Cassazione Civile, 22 gennaio 2013, n. 1471 -  Responsabilità contrattuale di un datore di lavoro per condotte mobbizzanti poste in essere da colleghi di lavoro


 

 

 

 

Fatto


F. L., dipendente della M. s.p.a., con funzioni di preposto al reparto forni, ha agito nei confronti della datrice di lavoro per l'accertamento del demansionamento subito in conseguenza della sua adibizione nel settembre 2001 a mansioni di contenuto professionale inferiore in violazione dell'art. 2103 cod. civ. e per l'accertamento della responsabilità datoriale ex art. 2087 cod. civ. in relazione al mobbing" cui fu sottoposto, a partire dalla stessa data, anche mediane dileggi e vessazioni da parte di colleghi di lavoro. Ha dunque agito per la reintegra nella precedenti mansioni o in altre equivalenti e il risarcimento del danno professionale, biologico e morale. Ha altresì impugnato tre sanzioni disciplinari irrogategli nel dicembre 2003 e nel febbraio 2004.
La domanda è stata accolta in primo grado dal Tribunale di Verona che ha ordinato alla società M. di reintegrare il ricorrente nelle precedenti mansioni o in altre equivalenti e l’ha condannata al risarcimento del danno da demansionamento nella misura del 50% delle retribuzioni nette dal mese di settembre 2001 alla data della sentenza, nonché al risarcimento del danno biologico da mobbing, determinato nella misura di euro 37.339,50.
A seguito di appello proposto dalla società, la Corte di appello di Venezia, con sentenza del 22 settembre 2009, in parziale accoglimento dell'appello principale e in parziale riforma della sentenza impugnata, ha ridotto la misura del risarcimento del danno da demansionamento ad una somma pari al 30% della retribuzione e rideterminato il risarcimento del danno biologico da invalidità temporanea nella somma di euro 5.859,00 da devalutarsi alla data del 1.9.2001, oltre interessi sulla somma annualmente rivalutata; ha confermato nel resto la sentenza impugnata, respingendo i restanti motivi dell'appello principale, nonché l'appello incidentale del lavoratore.
Per la cassazione di tale sentenza la soc. M. propone ricorso affidato a sei motivi, cui resiste con controricorso F. L..



Diritto

 


