Cassazione Civile,  20 maggio 2013, n. 12244 - Infortunio mortale durante i lavori di riparazione di un rimorchio agricolo: responsabilità omissiva di un datore di lavoro


 

Fatto


1. - A. L., di anni 25, operaio alle dipendenze della S. s.r.l., decedeva a seguito di infortunio sul lavoro occorsogli il 21 febbraio 1989, allorché, nel mentre eseguiva lavori di riparazione di un rimorchio agricolo nell'officina dello stabilimento, veniva colpito dal pianale del veicolo, che egli aveva sollevato verso l'alto, riportando lesioni al capo con esito mortale.

Il giudizio penale instaurato nei confronti del legale rappresentante della società S. e del capo reparto della stessa impresa si concludeva con sentenza di patteggiamento, ex art. 444 cod. proc. pen., per il delitto di cui all'art. 589 cod. pen. e con declaratoria di amnistia per la violazione di cui all'art. 375 del D.P.R. n. 547 del 1955.

Sicché, con atto di citazione in riassunzione del 26 gennaio 1996 (a seguito della declaratoria di incompetenza per materia dell'adito Pretore, giudice del lavoro), G. A., C. O. e P. A., rispettivamente genitori e sorella della vittima, convenivano dinanzi al Tribunale di Saluzzo la S. s.r.l. per sentirla condannare al risarcimento dei danni materiali e morali patiti per la morte del congiunto.

Nel contraddittorio delle parti, il Tribunale, con sentenza del 25 giugno 1999 rigettava la domanda, mentre la Corte di appello di Torino, adita da C. O. e P. A., in proprio e anche quali eredi di G. A., nel frattempo deceduto, in parziale accoglimento del gravame, con sentenza del 19 settembre 2001, condannava la società appellata al risarcimento dei danni morali patiti dagli attori.

2. - A seguito di ricorso della S. s.r.l., questa Corte, con sentenza n. 27721 del 16 dicembre 2005, cassava con rinvio la predetta sentenza di appello, essendo il giudice del gravame incorso nell'errore di aver affermato la responsabilità civile del datore di lavoro in ragione del mancato assolvimento dell'onere probatorio circa l'assunzione "di provvedimenti necessari per prevenire possibili incidenti", là dove, trattandosi di azione promossa ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., erano gli attori a dover fornire prova della responsabilità del datore di lavoro. Inoltre, sebbene la Corte territoriale avesse fatto riferimento anche alla responsabilità extracontrattuale della S. s.r.l. - "perché le omissioni sopra esplicate ovvero quali attinenti alla mancata messa a disposizione della vittima di valide corde o catene metalliche per agganciare il pianale del rimorchio agricolo al paranco e alla mancanza di idonee direttive costituiscono violazione di un vero e proprio obbligo giuridico (D.P.R. n. 547 del 1995, art. 3)" - si trattava, però, di "affermazione sorretta da motivazione insufficiente, se non apodittica e contraddittoria, in quanto basata, sostanzialmente sulla sola necessità dell'adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza prescritte dall'ordinamento".

3. - Riassunto il giudizio dagli originari appellanti, la Corte di appello di Torino, giudice del rinvio, con sentenza del 10 febbraio 2010, in parziale accoglimento del gravame, condannava la S. s.r.l. al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti, in conseguenza della morte del congiunto L. A., da P. A. e C. O., in proprio e quali eredi di G. A., liquidando, a tale titolo, alla O. in proprio la somma di euro 100.000,00 ed alla A. in proprio la somma di euro 60.000,00, nonché ad entrambe, quali eredi di G. A., la somma di euro 100.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

La Corte territoriale riteneva che gli attori avessero concretamente dimostrato, in base all'onere su di essi incombente, la violazione da parte della società S. "degli obblighi, sia generali, ex art. 2087 c.c., sia derivanti da specifiche norme antinfortunistiche, dalle quali è derivata in via diretta e causale la morte dell'A. e conseguentemente la lesione diretta sotto il profilo dell'art. 2043 ce, del diritto degli attori in proprio, quali stretti congiunti dell'operaio rimasto vittima dell' incidente".

4. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre la S. s.r.l., affidando le sorti dell'impugnazione a due articolati motivi.

