Cassazione Penale, Sez. 6, 02 ottobre 2006, n. 32627 - Le misure cautelari interdittive applicabili agli enti responsabili di illeciti amministrativi





 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO' Antonio Stefano - Presidente -
Dott. COLLA Giorgio - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. ROSSI Agnello - Consigliere -
Dott. FIDELBO Giorgio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
La Fi. Soc. coop. a r.l., con sede legale in Bari, via Torre Tresca n. 18, in persona del legale rappresentante p.t. nei confronti dell'ordinanza emessa in data 27 giugno 2005 dal Tribunale di Bari; 
visti gli atti, l'ordinanza denunziata e il ricorso;
sentita la relazione del Consigliere Dott. Giorgio Fidelbo;
udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. D'AMBROSIO Vito, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi i difensori della società ricorrente, avvocati Musco Enzo e Lecis Ugo, che hanno chiesto raccoglimento del ricorso.


Fatto




1. Con ordinanza emessa il 18 aprile 2005 il G.i.p. presso il Tribunale di Bari disponeva nei confronti delle società La Fi. soc. coop. a r.l. e Du. s.p.a. la misura cautelare dell'interdizione per un anno dall'esercizio dell'attività, che sostituiva con la nomina del commissario giudiziale ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 45 comma 3 per la stessa durata.

La vicenda si inseriva nell'ambito di un procedimento penale riguardante un'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la pubblica amministrazione, volti all'aggiudicazione degli appalti dei servizi di pulizia ed ausiliariato banditi da diversi enti pubblici del settore sanitario pugliese - soprattutto aziende AUSL di varie province ed alcuni Comuni -, procedimento in cui venivano emessi provvedimenti cautelari coercitivi nei confronti di numerosi indagati per tali reati, alcuni dei quali commessi in favore delle due società.

Per quanto riguarda gli illeciti contestati agli enti, il g.i.p., nell'ordinanza suindicata, metteva in rilievo come fosse stato realizzato un complesso sistema di corruzione che, con la complicità di funzionari amministrativi, aveva consentito alle due società di ottenere lucrosi appalti senza alcuna gara formale, nonchè di ottenere l'illecita prosecuzione dei contratti di pulizia ed ausiliariato già appaltati, aggirando così le regole contrattuali imposte alla pubblica amministrazione ed offrendo, come contropartita, una costante disponibilità ad assecondare richieste clientelari provenienti dalla stessa amministrazione e dal mondo della politica, tra cui numerose richieste di assunzioni. Ad operare per conto delle società, ponendo in essere i reati contestati, sarebbero stati, nella ricostruzione fatta dal g.i.p., soggetti con funzioni di rappresentanza, di amministrazione e di direzione, anche di fatto, nelle due società. Quindi, erano stati ritenuti sussistenti i gravi indizi richiesti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45 in ordine agli illeciti amministrativi previsti dal D.Lgs. 231 del 2001, artt. 24 e 25 dipendenti dai reati di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 c.p., comma 2, n. 1) e di corruzione (artt. 319, 321 c.p.) commessi, nell'interesse delle stesse società.

2. Il Tribunale di Bari, sull'appello proposto ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 52, comma 1 dalle società indagate, ha sostanzialmente confermato l'impianto dell'ordinanza cautelare, modificando la durata della misura interdittiva - ridotta a sei mesi - e confermando la nomina del commissario giudiziale. Inoltre, i giudici dell'appello hanno escluso l'applicabilità della misura interdittiva per gli illeciti dipendenti dal reato di truffa aggravata - non essendo prevista tale sanzione dal D.Lgs. 231 del 2001, art. 24 - e per alcuni episodi commessi prima dell'entrata in vigore della normativa citata (capi di imputazione provvisori n. 12, 16, 19, 26, 40 e 48), limitando la misura ai restanti episodi di corruzione riportati nell'ordinanza cautelare ai numeri 14, 18, 21, 28, 30, 32, 34, 48 e 50.

3. Contro questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei propri difensori, la società La Fi. Soc. coop. a r.l.

D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 52, comma 2 chiedendone l'annullamento.

3.1. Dopo aver premesso di avere ancora interesse all'impugnazione, nonostante l'intervenuta revoca della misura cautelare, la società ricorrente, con un primo motivo, ha dedotto la nullità dell'ordinanza per violazione degli artt. 111 Cost., comma 2 e art. 125 c.p.p., comma 3, in quanto il giudice d'appello avrebbe solo "apparentemente" motivato la propria decisione, avendo riportato interi brani della memoria depositata dalla Procura, così rinunciando alla sua funzione di controllo e compromettendo lo stesso principio della parità del contraddittorio e della motivazione giurisdizionale delle ordinanze.

