Categoria: Corte costituzionale
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La Corte afferma un importante principio: la salute del lavoratore autonomo e del lavoratore subordinato non può subire alcun tipo di discriminazione ed è soggetta ad uguale tutela.
Giurisprudenza Collegata: Corte Cost. 479/87;

LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Giudici,
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 11 febbraio 1952, n. 63; 1 della legge 16 ottobre 1962, n. 1498; 6 della legge 22 marzo 1908, n. 105, sull'abolizione del lavoro notturno dei fornai, promosso con ordinanza emessa il 2 maggio 1963 dal Pretore di Torino nel procedimento penale a carico di Ubertalle Bartolomeo e Giuseppe, iscritta al n. 115 del Registro ordinanze 1963 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 175 del 2 luglio 1963.
Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e l'atto di costituzione in giudizio di Ubertalle Bartolomeo e Giuseppe;
udita nell'udienza pubblica dell'11 dicembre 1963 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;
uditi l'avv. Aldo Dedin, per gli Ubertalle, e il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Fatto

Nel procedimento penale a carico di Bartolomeo e Giuseppe Ubertalle, il Pretore di Torino, con ordinanza del 2 maggio 1963, ha ritenuto non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 11 febbraio 1952, n. 631 della legge 16 ottobre 1962, n. 1498; 6 della legge 22 marzo 1908, n. 105, sull'abolizione del lavoro notturno dei fornai, sollevata dagli imputati in relazione all'art. 41 della Costituzione e con particolare riferimento al fatto che gli imputati stessi stavano lavorando da soli senza l'ausilio di terzi, per il che - secondo l'espressione usata nell'ordinanza - "a fortiori la norma loro contestata apparrebbe incostituzionale trattandosi di liberi imprenditori e non di lavoratori dipendenti".
L'ordinanza è stata notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 7 maggio 1963, comunicata ai Presidenti delle due Camere il 10 dello stesso mese e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 175 del 2 luglio successivo.
Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituiti, con atto depositato in cancelleria il 22 luglio 1963, i signori Giuseppe e Bartolomeo Ubertalle, i quali, aderendo alle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rinvio, e sviluppandole nella memoria depositata il 28 novembre, sostengono che il divieto del lavoro di panificazione in ore notturne, specie se svolto direttamente dall'imprenditore per conto proprio, è lesivo della libertà della attività imprenditoriale e nuoce all'interesse generale dei consumatori, impedendo che tale attività si svolga nel modo più idoneo ai fini di una migliore produzione.
In particolare, la parte privata deduce quanto segue:
1) l'abolizione del lavoro notturno, imposta dalla legge del 1908, se poteva giustificarsi allora, a causa delle sfavorevoli condizioni ambientali, igieniche e di lavoro, non è più concepibile oggi che tali condizioni sono sostanzialmente mutate. E sul punto richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1962, nella quale si afferma che una norma limitativa dell'iniziativa economica può ritenersi legittima solo se sussistono tuttora le esigenze sociali che spinsero il legislatore del tempo ad adottarla;
2) la violazione dell'art. 41 è ancor più palese ove il divieto di lavoro notturno si riferisca all'opera dell'imprenditore esercente. Il divieto non può giustificarsi con il generico richiamo alla "utilità sociale", perché questa si riferisce unicamente al rapporto tra iniziativa privata e benessere collettivo; né con il richiamo alla tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana, le quali riguardano solo i rapporti tra imprenditori e lavoratori subordinati; né, infine, con un richiamo alla tutela della salute pubblica, di cui all'art. 32 della Costituzione, rappresentando una ipotesi unica nella legislazione protettiva del lavoro, nella quale non esistono limitazioni al lavoro dei professionisti, dei dirigenti, dei giudici, ecc.;
3) la limitazione del lavoro notturno dei fornai è poi in contrasto anche con l'art. 4 della Costituzione e non può essere giustificata da profili attinenti alla concorrenza delle imprese, dato che l'art. 41 sottopone tale aspetto della iniziativa economica solamente a programmi e controlli che la indirizzino e la coordinino a fini sociali. Cosicché qualsiasi limitazione della concorrenza potrebbe essere legittimamente disposta solo in seno a programmi intesi a coordinare ed indirizzare un intero settore produttivo;
4) l'art. 2 della legge del 1952 avrebbe abolito la sanzione penale prevista dall'art. 7 della legge del 1908 per chi "lavora" nelle ore notturne, lasciando sussistere, con l'adeguamento al valore attuale della moneta, solo le sanzioni per chi "fa lavorare". Di conseguenza il divieto di "lavorare" nelle ore notturne, mantenuto nell'art. 1 della legge del 1952, dovrebbe considerarsi come non scritto, perché privo di sanzione. Se così interpretata, la norma denunziata si presenterebbe - per quanto riguarda il lavoro personale dell'imprenditore - adeguata alle norme costituzionali sopra richiamate senza il ricorso alla dichiarazione di incostituzionalità.
È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, la quale nell'atto di intervento depositato addì 11 giugno 1963, deduce che il legislatore del 1908, nel contenere il lavoro dei panificatori entro determinati limiti di orario, ebbe di mira, tra l'altro, la tutela della loro salute e di quella dei consumatori, posto che la vigilanza sull'igiene della lavorazione risultava difficoltosa nelle ore notturne: motivi sostanzialmente validi ancora oggi, in quanto il divieto di far lavorare in certe ore notturne tende alla salvaguardia della sicurezza umana - della quale la salute è un aspetto preminente - in contrasto con la quale non può svolgersi l'iniziativa economica privata.
La sicurezza umana, e per essa la salute, che deve essere salvaguardata, non è solo quella del lavoratore dipendente, ma anche quella dello stesso produttore, che lavori personalmente: onde il divieto del lavoro notturno anche per l'esercente. Del resto, l'ordinamento offre numerosi esempi di ritenuta illiceità di certe condotte, che si risolvono a danno od a pericolo della salute propria del soggetto del reato (esempi: art. 729 del Codice penale; art. 6 della legge 22 ottobre 1954, n. 1041, sulla disciplina della produzione, del commercio e dell'impiego degli stupefacenti, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di cassazione anche rispetto alla persona che detenga tali sostanze esclusivamente per uso proprio).
L'art. 1 della legge del 1952 va raffrontato non solo al primo comma dell'art. 41 della Costituzione, ma anche al secondo comma dello stesso articolo; ed altresì all'art. 32, primo comma, che definisce la tutela della salute fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività.



