Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Tribunale di Milano, Sez. Lav., 30 novembre 2012 - Licenziamento, mobbing e differenze retributive


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

SEZIONE LAVORO


Il dott. Giorgio Mariani, in funzione di giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente

SENTENZA



nella causa iscritta al numero di ruolo generale sopra riportato, promossa con ricorso depositato in data 22 dicembre 2011

da

LA.Ad., elettivamente domiciliata in Milano, Via (...), presso lo studio dell'Avv. Mo.Ca., rappresentata e difesa dall'avv. Ma.Bi., per delega in margine al ricorso introduttivo;

ricorrente

contro

PE.Ma., in proprio e quale titolare della ditta individuale omonima, elettivamente domiciliata in Milano, Via (...), presso lo studio dell'Avv. Bi.Ca., che la rappresenta e difende, per delega in calce alla copia notificata del ricorso;

convenuto

OGGETTO: licenziamento, mobbing e differenze retributive.

Fatto



Con ricorso depositato in data 22 dicembre 2011, LA.Ad. ricorreva al Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, per sentire accogliere le sopra indicate conclusioni, nei confronti di PE.Ma.

Volendo sintetizzare il fluviale ricorso di LA.Ad., si può riferire che ella abbia chiesto al Tribunale nei confronti della imprenditrice individuale ed ex datrice di lavoro PE.Ma.:

a) l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento del 27 marzo 2009 (doc. 11 d fasc. ric. irrogato per giustificato motivo soggettivo) poiché privo di giustificazione con le conseguenze relative alla tutela obbligatoria ed il preavviso;

b) l'accertamento dello svolgimento di lavoro straordinario con la conseguente condanna alle differenze retributive dirette e indirette quantificate in Euro 35.700,40;

c) l'accertamento dell'illegittimità dei comportamenti datoriali perché mobbizzanti, discriminatori o dequalificanti con conseguente diritto al risarcimento del danno quantificato in Euro 91.810,20 o, in subordine, in Euro 100.541,90, oltre il danno morale;

d) l'accertamento del demansionamento, con conseguente risarcimento del danno quantificato in Euro 25.000,00.

PE.Ma. si è costituita contestando le avverse pretese e chiedendone il rigetto. Ha eccepito la mancata osservanza, in via preliminare, del termine di 270 giorni imposto dal Collegato Lavoro per il deposito del ricorso.

Ammessa ed espletata la prova orale, all'udienza del 30 novembre 2012 la causa veniva posta in decisione con contestuale lettura del dispositivo.

Diritto


1. L'eccezione preliminare di decadenza, sostenuta dalla Difesa di PE.Ma. anche in sede di discussione, è fondata e deve essere accolta, sulla base della giurisprudenza maggioritaria impostasi presso questo Tribunale e condivisa in altre pronunzie anche da questo giudice. LA.Ad. viene assunta presso la ditta individuale della ricorrente il 14 ottobre 1991 (doc. 4 fasc. ric.) e viene licenziata dalla sua datrice il 31 marzo 2009 (doc. 11 d fasc. ric.) per "giustificato motivo soggettivo". Essa impugna nei termini di 60 giorni il licenziamento, ma deposita il ricorso il 22 dicembre 2011.

Invero, ai sensi dell'art. 6 comma 2° legge n. 604/66, come modificato dall'art. 32 legge n. 183/2012, "l'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso".

L'art. 2, comma 54, D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, ha differito al 31 dicembre 2011 l'efficacia della modifica del primo comma dell'art. 6 legge n. 604/1966, secondo cui "Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso".

La lettera dell'art. 2, comma 54, D.L. n. 225/2010 (ai cui sensi "in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere 31 dicembre 2011"), in ragione dell'espressa limitazione dell'ambito di applicazione della proroga al solo termine dei "sessanta giorni" ed al solo primo comma dell'art. 6 legge n. 604/66, porta a concludere che - ferma la sospensione, in sede di prima applicazione, del termine di decadenza di 60 giorni - sia, invece, efficace la previsione del termine decadenziale dei 270 giorni per l'impugnativa giudiziale. La modifica che l'art. 32 legge n. 183/2010 ha apportato al secondo comma dell'art. 6 legge n. 604/1966 non è, infatti, né letteralmente né logicamente dipendente dalla nuova formulazione data al primo comma (che stabilisce la necessità dell'impugnazione del licenziamento nel termine di 60 giorni). Presupposto della operatività del termine dei 270 giorni è semplicemente l'esistenza di un'impugnazione stragiudiziale del licenziamento.

