Giuseppe Petrioli

Testo della Relazione presentata in occasione dell'incontro su Innovazioni nel trasporto ferroviario e sicurezza sul lavoro: l'applicazione del D.M. n. 388/2003 al personale a bordo treno

(Urbino, 17 novembre 2007)


 


Sono Responsabile del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda 10 di Firenze, medico del lavoro, da qualche anno coordino con la dr.ssa Cantoni il gruppo di lavoro delle Regioni che ha seguito, in particolare, le tematiche del Vacma e che ora sta seguendo altre criticità che stanno emergendo e sono emerse. Tra queste mi sembra che quella più preoccupante sia oggetto della giornata di lavoro odierna: l’applicazione del d.m. n. 388 del 2003 nell’ambito ferroviario.
La giornata odierna, come prevedevo, offre spunti che potranno essere oggetto della riflessione che proprio in queste settimane si sta conducendo a livello nazionale, non più soltanto con il Coordinamento delle Regioni, ma anche con il Ministero del Lavoro e con il Ministero della Sanità, in merito alla quale dovremo cercare di addivenire ad una posizione maggiormente definita e, in questa prospettiva, i lavori di oggi certamente portano un contributo importante, di grande spessore, che in larghissima misura condivido e che del resto riprende più punti e posizioni che sull’argomento sono stati già espressi dal Coordinamento delle Regioni.
Il ruolo istituzionale che rivesto in questo momento, oggi qui porto il contributo del coordinamento delle Regioni oltre a quello del Gruppo di Lavoro con i Ministeri che segue la questione, mi impone di essere molto attento nelle posizioni che espliciterò in quanto questo argomento, da parte nostra, non è stato ancora concluso e stiamo cercando di assumere una posizione definita.
Come hanno ricordato il prof. Pascucci e il prof. Angelini una cosa è presentare una ricerca sul piano dottrinale, un’altra è applicarla immediatamente, con tutte le ripercussioni, in una materia che è largamente nel campo penale anzi, direi, sta tutta nel campo penale.
La difficoltà di affrontare questa materia è una difficoltà oggettiva, ne è prova il fatto che oggi è stata espressa una posizione importante, ben documentata e supportata dagli argomenti trattati.
La posizione espressa nel febbraio 2006 da parte del Ministero del Lavoro va in una direzione esattamente opposta asserendo che il treno è un luogo di lavoro isolato, prevedendo il pacchetto di medicazione in dotazione e nessuna formazione.
Nell’intento di addivenire ad una soluzione le Regioni si sono espresse due volte sulla questione, una prima elaborando un documento di applicazione del d.m. n. 388 del 2003 nell’ambito del quale si specificava che il treno non è un luogo di lavoro isolato, dopodiché, proprio la difficoltà di calare la realtà pratica del treno all’interno di un decreto che probabilmente non è stato pensato per il treno ma più in generale per altre attività, ha spinto il Coordinamento delle Regioni a fare una riflessione più articolata al termine della quale, sostanzialmente, si fanno due affermazioni: si riconferma che non trattasi di luogo di lavoro isolato ai sensi di quanto previsto dal d.m. n. 388 del 2003, si dice anche che non si ravvisa che la definizione di unità produttiva si attagli in maniera perfetta al treno.
Per questo motivo in queste settimane si sta anche discutendo, e lo stesso Segretario Patta in questo senso ci ha invitato a fare una riflessione, se non sia il caso di utilizzare i decreti delegati relativi al Testo Unico in corso di discussione per definire meglio alcuni aspetti attinenti alle Ferrovie dello Stato, in particolare la questione dell’applicazione del d.m. n. 388 del 2003 e, in generale delle misure di pronto soccorso, al sistema ferroviario.
Da un punto di vista culturale e operativo ho riscontrato minori difficoltà quando ci siamo occupati del problema Vacma; le questioni mi sembravano maggiormente sostenibili con decisione, oggi qualche sforzo interpretativo occorre farlo in quanto, mentre nell’applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 al Vacma mi sembrava che si trattasse di applicare la norma, la questione di cui si tratta oggi richiede di doverla anche un po’ interpretare, probabilmente perché troppo rigida.
Giustamente la posizione del d.m. n. 388 del 2003 è dicotomica: o si è nell’ambito di quanto regimentato per l’unità produttiva, o si è nell’ambito di quanto regimentato per il lavoratore isolato.
Oggi è stata espressa una posizione che a me sembra profondamente convincente sostenendo che il treno è parte integrante dell’unità produttiva e che ha quindi bisogno di tutele paragonabili a quelle previste per l’unità produttiva, pur non essendo catalogabile in maniera precisa né dentro una casella né dentro l’altra.