Con il primo motivo si deduce violazione o falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ. e vizio di insufficiente motivazione per avere la sentenza riconosciuto il risarcimento del danno alla professionalità, quale conseguenza del dedotto demansionamento, in difetto di specifiche allegazioni e prove circa il fondamento del preteso diritto, non potendo questo ritenersi sussistente in re ipsa, come indicato nell'orientamento delle S.U. nella sentenza n. 6572 del 2006, seguita da numerose altre. La Corte territoriale, nell'accogliere solo in parte le censure della società, appellante principale, aveva eluso la questione, limitandosi a ridurre la misura danno dal 50% ai 30% della retribuzione netta riscossa dall'interessato a partire dal mese di settembre dell'anno 2001 senza nulla argomentare in ordine agli oneri probatori gravanti sul ricorrente, alle luce dei principi del richiamato orientamento interpretativo, secondo cui il datore che incorra in responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ. per violazione del disposto degli artt. 2103 e 2087 cod. civ. non è automaticamente responsabile di ogni ipotetico danno riconducibile al demansionamento, il quale può esservi anche senza che sussista un danno risarcibile. Tale onere di allegazione non era stato assolto dal ricorrente, che nulla di specifico aveva addotto, né tanto meno provato in ordine ai peculiari profili, connotati ed ambiti attraverso i quali si sarebbero prodotti i danni alla professionalità, solo asseriti, quale conseguenza del demansionamento.
Il motivo è inammissibile.
La società ricorrente prospetta un insufficiente esame delle censure che la stessa assume di avere svolto in sede di ricorso in appello con riguardo ai presupposti giustificativi del riconoscimento relativamente al danno professionale derivante da demansionamento, omettendo tuttavia di indicare specificamente in sede di ricorso i motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe pronunciato. Tale conoscenza è indispensabile per potere stabilire se il giudice di secondo grado abbia omesso di pronunciare su un motivo specifico, non potendo essere addebitato al giudice di appello di essersi limitato a rivalutare i criteri di parametrazione del danno risarcibile e non anche i presupposti del diritto al risarcimento ove una tale doglianza non fosse stata prospettata come motivo di impugnazione così da rientrare nell'ambito del devoluto in appello, e dunque fosse non specificamente interessata da motivi ex art. 434, primo comma, cod. proc. civ..
Una questione non esaminata dalla sentenza impugnata deve considerarsi nuova e come tale inammissibile, salvo che questa non sia affetta da vizio di omessa pronuncia per non avere delibato in ordine ad una questione che le parti avevano posto.
La questione avrebbe dovuto essere fatta valere come violazione dell'art. 112 c.p.c. cioè sotto il profilo della omessa corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e non come violazione di legge (Cass. 24 maggio 2003, n. 8247); dunque, il presunto vizio non è stato denunciato nei termini appropriati, oltre che non chiaramente denunciato come omesso esame di un preciso motivo di gravame.
Va poi osservato che non spetta a questa Corte il compito di ricercare nell'ambito degli atti "spillati" al ricorso per cassazione il motivo in cui la questione sarebbe stata svolta.
L'attuale ricorrente ha descritto sommariamente lo svolgimento della vicenda processuale, limitandosi ad allegare nel ricorso - mediante spillatura - l'intero testo del ricorso introduttivo, della sentenza di primo grado, del proprio ricorso in appello e della sentenza impugnata, rimettendo così sostanzialmente a questa Corte l'onere di indagare sugli atti per estrarne le parti significative che essa intende siano tratte a sostegno delle tesi svolte nei motivi di impugnazione.
Deve ricordarsi che la prescrizione contenuta nell'art. 366, primo comma, n. 3 cod. proc.civ., secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d'inammissibilità, l'esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi osservata quando il ricorrente si limiti ad una brevissima ed insufficiente narrativa della vicenda processuale, integrandone il contenuto mediante "spillatura" al ricorso di copia della sentenza impugnata, in quanto lo scopo della disposizione consiste nel permettere l'immediata percezione delle censure sollevate, senza necessità di ricorrere ad altri atti del processo, sia pure allegati al ricorso (Cass. 27.2.2009 n. 4823; Sezioni Unite, sent. 17 luglio 2009 n. 16628; conf. Cass. 23 giugno 2010 n. 15180, 16.3.2011 n. 6279). Il ricorso per cassazione col quale si lamenta l'erronea od omessa valutazione, da parte del giudice di merito, di atti e documenti, è inammissibile sia quando si limita a richiamarli senza trascriverne i passi salienti o, in alternativa, fornire gli elementi necessari per individuarli all'interno del fascicolo; sia quando, all'opposto, il ricorrente trascriva pedissequamente e per intero nel ricorso atti e documenti di causa, addossando in tal modo alla Corte il compito, ad essa non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti ai fini del decidere (Cass. 25.9.2012, n. 16254).
Pertanto, non soddisfa la prescrizione dì cui all'art. 366 n. 3 cod. proc. civ. la tecnica di "spillatura" al ricorso dell'intero ricorso introduttivo e del testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l'individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell'oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura (Cass., Sezioni Unite, sent. citata).
In conclusione, non potendosi tenere conto degli atti "spillati" al fine di ricercare in essi il motivo di appello - nemmeno chiaramente indicato - il cui esame sarebbe stato omesso, il relativo motivo di ricorso è - anche per altro verso - inammissibile.

Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge in relazione all'art. 2103 cod. civ. e insufficiente motivazione in ordine alla circostanza della inidoneità dell'interessato allo svolgimento delle mansioni di responsabile del reparto forni. Il giudice di appello aveva svalutato la portata delle risultanze istruttorie ravvisando nelle dichiarazioni dei testi un contenuto meramente valutativo ed aveva addebitato alla società le conseguenze della mancata prova della insussistenza di mansioni equivalenti cui eventualmente adibire l'interessato, omettendo di considerare: a) che la non attitudine, dal punto di vista tecnico, dell'interessato a mantenere le stesse mansioni, a fronte dei nuovi processi tecnologici applicati in azienda, costituiva ragione di ordine tecnico/organizzativo idonea a giustificare l'esercizio dello ius variandi di cui all'art. 2103 cod. civ.; b) che, a fronte di ciò, gravava sul lavoratore l'onere di allegazione e di prova di una diversa collocazione equivalente, restando altrimenti giustificata l'assegnazione anche a mansioni inferiori; e) che, in tema di repechage, la giurisprudenza di legittimità ha più volte indicato l'onere, gravante sul lavoratore licenziato, di allegare l'esistenza di posizioni di lavoro equivalenti, alternative a quella di effettiva adibizione. Il motivo è infondato.
L'inidoneità del lavoratore a svolgere determinate mansioni non abilita il datore di lavoro a licenziare, ma solo a utilizzare il dipendente in mansioni compatibili con le residue capacità e in tale caso grava sull'imprenditore l'onere di dimostrare l'impossibilità di un'altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti.
Neppure il consenso delle parti ha rilevanza ai fini della deroga al principio, atteso che l'art. 2103 cc, che tutela la professionalità del prestatore di lavoro, nonché il diritto a prestare l'attività lavorativa per la quale si è stati assunti, o si è successivamente svolta, vietandone l'adibizione a mansioni inferiori, che è norma imperativa e quindi non derogabile nemmeno tra le parti, come sancisce l'ultimo comma della stessa, prevedendo che "ogni patto contrario è nullo". Soltanto l'esistenza di una reale situazione che renda concreta una prospettiva di licenziamento e l'accettazione delle diverse mansioni in deroga all'art. 2103 ce. possono rendere inapplicabile la tutela prevista dalla citata disposizione, che presuppone la concreta alternativa della possibilità di non retrocessione della precedente posizione professionale.
L'inidoneità lavorativa, intesa nel senso prospettato da parte ricorrente, come incapacità del lavoratore di adeguarsi alla mutata realtà tecnica dell'impresa non configura, di per sé, un'impossibilità assoluta della prestazione lavorativa e, solo qualora il lavoratore non possa essere adibito a mansioni equivalenti, il datore può prospettargli l'alternativa - in luogo del licenziamento e secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore - di essere adibito a mansioni inferiori, trattandosi di misura meno afflittiva della perdita del posto di lavoro, occorrendo peraltro in tale ipotesi che l'adeguamento sia sorretto dal consenso, nonché dall'interesse dello stesso lavoratore.
