• Dispositivo di Protezione Individuale
  • Luogo di lavoro
 
Applicabilità delle norme di prevenzione, ed in particolare di quelle dettate per evitare le cadute dall'alto, anche nelle autocisterne.
Responsabilità del datore di lavoro per morte di un lavoratore a seguito di caduta da autocisterna -  Sussiste

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giusep - Presidente -
Dott. NOVARESE Francesco - Consigliere -
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) PROCURATORE GENERALE presso la Corte d'Appello di Firenze;
2) D.F.;
3) C.L.;
4) D.R.;
Parti civili nel procedimento penale a carico di B.A.;
Avverso la sentenza del 14/10/02 Della Corte d'Appello di Firenze;
Visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
Udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione del consigliere Dr. Dott.  Giacomo Foti;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gialanella che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
Udito, per la parte civile, l'avv. Libori che ha concluso per l'accoglimento dei ricorsi.
Udito il difensori Avv. Miti per gli imputati che ha concluso per l'inammissibilità o per il rigetto dei ricorsi.




FattoDiritto

Nel corso delle operazioni di carico di gasolio presso il deposito "Agip Petroli spa" di Calenzano, D.U., intento a tale operazione, cadeva dalla sommità di un'autocisterna e decedeva a causa del grave trauma encefalico e toracico riportato.
Le indagini, subito avviate, indicavano quali responsabili dell'infortunio B.A., legale rappresentante della "Carbonafta srl", datore di lavoro del D., e Ba.
A., responsabile del deposito Agip, nei confronti dei quali si procedeva per il delitto di omicidio colposo, ai sensi dell'art. 589 c.p., comma 2, per avere, con autonome condotte, per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, con violazione, quanto al B., del dovere di protezione imposto ai datori di lavoro ex art. 2087 c.c. e delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, previste al D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 8, 27, 374, 377, 381 e 389, causato la morte del D..
Con sentenza del 6.4.01, il Tribunale di Prato affermava la responsabilità di B.A., quanto al reato di omicidio colposo, e lo condannava, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, ritenute equivalenti all'aggravante contestata, alla pena, sospesa alle condizioni di legge, di sei mesi di reclusione ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili C.L., D.F. e D.R., che liquidava nelle somme ritenute di giustizia; dichiarava prescritti i reati contravvenzionali contestati ed assolveva Ba.Am.
perchè il fatto non costituisce reato.
Secondo la ricostruzione operata dal giudice di primo grado, il D., nel muoversi sul cielo dell'autocisterna per eseguire le operazioni di carico del gasolio, era scivolato ed era caduto, probabilmente anche per avere inciampato contro il gancio in lamiera forata per il sollevamento della cisterna, posto sulla parte superiore dell'autobotte.
Il tribunale rilevava profili di responsabilità a carico dell'imputato con riguardo: ai mezzi di protezione in dotazione al lavoratore, in particolare alle scarpe antiscivolo, che erano in realtà consumate, ed al casco protettivo, non in regola in quanto il sottogola si presentava consumato, nonchè alla mancata segnalazione della presenza sull'autocisterna del gancio sul quale il D. aveva inciampato; nessuna efficacia causale, viceversa, attribuiva al mancato aggancio della cintura di sicurezza, dalla quale, a giudizio del tribunale, il D. avrebbe, comunque, dovuto sganciarsi per eseguire l'operazione di carico.
Su appello proposto dal B., la Corte d'Appello di Firenze, con sentenza del 14 ottobre 2002, assolveva l'imputato perchè il fatto non sussiste, e revocava le disposizioni civili della sentenza impugnata. Premesso che la tesi d'accusa aveva rilevato, a carico dell'imputato, un duplice profilo di responsabilità, l'uno, relativo alle misure di sicurezza proprie del luogo di lavoro, l'altro, alle misure preventive di protezione in dotazione al lavoratore, la corte territoriale escludeva ogni responsabilità in capo all'appellante per le seguenti considerazioni.
