il sistema automatico che quello semiautomatico non potevano funzionare regolarmente, come confermato anche dall'Ing. M.F. all'udienza del 9.7.2002, a causa dei difetti al pressostato ed alla valvola di erogazione del metano, non rilevando la circostanza che alla data del 20.10.1995 il pressostato non fosse stato ancora attivato, come era pacifico, poichè era in ogni caso già montato e poteva consentire allo S. di accorgersi che lo strumento non dava affidamento in quanto faceva aprire la valvola di erogazione del metano anche in seguito ad una semplice vibrazione e comunque il pressostato non funzionava neppure quattro anni dopo al momento dell'evento e tale inefficienza era stata segnalata dallo S. a coloro che avrebbero dovuto intervenire, che nulla avevano però fatto per riparare tale malfunzionamento, mentre i difetti erano stati eliminati soltanto dopo l'evento dagli strumentisti dell'ENICHEM per cui le due valvole V2 e V3 avevano potuto essere aperte.
La Corte ha ritenuto che la responsabilità del mancato intervento fosse addebitabile ai tre imputati poichè l'Ing. V. aveva la gestione del Ciclo Intermedi che comprendeva dieci impianti fra cui quelli interessati dalla vicenda in esame, l'Ing. M.L., che dipendeva dall'Ing. V., era responsabile di Tecnologia ed impianti della Gestione Intermedi a cui faceva capo il reparto AC 1 ed era diretto superiore dell'Ing. M.F., che era a sua volta tecnologo del reparto AC 1, come tale nominato coordinatore dei lavori di ristrutturazione della torcia BT 101 e, dal luglio del 1996, lavorava alle dipendenze del M.L. con cui aveva contatti almeno settimanali.
L'Ing. V. aveva ammesso di essere stata informata sia dallo S. nel mese di dicembre del 1996 sia mediante la lettera inviata il 4.12.1996 dall'Ing. M.F., dei difetti di funzionamento della valvola del flussostato, ragione per cui aveva richiesto all'ufficio tecnico un intervento di riparazione.
L'Ing. M.F. aveva ammesso di avere seguito i lavori di ristrutturazione della fiaccola in questione e di avere seguito pure dal 1994 il reparto AC1, riconoscendo che il 20.10.1995 il flussostato dava segnali anomali ed era stato pertanto spento, nonchè di essere stato avvisato dallo S. delle anomalie rilevate e di essere autore della lettera inviata il 4.12.1996 al perito Ma. nella quale riferiva i propri dubbi circa il funzionamento del sensore di portata della valvola del flussometro che necessitava di taratura in campo.
Infine l'Ing. M.L. veniva informato settimanalmente dal M.F., che dipendeva da lui, di tutti i problemi e doveva pertanto essere stato anche informato del problema del flussostato e della lettera che il M.F. aveva inviato al capo commessa Ma..
Da tali elementi la Corte territoriale ha desunto che i tre imputati, data la loro qualifica, una volta saputo delle menzionate anomalie nel flussostato e nella valvola di integrazione del metano, avrebbero dovuto intervenire così omettendo di improntare sul luogo di lavoro i necessari sistemi di sicurezza antinfortunistici e che fosse nella specie sussistente anche il dolo stante la natura fortemente tossica del gas fuoriuscito, tossico, esplosivo ed infiammabile, ben nota specie per degli ingegneri, e la coscienza e la volontà dei suddetti di omettere le prescritte cautele nonostante la consapevolezza del pericolo per la pubblica incolumità.
Hanno proposto ricorso per cassazione tutti e tre gli imputati chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto dei ricorsi.