Anche in tale caso, peraltro, l'onere della prova circa l'impossibilità di assegnare il lavoratore a mansioni diverse spetta al datore di lavoro, pur tenendosi conto dei concreti aspetti della vicenda e delle allegazioni del dipendente attore in giudizio (cfr. Cass. 2 luglio 2009, n. 15500).
La natura di estrema ratio del provvedimento di demansionamento avrebbe richiesto la previa offerta del mutamento peggiorativo di mansioni in alternativa al licenziamento, ma tale non è la fattispecie realizzatasi e la vicenda fattuale non si rivela idonea a giustificare il comportamento del datore di lavoro, che deve, pertanto, considerarsi inadempiente agli obblighi di legge rispetto al contenuto della prestazione di lavoro.
La denuncia di omesso esame di un fatto decisivo si risolve nella medesima mancata considerazione della inidoneità lavorativa, che - al contrario - è stata valutata e ritenuta non idonea a legittimare il mutamento inpeius delle mansioni.
Il terzo motivo censura la sentenza per insufficiente motivazione circa la data, individuata dalla Corte di appello, a partire dalla quale è stata ravvisata la responsabilità della soc. M. per violazione degli artt. 2087 e 1218 cod. civ. in relazione al complesso degli episodi ritenuti integrativi del danno da mobbing. La società aveva sempre dedotto di non avere saputo, prima del novembre 2003, degli episodi di dileggio di cui il lavoratore fu vittima all'interno dell'azienda ad opera di colleghi. Pertanto, solo al momento della conoscenza dei fatti poteva farsi risalire l'eventuale responsabilità ex art. 2087 cod. civ.. Né la retrodatazione al settembre 2001 era giustificabile in considerazione del demansionamento, la cui nozione non coincide con quella di mobbing e che al più poteva rappresentare l'inizio della serie causale integrativa della fattispecie.
La censura è inammissibile.
Il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito è scandito dai seguenti passaggi:
- il mobbing è caratterizzato dalla protrazione nel tempo, attraverso una pluralità di atti, giuridici o materiali, alcuni dei quali possono anche essere intrinsecamente legittimi, unificati dalla volontà diretta alla persecuzione o alla emarginazione del dipendente (cfr. Cass. n. 8438/04, 19053/05):
- la previsione di cui all'art. 2087 cod. civ., che impone all'imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (cfr. Cass. n. 6326/2006; C. Cost. n. 359 del 2003), configura la responsabilità contrattuale del datore di lavoro anche nei casi in cui le condotte mobbizzanti siano poste in essere da colleghi di lavoro (cfr. Cass. n. 18262/07; 16148/07);
- in questi casi la responsabilità del datore di lavoro viene a fondarsi sulla omessa predisposizione delle misure necessarie ad impedire il compimento di atti di persecuzione psicologica del dipendente;
- la riconducibilità della responsabilità del datore di lavoro alla previsione delle norma di cui all'art. 2087 cod. civ. consente l'operatività della presunzione di colpa stabilita dall'art. 1218 cod. civ. a carico del datore di lavoro, che pertanto dovrà dimostrare di avere adottato tutte le misure dirette ad impedire la protrazione della condotta illecita;