Sotto il profilo della sicurezza del luogo di lavoro, carente, secondo l'accusa, per l'assenza di adeguata cintura di sicurezza e di protezioni sul retro dell'autocisterna nonchè per la mancanza di adeguata segnalazione del gancio posto sul cielo dell'autobotte, i giudici dell'impugnazione rilevavano:
a) che l'assenza della cintura di sicurezza non aveva avuto alcun rilievo causale nella determinazione dell'evento poichè, come già affermato dal tribunale, non potendo esser più lunga di un metro e mezzo, avrebbe dovuto, comunque, essere sganciata, non potendo accompagnare il D. lungo tutto il tratto di cielo dell'autocisterna;
b) che l'assenza di protezioni sul retro dell'autobotte era determinata dalla struttura della stessa che, avendo sagoma tondeggiante, mai avrebbe permesso l'applicazione di elementi posteriori di protezione;
più in generale, quanto al tema delle misure di sicurezza proprie del luogo di lavoro, la corte territoriale rilevava l'erroneità del richiamo al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27 - che prescrive quali debbano essere le protezioni delle passerelle, impalcature, ripiani, rampe e posti di lavoro o di passaggio siti ad altezza superiore ad un metro e mezzo - sul rilievo che, secondo quanto espressamente prevede l'art. 2 del DPR citato, le norme di detto decreto non si applicano, tra l'altro, "all'esercizio dei trasporti terrestri pubblici", trattandosi di materia che "è regolata, o sarà regolata, da appositi provvedimenti", effettivamente successivamente emanati, costituiti da diverse circolari ministeriali, alle cui prescrizioni, secondo la corte del merito, si era del tutto adeguata la "Carbonafta", posto che i suoi mezzi avevano sempre superato i periodici controlli;
c) che con riguardo al gancio di sollevamento, non era emersa prova adeguata circa un effettivo nesso causale tra la sua presenza e la caduta del D.; a tale proposito, la predetta corte rilevava, da un lato, che il gancio era perfettamente visibile, per cui non era necessario intervenire, pitturandolo con diverso colore o avvolgendolo con una capsula protettiva, dall'altro, che le cause della caduta del D. non erano state per nulla accertate, avendo l'unico testimone presente sul posto, intento al proprio lavoro, solo riferito di rumori "come se inciampasse ... come una successione di passi fitti ... di uno che ha perso l'equilibrio" ed essendo emerso dai rilievi eseguiti sull'autobotte, la presenza di impronte plantari e strisciate direzionate verso il retro della stessa; elementi che possono far ritener valida la tesi dell'urto con il gancio, ma anche quella di un'autonoma perdita di equilibrio da parte della vittima.
Quanto ai presidi di sicurezza individuale in dotazione al D., la corte rilevava:
a) che le scarpe che indossava la vittima non erano lisce ma "..mostravano consunzione del rilievo del disegno carrarmato della suola in corrispondenza di entrambe le punte";
b) che il casco di protezione era quello regolamentare e che, anche se non presentava "sottogola e stanghette in regola", aveva solo la funzione di proteggere il lavoratore da eventuali urti, non da effetti traumatici dovuti a cadute dall'alto, di guisa che doveva ritenersi escluso il nesso eziologico tra la leggera consunzione delle scarpe, le condizioni del casco e le conseguenze mortali della caduta del D..
Avverso tale sentenza propongono ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Trento e le parti civili D.F., C.L. e D.R..
Il primo deduce carenza e manifesta contraddittorietà della motivazione e travisamento dei fatti. Rileva il ricorrente che illogica è la decisione della corte territoriale laddove, da una parte ha ritenuto l'autobotte dalla quale il D. è caduto come vero e proprio "luogo di lavoro", dall'altro ha contestato che ad esso fosse applicabile la disciplina del D.P.R. n. 547 del 1955.
Richiama, altresì, il ricorrente quanto emerso in sede dibattimentale circa la possibilità di dotare l'autobotte di accorgimenti di sicurezza che avrebbero consentito di ovviare alla forma tondeggiante dell'autocisterna e permesso di camminare sulla stessa senza pericolo di cadute.
Censura, infine, il PG la sentenza impugnata, laddove non è stato dato rilievo alcuno all'anomala presenza del gancio di sollevamento della cisterna che, posto in posizione tale da costituire pericolo per chiunque si trovasse ad operare in quel luogo, aveva, in realtà, determinato la caduta del D..
