Cassazione Civile, 07 maggio 2013, n. 10553 - Cintura di sicurezza non allacciata al cavo durante i lavori su un ponteggio e licenziamento legittimo


 

 

Fatto




G. N., dipendente della I. s.r.l. dal 1.3.1999, era stato licenziato in data 7.3.2003 per essere stato sorpreso nel magazzino dove si svolgevano i lavori appaltati alla I. s.r.l. dalla E. s.p.a. (nella specie rifacimento della copertura con bitume della volta del magazzino) mentre si trovava su un ponteggio all'altezza di 15 metri senza aver agganciato al cavetto predisposto la cintura di sicurezza, pur indossata.

Impugnato il licenziamento il Tribunale di Siracusa, in esito all'istruttoria, ne accertava la legittimità respingendo le domande proposte nei confronti della I. s.r.l..

La Corte d'appello di Catania, invece, accogliendo l'appello proposto dal lavoratore riformava la sentenza e dichiarava l'illegittimità del licenziamento ordinando la sua reintegrazione nel posto di lavoro e condannando la società al risarcimento del danno ed alla ricostituzione della posizione assicurativa e contributiva, ai sensi dell'art. 18 della l. n. 300/1970.

Riteneva la Corte territoriale che il comportamento contestato al dipendente, date le misure apprestate dalla società, non poteva essere ritenuto così grave da determinare la risoluzione del rapporto di lavoro in tronco. Osservava, infatti, il giudice d'appello che, dall'istruttoria svolta, era emerso che la I. aveva dotato i suoi dipendenti di cinture di sicurezza inferiori al metro che non consentivano ai lavoratori di muoversi in quota tra un punto di aggancio ed un altro e richiedevano al lavoratore di scendere dalla passerella al ponteggio, agganciare la cintura al nuovo gancio e risalire per continuare il lavoro, con conseguenze negative anche sulla esecuzione della prestazione - consistente nell'impermeabilizzazione della volta del magazzino con bitume - posto che, nello spostamento da un punto ad un altro, vi era rischio di raffreddamento dei materiali con possibili ritardi nell'esecuzione dei lavori. Per tali ragioni, secondo la Corte territoriale, il rifiuto opposto dal lavoratore all' osservanza della misura di sicurezza predisposta, sebbene grave, non integrava una condotta irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario che giustificava il recesso in tronco. Inoltre escludeva che la sanzione potesse essere giustificata dalla richiesta avanzata dalla società appaltante di allontanamento del lavoratore, osservando che questa ben poteva essere soddisfatta anche con l'applicazione di una sanzione conservativa.

Il giudice di appello escludeva, inoltre, che l'inadempimento si connotasse di una notevole entità sul rilievo che al dipendente era già stata formulata un' analoga contestazione, della quale però non era stata offerta alcuna prova documentale ed evidenziando che la circostanza era stata riferita da un teste (il responsabile del cantiere) sul quale gravava l'obbligo di verificare il rispetto delle misure di sicurezza richieste dalla società appaltante e, pertanto, ne andava prudentemente apprezzato il contenuto.

In definitiva, discostandosi dalla valutazione dei fatti espressa dal Tribunale, la Corte ha ritenuto che il comportamento del lavoratore era finalizzato da un canto ad un più efficiente svolgimento della prestazione e dall'altro a richiamare l’attenzione del datore sulla insufficienza delle misure di sicurezza apprestate; ha, poi, applicato al licenziamento, ritenuto illegittimo, la tutela reale di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori non essendo stata dimostrata dalla parte datoriale, su cui gravava l'onere probatorio, l'insussistenza del requisito dimensionale.

Per la cassazione della sentenza ricorre la I. s.r.l. sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso G. N..



Diritto




Con il primo morivo di ricorso la società censura la sentenza di appello sotto diversi profili, tutti riconducibili all'art. 360 comma 1 nn. 3, 4, 5, perché violando e falsamente applicando le norme di seguito riportate e con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ha ritenuto che:

1.- non sussistesse la violazione dell' art. 4 lett. d) del d.p.r. 303/1956, che impone ai datori di lavoro di esigere dai lavoratori l'uso dei mezzi di protezione messi a loro disposizione, degli artt. 5 e 93 del d.lgs. 626/1994, che disciplinano l'obbligo dei lavoratori di osservare le disposizioni ed istruzioni impartite ai fini della protezione collettiva ed individuale nonché la corretta ed appropriata utilizzazione degli strumenti di protezione messi a loro disposizione, segnalando immediatamente deficienze dei mezzi stessi ed eventuali situazioni di pericolo di cui vengano a conoscenza con divieto di rimuoverli senza autorizzazione e di compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che compromettano la sicurezza di sè o di altri. Dell'art. 2087 e conseguentemente anche degli artt. 2119 e 2697 c.c. poiché il giudice d'appello non avrebbe considerato che la responsabilità del datore di lavoro per un infortunio occorso al lavoratore sul luogo di lavoro si concretizza oltre che nel mettere a disposizione del lavoratore gli strumenti di prevenzione antinfortunistica, anche di controllarne l'esatta utilizzazione, di tal che l'accertata inosservanza della misura di sicurezza predisposta, costituisce, necessariamente, una grave violazione degli obblighi del lavoratore di eseguire correttamente la prestazione, la quale giustifica il recesso datoriale.