Resistono con controricorso P. A. e C. O., in proprio e quali eredi di G. A., che hanno depositato memoria in prossimità dell'udienza del 14 novembre 2012.

5. - All'udienza del 14 novembre 2012, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo e rifissata per la trattazione all'udienza odierna.

 

Diritto



1. - Con il primo mezzo è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., in materia di onere della prova e dell'art. 2086 cod. civ., in materia di direzione dell'impresa, nonché vizio di motivazione, "per aver i giudici del rinvio erroneamente ritenuto assolto da parte degli attori-resistenti A. l'onere probatorio loro incombente in punto di omissione da parte della ricorrente s.r.l. S. delle misure di sicurezza che, se ipoteticamente non omesse, avrebbero evitato l'evento di danno".

La Corte territoriale sarebbe incorsa in omessa, o comunque insufficiente, motivazione anzitutto per aver addebitato ad esso datore di lavoro "plurime violazioni" delle norme generali ed antinfortunistiche e, segnatamente, delle disposizioni di cui agli art. 3 e 4 del d.P.R. n. 547 del 1955, senza però "indicare affatto quali specifiche opere precauzionali concrete" la società avrebbe omesso di attuare, incorrendo nello stesso vizio addebitato dalla sentenza rescindente di legittimità alla precedente pronuncia della medesima Corte di appello.

Inoltre, il giudice di gravame avrebbe fatto generico riferimento a "regole rigide di organizzazione finalizzate alla sicurezza", senza precisare quali precauzioni sarebbero state omesse, peraltro incorrendo nell'errore di diritto di addossare al datore di lavoro la prova di fatti negativi che avrebbero dovuto dimostrare gli attori, risultando invece del tutto carente la prova che la società imprenditrice non avesse istruito il proprio operaio per l'esecuzione della manovra che aveva dato luogo al sinistro.

La Corte di appello, poi, pur accennando alla circostanza, rilevata dalla sentenza rescindente del 2005, della mancata messa a disposizione della vittima di corde idonee allo scopo, non avrebbe però "condiviso tale asserzione", ritenendo invece che sul luogo dell'infortunio si trovavano corde o spezzoni di esse idonei "a sostenere il pesante pianale in questione"; rinvenimento che, in ogni caso, sarebbe comprovato dalle risultanze istruttorie.

La ricorrente sostiene, quindi, che l'unico elemento omissivo addebitato al datore di lavoro sarebbe "la circostanza che l'A. fosse solo ad eseguire la saldatura di che trattasi, e fuori dell'orario di lavoro". Circostanza che, però, sarebbe smentita dalla presenza nello stabilimento del capo officina Bonamico e, comunque, paleserebbe un errore di diritto, giacché, —. ....si dell'art. 2086 cod. civ. , è riservata all'imprenditore l'organizzazione del lavoro e dell'attività produttiva, sicché spettava alla società "scegliere l'operaio cui affidare una certa mansione, ed il tempo della relativa esecuzione ..., stabilire se fosse in grado di eseguirla da solo o se dovesse eseguirla in equipe". Sarebbe poi apodittica ed indimostrata l'affermazione sulla pericolosità intrinseca della manovra di saldatura di due lame di ferro al pianale eseguita dall'A., là dove ciò verrebbe smentito dalle affermazioni del c.t.u. geom. T., dalle quali si evincerebbe trattarsi di operazione "per nulla pericolosa, anzi alquanto semplice, addirittura di ruotine", soprattutto per un operaio con qualifica di montatore meccanico. Invero, soggiunge la società ricorrente, dalla lettura della relazione peritale in atti emergerebbe l'assenza di qualunque "rilievo in ordine alle misure di prevenzione adottate nel caso specifico", in assenza di riscontri di anomalie od omissioni nelle apparecchiature e negli impianti, come sarebbe confermato anche dalle ispezioni degli enti preposti alla tutela della sicurezza sul lavoro.

2. - Con il secondo mezzo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116, primo comma, cod. proc. civ., in materia di valutazione delle prove, nonché vizio di motivazione, "per non aver i giudici del rinvio erroneamente esonerato la s.r.l. S. da ogni responsabilità per l'infortunio di cui trattasi, risultante questo per tabulas esclusivamente imputabile al comportamento colposo della vittima".