3.2. Con il secondo motivo viene riproposta l'eccezione di nullità dell'ordinanza per violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 39, 45 e art. 292 c.p.p., comma 2, lett. a), essendo stata omessa, nel provvedimento, la corretta indicazione del legale rappresentante della società, peraltro noto al g.i.p. al momento dell'emissione della misura.

3.3. Con il terzo motivo si è dedotta la nullità dell'ordinanza per violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45, artt. 291, 292 c.p.p., e art. 125 c.p.p., comma 3 in relazione al principio della domanda cautelare. Più precisamente, la società ricorrente, riproponendo un motivo presentato in appello, ritiene che il tribunale non avrebbe dovuto confermare l'ordinanza cautelare, perchè motivata esclusivamente per relationem con l'altra ordinanza riguardante gli indagati-persone fisiche (ordinanza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Bari in data 8 aprile 2005), essendo differenti i presupposti della misura cautelare personale e di quella interdittiva a carico delle persone giuridiche; l'integrazione dei due provvedimenti avrebbe finito per confondere e annullare la specificità della procedura prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

3.4. Con il quarto motivo la ricorrente ha dedotto violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 in quanto l'ordinanza non avrebbe individuato correttamente i soggetti che avrebbero agito a vantaggio della società La Fi., limitandosi a sostenere la sussistenza della gravità indiziaria, in quanto i reati contestati agli amministratori della Du. s.p.a. sarebbero stati commessi anche nell'interesse e a vantaggio della società La Fi.. Ragionamento che viene contestato rilevando che tra le due società non sussiste alcuna relazione definibile in termini di rapporto tra controllante e controllata. Peraltro, viene contestato che il vantaggio conseguito dal gruppo dirigente comporti ipso facto un vantaggio ad entrambe le società.

3.5. Con il quinto motivo si deduce violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 5, 12 e art. 46, commi 1 e 3 perchè la misura cautelare è stata ritenuta legittimamente applicata sebbene difettasse l'elemento del vantaggio conseguito dalla società a seguito della commissione dei reati. Più precisamente, si sostiene che lo stesso tribunale ha riconosciuto, inconsapevolmente, che gli amministratori abbiano agito nel loro esclusivo interesse, là dove afferma che la società sia stata utilizzata e "saccheggiata" per soddisfare il personale vantaggio degli amministratori.

Inoltre, la ricorrente aggiunge che, anche a voler ritenere l'esistenza di un vantaggio o un interesse della cooperativa, vi sarebbe comunque stata una violazione di legge, in quanto nè il g.i.p. nè il tribunale hanno preso in considerazione le disposizioni contenute negli artt. 46 e 12, che prevedono misure meno gravi qualora il vantaggio o l'interesse ricavato dalla società sia minimo.

3.6. Con il sesto motivo si deduce violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45 per insussistenza dei requisiti in ordine all'applicazione della misura. Secondo la società ricorrente i giudici di merito avrebbero ritenuto sussistenti gli indizi con riferimento al reato presupposto contestato agli indagati, non anche all'illecito amministrativo dipendente da reato, tanto è vero che la stessa ordinanza impugnata, per giustificare il provvedimento cautelare, gravemente carente sul punto, ha dovuto compiere una sorta di "integrazione" tra i due atti, finendo con il confondere i diversi presupposti riguardanti le due forme di responsabilità. La conseguenza è che non sono stati valutati tutti gli elementi sui quali deve cadere la verifica della gravità indiziaria, accertamento più ampio rispetto a quello che investe i gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato commesso dalla persona fisica, nè risulta preso in considerazione il modello organizzativo adottato dalla cooperativa ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6.

3.7. Con il settimo motivo si deduce violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45, comma 1 per insussistenza di fondati e specifici elementi per ritenere il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quelli per cui si procede. Secondo la società ricorrente non esistono elementi - nè sono stati messi in evidenza - che giustificano la sussistenza di un tale pericolo, tenuto anche conto che nessuna delle persone fisiche coinvolte nella vicenda riveste oggi alcun ruolo nella cooperativa La Fi. e che la compagine di vertice è stata completamente sostituita con un nuovo rappresentante legale e nuovi organi gestori. Peraltro, priva di elementi di riscontro appare la giustificazione contenuta nell'ordinanza, secondo cui i vecchi amministratori svolgerebbero una sorta di gestione di fatto.

Secondo la ricorrente, i giudici avrebbero preso in esame la possibilità di commissione dei "reati" da parte dei fratelli M., di L. e di R., anzichè operare una valutazione circa il pericolo di reiterazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, così come richiesto dalla legge.

3.8. Con l'ottavo motivo si deduce violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13 per l'insussistenza dei presupposti previsti per l'applicazione delle misure interdittive, in particolare per aver erroneamente ritenuto la sussistenza del requisito del conseguimento, da parte dell'ente, di un profitto di rilevante entità, confondendo la nozione di prodotto del reato, con quella di profitto.