Non ostandovi, quindi, motivi di ordine letterale, logico o sistematico, la nuova disciplina relativa alla sopravvenuta inefficacia dell'impugnazione stragiudiziale, ove non seguita entro 270 giorni da quella giudiziale o dalla proposta di arbitrato o conciliazione, non risulta oggetto di differimento e trova, quindi, immediata applicazione fin dall'entrata in vigore della legge n. 183/2010 e perciò a decorrere dal 24 novembre 2010. Le conclusioni qui accolte trovano ulteriore conferma nei lavori parlamentari, posto che l'ordine del giorno 9/4086/12 della Camera dei Deputati, secondo il quale "l'effetto del comma 1-bis del citato articolo 32, introdotto dal Senato con il comma 54 dell'articolo 2 del decreto-legge in esame, è quello di differire, al 31 dicembre 2011, l'efficacia delle disposizioni limitatamente alla fattispecie di cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604; a ragione del differimento rimangono temporaneamente in vigore le norme in materia di impugnazione non richiamate da tale ultima disposizione citata". Pur in assenza di una disciplina transitoria (quale quella contenuta nell'art. 32 co. 4 lett. b e co. 7, riferibile ai rapporti che si siano conclusi prima dell'entrata in vigore della legge), il termine di decadenza trova poi applicazione anche a vertenze in cui - prima del 24 novembre 2010 - sia intervenuta una impugnazione stragiudiziale.

In tali situazioni il termine di 270 giorni decorre dalla data di entrata in vigore della legge n. 183/2010, andando così a scadere il 21 agosto 2011 (270 giorni dal 24 novembre 2010). Il ricorso, in concreto, è stato depositato da LA.Ad. il 22 dicembre 2011, quindi abbondantemente fuori termine.

2. Quanto al demansionamento, esso è posto da LA.Ad. in relazione (pag. 39 e segg. ricorso) ad una mancanza di formazione che nulla ha a che fare con la nozione teorica di demansionamento, con il che la relativa domanda va rigettata per perplessità della causa petendi. Peraltro, l'asserita incapacità (imputabile o meno che sia a PE.Ma.) di taglio dei capelli non è conferente alla nozione di demansionamento, che, come è noto, implica l'adibizione a mansioni inferiori rispetto a quelle concordate in sede di assunzione.

Lo svolgimento anche delle pulizie in un negozio di tre persone non può essere seriamente considerato demansionamento, perché è opera necessaria che implica il buon funzionamento delle altre a meno di pretendere, per assurdo, che un piccolo imprenditore debba assumere un operaio all'esclusivo scopo di svolgere tale tipo di mansioni.

3. Quanto al mobbing, va premesso che tale istituto costituisce un fenomeno enucleato dalla psicologia e dalla sociologia, senza una propria autonoma dignità giuridica.

Con questo importante limite, per finalità meramente descrittive, il fenomeno ben può essere descritto utilizzando le parole usate dalla Corte di cassazione, in una delle più significative sentenze in tema (Cass. n. 4774/2006): "una fattispecie di danno derivante da una condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore".

In termini sostanzialmente analoghi si è espressa la Corte Costituzionale (Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359).

Tale nozione tradizionale di mobbing lo riconduce nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c.

Sono caratteristiche di questo comportamento (Cass. 17 febbraio 2009 n. 3785; Cass. 9 settembre 2008 n. 22858):

- la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi: C. Cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. SU 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; Cass. SU 12 giugno 2006 n. 13537);

- la volontà che lo sorregge, diretta alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente;

- la conseguente lesione arrecata al lavoratore, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. Anche il Tribunale di Milano ha chiarito che: "Per mobbing si intende una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall'art. 2087 c.c.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sua sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela lavoratore subordinato" (Trib. Milano, 20 luglio 2006, Orient. giur. lav. 2006, 3577).

In concreto, la prova richiesta da LA.Ad. non forma una prospettazione effettivamente dettagliata dei singoli comportamenti ("ripetute contestazioni e continui rimproveri", "si è spesso rivolta alla ricorrente aggredendola verbalmente", "si è spesso rivolta alla ricorrente con frasi e/o atteggiamenti bruschi"; la ricorrente si duole anche della asserita pretesa della convenuta di darle un bacio sulla bocca, parrebbe con fare lascivo, il giorno di San Valentino, fatto inquadrato ambiguamente in una cornice persecutoria) o atti che possano rivelare l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti o conflittuali, che si possono ritenere fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo, specialmente se esso è in corso da un lunghissimo tempo.

Il corpo documentale di carattere medico prodotto agli atti non può evidentemente supplire alla mancanza di prova di specifici fatti imputabili all'imprenditore, ciò che rende la domanda assolutamente inaccoglibile, con tutte le conseguenti domande di danni diversamente titolate.