Diritto

La difesa di V.P. ha dedotto con tre separati motivi:
- nullità per mancanza e manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata poichè la stessa, dopo avere dato atto della esistenza di un sistema completamente automatico e di un secondo sistema cd. semiautomatico con azionamento da quadro di alimentazione del metano alla torcia e che il rilascio di ammoniaca era stato determinato dalla decisione del caporeparto di chiudere le valvole di intercettazione V2 e V3, il che aveva reso inoperanti i sistemi automatico e semiautomatico, aveva arbitrariamente ritenuto che ciò fosse avvenuto sul presupposto della esistenza di alcune anomalie di tali sistemi segnalate agli attuali imputati e non risolte e quindi di una corretta decisione del caporeparto S. che avrebbe riscontrato il non corretto funzionamento del flussostato del metano, sulla base della sola versione prospettata dallo S. e pur dovendo dare atto della circostanza che alla data dell'ordine di servizio del 20.10.1995 il flussostato FSH 1001/3 non era stato ancora reso funzionante essendo stato montato fra il 21 ottobre ed il 9 novembre 1995, il che inficiava sul piano logico e del diritto il ragionamento probatorio;
la sentenza impugnata aveva inoltre interpretato erroneamente la nota interna Enchem del 14.5.1999 attribuendole il significato di una conferma della inidoneità del sistema semiautomatico, mentre invece la nota aveva affermato il contrario, come confermato poi anche dalla perizia di ufficio e dalla testimonianza C. da cui emergeva che il sistema semiautomatico da quadro sarebbe stato perfettamente funzionante se il caporeparto avesse chiuso le valvole V2 e V3 o quanto meno metteva in discussione la testimonianza dello S. imponendo il proscioglimento degli imputati per mancanza di certezza "al di là di ogni ragionevole dubbio";
- nullità della sentenza per erronea applicazione della legge penale e per mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza della aggravante di cui all'art. 437 c.p.p., comma 2, per avere la Corte territoriale qualificato la fuga di circa mezza tonnellata di ammoniaca come un infortunio ai sensi del secondo comma della norma citata pur avendo i cittadini di Malcontenta che erano stati esposti alla immissione di gas lamentato soltanto fenomeni irritativi, quali disturbi respiratori e bruciori agli occhi, per cui non avevano fatto ricorso a cure mediche, che non potevano quindi integrare una sindrome morbosa assimilabile ad una malattia comportante una apprezzabile menomazione funzionale dell'organismo, non sussistendo comunque alcun infortunio sul lavoro, come previsto dalla norma citata, poichè i cittadini che avevano segnalato il fatto non erano lavoratori dello stabilimento Enichem bensì persone che si trovavano a Malcontenta a qualche chilometro di distanza dallo stabilimento;
mancava in ogni caso in capo alla V. il dolo del delitto di cui all'art. 437 c.p., non essendovi prova che la imputata sapesse che il sistema di immissione del metano in torcia fosse malfunzionante e del fatto che fosse stata messa al corrente dal caporeparto S. del preteso malfunzionamento, considerato anche che la V. aveva assunto l'incarico di Responsabile Gestione Intermedi soltanto con decorrenza dal 1.7.1996, non essendo comunque vero che la suddetta imputata avesse ammesso di essere stata informata nel dicembre del 1996 sia dallo S. che dall'Ing. M.F. dei difetti di funzionamento della valvola chiedendo all'ufficio tecnico un intervento di riparazione, avendo la stessa ammesso soltanto che la questione era stata portata alla sua attenzione soltanto dopo l'evento.
La difesa del M.F. ha ugualmente lamentato con tre separati motivi:
- L'Ing. M.F. doveva essere assolto dal reato contestato, poichè, in quanto tecnologo, aveva seguito le modifiche impiantistiche di adeguamento delle torce dei Reparti AM4 e AC1 e ne aveva chiuso la commessa, così completando il suo compito, avvertendo, con nota del 4 dicembre 1996, che permanevano dubbi sul corretto funzionamento del "flussostato", ma non poteva avere alcuna ingerenza nell'esercizio del Reparto AC1 che era diretto dal caporeparto S. e che aveva la responsabilità dell'incidente poichè lo aveva gestito pur essendo colpevole delle inefficienze, da lui stesse denunciate, delle apparecchiature di avvio del metano alla torcia BT 101/3;
- le dichiarazioni del caporeparto S., che aveva tutto l'interesse ad addossare ad altri la responsabilità dell'incidente da lui cagionato, erano state assunte illogicamente dalla Corte territoriale come elemento decisivo benchè fossero contraddette dal teste C. circa la richiesta di un intervento di manutenzione e dal perito di ufficio Sc. per il quale il funzionamento dell'impianto semiautomatico era impedito dall'assetto impiantistico predisposto dallo S. che, chiudendo le valvole V2 e V3, aveva impedito l'afflusso del metano alla valvola 101,3 rendendone inefficace il comando manuale da quadro, essendo sul punto erronea anche la argomentazione prospettata dalla Corte territoriale per cui pure il sistema semiautomatico avrebbe richiesto l'intervento del flussostato della ammoniaca e della valvola PVC 101/3;
- erronea applicazione dell'art. 437 c.p.p., comma 2, non essendo all'uopo sufficienti alcuni fenomeni irritativi denunciati al commissariato di Marghera da due o tre abitanti di Malcontenta, potendo invece la emissione di gas o di vapori essere inquadrata nell'art. 674 c.p.p..