Secondo la società il Tribunale di Bari ha considerato come profitto gli importi dei contratti realizzati dalla società, arrivando così a ritenere l'esistenza di un profitto di rilevante entità, ma così facendo ha offerto una definizione del concetto di profitto che non trova fondamento nella legge, che invece si riferisce ad una nozione aziendalistica di profitto, inteso come lucro conseguito, cioè come utile netto. Tale interpretazione sarebbe confermata dalla lettura del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19 che prevede, in caso di condanna dell'ente, la confisca del profitto del reato che, qualora inteso nei termini indicati dal tribunale, finirebbe per ricomprendere nel caso di specie l'intero importo derivante dall'appalto in questione.

3.9. Con il nono motivo si deduce violazione di legge, per non avere l'ordinanza impugnata adeguatamente utilizzato il giudizio di proporzionalità richiesto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 46, comma 2.

Diritto




4. Come si è detto in narrativa nelle more del procedimento d'impugnazione è intervenuta la revoca della misura cautelare.

Ciononostante deve affermarsi la permanenza dell'interesse al ricorso della società indagata, sotto diversi profili.

Innanzitutto, con il provvedimento emesso in data 27 luglio 2005 il g.i.p. non si è limitato a revocare la misura cautelare interdittiva, ma ha "ordinato" alla società di adottare i modelli organizzativi predisposti dal commissario giudiziario e di risarcire il danno arrecato alle pubbliche amministrazioni appaltanti, con la restituzione del profitto illecito, inoltre dando incarico al commissario di accertare l'avvenuta ed effettiva adozione dei modelli organizzativi. Ora, ai fini dell'accertamento della permanenza dell'interesse all'impugnazione, in linea con la giurisprudenza delle Sezioni unite (sent. 12 ottobre 1993, n. 20, Durante e 13 luglio 1998, n. 21 Galieri), acquistano sicuro rilievo gli effetti derivanti dall'ordinanza sopra citata, formalmente intestata "revoca di misure cautelari interdittive", effetti che impegnano la società in una serie di attività e di obblighi, che conferiscono attualità e concretezza all'interesse al ricorso, in quanto dall'eventuale annullamento dell'ordinanza impugnata potrebbe derivare, come conseguenza diretta, non solo l'annullamento dell'ordinanza cautelare, ma l'immediata inefficacia degli adempimenti ed obblighi disposti con lo stesso provvedimento di revoca.

A ciò va aggiunto che l'interesse all'impugnazione appare ancora più evidente considerando che la società ricorrente ha avanzato fondati dubbi sulla stessa legittimità dei provvedimenti assunti con la revoca della misura. Nella specie, il giudice cautelare ha sostanzialmente imposto l'adozione di un modello organizzativo alla società, secondo una procedura che non trova appiglio nella normativa contenuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, in cui non si prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare in alcuni casi la esclusione della responsabilità (D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 6), in altri un sollievo sanzionatorio (D.Lgs. n. 231 del 2001 citato, artt. 17, 78) e che, nella fase cautelare, può portare alla sospensione o alla non applicazione delle misure interdittive (D.Lgs. n. 231 del 2001 citato, art. 49). Inoltre, la stessa procedura di commissariamento risulta posta in essere in una confusione di ruoli e di disposizioni ai limiti dell'abnormità, dove la nomina del commissario giudiziale è stata disposta contestualmente all'adozione della misura cautelare - nonostante il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45, comma 3 prescriva che tale nomina debba avvenire "in luogo della misura cautelare interdittiva" -, per poi procedere alla revoca della stessa misura e attribuire, infine, poteri di controllo al commissario circa l'adozione del modello, sebbene questi nello stesso provvedimento risulti sollevato dall'incarico.

Si tratta di disposizioni che - anche prescindendo da ogni valutazione circa la loro legittimità - il g.i.p. ha potuto emanare solo in conseguenza dell'applicazione della misura cautelare e ciò appare sufficiente al riconoscimento dell'interesse ad impugnare.

In secondo luogo, acquista rilievo quanto dedotto nel ricorso circa la richiesta, rivolta alla società, di liquidazione di Euro 136.927,17 per il compenso dovuto al commissario giudiziale e al suo coadiutore nominati dal g.i.p., dal momento che un'eventuale annullamento del provvedimento comporterebbe il venire meno dell'obbligo di effettuare il pagamento dell'importo richiesto. In sostanza, una decisione favorevole non potrebbe non avere influenza anche sul pagamento dei compensi.