La ricorrente si duole della insufficiente e contraddittoria motivazione adottata dalla Corte territoriale, la quale, dopo aver evidenziato le numerose imprudenze commesse dall'A. nella saldatura di due lame di ferro, a forma di forcella, sotto la parte destra del pianale di carico di un rimorchio agricolo, riscontrate pure dalla relazione peritale del geom. T., non ne avrebbe tratto, però, le dovute conseguenze sulla ascrivibilità della responsabilità per l'evento dannoso allo stesso operaio, trasferendola invece in capo ad essa società. In particolare, potendo la saldatura essere effettuata con il sollevamento del pianale a soli 6 cm. dal telaio, sarebbe stata non indispensabile, bensì rischiosa la manovra decisa dall'Aro di sollevare ulteriormente il pianale per agevolare l'esecuzione della saldatura stessa, là dove, peraltro, "nessun operaio meccanico avrebbe commesso l'imprudenza (rectius: la follia) di introdurre il capo, anzi l'intero capo, in quella che era una vera e propria feritoia/ghigliottina", ciò risultando esser stato un comportamento inutile ed inspiegabile, anche ove l'A. avesse inteso ispezionare l'oggetto da saldare, ciò che avrebbe dovuto effettuare con ben altra manovra, tale da non lasciare la zona della saldatura "a ritroso, e cioè in senso inverso" rispetto al suo sguardo. Soggiunge, poi, la ricorrente che l'A. avrebbe anche utilizzato scorrettamente il gancio del paranco, invece di utilizzare le corde metalliche idonee allo scopo, tanto che, come ipotizzato dal perito, il distacco del gancio dal luogo di sua applicazione si sarebbe potuto determinare per un movimento del telaio "involontariamente o meno prodotto dall'Aro".

In definitiva, si sarebbe trattato di evento imprevedibile ed inevitabile, dovuto a un "gesto così abnorme, atipico esorbitante ed estraneo (perché, ripetesi, anche inutile) alla prestazione lavorativa, quale quello dell'A., e cioè non solo di aver sollevato con un gancio malsicuro ed instabile un pianale di 300/400 kg. , ma di avervi subito dopo infilato il capo proprio sotto".

3. - I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro stretta connessione, sono infondati.

3.1. - Con essi si denunciano, eminentemente, vizi della motivazione della sentenza impugnata, per essere la stessa incorsa in carenze, contraddizioni ed illogicità nella valutazione dei fatti oggetto di riscontro probatorio; in siffatto contesto sono, quindi, veicolate le censure di error in iudicando, che invero vanno circoscritte a quelle che investono le norme di cui agli artt. 2697 e 2086 cod. civ. , posto che le dedotte violazioni degli art. 115 e 116 cod. proc. civ. sono da apprezzarsi, in sede di ricorso per cassazione, sotto lo spettro del vizio di motivazione di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., trattandosi di norme sulla valutazione delle prove da parte del giudice del merito (Cass., 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass., 20 giugno 2006, n. 14267).

3.2. - La Corte di appello di Torino, muovendo dal principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente n. 27721 del 2005 di questa Corte, ha impostato la verifica sulla responsabilità extracontrattuale addebitata dagli attori-appellanti al datore di lavoro del proprio congiunto in base all'esame cd. controfattuale, "con riguardo agli effetti derivati dalla condotta omissiva, ai fini dell'affermazione di responsabilità", tenuto conto, ai fini dell'individuazione della condotta esigibile dal soggetto, della sua natura professionale e degli obblighi di diligenza generica e specifica su di esso gravanti e, segnatamente, di quelli derivanti dall'art. 2087 cod. civ. e dalle norme antinfortunistiche.

Il giudice di appello ha, dunque, posto in rilievo come la sentenza rescindente non avesse obiettato nulla "all'inciso della Corte di appello in cui si riconosceva positivamente provata la mancata messa a disposizione della vittima di valide corde o catene metalliche, ed anzi si affermava positivamente l'inidoneità di quelle rinvenute", sebbene, poi, l’allora giudice del gravame ne avesse erroneamente tratto una responsabilità solo presuntiva del datore di lavoro.