Infine, nell'interesse dell'imputato M.L. sono stati presentati due separati ricorsi.
L'avvocato Pulitanò ha lamentato:
- contraddittorietà e illogicità della motivazione della sentenza impugnata per avere erroneamente presupposto che i sistemi automatico e semiautomatico di apertura delle valvole non potessero funzionare sulla base delle sole dichiarazioni del teste S. che aveva allegato la scoperta di malfunzionamento del flussostato, benchè il flussostato alla data del 20.10.1995 non fosse esistente, come dichiarato dall'Ing. M.F., le cui dichiarazioni erano state travisate dalla Corte territoriale, al pari della nota Enichem del 14.5.1999 e della perizia Sc.;
- mancava il dolo del reato contestato poichè non era stato provato che Ing. M.L. fosse consapevole della situazione di pericolo asseritamene derivante dalla inidoneità dei sistemi automatico e semiautomatico di alimentazione del metano alla torcia e ciò nonostante avesse scientemente omesso di provvedere alla loro riattivazione, avendo la Corte territoriale fatto riferimento sul punto esclusivamente a presunzioni apodittiche;
- mancavano i presupposti dell'infortunio ai sensi del cpv. dell'art. 437 c.p.p. non essendo sufficienti gli allegati disturbi respiratori che non avevano provocato un danno alla salute e trattandosi comunque di fatti accaduti al di fuori dell'ambiente di lavoro e che non avevano interessato i lavoratori della Enichem;
L'Avvocato Santa Lucia ha dedotto:
- la sentenza era contraddittoria, ai sensi 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato con L. 20 febbraio 2006, n. 46, rispetto all'esito della perizia Sc., poichè la perizia aveva accertato il funzionamento del sistema semiautomatico che invece la Corte Territoriale aveva erroneamente escluso onde avvalorare la necessità dell'intervento dello S. che aveva ritenuto non operativo tale sistema da lui eliminato;
- mancava la motivazione della sentenza impugnata poichè la Corte territoriale non aveva indicato le ragioni per cui si era discostata dalla risultanze della perizia Sc. comportandosi come uno scienziato dilettante immettendo nel processo della scienza spazzatura;
- violazione dell'art. 533 c.p.p., comma 1, per avere la Corte di Appello dichiarato la responsabilità penale dell'imputato pur in presenza di un ragionevole dubbio;
- mancanza di motivazione con riferimento al secondo motivo di appello concernente il carattere proprio del reato contestato nella sua dimensione omissiva, nonchè erronea applicazione dell'art. 437 c.p.p., non avendo la Corte territoriale accertato in capo al M.L. la effettività delle competenze che potevano attribuirgli un potere di fatto sulla organizzazione aziendale che invece spettavano esclusivamente al caporeparto S., posto che oltretutto il M.L. aveva assunto la posizione di Responsabile di tecnologia della gestione intermedi soltanto in data 1.7.1996 e cioè dopo l'avvenuta consegna del sistema torcia allo S.;
- inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in ordine al concetto di infortunio di cui all'art. 437 c.p.p., comma 2, dovendo ritenersi infortunio, ai sensi della suddetta norma, soltanto l'evento violento che colpisce le persone che lavorano nell'impresa e che raggiunge una soglia minima di rilevanza, tutti elementi insussistenti nel caso in esame; illegittimità costituzionale della norma citata se interpretata nel senso che anche un infortunio di modestissima entità possa integrare la aggravante citata.
All'odierna udienza le difese degli imputati hanno inoltre dedotto la prescrizione del reato sotto il profilo che, sommati al termine quinquennale dalla data di commissione del reato (4.5.1999) il prolungamento massimo per gli atti interruttivi e la sospensione richiesta dai soli imputati nella udienza del 5.12.2005 (protrattasi per 34 giorni), il termine di prescrizione sarebbe andato a scadere all'8.12.2006.