5. Passando ad esaminare il merito del ricorso infondato è il secondo motivo, in quanto nessuna disposizione del D.Lgs. n. 231 del 2001, sanziona con la nullità l'omessa indicazione nell'ordinanza cautelare del nominativo del legale rappresentante della società indagata. Il richiamo all'art. 292 c.p.p. contenuto nel D.Lgs. n. 231 del 2001 citato, art. 45, comma 2 ha come effetto quello di estendere l'ipotesi di nullità dell'ordinanza nel caso in cui manchino le necessarie indicazioni per identificare la società nei cui confronti viene emessa la misura cautelare, ipotesi che non ricorre nel caso di specie in cui il provvedimento del g.i.p. consente ed ha consentito la piena identificazione del soggetto collettivo.

Nè può invocarsi, così come ha fatto la difesa, la previsione di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001 citato, art. 39, comma 2, che sanziona con una ipotesi di inammissibilità la mancata indicazione delle generalità del legale rappresentante: infatti, tale disposizione disciplina, dal punto di vista formale, la partecipazione dell'ente nel procedimento, accollandogli l'onere di presentare una dichiarazione contenente, tra l'altro, anche le generalità del rappresentante. In caso di carenza di tali indicazioni è prevista l'inammissibilità dell'atto dichiarativo di costituzione, con la conseguenza che l'ente non potrà partecipare in maniera completa al procedimento e, nella fase del giudizio, verrà dichiarato contumace.

Si tratta di una disciplina riguardante la modalità di intervento dell'ente nel procedimento, funzionale ad individuare il soggetto deputato a manifestare la volontà del soggetto collettivo, disciplina che non trova alcuna applicazione al di fuori di tali limitate previsioni.

6. E' ancora infondato l'ottavo motivo in cui si deduce la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13, in relazione alla ritenuta sussistenza del requisito del profitto di rilevante entità.

Correttamente l'ordinanza impugnata ha esteso la verifica dei gravi indizi richiesti dal D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 45 anche all'art. 13, spostando il controllo sulla stessa legittimità dell'applicazione della misura. La disposizione da ultimo menzionata si riferisce, in genere, alle sanzioni interdittive, subordinandone l'applicazione all'esistenza di almeno una delle due condizioni indicate nelle lett. a) e b), relative, la prima, alla circostanza che l'ente abbia tratto dall'illecito un profitto di rilevante entità e la seconda al dato obiettivo della reiterazione degli illeciti. Sul piano sostanziale il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13 rappresenta una delle condizioni applicative delle sanzioni interdittive, nell'ambito di un sistema che ammette il ricorso alle sanzioni più incisive solo in presenza di un accentuato disvalore del reato e dell'illecito amministrativo ad esso collegato ovvero in funzione di prevenzione speciale. Ciò significa che dal punto di vista cautelare il giudice deve accertare, sempre sul piano indiziario, la presenza di una delle due condizioni per poter applicare una misura cautelare, assicurando il collegamento tra sanzione definitiva e misura cautelare, che caratterizza l'intero D.Lgs. n. 231 del 2001. Del resto, un tale collegamento è imposto dallo stesso sistema cautelare disciplinato nella sezione 4^ del decreto del 2001, che all'art. 46, comma 2 enuncia il principio di proporzionalità della misura, con riferimento non solo all'entità del fatto, ma anche alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all'ente. Una diversa interpretazione porterebbe il giudice della cautela ad applicare una misura interdirti va laddove il giudice della cognizione, sulla base del citato art. 13, non potrebbe irrogare analoga sanzione in sede di accertamento della responsabilità dell'ente. In sostanza, il ricorso alla misura cautelare trova una sua legittimazione solo attraverso una valutazione prognostica sulla possibile, futura applicazione della sanzione interdittiva.

Ciò premesso, occorre ora verificare in base a quale criterio il giudice della cautela deve valutare la sussistenza del profitto di rilevante entità, cui si riferisce il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13, comma 1, lett. a).

I giudici d'appello hanno escluso che la disposizione in esame faccia riferimento all'utile netto ricavato dalla società ed hanno accolto, invece, una nozione di profitto più ampia, calcolata in relazione all'intero importo del contratto ovvero al valore integrale della commessa, in considerazione del fatto che la legge non richiede l'ingiustizia del profitto. Nella specie, sulla base di tale interpretazione, il profitto che la società ha tratto dai reati commessi nel suo interesse viene determinato tenendo conto anche del vantaggio di posizione sul mercato che le società hanno acquisito facendo ricorso a condotte illecite, fino ad assumere un ruolo di sostanziale monopolio in materia di appalti di pulizia nell'ambito della Regione Puglia.

Diversamente, per la società ricorrente il profitto richiesto dall'art. 13 cit. corrisponde al concetto di redditività d'impresa, ovvero all'utile netto derivato, unica interpretazione che consente di non confondere tale nozione con quella di prodotto del reato. A riprova di questa tesi la difesa porta l'esempio del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, che nel prevedere l'ipotesi della confisca del profitto, in caso di condanna dell'ente, si riferisce sicuramente all'utile netto conseguito.