Diritto

Per quanto troppo succinta nella motivazione, l'ordinanza introduttiva solleva chiaramente la questione relativa alla legittimità costituzionale delle norme che stabiliscono il divieto di lavoro notturno dei fornai, ma pone più marcatamente l'accento sul punto relativo al divieto di tale lavoro quando sia stato compiuto personalmente dallo stesso imprenditore.
Nonostante che nell'ordinanza risulti richiamato l'art. 6 della legge 22 marzo 1908, n. 105, la disposizione denunziata è chiaramente quella dell'art. 7 di detta legge, nel testo sostituito prima con l'art. 2 della legge 11 febbraio 1952, n. 63, e poi con l'articolo unico della legge 16 ottobre 1962, n. 1498.
Di modo che le disposizioni da prendere in esame sono il detto art. 7 e l'art. 1 della stessa legge del 1908, nel testo sostituito con l'art. 1 della legge del 1952.
Alla fine della sua memoria la difesa dei signori Ubertalle, richiamandosi anche all'opinione espressa da un parlamentare in sede di discussione presso il Senato della legge 11 febbraio 1952, n. 63, prospetta che l'art. 2 di detta legge avrebbe mantenuto la sanzione penale solo a carico di chi "faccia lavorare", lasciando privo di tale sanzione il divieto di "lavorare".
La stessa difesa rileva che se questa interpretazione fosse esatta, la questione di legittimità costituzionale circa il divieto di lavoro notturno dell'imprenditore non avrebbe ragion d'essere, in quanto la norma che poneva tale divieto si dovrebbe ritenere abrogata (la difesa Ubertalle parla di divieto da considerarsi come non scritto perché privo di sanzione).
L'esame che la Corte deve compiere in ordine a questa tesi non risponde al fine di sindacare il giudizio di rilevanza, ma al fine di identificare il contenuto e l'esatta portata delle norme sottoposte al controllo di legittimità costituzionale: operazione preliminare, indispensabile per tale controllo.
L'art. 7 della legge originaria, 22 marzo 1908, n. 105, puniva l'esercente con ammenda fino a lire 50 per ciascuna delle persone impiegate nel lavoro ed alle quali si riferiva la contravvenzione e puniva gli operai trovati al lavoro con ammenda fino a lire 30; però dichiarava esenti da pena gli operai quando l'infrazione fosse dovuta a coazione da parte del proprietario.
La legge del 1952, partendo dal presupposto che sussista in ogni caso tale coazione, ha eliminato la sanzione penale per gli operai, addossando la responsabilità al solo esercente e adeguando la misura della sanzione ai nuovi valori monetari.
Ciò risulta dal testo della legge ed è avvalorato dalla discussione che si ebbe in Senato, dove al parlamentare che prospettava come non fosse logico che ad un duplice divieto (quello di lavorare e di far lavorare) si contrapponesse la sola sanzione a carico di chi fa lavorare, fu risposto che "si suppone che il lavoratore sia coatto e quindi è giusto che la responsabilità vada al datore di lavoro".
La legge del 1952 non volle dichiarare non punibile l'esercente che lavorasse in ore notturne, ma volle che solo l'esercente rispondesse della contravvenzione; e certamente non per addossargli la responsabilità di fatti non propri, ma per addebitargli l'inosservanza di un precetto che a lui personalmente viene imposto e che egli è tenuto ad osservare ed a fare osservare nei confronti di chiunque lavori nella sua azienda, contro il divieto della legge.
Dal che si deduce come il divieto investe l'attività di qualunque soggetto, non escluso lo stesso esercente.
Posto, dunque, che il divieto della legge si estende nei riguardi di chiunque attenda a lavori di panificazione nelle ore notturne, la questione di legittimità costituzionale da esaminare ha per oggetto l'intero contenuto delle norme che pongono quel divieto e stabiliscono le sanzioni.
L'esame deve essere compiuto in raffronto con il solo art. 41 della Costituzione, escludendo il riferimento all'art. 4, invocato dalle parti private senza alcun addentellato con l'ordinanza di rimessione.
Come risulta dai lavori preparatori, la legge del 1908 si ispirò a finalità di ordine sanitario, anche se non mancarono considerazioni di altro carattere.
Essenzialmente, la legge si propose di assicurare una tutela sanitaria alle persone addette alla panificazione e di apprestare una tutela igienica per un prodotto alimentare di generale consumo, il pane.