Le parti civili deducono:
 a) violazione di legge, specificamente degli artt. 589, 40, 41 c.p., D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 8, 27, 374, 377, 381, 389, per avere la corte territoriale negato efficacia causale alla mancanza di adeguate cinture di sicurezza, all'assenza di protezioni sul retro dell'autobotte, alla mancanza, sul cielo dell'autobotte, di segnalazioni della presenza del gancio e di adeguate protezioni; vengono, quindi, riproposte le censure di illogicità della motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta inapplicabilità delle norme previste dal D.P.R. n. 547 del 1955 ed alla ritenuta irrilevanza causale dell'assenza di protezioni e di adeguata cintura di sicurezza nonchè della presenza del gancio sul tetto dell'autobotte; deducono, altresì, il travisamento delle risultanze processuali, per avere la stessa corte ritenuto ignote le cause della caduta del D. malgrado le dichiarazioni rese dal teste S.;
b) violazione di legge, in relazione agli artt. 589 c.p. e art. 530 c.p.p., con riguardo alla formula assolutoria che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere perchè il fatto non costituisce reato, essendo state accertate violazioni normative e la rilevanza causale in ordine all'evento e dovendosi, in ogni caso, valutare l'elemento psicologico della colpa.
Concludono, quindi, i ricorrenti, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.
Con note aggiunte, depositate presso la cancelleria di questa Corte, le parti civili hanno ribadito i motivi del loro dissenso rispetto alle decisioni della corte territoriale e rinnovato la richiesta di annullamento della decisione impugnata.
I ricorsi proposti sono fondati.
In realtà, la sentenza impugnata non si sottrae ai vizi motivazionali dedotti, in termini sostanzialmente simili, dai ricorrenti, in relazione all'assenza o apparenza di motivazione che caratterizza la decisione oggetto di ricorso, il cui apparato motivazionale si segnala, talvolta, per la sua genericità ed apoditticità, talaltra, per l'illogicità argomentativa.
Non paiono, anzitutto, sorrette da logica ed adeguata motivazione le osservazioni dalle quali prende avvio l'esame, da parte della corte territoriale, della vicenda processuale, concernenti l'applicabilità, al caso di specie, delle norme antinfortunistiche dettate dal D.P.R. n. 547 del 1955; in particolare, dell'art. 27 che indica le caratteristiche che devono avere le protezioni dei posti di lavoro siti ad altezza superiore al metro e mezzo.
L'illogicità dell'argomentare dei giudici dell'impugnazione si coglie laddove essi, dopo avere sostenuto che l'autobotte costituisce un vero e proprio "luogo di lavoro" e che la norma sopra specificata non riguarda solo i cantieri edili, ma è riferibile a tutti i posti di lavoro sopraelevati caratterizzati da un'altezza dal suolo superiore al metro e mezzo, hanno poi sostenuto che la stessa norma non è applicabile alle autobotti.
Ciò alla stregua delle interpretazioni giurisprudenziali e ministeriali dell'art. 2, lett. d), del citato DPR il quale esclude che le norme in esso contenute possano applicarsi, tra gli altri, all'esercizio dei trasporti terrestri pubblici, e dunque alle autocisterne.
L'illogicità appare evidente, anzitutto, laddove nella sentenza impugnata, dopo il generico richiamo alle "prescrizioni" ed agli "accorgimenti" previsti da talune circolari ministeriali in tema di sicurezza dei lavoratori nelle operazioni di carico delle cisterne, e dopo l'affermazione secondo cui le disposizioni ministeriali sono state tutte rispettate dalla "Carbonafta", non viene indicato quali siano le prescrizioni ed accorgimenti in questione; specificazione indispensabile ai fini della verifica delle ragioni del convincimento espresso dalla corte territoriale, le cui conclusioni si presentano, sul punto, caratterizzate da evidente apoditticità.
Generico ed infondato si presenta, altresì, il richiamo ad un'interpretazione giurisprudenziale che avrebbe ribadito, nei termini intesi dalla corte distrettuale, il principio della non applicabilità alle autobotti del citato dpr in virtù del disposto di cui all'art. 2 lett. d).
In realtà, l'insegnamento di questa Corte è non solo nel senso che l'art. 27 è norma di carattere generale, il cui ambito di applicazione non è limitato ai cantieri edili, ma si estende a tutte le ipotesi di attività lavorativa svolta da un'altezza superiore al metro e mezzo, ma anche nel senso della restrizione, dei casi di esclusione della disciplina generale, alle precipue attività lavorative specificamente elencate nell'art. 2.