La ricostruzione riduttiva proposta dalla società indagata non può essere accolta.

Il profitto menzionato dall'art. 13 cit. non corrisponde alla nozione di profitto cui si riferiscono le disposizioni in materia di confisca, quali, ad esempio, D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, art. 15, comma 4, art. 17, comma 1, lett. c).

Queste ultime disposizioni, sebbene in maniera diversa, si preoccupano di assicurare allo Stato quanto illecitamente conseguito dalla società attraverso la commissione degli illeciti e oggetto del provvedimento ablativo non può che essere il profitto inteso in senso stretto, cioè come immediata conseguenza economica dell'azione criminosa, che può corrispondere all'utile netto ricavato.

Nell'art. 13 cit., invece, il riferimento al profitto del reato non è direttamente collegato ad una ipotesi di confisca, ma rappresenta un presupposto applicativo delle sanzioni interdittive temporanee.

Può essere utile ricordare che la disposizione in esame ha tradotto il criterio di delega contenuto nella direttiva di cui alla L. 29 settembre 2000, n. 300, art. 11, lett. l) che prevedeva l'applicazione delle sanzioni interdittive, in aggiunta a quella pecuniaria, solo nei "casi di particolare gravità", secondo una di quelle clausole generali con cui il legislatore spesso individua le ipotesi di maggior disvalore dell'illecito. Il richiamo al profitto di cui all'art. 13 cit. costituisce, quindi, l'attuazione di quel criterio di delega, reso sicuramente più determinato, al quale deve essere riconosciuta l'originaria funzione di selezionare i casi più gravi da punire con le sanzioni maggiormente afflittive per l'ente.

Se questa è la funzione attribuita alla condizione applicativa contenuta nell'art. 13, allora appare estranea a questi fini una nozione di profitto intesa come utile netto, dovendo optarsi per un concetto di profitto dinamico, più ampio, che arrivi a ricomprendere vantaggi economici anche non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell'illecito. Nella fase cautelare, in cui l'imputazione è ancora in fieri e gli accertamenti hanno natura provvisoria, pretendere di riferirsi all'utile netto, cioè ad un valore che richiede calcoli precisi in un raffronto tra ricavi e costi, appare oltremodo difficoltoso e contrario alla stessa funzione del procedimento incidentale volto all'emissione di provvedimenti temporanei.

Con questo, ovviamente, non si vuole dire, così come sembra affermare l'ordinanza impugnata, che il profitto di cui all'art. 13 cit. corrisponde, quasi automaticamente, al valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito del reato, potendo sostenersi semmai che tali valori rappresentino comunque un importante indizio a favore della rilevanza del profitto. La rilevanza del profitto potrà, almeno con riferimento ad alcuni dei reati indicati nel D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 24 e 25, basarsi sul valore della commessa ottenuta attraverso la illecita contrattazione con la pubblica amministrazione, valore che rappresenterà un indizio a favore della percezione di un profitto rilevante, così come richiede l'art. 13 cit..

Deve pertanto riconoscersi che nella specie, seppure in base ad una differente impostazione rispetto a quella evidenziata dall'ordinanza impugnata, sussista il requisito richiesto dal citato art. 13, in quanto prendendo in considerazione il valore reale degli appalti acquisiti dalla società (si veda la tabella riassuntiva a pag. 38), pari ad una somma complessiva di oltre 40 milioni di Euro (a cui va comunque sottratto il valore degli appalti acquisiti dalla Du. s.p.a.), può fondatamente ritenersi l'esistenza di un profitto rilevante conseguito dalla società per effetto degli illeciti commessi, anche in considerazione di quanto evidenziato nella stessa ordinanza impugnata circa la posizione di quasi monopolio raggiunta dalla società indagata nel mercato pugliese degli appalti di pulizia e ausiliariato.

7. Più complesso è il problema posto dal primo e dal terzo motivo del ricorso, con cui si censura l'ordinanza impugnata per non aver rilevato la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 45, avendo il g.i.p. disposto le misure interdittive a carico della società motivando per relationem all'ordinanza cautelare emessa nei confronti delle persone fisiche indagate per i reati dai quali dipende l'illecito amministrativo attribuito alla società ovvero riportando interi brani della memoria del pubblico ministero. In sostanza, viene dedotta la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 45, che richiama espressamente l'art. 292 c.p.p., il quale a sua volta prevede, a pena di nullità, che l'ordinanza cautelare contenga l'esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura: nel caso di specie, sostiene la ricorrente, l'ordinanza del gip. risulterebbe prevalentemente motivata per relationem alla ordinanza cautelare personale, che ha presupposti del tutto diversi da quelli richiesti per emettere una misura interdittiva a carico di una società, con la conseguente violazione delle disposizioni di legge suindicate.

