Cassazione Penale, Sez. 4, 04 aprile 2013, n. 15683 - Impianto a carosello e mutilazione di un piede: responsabilità in caso di appalto di lavori


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. CIAMPI Francesco M - rel. Consigliere -
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
1.- S.G.M. N. IL (Omissis);
2. P.M. N. IL (Omissis);
3. T.P. N. IL (Omissis);
Avverso la sentenza in data 26 gennaio 2011 della CORTE D'APPELLO DI TRENTO;
sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. FRANCESCO MARIA CIAMPI;
udite le conclusioni del PG in persona del dott. Francesco Mauro Iacoviello che ha chiesto il rigetto del ricorso;
per il ricorrente S. l'avvocato Luca Pontalti e per P. l'avvocato Eugenio Spinelli, in sostituzione dell'avvocato La Morgia che ne hanno chiesto l'accoglimento.


Fatto



1. Con sentenza in data 26 gennaio 2011 la Corte d'appello di Trento, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Trento in data 19 giugno 2009, appellata dagli imputati S. G.M., P.M. e T.P. (condannati alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno), concedeva alla S. il beneficio della non menzione della condanna, condannando T.P. e P.M. alla rifusione delle spese di parte civile. Gli imputati erano stati tratti a giudizio per rispondere di lesioni personali gravissime colpose, aggravate dalla violazione delle norme antinfortunistiche, in danno di D.D., dipendente della H.R. S.r.l. con mansioni di falegname carpentiere e con qualifica di operaio di 3^ livello. In particolare al T. era stato contestato, quale consigliere e direttore tecnico della TOTO S.p.A., acquirente della CIFA S.p.A. e concedente in uso alla H.R. dell'impianto a carosello per la produzione di conci prefabbricati, al P. in qualità di datore di lavoro e delegato in materia di sicurezza della TOTO S.p.A. con procura speciale del 30 aprile 2004, alla S. in qualità di a.u. e legale rappresentante della H.R. s.r.l., ditta subappaltatrice dei lavori di costruzione di conci prefabbricati per conto della TOTO ed utilizzatrice dell'impianto a carosello e quindi in qualità di datore di lavoro, per colpa generica consistita in negligenza, imperizia ed imprudenza nonchè per colpa specifica, ossia violando l'art. 2087 c.c. nonchè le norme sulla prevenzione infortuni specificamente indicate nei capi di imputazione cagionato le suddette lesioni, consistite in trauma da schiacciamento della gamba sinistra, con sub amputazione alla caviglia ed ampia e profonda ferita al terzo medio della gamba, con ampia mortificazione dei muscoli e tendini e deficit vascolare, con durata della malattia pari a 342 giorni e con mutilazione dell'arto.

2. Avverso tale decisione proponevano ricorso T.P. e P. M. a mezzo dei propri difensori censurando la gravata sentenza per:

2.1 inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b) e/o c) in relazione alla violazione dell'art. 175 c.p.p. in relazione alla ritenuta ammissibilità della costituzione di parte civile all'esito della procedura di restituzione in termini;

2.2 la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e art. 606 c.p.p., comma 1 per mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla violazione dell'art. 41 c.p., comma 2.

3. Ricorre altresì sempre a mezzo del proprio difensore la S. lamentando:

3.1 la inosservanza ed erronea applicazione della legge penale per aver omesso la Corte di Trento di considerare nella valutazione del nesso di causalità il principio dell'affidamento;

3.2 la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativamente al riconoscimento della posizione di garanzia della S.


Diritto


4. In fatto la gravata sentenza ha così ricostruito l'infortunio:

"Si tratta di infortunio sul lavoro verificatosi il 10 settembre 2004 in Trento presso uno stabilimento dell'interporto dove la ditta CIFA S.p.A. aveva costruito un impianto a carosello che sarebbe servito alla produzione di conci prefabbricati in cemento armato precompresso, destinati a ricoprire l'armatura delle volte della galleria di Martignano; la CIFA aveva poi ceduto in locazione finanziaria l'impianto alla ditta TOTO S.p.A. appaltatrice dei lavori nella galleria, di cui era responsabile T.P., ditta che per la materiale produzione dei conci, aveva subappaltato il lavoro alla ditta H.R. S.r.l. di cui legale rappresentante era la signora S.G.M., mettendo a sua disposizione in comodato d'uso l'impianto stesso. L'operaio infortunato, D. D. era dipendente della H.R.. Il lavoro consisteva nel dover produrre i detti conci che erano dei prefabbricati modulari da assemblare in galleria per contenerne la volta. L'impianto di produzione era costituito dai sei postazioni di casseratura sopraelevate e bilateralmente raggiungibili salendo dei gradini (il cassero era un contenitore sagomato che doveva dare la forma al prodotto finito), collocato in rettilineo, collegate da un binario e gestite, ciascuna da due operai che dovevano intervenire in sequenza, a partire dai primi due incaricati di estrarre dal cassero il concio così realizzato all'esito del ciclo precedente e stoccarlo; i secondi due di effettuare la pulizia del cassero; i terzi due di collocare al suo interno armature in ferro e così via, fino all'inoltro del cassero armato ad un impianto di betonatura in cui veniva riempito di calcestruzzo liquido e poi trasferito in un forno da essiccatura, dove il manufatto si solidificava dando via al concio che era il prodotto finito. Lo spostamento dei casseri da una postazione all'altra avveniva su binario e per trascinamento, effettuato da un rampino comandato a distanza da un unico operatore collocato alla fine del percorso, il quale avviava il sistema premendo un pulsante dopo aver ricevuto da ciascuna coppia la comunicazione di esaurimento del proprio compito, fatta tramite pulsante che attivava una luce verde sulla consolle del detto operatore finale. In quel momento tutti gli operai dovevano essere già fuori zona di pericolo, se avevano dato via libera, per cui l'aggancio ed il movimento dei cassieri non era destinato ad intercettarli; il percorso però non era protetto da sistemi di sicurezza particolari, tranne un avvisatore acustico e luminoso che si attivava prima dell'inizio del movimento e che richiamava l'attenzione sulla necessità di rimanere lontani dalla linea del carosello; proprio per questo - secondo il primo giudice- si erano determinate le condizioni perchè l'infortunio potesse verificarsi.