Evocando poi precedenti di questa Corte di legittimità, il giudice del gravame ha messo in evidenza gli obblighi del datore di lavoro di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, con l'adozione delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa; in definitiva, assumendo lo stesso datore, in base al principio generale di cui all'art. 2087 cod. civ., un ruolo di protezione del lavoratore, "anche attraverso la propria organizzazione, di cui egli risponde".

3.3. - Poste siffatte preliminari considerazioni, il giudice di secondo grado, sulla scorta delle risultanze probatorie (atti di indagine eseguiti nell'immediatezza del sinistro e perizia eseguita dall'ing. Tesio in sede penale), ha ritenuto il "contesto logistico e temporale, connotato dalle plurime violazioni delle norme generali ed antinfortunistiche (in particolare la violazione del vero e proprio obbligo giuridico dell'art. 3 DPR n. 547/1955) in cui l'incidente ebbe a verificarsi", essere "il fulcro della condotta omissiva, da cui etiologicamente scaturi l'evento".

In tale contesto, ripercorrendo i contenuti dell'esame peritale, la Corte territoriale, pur dando atto che la stessa perizia non era stata in grado di fornire elementi sulla "restante manovra di ulteriore sollevamento del pianale" effettuata dall'A., dopo l'aggancio del paranco obliquamente al pianale stesso (per essere il gancio del paranco relativamente piccolo, per cui "non trovava giusto appiglio negli alti bordi perimetrali del pianale") , né sulle cause della improvvisa e rovinosa caduta del pianale medesimo, ha rilevato che lo stesso perito aveva evidenziato che la manovra era stata realizzata "proprio al fine di eseguire più agevolmente, con più spazio disponibile, la saldatura di fissaggio della forcella", avendo poi l'A. introdotto la testa proprio sotto il pianale "per ispezionare meglio la zona della saldatura". In ogni caso, in base alla medesima perizia, era comunque da escludere una rottura o cedimento strutturale ed imprevedibile del gancio del paranco, seppure il suo ancoraggio fosse precario, ovvero anche di una fune, "di cui, peraltro, non si ha certezza dell'effettivo utilizzo". Sicché, ha precisato il giudice di secondo grado, in forza di tale "presumibile dinamica" risultava "evidente che la manovra non fu eseguita correttamente e cioè con un corretto impiego dell'argano o delle funi, non bastando, quanto a queste ultime, né il loro mero rinvenimento sul posto, trattandosi peraltro di spezzoni, né l'astratta idoneità di questi ultimi a sostenere il pesante mezzo in questione, per scagionare il datore di lavoro dalla responsabilità di natura omissiva".

Invero, al di là dell'idoneità degli strumenti utilizzabili o utilizzati in concreto, la carenza rilevante è stata - ad avviso della Corte di appello - quella della "organizzazione preventiva" e cioè della "previsione a monte e poi l'adozione in concreto di un procedimento corretto e prestabilito dal datore di lavoro in base a regole rigide di organizzazione finalizzate alla sicurezza, per eseguire in sicurezza manovre come quella in esame, quali quelle in generale e specificamente dettate per il corretto utilizzo di tali strumenti, per l'impiego, ogni qualvolta necessiti, dell'argano e delle funi, procedimento grazie al quale soltanto sarebbe stata garantita la sicurezza della manovra di sollevamento maldestramente e precariamente invece eseguita dallo stesso operaio, cui non risultano imposte le necessarie, minime precauzioni". In definitiva, "con il corretto e concomitante impiego delle funi a norma dell'argano presente con le modalità descritte dallo stesso CTU", l'evento si sarebbe evitato, nonostante l'improvvida, seppur necessaria, manovra dell'operaio di introdurre la testa al di sotto del pianale, al fine di meglio ispezionare la zona della saldatura ed eseguirla al meglio, ciò non potendo reputarsi "una manovra anomala e velleitaria, ovvero imprevedibile e del tutto estranea alla logica sequenza delle mansioni che in quel momento il lavoratore era intento a svolgere". Peraltro, non poteva convenirsi sulla presunta semplicità della manovra da effettuarsi da parte dell'A., trattandosi invece di lavoro "di per sé pericoloso e non di routine, consistendo, come emerso dalla descrizione peritale nonché dalle deposizioni dei testi, nella riparazione delle cerniere che regolavano le leve idrauliche di sollevamento di un pesante cassone, da eseguirsi proprio al di sotto dello stesso, previo il sollevamento forzato per il tempo necessario, mentre il lavoratore operava eseguendo le riparazioni proprio al di sotto". Riparazioni che, come evincibile in base alla deposizione del teste e collega di lavoro Mellano, l'A. "fu lasciato ad operare .. fuori del normale orario di lavoro, senza che nessuna preventiva indicazione fosse stata data all'operaio sulle modalità più idonee per effettuare quella riparazione, ne che gli fossero assicurati il necessario presidio di sicurezza né una collaborazione adeguata".