E' noto che nel nostro ordinamento processuale la motivazione c.d.

per relationem è considerata legittima, purchè siano osservate determinate condizioni; a) faccia riferimento a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la decisione; c) l'atto di riferimento sia conosciuto dall'interessato, attraverso l'allegazione o la trascrizione nel provvedimento in questione, o quanto meno ostensibile nel momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica e di gravame, consentendo il controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione (Sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, Primavera; Sez. 4^, 20 gennaio 2004, n. 16886, Rinero; Sez. 1^, 20 dicembre 2004, n. 2612). Peraltro, il rispetto di tali condizioni presuppone che la motivazione per relationem rinvii ad altri provvedimenti dello stesso procedimento, atteso che solo in tal caso è possibile per il giudice dell'impugnazione controllare l'iter logico e giuridico che sorregge la decisione impugnata attraverso l'esame degli atti del fascicolo, diversamente da quanto può accadere in caso di rinvio a provvedimenti di altri procedimenti che non possono essere attinti dal giudice dell'impugnazione (Sez. 3^, 25 maggio 2001, n. 33648, Cataruzza).

Dal punto di vista formale l'ordinanza del g.i.p. ha rispettato, solo in parte, tali condizioni: sebbene risulti che il provvedimento cautelare personale sia stato notificato alla società unitamente all'ordinanza applicativa delle misure interdirti ve e che entrambi i provvedimenti siano stati emessi nell'ambito del medesimo procedimento penale (n. 10388/01), tuttavia deve riconoscersi che con riferimento alla procedura cautelare prevista in materia di responsabilità amministrativa degli enti, il rinvio per relationem all'ordinanza cautelare personale può assolve all'onere motivazionale solo per quanto concerne uno dei presupposti per l'applicazione delle misure interddittive, quello cioè della sussistenza dei gravi indizi circa la commissione dei reati. Infatti, è solo in relazione a questa porzione della fattispecie complessa prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45, che l'ordinanza applicativa delle misure coercitive personali può svolgere una funzione integrativa della motivazione, che sia coerente con la decisione cautelare riguardante il soggetto collettivo.

Dalla lettura dell'ordinanza del 18 aprile 2005 il rinvio al provvedimento di riferimento non è limitato alla individuazione dei gravi indizi di colpevolezza in relazione ai reati presupposto, ma tende ad assorbire l'intero quadro di gravità indiziaria riferibile alla fattispecie di cui al citato art. 45, in una sovrapposizione di livelli che finisce per confondere il piano relativo alle persone fisiche, con quello riguardante la società. E tale impostazione viene replicata anche nell'ordinanza del Tribunale di Bari, che oltre a giustificare la tecnica di redazione della motivazione adottata dal gip., ha assunto a fondamento della propria decisione argomentazioni riguardanti i reati posti in essere dagli amministratori, tra l'altro dilungandosi nell'esame della struttura e delle caratteristiche dell'associazione per delinquere, che è reato che non rientra tra quelli la cui commissione può determinare la responsabilità amministrativa a norma del D.Lgs. n. 231 del 2001. In questo modo, l'accertamento della sussistenza dei gravi indizi della responsabilità dell'ente ha finito per concentrarsi soprattutto nella verifica dei gravi indizi di colpevolezza relativi ai reati presupposto, trascurando e svalutando il controllo sui restanti elementi della fattispecie.

Occorre sottolineare che il massiccio ricorso fatto dall'ordinanza del g.i.p. - e, in parte, anche dall'ordinanza del tribunale - alla tecnica di motivazione per relationem non si giustifica in un procedimento a carico delle persone giuridiche, in quanto del tutto diversi sono i presupposti e i requisiti per accertare l'esistenza della gravità indiziaria a carico dei soggetti collettivi, elementi che devono essere individuabili autonomamente dall'ordinanza cautelare emessa ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 45 che, come si è detto, può anche richiamare il diverso provvedimento in cui sono state emesse le misure cautelari personali, ma solo per dimostrare la sussistenza dei gravi indizi in rapporto ai reati presupposto, senza costringere difensori e giudici dell'impugnazione ad effettuare continue verifiche in atti processuali per procedere alla ricostruzione e al controllo della più ampia fattispecie cautelare richiesta dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

8. Proprio la tecnica di motivazione per relationem ha prodotto una erronea applicazione di alcune delle disposizioni in materia di misure cautelari nel procedimento a carico degli enti, violazioni cui si riferiscono i motivi quarto, quinto e sesto del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente.