In questo ambito, se queste sono le premesse, credo che un’attenzione centrale debba essere prestata agli aspetti di rispetto formale della norma, ma anche agli aspetti sostanziali andando ad analizzare quali sono i punti critici delle questioni che sono emerse stamani.
Credo che il maggior punto critico sia cosa succede quando si sente male il macchinista; l’altro, importante, è che tipo di formazione deve avere l’operatore a bordo treno per esercitare un’attività di pronto soccorso che probabilmente avrà poche occasioni di concretizzarsi, intendo da un punto di vista statistico, nei confronti del personale FS e Trenitalia, perché numericamente poco rilevante nei singoli convogli; al contrario più frequentemente potrà accadere di dover intervenire nei confronti dei passeggeri; mi sembra che questo concetto sia passato anche all’interno di Trenitalia: l’organizzazione delle misure di pronto soccorso deve essere pensata anche per garantire una tutela ai viaggiatori.
Meno importante, o forse in qualche modo già soddisfatto dall’assetto attuale, è il tema della comunicazione, sul quale inizialmente era stata posta molta attenzione, ma sul quale non intendo soffermarmi in quanto già illustrato dal dott. Margarita e ritenendo che il sistema nel suo insieme (rete dedicata, rete mobile ordinaria, rete fissa, ove funzionante ovviamente) non sia una criticità. Se così non fosse e non ci dovesse funzionamento della rete fissa nei tratti in cui non è garantita la copertura da parte degli operatori commerciali e della rete dedicata, sussisterebbero le condizioni per procedere penalmente in quanto si tratterebbe di comunicazione non adeguata -.
Una questione particolarmente sentita, in merito alla quale le posizioni espresse in termini di diritto dal prof. Angelini che ha illustrato la ricerca mi sembrano convincenti, è quella dei presidi sanitari (cassette di pronto soccorso o pacchetti di medicazione), ma ritengo si tratti di una differenza sostanzialmente quantitativa.
Questione a mio avviso più rilevante è quella della formazione, in merito alla quale se si accetta, e mi sembra convincente, la posizione espressa dal prof. Angelini, è evidente che qui siamo in fascia “C”, quindi deve essere prevista una formazione di 12 ore ad almeno due persone tra quelle presenti sul treno, perché una possa prestare soccorso all’altra e perché il capotreno possa prestare, se del caso, soccorso anche al personale viaggiante.
Se viene data questa chiave di lettura l’impegno è di non poca rilevanza, in quanto gli addetti interessati sono circa 22000 e, per non creare rigidità eccessive nella composizione degli equipaggi, non dico che tutti i 22000 debbano essere formati, ma, probabilmente, i numeri non sono molto lontani per garantire l’obiettivo.
Questa posizione non è esattamente quella che ha ipotizzato Trenitalia in questo momento, in cui vi è la disponibilità e l’interesse a formare un numero molto alto di operatori alle misure di pronto soccorso, praticamente la totalità degli operatori (i 22000 che dicevamo prima), con un impegno formativo tuttavia più ridotto, sostanzialmente incentrato su due aspetti, quello dell’addestramento all’allerta dei soccorsi, che ritengo il più importante, e quello dell’addestramento a misure essenziali di primissimo soccorso, tenendo anche conto che nel nostro caso la situazione è un po’ diversa dal posto di lavoro ordinario, in quanto probabilmente l’intervento viene richiesto per una patologia ordinaria, non una patologia infortunistica tipica da lavoro; nell’ipotesi invece di disastro ferroviario credo che le misure che potrebbe mettere in atto il singolo addetto siano scarsamente rilevanti.
Per quanti progressi possa fare la tecnologia, per quanto si possano proceduralizzare al meglio le modalità di intervento in caso di malore del macchinista, ritengo sia davvero difficile trovare una soluzione tecnica che consenta di assistere il macchinista che si è sentito male in tempi più rapidi e con assistenza migliore rispetto all’assistenza che potrebbe essere garantita se un altro macchinista fosse in grado di condurre il treno nella stazione più vicina, allertando al tempo stesso i soccorsi e facendo trovare lì un’ambulanza pronta per il trasporto in ospedale.
Non credo sia facile trovare un’altra soluzione tecnica di pari efficacia, che riguardi perlomeno l’intera linea, in quanto è vero che l’emergenza potrebbe verificarsi nel punto del passaggio a livello, in tal caso si riceverebbe lo stesso soccorso di un cittadino ordinario, ma occorre considerare che i treni passano raramente nei passaggi a livello e per lo più circolano invece in zone difficilmente raggiungibili.