3.4. - Le affermazioni rese dalla Corte territoriale si sottraggono alle censure mosse dalla ricorrente, giacché non incorrono nei vizi giuridici e motivazionali denunciati.

Il giudice del gravame ha positivamente individuato la specifica condotta cd. controfattuale che il datore di lavoro avrebbe dovuto porre in essere perché il sinistro non si verificasse e cioè la mancata previsione e, poi, adozione in concreto di un procedimento corretto e prestabilito per l'esecuzione in sicurezza di manovre quali quella rimessa all'operaio A.; condotta che, ad avviso del giudice del merito, sarebbe stata impeditiva dell'evento lesivo nonostante l'imprudente azione del lavoratore nell'eseguire la manovra di sollevamento del pianale, poi rovinosamente caduto sulla testa dello stesso operaio. Nessuna inversione dell'onere della prova ha, quindi, posto in essere la Corte territoriale nel rilevare, nei confronti della società S., l'anzidetta carenza della condotta c.d. controfattuale, posto che la situazione ad essa riferibile è stata ritenuta dal giudice di merito effettivamente provata, in forza della complessiva ricostruzione delle emergenze probatorie.

Né, altresì, può addebitarsi al giudice di appello di essere incorso nella dedotta violazione dell'art. 2086 cod. civ., giacché, lungi dall'aver gravato il datore di lavoro di obblighi non riconducibili all'ambito della tutela delle condizioni di lavoro (non essendosi, dunque, ingerito affatto nell'alveo dei poteri riservati all'imprenditore), il giudice del merito ha valutato la condotta dell'imprenditore in ragione della sua posizione di garante dell'incolumità fisica del lavoratore, che, ai sensi del citato art. 2087 cod. civ. , gli impone di adottare tutte le misure atte salvaguardare la persona di chi presta la propria attività alle sua dipendenze.

La Corte territoriale ha, inoltre, escluso che la condotta dell'A., consistita nell'introdurre la testa sotto il pianale, fosse imprevedibile, avendo invece accertato che essa, sebbene imprudente, ma non già "anomala o velleitaria", si era resa necessaria per la migliore esecuzione della saldatura, cosi da privare di consistenza la tesi del datore di lavoro circa l'assorbente efficienza causale dell'anzidetta condotta dell'operaio. Peraltro, nella sentenza impugnata è altresì smentita, sulla base delle deposizioni testimoniali raccolte, la asserita semplicità della manovra cui l'A. era tenuto, apprezzando invece come pericolo e non di ruotine il lavoro stesso, ciò desumendolo anche dalla descrizione fattane dal perito.

3.5. - Le complessive argomentazioni evidenziate, che sorreggono la ratio decidendi della sentenza impugnata, privano, dunque, di consistenza le censure della ricorrente, non ravvisandosi in esse, come già anticipato, le insufficienze o le aporie dedotte, né i prospettati errori di diritti, là dove, per il resto, i motivi di ricorso esprimono una valutazione di parte delle risultanze istruttorie surrogandosi, in modo inammissibile però, nell'esercizio del potere di apprezzamento dei fatti e delle prove riservato esclusivamente al giudice del merito.

4. - Il ricorso va, dunque, rigettato e la società ricorrente, in quanto soccombente, condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.



Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, in solido tra loro, che liquida in complessivi euro 5.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.