Il D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 45, subordina l'applicazione delle misure cautelari interdittive alla sussistenza dei gravi indizi di responsabilità dell'ente. Tale valutazione deve essere riferita alla fattispecie complessa che integra l'illecito amministrativo attribuito all'ente e che comprende anche il rapporto di dipendenza con il fatto reato. Ne consegue che l'ambito di valutazione del giudice deve comprendere non soltanto il fatto reato, cioè il presupposto dell'illecito amministrativo, ma estendersi ad accertare la sussistenza dell'interesse o del vantaggio derivante all'ente, il ruolo ricoperto in concreto dai soggetti indicati dal D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 5, comma 1, lett. a) e b), nonchè verificare se tali soggetti abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi (art. 5, comma 2); inoltre, nel giudizio cautelare rientrano anche le condizioni indicate dal D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 13, che subordina l'applicabilità delle sanzioni interdittive alla circostanza che l'ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità ovvero, in alternativa, che l'ente abbia reiterato nel tempo gli illeciti, articolo che al comma 3 esclude l'applicabilità delle sanzioni interdittive nei casi in cui l'autore del reato abbia commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi ovvero quando il danno patrimoniale sia di particolare tenuità (art. 12, comma 1). Infine, anche nella fase cautelare il giudice deve fondare la sua valutazione in rapporto ad uno dei due modelli di imputazione individuati dal D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., artt. 6 e 7, l'uno riferito ai soggetti in posizione apicale, l'altro ai dipendenti, modelli che presuppongono un differente onere probatorio a carico dell'accusa.

Si tratta di requisiti che concorrono su un piano di assoluta parità a configurare l'illecito amministrativo dell'ente, per cui l'accertamento della gravità indiziaria deve riguardare ciascun elemento della fattispecie complessa. La gravità degli indizi va perciò riferita non (solo) al reato, ma all'illecito amministrativo che lo comprende, per cui il giudizio sugli elementi da prendere in considerazione si presenta più complesso rispetto alla valutazione che il giudice compie quando applica una misura cautelare nei confronti di una persona fisica.

Deve allora sottolinearsi come sia l'ordinanza impugnata, sia il provvedimento genetico del g.i.p. non abbiano proceduto ad una esame completo della fattispecie cautelare.

8.1. In alcuni casi appare viziata la stessa valutazione sulla sussistenza di un rapporto qualificato dell'ente con i diversi autori dei reati. In particolare, il Tribunale di Bari, che pure ha limitato l'ambito applicativo delle misure, escludendo una serie di episodi inizialmente contestati alle società, avrebbe dovuto verificare la struttura delle imputazioni provvisorie riportate ai numeri 14, 18, 21 e 28 dell'ordinanza del g.i.p., in cui non è indicato il soggetto che avrebbe commesso il reato a vantaggio o nell'interesse della società. Si tratta, in realtà, di quattro distinti episodi di reato in cui si descrivono ipotesi di corruzione (artt. 319 e 319 bis c.p.) attribuite a funzionali o dirigenti di aziende ospedaliere, di ASL o di enti territoriali che con diverse modalità avrebbero ricevuto favori e favorito la società ricorrente, ma non si indica la persona fisica del corruttore, per poter accertare se si tratti di un soggetto "interno" alla persona giuridica, che possa aver impegnato l'ente, secondo il modello delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

D'altra parte nè il provvedimento del g.i.p., nè l'ordinanza del tribunale consentono di integrare tale omissione, in quanto nessuna delle due decisioni esamina separatamente e analiticamente i diversi episodi contestati, limitandosi a richiamare genericamente le condotte di alcuni imputati, con particolare riferimento alla loro collocazione nell'ambito della associazione per delinquere, ricorrendo alle indicazioni contenute nell'ordinanza applicativa delle misure cautelari personali. Neppure l'imputazione provvisoria sub A), riguardante l'ente, è in grado di sopperire a tali carenze, data la sua assoluta genericità. In questo modo, per i quattro episodi indicati appare difficile anche l'individuazione del modello di imputazione utilizzato, cioè se quello dei soggetti apicali di cui all'art. 6 - anche nella forma della gestione di fatto - ovvero quello dei dipendenti previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, successivo art. 7.

Peraltro, tale incongruenza, che si traduce in un'erronea applicazione dell'art. 5 in fase cautelare, appare ancor più evidente dal momento che negli altri capi di imputazione si fa invece riferimento, seppure in maniera indiretta, ai soggetti apicali della società come autori dei reati da cui l'ente avrebbe tratto vantaggio.

8.2. Anche con riferimento al requisito dell'interesse o del vantaggio si registrano una serie di incertezze applicative, rilevate nei motivi quarto e quinto del ricorso.

Nel prendere in considerazione le condotte poste in essere dalle persone fisiche a favore della società La Fi., l'ordinanza impugnata, condividendo quanto ritenuto dal pubblico ministero nella sua memoria - di cui sono riportati interi brani -, sostiene che l'interesse deriverebbe, comunque, dai reati commessi a vantaggio della Du. s.p.a., che in quanto società controllata finirebbe per "avvantaggiare" anche la controllante.