Accadde infatti che il D., appartenente alla seconda postazione, quella cioè di pulizia dei cassieri, avendo notato che un tubo dell'aria compressa era rimasto sul percorso e che esso sarebbe stato tranciato dal loro movimento, tornò nella zona di pericolo per asportarlo e, così facendo, pose il piede sinistro all'interno del binario ed in prossimità della staffa fissa di guida, su cui scorreva l'asta di trascinamento, con il risultato che quest'ultima avanzando, schiacciò il suo piede contro il punto fisso costituito dalla staffa medesima sino a tranciarlo. L'operaio subì la mutilazione dell'arto con invalidità permanente del 35% riconosciuta dall'INAIL". Ciò posto, osserva la Corte che, con riferimento al reato contestato al ricorrente previsto dall'art. 590 c.p., commi 1 e 3, commesso in data (Omissis), risulta decorso alla data odierna, tenuto conto anche dei periodi di sospensione, il termine massimo di prescrizione pari ad anni sette e mesi sei. Non emergono infatti - per le ragioni di cui in prosieguo- elementi che rendono evidente che il fatto non sussiste, o che gli imputati non lo hanno commesso, o che il fatto non è preveduto dalla legge come reato. Perchè possa applicarsi infatti la norma di cui all'art. 129 cpv c.p.p., che impone il proscioglimento nel merito in presenza di una causa di estinzione del reato, è necessario che risulti evidente dagli atti processuali la prova dell'insussistenza del fatto, o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non è preveduto dalla legge come reato. Il sindacato della Corte di Cassazione in presenza di una causa estintiva del reato, deve limitarsi ad accertare se una delle ipotesi di cui all'art. 129 cit. ricorra in maniera evidente in base alla situazione di fatto risultante dalla stessa sentenza impugnata, senza che possa estendersi ad una critica del materiale probatorio acquisito al processo, ciò implicando Indagini e vantazioni di fatto che esulano dai compiti costituzionali della Corte. "In tema di declaratoria di causa di non punibilità nel merito, rispetto a causa estintiva del reato, il concetto di "evidenza" presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva, che ogni manifestazione appaia superflua, concretizzandosi, cosi, in qualcosa di più di quanto la legge richieda per l'assoluzione ampia, oltre la correlazione ad un accertamento immediato" (Cass. Sez. 4 sent. n. 12724 del 28.10.1988).

Tanto premesso, nella fattispecie che ci occupa, il ricorso deve essere rigettato quanto alle statuizioni civili in quanto i proposti motivi di ricorso non sono fondati. Per quanto attiene al ricorso della S., quest'ultima sostiene che la Corte territoriale non avrebbe considerato il principio dell'affidamento legittimo posto in essere dalla ricorrente nei confronti dell'assoluta alta professionalità ed avvedutezza degli altri soggetti ai quali ella collegava una posizione di garanzia e non avrebbe conseguentemente escluso la propria responsabilità. Il ricorso è infondato: ed invero la Corte territoriale ha a riguardo correttamente sottolineato che la S. era la prima responsabile della sicurezza del proprio dipendente e che come tale avrebbe dovuto verificare la sicurezza dell'ambiente di lavoro nel quale andava a collocare l'operaio ed adottare tutti i correttivi necessari per garantirla sia agendo direttamente sia intervenendo presso la ditta appaltatrice TOTO S.p.A. che le aveva messo a disposizione l'impianto per la produzione dei conci, esigendo da essa gli adeguamenti opportuni, che non le fossero stati altrimenti possibili. Tali affermazioni appaiono conformi alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis, Sezione 4, n. 28197 del 21 maggio 2009, Valdes ed altri, RV 246991), secondo cui l'ordinamento giuridico attribuisce ad entrambi i soggetti dell'appalto, un'autonoma sfera organizzativa e pieni poteri decisionali con la conseguenza che essi sono destinatari principali del dovere di provvedere alla tutela della salute e della integrità fisica dei propri dipendenti. Il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2, lett. a) del resto prescrive che "i datori di lavoro cooperano all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto, formula che va inteso nel senso che l'obbligo di cooperazione comporta l'attuazione delle misure prevenzionali rivolte ad eliminare i pericoli che per effetto della esecuzione delle opere appaltate, vanno ad incidere sia sui dipendenti dell'appaltante sia di quelli dell'appaltatore.