Orbene, la lettera d) dell'art. 2 esclude dalla normativa generale le attività relative "all'esercizio dei trasporti terrestri pubblici", cioè l'attività tipica del trasporto, non anche le attività di lavoro a quella connesse, ma distinte, in relazione alle quali un'estensione di quella eccezione sarebbe del tutto arbitraria ed ingiustificata.
A tale proposito, questa Corte ha affermato, in un caso di esercizio di un'officina meccanica collegata all'attività di trasporto, che: "Devono intendersi escluse dall'ambito della normativa antinfortunistica di carattere generale solo quelle attività propriamente e specificamente inerenti all'esercizio dei trasporti pubblici, ma l'esclusione non può estendersi ad altre attività essenzialmente distinte, come l'esercizio di un'officina meccanica la quale, anche se collegata all'industria dei trasporti e gestita dalla stessa società, rimane attività diversa per sua natura e struttura" (Cass. n. 3887/1978).
Altre norme del citato dpr, del resto, come l'art. 168, espressamente richiamano i "mezzi di trasporto", e dunque macchine come l'autobotte, e rimandano alle norme antinfortunistiche dettate dagli artt. 374 e segg. del citato DPR.
L'iter argomentativo seguito dalla corte territoriale per escludere, nel caso di specie, l'applicazione della norma generale di cui all'art. 27 si presenta, quindi, non adeguato nè coerente sotto il profilo logico sia nel richiamo letterale alla normativa antinfortunistica dettata dal D.P.R. n. 547 del 1955, sia nella citazione della giurisprudenza della Corte di legittimità.
In verità, alla stregua di una corretta interpretazione delle norme di riferimento e dei principi affermati da questa Corte, i giudici dell'impugnazione avrebbero dovuto valutare la diversità delle attività in concreto esercitate dal D. per conto della "quot;Carbonafta" che erano, oltre che di trasporto, anche di carico del combustibile, e, partendo da tale premessa, indicare le ragioni per le quali anche le attività di carico dovrebbero ritenersi escluse dall'ambito di generale applicazione della normativa antinfortunistica.
Ragioni che, d'altra parte, non potrebbero non tener conto delle finalità generali della predetta normativa, che è quella di proteggere i lavoratori da eventi comunque riconducibili all'attività di lavoro espletata, e del significato che la giurisprudenza di legittimità le ha attribuito, in quanto diretta a tutelare i lavoratori anche da incidenti determinati dalla loro disattenzione, imprudenza, imperizia o negligenza, ed a ritenere il datore di lavoro sempre responsabile della sicurezza del posto di lavoro, e dunque dell'infortunio occorso al dipendente, allorchè ometta di adottare ogni possibile misura di protezione del lavoratore, ovvero trascuri di vigilare affinchè tali misure vengano da costui effettivamente utilizzate.
Del tutto apodittica è, dunque, la conclusione cui sono pervenuti i giudici dell'impugnazione, secondo cui l'autocisterna sarebbe esclusa dall'ambito di applicazione dell'art. 27, così come l'affermazione che nessuna specifica protezione avrebbe potuto essere adottata con riguardo all'autobotte a causa della sua forma tondeggiate, laddove quei giudici non hanno tenuto conto della presenza, su un lato della stessa, di un parapetto che corre lungo un camminamento posto su un lato dell'autocisterna; parapetto che rappresenta una buona protezione rispetto a sempre possibili e prevedibili cadute accidentali e che ben avrebbe potuto coprire l'intero perimetro dell'autocisterna.
 Ancor più evidente è l'incoerenza dell'argomentare della corte territoriale laddove si consideri che nella stessa sentenza si ipotizza l'insufficienza dei presidi di sicurezza previsti dalle circolari ministeriali, alle quali pure si riporta. D'altra parte, i richiami, contenuti nella sentenza impugnata, a sentenze di questa Corte, che hanno preso in esame i casi di operazioni di carico o scarico di un carro agricolo e di altro automezzo, non sono pertinenti, rispetto al tema in discussione, in relazione non tanto alla diversità dei mezzi interessati, quanto, e soprattutto, alle diverse modalità di esecuzione delle operazioni che, nei casi richiamati, si stavano svolgendo e che si è ritenuto fossero incompatibili con l'approntamento di un valido sistema di protezione dalle cadute dall'alto; incompatibilità che, nel caso che oggi interessa, non appare per nulla evidente, in vista della particolarità delle operazioni di carico, e che, in ogni caso, non è stata oggetto di esame da parte della corte territoriale.