- l'applicazione di tali principi alla fattispecie portava a ritenere sussistente la suddetta responsabilità della società appellata, a fronte del mancato assolvimento della stessa della prova liberatoria;
- non solo era direttamente riconducibile alla società appellante il demansionamento (l'istruttoria aveva dimostrato l'assegnazione del F. - già capo reparto forni con funzioni di coordinamento e controllo di una squadra - a mansioni di tipo operativo, in alcun modo equivalenti a quelle in precedenza svolte), ma essa non aveva apprestato tutte le misure occorrenti per evitare il protrarsi in azienda di condotte lesive per il F. (doveva ritenersi irrilevante l'affissione di un ordine di servizio generico, non seguito da un adeguato controllo e da una efficace indagine diretti ad assicurare l'effettiva attuazione della disposizione aziendale e ad individuare i colpevoli dei comportamenti vessatori).
Tale giudizio, oltre che logicamente corretto, muove da una esatta interpretazione ed applicazione alla fattispecie dei principi di diritto in tema di responsabilità, anche omissiva, dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. per la mancata adozione delle misure di prevenzione e controllo dirette ad assicurare che i propri dipendenti non subiscano lesioni alla propria integrità fisica e psichica da comportamenti posti in essere all'interno dell'azienda anche da altri dipendenti, ha ravvisato nell'inosservanza di obblighi positivi di accertamento e di controllo - e dunque in una responsabilità di tipo omissivo - l'imputabilità degli eventi che hanno composto la sequenza in cui si è realizzato nella fattispecie concreta il mobbing in danno del F..
Se il demansionamento costituiva il primo, risalente, fattore di inadempimento, direttamente imputabile alla società datrice di lavoro, pure la successiva sequenza dei fatti lesivi verificatisi nei locali aziendali era ascrivibile all'impresa in relazione al mancato adempimento di obblighi positivi di condotta, parimenti riconducibili alla fattispecie legale di cui all'art. 2087 cod. civ.. Gli elementi fattuali,che nel caso in esame integrano la fattispecie di danno per responsabilità omissiva/esulano dall'oggetto della censura.
E' opportuno considerare che, come più volte osservato dalla S.C. (v., tra te altre, sentenza n. 18262 del 2007), il datore di lavoro è obbligato a risarcire al dipendente il danno biologico conseguente ad una pratica di mobbing posta in essere dai colleghi di lavoro, ove venga accertato che, pur essendo a conoscenza dei comportamenti scorretti posti in essere da questi ultimi, non si sia attivato per farli cessare.
In realtà, parte ricorrente tenta di opporre, alla ricostruzione fattuale compiuta dai giudici di merito di primo e di secondo grado, la propria diversa versione incentrata sulla valorizzazione, quale momento della presa di conoscenza dei fatti, della denuncia del novembre 2003. Le censure mosse al percorso argomentativo si risolvono non nella individuazione di vizi logici, ma nella ricerca di un diverso apprezzamento degli elementi acquisiti al giudizio, inammissibile in questa sede.
Con il quarto motivo si censura l'erronea interpretazione dell'art. 68 c.c.n.l. dipendenti imprese industriali alimentari in relazione alla ritenuta tardività della irrogazione delle sanzioni datate 11.12.2003 e vizio di motivazione circa la ritenuta esaustività delle giustificazioni addotte dal lavoratore alle relative contestazioni disciplinari del 23 e del 27 ottobre 2003. Si sostiene che, seppure le sanzioni erano state comminate dopo la scadenza del termine di 30 giorni fissato dal CCNL applicabile, ciò era dipeso dal'esigenza di consentire l'audizione del lavoratore, che aveva avanzato richieste di differimento e al quale dunque doveva imputarsi l'allungamento dei tempi del procedimento disciplinare. La disciplina contrattuale doveva essere interpretata nel senso di escludere una rinuncia dell'esercizio del potere disciplinare o un'acquiescenza derivante dal superamento del termine fissato per l'adozione della sanzione ove questa sia irrogata successivamente all'espletamento dell'audizione personale dell'incolpato e in tempi ragionevolmente contenuti.
Il motivo è infondato.
L'art. 68 CCNL di settore dispone che i provvedimenti disciplinari devono essere comminati non oltre il trentesimo giorno dal ricevimento delle giustificazioni e comunque dallo scadere del quinto giorno successivo alla formale contestazione. Il termine di trenta giorni è di carattere perentorio, variando solo il dies a quo del termine, in relazione alla data di presentazione delle giustificazioni del lavoratore, che viene anticipato in caso di presentazione delle difese del lavoratore prima della scadenza dei cinque giorni fissato come termine a difesa.
Non risulta dedotto che il lavoratore incolpato abbia presentato le sue difese scritte oltre il termine previsto dal contratto, unica situazione che avrebbe potuto legittimare lo slittamento del successivo termine finale, previsto dal contratto collettivo per l'adozione della sanzione che in tale caso dovrebbe decorrere dal giorno di presentazione delle difese (Cass. n. 12 aprile 2012 n. 5800; in tale pronuncia è stato affermato che qualora il lavoratore incolpato per illecito disciplinare abbia presentato le proprie difese oltre il termine impostogli dalla legge o dai contratto, il successivo termine perentorio, imposto al datore di lavoro per l'adozione del provvedimento disciplinare, decorre dal giorno di presentazione delle difese suddette), ma è stato soltanto addotto che durante lo svolgimento del termine di trenta giorni fissato per l'adozione della sanzione da parte del datore di lavoro si erano verificati dei differimenti volti a consentire l'audizione orale del lavoratore.