2.- erronea e superficiale sarebbe poi l'affermazione che il rifiuto opposto dal lavoratore era ispirato da buona fede. In tal modo la Corte avrebbe erroneamente applicato l'art. 1460 c.c. che presuppone una valutazione comparativa degli inadempimenti. Il giudice d'appello non avrebbe, infatti, considerato che la società aveva predisposto misure di sicurezza conformi alle modalità di esecuzione della prestazione fornendo ai lavoratori le istruzioni per applicarle, mentre il dipendente che si era reso inadempiente omettendo di farne uso.

Con il secondo motivo di ricorso viene censurata la sentenza nella parte in cui ha sottovalutato la circostanza che la società appaltatrice aveva sorpreso il lavoratore senza mezzi di protezione e ne aveva chiesto l'allontanamento sottolineando la gravità dell'inadempimento riscontrato.

Con il terzo motivo di ricorso, poi, si censura la violazione dell'art. 18 comma 5 della L. n. 300/1970; evidenziando che la società aveva, sin dal primo grado, escluso l'esistenza dei requisiti dimensionali indispensabili per disporre la reintegrazione e che tale affermazione non era stata contestata dal dipendente. Lamenta inoltre l'omessa attivazione da parte del giudice d'appello dei suoi poteri officiosi per accertare la sussistenza o meno del requisito dimensionale per mezzo della produzione del libro paga e matricola ovvero dell'assunzione di informazioni presso l'INPS, esercizio doveroso ove ritenuta necessaria la prova nonostante la mancata contestazione del fatto.

L'ultimo motivo di ricorso si concreta nella richiesta di condanna del lavoratore al pagamento delle spese del giudizio.

Il primo ed il secondo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi e sono fondati.

Osserva la Corte che nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio comportamento inadempiente con l'inadempimento dell'altra, occorre procedere ad una valutazione comparativa del comportamento dei contraenti anche con riguardo ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle rispettive inadempienze in relazione alla funzione economico-sociale del contratto ed ai diversi obblighi su ciascuna delle parti gravanti. Tanto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell'altra di eseguire la prestazione dovuta.

Ove, in ipotesi, il comportamento "inadempiente", cronologicamente anteriore, seppure accertato non risulti "grave", non è di buona fede e, quindi, non è giustificato, il rifiuto dell'altra parte di adempiere correttamente alla prestazione secondo le istruzioni fornite (cfr. in tal senso Cass. 7.11.2005 n. 21479 e le pronunce ivi richiamate in motivazione: n. 4743/1998, n.10668/1999, n. 699/2000, n. 8880/2000).

Una giustificazione del comportamento inadempiente del lavoratore, specie con riferimento all' inosservanza delle misure di sicurezza predisposte dal datore di lavoro, deve quindi passare attraverso una comparazione tra il comportamento datoriale, cronologicamente anteriore, ed il successivo "adempimento" della prestazione con modalità non conformi a quelle indicate. In sostanza il requisito della buona fede previsto dall'art. 1460 comma 2 c.c. per la proposizione dell'eccezione inadimplenti non est adimplendum sussiste quando tale rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l'art. 1175 c.c. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite (cfr. Cass. cit. ed ivi n. 4743/1998).

Calando tali principi nella particolare situazione dell'adempimento delle prestazioni nell'ambito del rapporto di lavoro e, nello specifico, nella valutazione della gravità del comportamento del lavoratore che ometta di rispettare le misure di sicurezza predisposte dalla parte datoriale, si osserva che occorre verificare in concreto se tali misure debbano essere considerate così gravemente inefficaci e controproducenti da giustificarne il mancato rispetto.

Il mancato o non completo adempimento, da parte del lavoratore, della prestazione secondo le modalità specificate dal datore di lavoro può, in ipotesi, trovare una sua giustificazione nell' adozione da parte del datore di lavoro di misure inidonee a tutelare l'integrità fisica del prestatore di lavoro. Tuttavia occorre accertare anche se quest'ultimo, prima dell'inadempimento e nel rispetto degli obblighi di correttezza nell'esecuzione della prestazione, abbia provveduto ad informare il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare ovvero ad evidenziare l'inidoneità di quelle adottate.

La Corte d'appello di Catania, nel ritenere sproporzionata la sanzione irrogata ha omesso di effettuare tale valutazione comparativa ed ha escluso la legittimità del recesso sul rilievo che la misura apprestata sarebbe stata eccessivamente macchinosa ed avrebbe condizionato la prestazione lavorativa.

Tuttavia la Corte non ha verificato se, ipotizzata la consapevolezza del datore di lavoro di tale macchinosità e la sua inerzia, tale comportamento fosse così grave da giustificare la mancata osservanza da parte del lavoratore nell'esecuzione della prestazione delle misure di sicurezza comunque apprestate.

Tale accertamento, ad avviso di questa Corte, era necessario per addivenire ad una corretta valutazione dei comportamenti posti in essere dalle parti ed in particolare per addivenire ad una determinazione della gravità dell'inadempimento posto a base della risoluzione del rapporto di lavoro.

Per le ragioni esposte il primo ed il secondo motivo di ricorso vanno accolti, restano assorbite le altre censure relative all'applicabilità o meno della tutela reale ed alla liquidazione delle spese e la sentenza, cassata, va rinviata alla Corte d'appello di Caltanissetta che provvederà ad una rivalutazione delle emergenze probatorie, tenendo conto della prospettiva sopra delineata. La Corte di rinvio provvederà altresì alla liquidazione delle spese del presente giudizio.



P.Q.M.





Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Caltanissetta che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.