Si vollero prevenire i danni alla salute delle persone che in ore notturne attendevano alla panificazione; e risulta espressamente che il legislatore si preoccupò della salute di tutti, padroni ed operai che fossero.
L'altro inconveniente, cui la legge del 1908 intese apprestare rimedio, derivava dalla grave difficoltà - che in pratica si traduceva in impossibilità per i piccoli agglomerati - di controllare nelle ore notturne l'osservanza dei precetti igienici nel procedimento di panificazione e nell'impiego degli ingredienti adoperati per la confezione del pane.
Gli intenti originari, con maggiore accentuazione per quello riflettente la tutela sanitaria dei lavoratori subordinati, permangono alla base delle due successive modificazioni legislative del 1952 e del 1962.
Il legislatore, a distanza di circa mezzo secolo una prima volta e di altri dieci anni una seconda volta, ha verificato la permanenza delle ragioni che originariamente avevano sorretto la norma.
E questa valutazione, nel caso attuale, non si presta a censura.
Si potrebbe anche discutere se, dopo tanti anni, le condizioni siano tali da consentire in certi tipi di stabilimenti (i più grandi e meglio attrezzati) turni che rendano possibile un avvicendamento nel lavoro notturno; così pure si potrebbe discutere se gli organi addetti alla vigilanza sull'igiene degli alimenti possano, sulla base delle nuove acquisizioni della scienza e della tecnica, disporre di mezzi di controllo sulla confezione del pane e sulla buona condizione igienica degli ingredienti, efficienti in pieno anche se la panificazione avvenga in ore notturne.
Ma queste nuove possibilità, che il legislatore - e solo il legislatore - potrebbe valutare per eventuali modificazioni della disciplina vigente, non si presentano tali da togliere, rispetto alla situazione generale, quella base di ragionevolezza, su cui resta fondata la norma.
Che la tutela della sanità possa fornire una delle ragioni di utilità sociale che, a mente dell'art. 41 della Costituzione, giustificano le limitazioni all'iniziativa economica privata, è cosa che la Corte ha già affermato con una sua prima sentenza del 22 gennaio 1957, n. 29.
E questa affermazione non ha bisogno di ulteriori illustrazioni, basata com'è sopra il principio, consacrato nell'art. 32 della stessa Costituzione, del supremo interesse che lo Stato ha nei riguardi della tutela della pubblica salute.
Ora, se il divieto di lavoro notturno nella panificazione è stato imposto per quella finalità, è evidente come il divieto stesso non possa non valere nei confronti di chiunque presti la sua opera, quale che sia la sua qualifica e la sua posizione nell'impresa.
Di fronte all'art. 32 della Costituzione - e si può aggiungere, di fronte anche all'art. 3 - non si possono fare discriminazioni fra la salute del lavoratore subordinato e quella del lavoratore autonomo, i quali tutti hanno diritto ad una uguale tutela, quando, come nel caso in esame, il pericolo per la salute sia uguale per chiunque si trovi nella medesima situazione.
Le esposte considerazioni bastano per dimostrare la infondatezza tanto della tesi principale della illegittimità totale della norma che pone il divieto di panificazione nelle ore notturne senza riguardo alla qualifica delle persone addette alla lavorazione, quanto della tesi subordinata secondo la quale la stessa norma sarebbe illegittima nella parte relativa all'attività dei lavoratori non subordinati.
Così che non occorre esporre altre ragioni per mostrare l'infondatezza delle tesi stesse: precipua la necessità di evitare una causa di ingiustificata concorrenza a favore dell'esercente che, lavorando personalmente, si potrebbe sottrarre alla disciplina comune, il cui carattere di generalità è imposto dalla esigenza di tutelare gli interessi di tutta la categoria degli esercenti e quelli dei consumatori;




P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 7 della legge 22 marzo 1908, n. 105, sull'abolizione del lavoro notturno dei fornai, nel testo modificato con le leggi 11 febbraio 1952, n. 63, e 16 ottobre 1962, n. 1498, in riferimento all'art. 41 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 febbraio 1964.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 14 MAR. 1964.