La difesa degli imputati ha ritenuto che nel caso in esame non potesse invece valere come causa di sospensione il rinvio del giudizio di appello per 99 giorni, disposto alla udienza del 18.10.2005, poichè proveniente da richiesta congiunta oltre che degli imputati anche delle parti civili onde addivenire ad un accordo sul risarcimento del danno.
Trattandosi infatti di rinvio disposto prima della entrata in vigore della L. 5 dicembre 2005, n. 251, che aveva disciplinato espressamente le cause di sospensione della prescrizione e valendo quindi la precedente disciplina dell'art. 159 c.p.p., come interpretata con sentenza delle Sezioni Unite della Corte Cassazione 28.11.2001, ad avviso dei ricorrenti il rinvio su richiesta congiunta anche delle parti civili non comporterebbe effetti sospensivi sulla prescrizioni.
Quanto a tale eccezione va subito rilevato che, peraltro, anche in base alla interpretazione offerta dalle Sezioni Unite, l'effetto sospensivo della prescrizione sussiste in tutti i casi in cui il rinvio sia disposto su richiesta dell'imputato o del suo difensore, salvo quando sia disposto per acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di termini a difesa, essendo collegato, in funzione garantistica, al criterio della imputabilità del rinvio; con la conseguenza che anche nel caso del rinvio disposto alla udienza del 18.10.2005 si tratterebbe pur sempre di un rinvio non collegato ad esigenze probatorie e difensive e quindi imputabile agli imputati ed alle loro difese che avevano interesse ad un ulteriore termine di sospensione, cui hanno dato causa, per perfezionare la transazione cui non erano ancora addivenuti ad anni di distanza dal fatto e che serviva, così come è servita, ad ottenere in appello una riduzione della pena.
A prescindere da tale questione, risultano comunque ulteriori rinvii richiesti dai soli difensori degli imputati ed in particolare i rinvii nel giudizio di appello dal 3.12.2004 al 6.12.2004 e dal 6.12.2004 al 5.4.2005 richiesti dai difensori per loro impedimento (v. decreto del 19.11.2004 negli atti del giudizio di appello), per cui è indubbio che il termine di prescrizione non è ad oggi maturato mentre maturerà quanto meno fra diversi mesi.
La eccezione di prescrizione è quindi infondata.
Quanto agli altri motivi di ricorso, appare opportuno, per comodità di esposizione, raccoglierli in tre gruppi attinenti rispettivamente, seguendo un ordine logico, ma anche giuridico, alla ricostruzione del fatto, alla sua qualificazione giuridica ed alla imputabilità del fatto ai singoli imputati anche sotto il profilo del dolo.
Attengono al primo gruppo i motivi n. 1 della V., n 2 del M.F. e, quanto al M.L. n. 1 del ricorso dell'Avvocato Pulitane e n. 1 e 2 e 3 del ricorso dell'Avvocato Santa Lucia.
Con essi si deduce che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ricostruito i fatti ed altrettanto erroneamente interpretato le risultanze probatorie, discostandosi ingiustificatamente dalla perizia Sc. e dalle testimonianze in atti ed in particolare dalla testimonianza C., prestando invece fede al caporeparto S. che sarebbe stato il vero responsabile del fatto a causa delle sue iniziative e del suo comportamento quanto meno imprudente.
Sotto tale profilo si tratta però di censure di mero fatto in ordine alla ricostruzione del risultato delle prove e della loro valutazione, non proponibili in questa sede, stante la presenza di una argomentazione, sviluppata con rigore logico dai giudici di merito - le cui sentenze, essendo la seconda confermativa della prima, si integrano a vicenda - e che, in base ad una giurisprudenza consolidata e del tutto condivisibile, non può essere scalfita da una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica ma che non serve a dimostrare la manifesta illogicità della motivazione richiesta, per l'annullamento della sentenza impugnata su tale punto, dall'art. 606 c.p.p., lett. e), anche dopo la riforma di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 (v. per tutte Cass. Sez. Un. 19.6.1996, Di Francesco).