4. Circa l'accertamento dello svolgimento di lavoro straordinario, che LA.Ad. sostiene che il prolungamento dell'orario era stato continuato e costante. Il lavoratore che agisca per ottenere il compenso per questa attività ha, come è noto, l'onere di dimostrare di aver lavorato oltre l'orario normale di lavoro e, ove egli riconosca di aver ricevuto una retribuzione ma ne deduca l'insufficienza, è altresì tenuto a provare il numero di ore effettivamente svolto, senza che eventuali - ma non decisive - ammissioni del datore di lavoro siano idonee a determinare una inversione dell'onere della prova. Sul punto, quindi, il Tribunale ha ammesso la prova orale. La teste AM.Ma., dipendente di PE.Ma. da aprile 1993 ha riferito al giudice: "Sono una lavorante che si occupa di tutto: piega, permanente, tintura, manicure, per alcuni clienti mi occupo anche del taglio. Conosco LA.Ad. : l'ho conosciuta perché lavorava lì.

La ricorrente cominciava a lavorare quasi sempre prima di me, anche se poteva incorrere in ritardi.

Io avevo un orario elastico: il mio orario parte dalle ore 9.00 (orario di apertura del negozio), ma arrivo sempre verso le ore 9.15.

Quando arrivavo io, LA.Ad. era già al lavoro, raramente arrivava in ritardo.

Alle ore 12.30 il negozio chiudeva e io, come la ricorrente, potevo stare lì (a mangiare), oppure andare fuori a mangiare o a fare compere.

Nel pomeriggio il negozio riapriva alle ore 14.30 e si riapriva la porta. LA.Ad. e io tornavamo a lavorare. L'orario di chiusura del negozio era alle ore 19.00. Io me ne andavo un po' prima, fra le 18.00 e le ore 18.15 - 18.30. Non lasciavo clienti a metà; se c'era da fare due "pettinate" le faceva la titolare. Nel caso avessi avuto una cliente, l'avrei portata a termine anche dopo l'orario che ho indicato. LA.Ad. rimaneva lì dopo che me ne andavo. Qualche volta è andata via anche prima. Non sono in grado di riferire sull'orario preciso di uscita della ricorrente. Il lunedì e la domenica sono i giorni di chiusura totale: il negozio non apre. Che io sappia la ricorrente non è andata in negozio di domenica e di lunedì.

Lo "spacco" fra le ore 12.30 e le ore 14.30 si faceva sempre; in caso si fosse lavorato in più durante lo spacco, il tempo veniva recuperato, andando via prima o arrivando dopo.

Non mi risulta l'estensione dell'orario fra il 1994 e il 2009 indicata dal capo c) del ricorso della ricorrente".

La teste Ro.LA., sorella di LA.Ad. e sua convivente, ha riferito al Tribunale: "Non sono mai stata dipendente di PE.Ma.

Mia sorella ha cominciato a lavorare per PE.Ma. intorno al 1991, dopo aver svolto un apprendistato. Ha lavorato fino al 2009, quando è stata licenziata.

Io andavo in macchina a Milano insieme a mia sorella, tutti i giorni. e tornavo in macchina insieme a lei.

Io studiavo in una biblioteca in via Oglio, vicina a P.le (...) dove lavorava mia sorella.

Anche la palestra dove sono scritta è lì nelle vicinanze. Parcheggiavamo la vettura sotto il ponte di Corvetto, di fronte al negozio.

Arrivavamo lì verso le ore 8.30 - 8.45. A volte prendevamo un caffè in un bar adiacente al negozio. Mia sorella apriva il negozio. Ciò fino al 2007.

Era successo un litigio fra mia sorella e PE.Ma., legato credo ad un'assenza per malattia. Da quel momento, il negozio veniva aperto solo da PE.Ma., suppongo.

Non ho vissuto in prima persona il litigio, ma mi è stato riferito da mia sorella.

Gli orari erano differenti da martedì a giovedì e il venerdì ed il sabato.

Da martedì a giovedì, mia sorella generalmente mangiava in negozio: all'interno nel negozio si poteva cucinare, c'era una piastra elettrica ed un frigorifero. Il pranzo veniva consumato nel negozio per minimizzare i tempi. Lo so perché vedevo cosa faceva mia sorella: puliva il negozio o lavorava. C'era anche collega di mia sorella che si chiama Ma. Il venerdì il sabato mia sorella non faceva pausa si faceva orario continuato. Suppongo che mia sorella non mangiasse o mangiasse qualcosa in dieci minuti, poiché il negozio era pieno di clienti.

PE.Ma. chiudeva alle ore 19.00. Mia sorella usciva fra le 19.15 e le 19.30. Io la aspettavo in macchina oppure entravo nel negozio ad attenderla.

In negozio a quell'ora non c'era la Ma. perché abitava più lontano di noi, mi pare oltre Lodi e quindi se ne andava prima. Non ricordo quando usciva Ma.

Da quando mia sorella è stata assunta a tempo indeterminato, la sua situazione circa gli orari è peggiorata, perché aveva meno tempo.