D’altra parte non mi sembra che una lettura letterale del d.m. n. 388 del 2003 vincoli il datore di lavoro a garantire questo, cioè a garantire comunque, ad ogni costo, l’intervento più rapido possibile.
Il d.m. n. 388 del 2003 dispone che le stesse unità locali residenziali si debbano raccordare con il servizio del 118.
Ho seguito per diversi anni i lavori di realizzazione dell’AV Firenze-Bologna (sono 72 Km di percorso in galleria) e posso asserire che, in quella situazione particolare, la legge poneva all’impresa, di fatto, un unico obbligo: disporre di un’ambulanza sulla porta della galleria.
Attraverso accordi siamo riusciti ad organizzare un sistema di infermerie, mezzi e un raccordo programmato con il 118 che consente sempre di garantire un’assistenza in grado di stabilizzare il paziente in 20 minuti dall’evento, un qualcosa in più rispetto a quello che prevedeva la legge.
Credo che né il d.m. n. 388 del 2003 né il d.lgs. n. 626 del 1994 pongano questo obbligo in maniera tassativa.
Ho seguito con interesse, nella relazione di oggi, il richiamo all’art. 2087 c.c.
Se diamo una chiave di lettura analoga, estremizzata su questo punto, ossia il doppio macchinista è necessario altrimenti si da un’assistenza peggiore al macchinista che si sente male (se non diciamo questo ci nascondiamo dietro un falso problema), se traiamo questa conclusione, sia pure considerando la frequenza con cui l’evento succede, in quanto dalle statistiche di cui dispongo l’evento del macchinista che non è in grado di condurre il treno si verifica 1,17 volte su un milione di servizi, e una parte soltanto sono i casi in cui il macchinista trae vantaggio da un intervento tempestivo, se sosteniamo, sia pure con riferimento a questi casi che hanno un’incidenza estremamente bassa, che è necessario il doppio macchinista, allora, mi domando, non è forse opportuno che questo principio sia esteso a tutto il territorio nazionale e a tutte le attività lavorative?
Ritengo che non si dovrebbe mai lavorare da soli, perché certamente il soccorso che si può ricevere lavorando da soli è un soccorso che prevede tempi più lunghi rispetto ad una situazione in cui c’è un’altra persona che ci aiuta a richiedere l’intervento dei soccorsi.
Detto questo, non ho una soluzione in questo momento né posso averla, in quanto su questo punto sarà il Coordinamento delle Regioni assieme ai Ministeri a doversi esprimere.
Tuttavia ritengo che, per un verso, il miglior soccorso si abbia con due macchinisti, per l’altro, se questo ragionamento si fa per le Ferrovie debba essere fatto per ogni tipo di lavoro.
D’altra parte la legge in Italia ci dice quali sono i lavori che non è possibile fare da soli, evidentemente questo aspetto non è stato preso in considerazione.
Concludo con l’ultima annotazione in merito ad un aspetto che senz’altro deve essere considerato, relativo ad una parte del d.m. n. 388 del 2003 che a mio avviso è stata applicata in maniera formale, certamente nella mia Regione, ma credo sostanzialmente in tutta Italia; mi riferisco alla questione dell’informazione delle ASL e del raccordo con il 118, che nella maggior parte dei casi si traduce in un adempimento cartaceo, una comunicazione che arriva in qualche ufficio, talvolta ai servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro, talaltra al 118 e che il più delle volte viene posta in un cassetto senza nessuna riflessione pratica.
Se questo può essere tollerato per situazioni che rientrano nella rete del 118, che è in grado di intervenire in quelle situazioni nei tempi previsti per un’assistenza qualificata, credo non possa essere in nessun modo accettato per le Ferrovie dello Stato.
In questo caso credo che non ci si debba limitare ad una comunicazione formale inviata a tutti gli Assessorati regionali alla Sanità con l’indicazione delle linee di passaggio; ciò equivarrebbe a dire: “preparatevi a darci soccorso in caso di necessità”.
Credo che il livello debba essere un altro: ambito territoriale per ambito territoriale si stabiliscano, per ogni punto della linea, quali sono le modalità migliori per far intervenire il Servizio sanitario o i sistemi di emergenza, qualora ve ne sia la necessità.
Ritengo che si tratti di un dovere che debba essere comunque soddisfatto e realizzato, ossia il passaggio da una comunicazione formale ad una riflessione concreta sulle modalità con cui deve essere organizzato il soccorso, aspetti che abbiamo già anticipato a Trenitalia, per ora per le vie brevi, e sui quali, almeno informalmente, abbiamo avuto il segnale che verranno recepiti.