Si osserva al riguardo che, pur convenendo in merito alle considerazioni svolte circa il fatto che le nozioni di interesse e di vantaggio possano atteggiarsi in modo differente qualora siano riferite ad un contesto di gruppo di imprese, tuttavia nel caso di specie non vi è stata alcuna contestazione in questo senso, non figurando nè nel capo di imputazione provvisorio, nè nell'ordinanza cautelare del g.i.p. un riferimento al fatto che tra le due società vi fosse un rapporto qualificabile come tra controllante e controllata, dovendosi poi evidenziare che nessun elemento a favore di questo presunto rapporto sia stato fornito, neppure a livello meramente indiziario. Nella ricostruzione che hanno dato i giudici di merito, il collegamento è dato semmai dai soggetti che partecipavano all'associazione criminosa, circostanza questa che però non rileva ai fini della responsabilità dell'ente e che dimostra, ancora una volta, come si tenda a confondere il vantaggio conseguito dal gruppo dirigente della associazione criminale con quello della società.

In sostanza, il tribunale avrebbe dovuto accertare, sempre a livello di gravi indizi, se e in che limiti la commissione dei reati abbia fatto conseguire un interesse diretto alla società La Fi., prescindendo da ogni considerazione sull'interesse o sul vantaggio indirettamente derivato dai reati posti in essere a favore della Du. s.p.a. Anche sotto questo profilo risulta un erronea applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 in rapporto alla fattispecie concreta.

8.3. Il requisito dell'interesse è oggetto anche del quinto motivo del ricorso, in cui si deduce, tra l'altro, la violazione del D.Lgs.

n. 231 del 2001 cit., art. 5, comma 2.

La disposizione citata prevede che l'ente non risponde dell'illecito qualora gli autori del reato hanno agito "nell'interesse esclusivo proprio o di terzi": si tratta di una norma che si riferisce al caso in cui il reato della persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all'ente, in quanto non risulta realizzato nell'interesse di questo, neppure in parte. In simili ipotesi la responsabilità dell'ente è esclusa proprio perchè viene meno la possibilità di una qualsiasi rimproverabilità al soggetto collettivo, dal momento che si considera venuto meno lo stesso schema di immedesimazione organica: la persona fisica ha agito solo per se stessa, senza impegnare l'ente. Alla medesima conclusione si giunge anche qualora la società riceva comunque un vantaggio dalla condotta illecita posta dalla persona fisica, dal momento che il D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 5, comma 2 si riferisce soltanto alla nozione di interesse: in ogni caso, si tratterebbe di un vantaggio "fortuito", in quanto non attribuibile alla "volontà" dell'ente.

Anche tale condizione negativa deve essere verificata nella fase cautelare, non potendo applicarsi una misura interdittiva qualora risulti, anche a livello indiziario, l'esclusività dell'interesse.

Nella specie, dall'ordinanza impugnata emerge una applicazione contraddittoria della disposizione in esame: infatti, in alcuni passaggi del provvedimento i giudici di merito evidenziano l'uso strumentale che gli indagati avrebbero fatto della società cooperativa, tanto da tradirne le finalità mutualistiche, sfruttandola per il proprio personale vantaggio; in altri sottolineano che l'attività della società era di fatto fittizia;

giungendo, infine, a dubitare che possa trattarsi di una società intrinsecamente criminosa. Si oscilla tra una ricostruzione in cui la società viene considerata una "vittima" dell'operato di un gruppo di persone, cioè uno strumento nelle mani di un'associazione criminale che persegue l'obiettivo di realizzare una serie di reati per mezzo della società La Fi. e non a favore o nell'interesse della stessa, e una ricostruzione alternativa in cui alla stessa società viene attribuita una natura illecita. Ancora una volta, si confonde la associazione per delinquere, con la società cooperativa, nel senso che dove c'è interesse per l'associazione si individua, automaticamente, anche l'esistenza di un interesse per l'ente, in una sovrapposizione di livelli che resta estranea al modello di responsabilità amministrativa di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001.

Tanto è indice di una errata applicazione della disciplina prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 5 e segg., dal momento che non è stato accertato se ed in quale misura vi sia stato il vantaggio o l'interesse della cooperativa La Fi., anche sotto il profilo della possibile applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001 cit., art. 12, comma 1, lett. a), con riferimento ad un eventuale interesse prevalente degli autori dei reati rispetto all'interesse e al vantaggio dell'ente, che porterebbe ad escludere il ricorso alle misure interdittive.

9. In conclusione l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Bari per un nuovo esame relativo ai gravi indizi, da compiere tenendo conto dei principi innanzi indicati. Lo stesso giudice all'esito di questo esame valuterà, se del caso, la sussistenza attuale delle esigenze cautelari.


P.Q.M.



Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuova deliberazione al Tribunale di Bari.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2006