In proposito, la Corte territoriale ha osservato che gravava sul datore l'onere di provare la non imputabilità allo stesso del ritardo e che la prova testimoniale aveva ad oggetto soltanto la circostanza del differimento, non anche l'imputabilità al F. del differimento stesso, da cui l'ininfluenza dell'ammissione della prova.
Il quinto motivo denuncia violazione dell'art. 7 legge n. 300/70 per avere la Corte di appello ritenuto viziato il procedimento disciplinare culminato nella irrogazione della sanzione disciplinare del 23.12.2003 a causa della mancata audizione personale del lavoratore, indipendentemente dalla esaustività delle giustificazioni scritte già rese. Tale audizione avrebbe costituito un adempimento inutilmente dilatorio, non avendo il lavoratore nelle difese scritte sollevato questioni circa la non comprensibilità della contestazione, né avanzato richieste di esame di documenti non in suo possesso, ossia in difetto di circostanze tali da giustificare l'ammissione alle giustificazioni verbali.
Il motivo è infondato.
In punto di diritto, va ribadito il principio secondo cui il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione - nel termine di cui all'art. 7, quinto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 - di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive (Cass. 22 marzo 2010, n. 6845).
Il carattere assorbente di tale principio priva di rilevanza la censura afferente ad un presunto vizio di motivazione.
Il sesto motivo denuncia violazione dell'art. 2105 cod. civ. e vizio di motivazione in ordine alle missive inviate dal F. al Sindaco del Comune di San Giovanni Lupatoto e alla Usl di zona, oltre che alla società M., contenenti affermazioni tali da screditare l'immagine del datore di lavoro estendendo a soggetti terzi informazioni non verificate.
La Corte di appello aveva fatto una non corretta applicazione del principio costituzionale di critica (art. 21 Cost.) laddove aveva ritenuto legittimo il comportamento del dipendente consistito nel diffondere al di fuori degli ambiti di pertinenza dell'impresa sua datrice di lavoro notizie idonee ad esporre la stessa a pregiudizio all'immagine. Il Ferrane aveva prospettato a terzi i fatti in modo da fare risultare una sorta di compiacenza dell'impresa per i fatti di mobbing avvenuti in azienda ai danni del ricorrente, omettendo suggestivamente di rappresentare il dato di fatto costituito dal non essere l'azienda stata informata in merito agli stessi e dunque in carenza del presupposto per potere ravvisare in capo alla stessa un obbligo di intervento e una colpevole omissione.
Il motivo è infondato.
Esso si basa sulla medesima tesi esposta dalla ricorrente per cassazione nel terzo motivo di impugnazione e per le stesse ragioni va disatteso, una volta stabilita (nei 'termini già riferiti) l'assenza di una efficace censura del giudizio attraverso il quale i giudici di merito hanno affermato l'imputabilità ex art. 2087 cod. civ. di fatti commessi in danno del Fedone da colleghi di lavoro in ambito aziendale, in relazione al mancato adempimento da parte datoriale di obblighi positivi di condotta.
E' dunque insussistente il presupposto da cui muove la tesi dell'attuale ricorrente secondo cui il dipendente avrebbe esorbitato dall'esercizio legittimo del diritto di critica per avere divulgato notizie "non affatto osservanti della, verità oggettiva" sotto il profilo della "compiacenza di M. medesima rispetto a fatti di mobbing dell'interessato...", così ledendo l'immagine della società nei rapporti con i terzi
Né le modalità attraverso le quali la facoltà di critica è stata esercitata sono state prospettate per sé idonee ad integrare la lesione all'immagine.
L'esercizio, da parte del lavoratore, da diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch’essa costituzionalmente assicurata (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana. Ne consegue che, ove tali limiti siano superati con riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare (Cass. n 7471 del 2012). Non risulta che nella fattispecie sussistano tali (diversi) presupposti giustificativi.


Il ricorso vi dunque respinto.
Quanto all'onere delle spese a carico della parte soccombente ex art. 91 cod. proc. civ., deve farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell'art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, conv., con modificazioni, in I. 24 marzo 2012 n. 27.
L'art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo il Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all' entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nel menzionato art. 4 del D.M e non ravvisandosi elementi che giustifichino un discostamento dal valore medio di riferimento indicato per ciascuna della tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di euro 4.500,00, oltre euro 40,00 per esborsi.

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 4.500,00 per compensi e in euro 40,00 per esborsi e accessori di legge.