Non meno incongrua è la motivazione della sentenza impugnata, laddove essa affronta il tema dei dispositivi di protezione individuale posti a disposizione del lavoratore al momento dell'esecuzione delle operazioni di caricamento del gasolio.
Premesso che tali protezioni consistono nell'uso di cinture di sicurezza, scarpe antiscivolo, caschi protettivi, quanti e protezioni agli occhi, la corte territoriale non ha spiegato, in termini di logica coerenza, le ragioni per le quali delle scarpe consunte in punta ed un casco privo di sottogola e stanghette, così come descritte nella sentenza impugnata, non possano avere assunto, nel caso di specie, rilievo causale, rispettivamente, nella caduta del D. e nella produzione delle gravi lesioni craniche che ne hanno causato la morte.
Non si comprende sulla base di quali argomentazioni le consunzione delle scarpe sia stata ritenuta "lieve" ed ininfluente rispetto alla rovinosa caduta del lavoratore.
Nè appaiono chiare le ragioni per le quali si è ritenuto di escludere che un casco protettivo in regola non avrebbe evitato l'evento luttuoso; laddove l'affermazione secondo cui "probabilmente nessun altro tipo di casco avrebbe potuto essere utile" appare del tutto apodittica.
Priva di coerenza logica è, poi, l'affermazione secondo cui le irregolarità riscontrate nel casco non avrebbero alcun rilievo poichè "la sua funzione non era nè poteva essere quella di proteggere il capo del lavoratore dagli effetti traumatici di una caduta dall'alto ma soltanto quello di proteggerlo da eventuali urti contro sporgenze pericolose o per cadute di materiali dall'alto, rischi pur sempre ipotizzabili nello svolgimento dell'attività propria del D.".
Affermazione sconcertante per la sua incoerenza logica, laddove non si comprende per quale ragione il casco avrebbe dovuto avere una funzione protettiva solo parziale, e solo con riguardo a determinati accidenti e non a tutti quelli che possono capitare al lavoratore nell'espletamento delle sue mansioni, nè si comprende perchè tra i "rischi ipotizzabili" che correva il D. non possa includersi anche quello di una caduta dall'alto dell'autobotte.
Rischio che, viceversa, appare ben chiaro ed ovvio richiamando, da un lato, le operazioni di carico del combustibile, che impongono al lavoratore di salire sul tetto della cisterna, dall'altro, la specifica previsione dell'uso di scarpe antiscivolo che, unitamente all'obbligo di ricoprire il tetto della cisterna con pittura antiscivolo, attestano la reale prevedibilità del rischio di una caduta dall'alto; rischio ben più presente rispetto a quelli, pur prevedibili, della caduta di un oggetto dall'alto e di urto contro sporgenze pericolose.
Non si comprende, peraltro, per quale motivo il tema del mancato uso della cintura di sicurezza sarebbe stato precluso alla corte territoriale in vista del giudizio sul punto espresso dal primo giudice.
Ove tale preclusione dovesse nascere dalla condivisione delle argomentazioni poste dal tribunale a fondamento di quel giudizio, deve rilevarsi l'apoditticità dell'affermazione secondo cui il mancato uso della cintura di sicurezza non avrebbe avuto alcun rilievo causale perchè "per percorrere il tratto di cielo dell'autobotte il D. ... avrebbe comunque dovuto staccarsi dalla cintura...che non poteva essere più lunga di un metro e mezzo", laddove non viene spiegato perchè il lavoratore, per eseguire le operazioni cui era intento, avrebbe dovuto sganciare la cintura e perchè questa non avrebbe potuto avere una lunghezza superiore al metro e mezzo.
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'Appello di Firenze, che provvedere anche al regolamento, tra le parti, delle spese del presente grado del giudizio.





P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'Appello di Firenze, cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 17 aprile 2007.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2007