La domenica ed il lunedì mia sorella non andava a lavorare, perché erano i giorni di chiusura del negozio. Siamo sempre salite a Milano insieme. Mi pare che questo iter sia iniziato nel 1991 e dura tuttora".

La teste Fr.NO., cliente di PE.Ma. e figlia del depositario delle scritture contabili di PE.Ma. ha riferito: "Frequentavo e frequento il negozio di PE.Ma. dall'apertura da più di dieci anni.

La mia frequenza era mensile. In genera concordavo un appuntamento, che era sempre nel tardo pomeriggio o in tarda mattinata. Mi fermavo circa un'ora e mezza. Conosco LA.Ad., perché l'ho vista in negozio.

Poteva succedere anche dopo le ore 13.00 o dopo le ore 19.00. Circa gli orari di prima mattina, nulla so.

Di solito vedevo sempre le ragazze in negozio che mangiavano lì o consumavano qualcosa lì. Non ho mai prestato molta attenzione alla cose. Per "ragazze" intendo le signorine Ma. e Lu.

Il mio rapporto è stato quasi sempre con PE.Ma., visto che sono una persona particolarmente esigente. Lu. spesso mi faceva la manicure. Quelle rare volte che mi fermavo la sera, non mi pare di ricordare le ragazze: io ero servito da PE.Ma.

Credo che l'orario di chiusura del negozio a cavallo del pranzo ci fosse, ma non ricordo quale fosse".

La teste VA.Is., amica personale di LA.Ad. ha riferito: "So che LA.AD. ha lavorato per PE.MA. perché abito nei paraggi del negozio, in viale (...).

Sono andata nel negozio un paio di volte per fare la messa in piega.

So che la ricorrente lavorava lì da prima che ci conoscessimo; so che orari faceva la ricorrente perché me li aveva detti e perché passavo sempre di lì al mattino verso le ore 9.00 andando al lavoro e la vedevo già dentro che puliva il locale o puliva io vetri; io faccio la pausa alle ore 13.30, per cui passavo di lì e se la vedevo indaffarata a pulire, me ne andavo, se no mi faceva un cenno e la aspettavo poiché sarebbe uscita, per un panino in qualche locale in zona.

Il venerdì ed il sabato LA.AD. aveva orario continuato: io passavo e la vedevo a lavorare con le colleghe (la sua collega si chiama Ma. e la titolare si chiama Ma.), per cui me ne andavo. Vedevo le signore che phonavano i clienti davanti agli specchi. In settimana martedì, mercoledì e giovedì, dopo aver finito con le clienti, verso le 12.00 - 12.30 doveva rimanere dentro a sistemare il negozio; io passavo e guardavo a che punto era. Se aveva finito di pulire poteva uscire, diversamente rimaneva dentro.

Gli orari mi parevano 12.30 - 14.30 nel corso della settimana, all'infuori del venerdì e del sabato, in cui c'era l'orario continuato. Si trattava degli orari di negozio. Quando passavo dal negozio, non entravo ma guardavo da fuori, attraverso le persiane semitirate. La porta del negozio era chiusa; era aperta solo se la ricorrente puliva il cornicione ed i vetri esterni".

Pare evidente che dalla prova orale non si evinca con certezza né l'an né il quantum dell'attività di lavoro straordinario svolto da LA.Ad.

La prossimità dei testi alle rispettive parti fa ritenere che la questione sia in sostanza irrisolvibile. La teste VA. entra nel negozio di PE.Ma. un paio di volte in tutto; la sorella della ricorrente formula ipotesi circa orari ed attività.

La teste non entra in negozio in modo del tutto saltuario. La teste AM., attuale dipendente di PE.Ma. dal 1993, nega qualsiasi straordinario. Per questo le fotografie allegate da PE.Ma. in sede di discussione (per valutare l'attendibilità di testi) paiono superflue ai fini del decidere e non devono essere allegato al fascicolo di causa.

Mancando una prova certa, la relativa domanda va rigettata.

5. Alla soccombenza di LA.Ad. seguono, ex art. 91 c.p.c., le spese processuali, che si liquidano a suo carico e in favore di PE.Ma., in complessivi Euro 3.500,00, oltre agli accessori fiscali e previdenziali previsti ai sensi di legge.

P.Q.M.


Il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria ed ulteriore istanza domanda ed eccezione disattesa, così decide:

1) rigetta il ricorso di LA.Ad.;

2) condanna la parte soccombente LA.Ad. alla rifusione delle spese processuali a vantaggio di PE.Ma., liquidate in complessivi Euro 3.500,00, oltre agli accessori fiscali e previdenziali previsti ai sensi di legge;

3) ai sensi dell'art. 53 D.L. 25 giugno 2008, n. 112, che ha modificato l'art. 429, primo comma, c.p.c., fissa in giorni cinque il termine per il deposito della sentenza.