5. Quanto al ricorso congiunto degli altri due imputati, questi lamentano con un primo motivo la inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale in relazione alla violazione dell'art. 175 c.p.p. (non potendo nella specie essere invocata l'ipotesi del caso fortuito o della forza maggiore) e conseguentemente la tardività della costituzione di parte civile. Il motivo è infondato; è sufficiente rilevare che in sede di appello - come emerge dalla sentenza impugnata- gli odierni ricorrenti avevano dedotto la nullità della sentenza di primo grado per inosservanza delle norme relative alla citazione in giudizio della persona offesa, residente all'estero e non validamente avvisata del processo e che la eccezione è stata respinta dalla Corte territoriale sul rilievo, da un lato, della carenza di interesse, dall'altro in considerazione della circostanza che analoga eccezione proposta dalla stessa parte offesa, aveva trovato superamento attraverso la rimessione in termini. Nè può sostenersi che la irregolarità della citazione sarebbe dipeso da un comportamento volontario della parte offesa, allontanatasi dal domicilio dichiarato senza adempiere l'onere di comunicare la variazione, atteso che all'esame degli atti, doveroso vertendosi in tema di vizio in procedendo emerge che mai la persona offesa aveva dichiarato o eletto un proprio domicilio; che aveva ricevuto notificazione del decreto di citazione a giudizio ad un indirizzo risultante dagli atti, rivelatosi non utile; che successivamente era venuta a conoscenza del processo alla seconda udienza per cui era stata citata come teste dal PM, avendo avuto questa volta buon esito l'avviso che era stato inviato all'indirizzo rumeno, pure questo peraltro già risultante in atti.

Con un secondo motivo viene dedotta l'inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale e la inosservanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto al ritenuto nesso di causalità che si sarebbe invece interrotto in relazione al comportamento del D., "consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente lontano dalle ipotizzabili e quindi prevedibili scelte imprudenti del lavoratore nella esecuzione anche delle mansioni a lui affidate". Sul punto la gravata sentenza ha in parte richiamato le considerazioni del giudice di primo grado secondo cui la condotta del D. non potesse affatto considerarsi abnorme, inimmaginabile o al di fuori degli schemi di un'agevole prevedibilità, sottolineando come "le misure di sicurezza debbono operare oggettivamente ed in modo tale da preservare il dipendente dalle sue stesse incautele che nei luoghi di lavoro diventano sempre più possibili con l'instaurarsi dell'assuefazione al rischio, destinata ad attenuare o a far perdere addirittura la percezione stessa del pericolo". Reputa il Collegio che, nel confutare l'impostazione difensiva degli imputati, sia stata fatta dai giudici di merito corretta applicazione del principio generale secondo cui la colpa altrui non elide la propria (cfr. a riguardo Sez. 4, Sentenza n. 22622 del 29/04/2008, Barzagli e altro, Rv. 240161). E' evidente, infatti, che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorchè chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo, che è conseguito, nella specie, dall'avere la vittima operato nella zona di lavoro, senza essere specificamente protetto dai necessari e previsti appostamenti di sicurezza. Tanto meno la causa esimente è invocabile, se la si pone, come nel caso di specie, alla base del proprio errore di valutazione, assumendo che il sinistro si è verificato non perchè si sia tenuto un comportamento antigiuridico, ma sol perchè vi sarebbe stata, dalla parte della vittima, l'anomala ed inopinata iniziativa di ci sopra. Il rilievo difensivo, comunque, non serve a scagionare gli imputati, in quanto chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui. In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui, quando si è, come nel caso "de quo", nella possibilità in concreto di impedirlo. E' il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l'incidente dipende dal comportamento dell'agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui. E' da porre peraltro in rilievo come la Corte territoriale abbia giustamente rimarcato che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purchè connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.

Sussistendo questa ipotesi, è affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento. Alla stregua di tale principio, la doglianza difensiva in esame non ha ragion d'essere, non potendosi l'eventuale imprudenza, profilabile nella condotta della vittima, considerarsi imprevedibile e tale da interrompere il rapporto di causalità con l'evento infortunistico, essendo questo nella specie riconducibile, anche e comunque, all'omissione, da parte degli imputati, della condotta doverosa di impedire, per mezzo di informazione specifica e di predisposizione di apposite misure di protezione, che il D. alle sue dipendenze operasse, per lavori specificamente connessi alle sue mansioni, in condizioni di pericolo.

6. Conclusivamente la sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza rinvio ai fini penali per essere il reato estinto per prescrizione il ricorso deve essere invece rigettato ai fini civili.


P.Q.M.



Annulla la sentenza impugnata agli effetti penali perchè estinto il reato per prescrizione. Rigetta i ricorsi agli effetti civili.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013