I giudici di merito hanno infatti, sotto tale aspetto, preso in esame tutte le emergenze processuali e coordinato logicamente gli atti sottoposti al loro esame, per cui a nulla vale opporre che si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione munite persino di uguale crisma di logicità.
Ed anche con riguardo ad una eventuale responsabilità del caporeparto S., adombrata dai ricorrenti, se anche fosse vero che la iniziativa del caporeparto fosse stata inopportuna o addirittura imprudente o frutto di imperizia (ma la sentenza impugnata lo ha comunque escluso con argomentazione logica ineccepibile, dando ragione dei motivi per cui S. era stato costretto ad assumere iniziative per prevenire maggiori danni, stante la inerzia dei suoi superiori da lui tempestivamente avvisati e che nell'arco di vari anni nulla avevano fatto) non per questo resterebbe esclusa la responsabilità di coloro cui spettava prendere le iniziative, vigilare e controllare affinchè le valvole e gli altri meccanismi funzionassero secondo le regole di sicurezza che erano state stabilite ma non rispettate, non potendosi fare carico ad un caporeparto di ovviare alle manchevolezze di coloro che erano stati preposti ai singoli settori con ben altre competenze e responsabilità, derivanti dalla specifica preparazione tecnica, dal titolo di studio e dalla posizione rivestita nell'organigramma aziendale, cui lo S. aveva indirizzato specifiche richieste ed anche note scritte.
In ogni caso, se l'impianto fosse stato funzionante e fosse stato posto fuori uso da una iniziativa dissennata di S., come assumono i ricorrenti, sarebbe stato sufficiente ordinare a S. o ad altri di ripristinare il sistema automatico, mentre ciò non è avvenuto evidentemente perchè non era attuabile tale semplice espediente.
Il secondo gruppo di censure (motivo n. 2 del ricorso V., motivo 3 del ricorso M.F. e specifici motivi in entrambi i ricorsi dell'Ing. M.L.) attiene invece alla qualificazione giuridica del fatto ed è parzialmente fondato.
La Corte di merito ha ritenuto la sussistenza del reato di cui all'art. 437 c.p., aggravato dall'infortunio, poichè si era trattato di un fatto verificatosi in conseguenza della omissione dell'approntamento di strumenti di sicurezza nel luogo di lavoro che aveva determinato un pericolo per la pubblica incolumità e da cui era dipeso un infortunio, non rilevando che avesse interessato soltanto persone estranee al luogo di lavoro.
Ad avviso dei ricorrenti invece non si tratterebbe del reato di cui all'art. 437 c.p., neppure con riguardo alla ipotesi di cui al comma 1, bensì, al massimo, del reato di molestie, poichè non vi era stato alcun disastro (come escluso comunque anche dalla Corte di merito) ma neppure un infortunio sul lavoro o comunque un pericolo per la salute pubblica, essendosi trattato di qualche bruciore agli occhi ai danni di passanti.
Ad avviso di questa Corte sussistono gli estremi di cui al reato previsto dall'art. 437 c.p.p., comma 1.
Occorre in proposito rilevare che il delitto di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro è un delitto doloso di pericolo ove il pericolo consiste nella verificazione, in conseguenza della condotta di rimozione o di omissione, del disastro o dell'infortunio, che costituisce, secondo quanto previsto dall'art. 437 c.p.p., comma 2, una circostanza aggravante.
Sotto tale profilo la nozione di pericolo di disastro non comprende soltanto gli eventi tragici o di vasta portata, ma anche quegli eventi lesivi connotati da diffusività o non controllabilità che pure, per fattori meramente casuali, producano un danno contenuto.
E non è neppure necessario che la situazione di pericolo, costituente l'evento in senso giuridico del reato, investa una indefinita molteplicità di persone anche estranee alla sicurezza del lavoro nè che le cautele siano di importanza fondamentale per la sicurezza del lavoro, essendo invece sufficiente che il pericolo possa riguardare la collettività dei cittadini o comunque un numero rilevante di persone (v., da ultimo, Cass. n. 20370 del 2006, Rv.233779).
Nel caso in esame è indubbio che vi sia stato il pericolo di un disastro ed anche di un infortunio sul lavoro poichè la forza e la direzione del vento avrebbero potuto portare la sostanza nociva all'interno dello stabilimento dove si trovavano i lavoratori o anche all'esterno, come poi è avvenuto, con danni nella specie contenuti stante anche la tempestività con cui è stata azionata manualmente la valvola (in sostanza disturbi respiratori, ma come tali integranti certamente una patologia, pur se nella specie modesta), ma che avrebbero potuto raggiungere diversi livelli in presenza di altre variabili.
Sussistono quindi gli estremi del reato di rimozione o omissione di cautele destinate a prevenire disastri o infortuni sul lavoro.
Deve invece ritenersi che non sussista la aggravante di cui al secondo comma poichè la Corte di merito ha già escluso la sussistenza di un disastro, ma deve escludersi pure che si sia trattato di un infortunio sul lavoro, come prevede il secondo comma citato.
E' vero che la disposizione recita testualmente "se dal fatto deriva un disastro o un infortunio" senza fare riferimento ad un infortunio sul luogo di lavoro, peraltro sia la intitolazione della norma incriminatrice che il primo comma della disposizione fanno riferimento ad infortuni del lavoro e non pare rispondente alla ratio della stessa ritenere che la ipotesi aggravata dall'evento possa riguardare infortuni diversi da quelli previsti, sotto il profilo del pericolo, dalla ipotesi semplice.
Quanto alla qualificazione giuridica del fatto la sentenza impugnata deve essere pertanto annullata limitatamente alla aggravante di cui all'art. 437 c.p., comma 2 che deve essere esclusa.
L'annullamento deve essere disposto su tale punto senza rinvio poichè non vi è necessità di statuizioni conseguenti.
Da tale diversa qualificazione non derivano infatti conseguenze in punto di pena, considerato che agli imputati sono state riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla aggravante, per cui non potrebbero mai avere una pena inferiore a quella irrogata nel minimo di legge con la applicazione delle attenuanti nella massima estensione.
Quanto al terzo gruppo di questioni, che riguardano gli altri motivi di ricorso, si tratta sostanzialmente della individuazione dell'elemento psicologico del reato.
Su tale punto i ricorsi dell'Ing. V. e dell'Ing. M.F. sono infondati.
Premesso che il dolo del reato in esame consiste nella consapevolezza della omissione da parte di chi ha l'obbligo giuridico di collocare e di tenere in efficienza gli impianti di sicurezza, oltre che nella rappresentazione del pericolo per la sicurezza dell'ambiente di lavoro e per la incolumità delle persone, la motivazione in ordine alla sussistenza del dolo nei confronti degli ingegneri V. e M.F. appare del tutto esaustiva.
La sentenza impugnata ha infatti sottolineato i ruoli rivestiti da tali soggetti nell'organigramma aziendale che li portavano a dovere rispondere direttamente della sicurezza dell'impianto che qui interessa nonchè le ammissioni degli stessi soggetti circa la conoscenza dei difetti di funzionamento della valvola del flussostato cui non avevano posto rimedio, ritenendo altresì che le loro specifiche competenze tecniche comportassero pure la conoscenza delle conseguenze disastrose che potevano derivare da una interruzione dell'energia.
Anche sotto tale profilo la diversa ricostruzione e valutazione dei fatti offerta dalle difese dei suddetti imputati resta priva di rilievo in questa sede perchè la argomentazione censurata e del tutto logica e coerente.
Quanto invece alla posizione dell'Ing. M.L., pur dandosi atto che la sentenza di primo grado, che integra quella confermativa di secondo grado, porge ulteriori elementi anche in relazione alla posizione del M.L. circa la stessa realizzazione dell'impianto, la motivazione è peraltro del tutto apodittica e non accettabile laddove individua gli elementi della sua consapevolezza della insufficienza dell'impianto di sicurezza e quindi del dolo sulla mera ipotesi che, avendo incontrato settimanalmente l'Ing. M.F., avrebbe dovuto essere informato da costui del problema del flussostato e della lettera inviata dal M.F. al capo commessa Ma..
Quanto alla posizione del M.L. la sentenza impugnata deve essere pertanto annullata con riferimento alla individuazione dell'elemento psicologico del reato, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello la quale rivaluterà il materiale probatorio al fine di verificare la sussistenza o meno del dolo sulla base di elementi fattuali e non ipotetici.




P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di M. L. e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Venezia;
rigetta nel resto i ricorsi dei predetti V. e M.F..
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 200