Corte Costituzionale, 13 febbraio 2013, n. 16 - Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto in relazione al decreto legge sul caso ILVA





 




REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Gaetano SILVESTRI Giudice
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
- Aldo CAROSI "
- Marta CARTABIA "
- Sergio MATTARELLA "
- Mario Rosario MORELLI "
- Giancarlo CORAGGIO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA


nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto in relazione al decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), promosso dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Taranto con ricorso depositato in cancelleria il 31 dicembre 2012 ed iscritto al n. 7 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2012, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2013 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.


Fatto





che, con ricorso depositato il 31 dicembre 2012, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato - per violazione degli articoli 107, quarto comma, e 112 della Costituzione, nonché delle disposizioni legislative che costituiscono attuazione ed integrazione dell'art. 112 Cost. (in particolare, degli artt. 50, 405, 423, 517, comma 1, e 518 del codice di procedura penale) - nei confronti del Governo della Repubblica, nelle persone del Presidente del Consiglio dei ministri, del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministro dello sviluppo economico, in relazione al decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli occupazionali in caso di stabilimenti di interesse strategico nazionale);

che, secondo il ricorrente, il decreto impugnato avrebbe reso inefficace il provvedimento cautelare con il quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto aveva sottoposto a sequestro preventivo i beni dell'ILVA S.p.A. ed avrebbe altresì legittimato, attraverso la prosecuzione dell'attività produttiva per un periodo di tempo determinato, «la sicura commissione di ulteriori fatti integranti i medesimi reati» per i quali la Procura procede;

che l'Autorità ricorrente riepiloga la vicenda giudiziaria antecedente al presente conflitto, ricordando come già nel 1998 fossero state emesse sentenze di condanna, divenute irrevocabili, nei confronti di dirigenti dell'ILVA S.p.A., gestore dello stabilimento siderurgico di Taranto, per violazione della normativa anti-inquinamento e degli artt. 437, 674, 635, secondo comma, numero 3), del codice penale;

che la Procura riferisce inoltre di aver ricevuto, a partire dal 2007, segnalazioni da parte dell'ARPA Puglia, dell'ASL, dell'Ispettorato del lavoro e della Questura di Taranto, nonché numerose denunzie-querele di privati cittadini e del Sindaco di Taranto, che determinavano l'apertura di un'indagine, con acquisizione di documentazione ed espletamento di consulenze tecniche;

che, in esito agli accertamenti disposti, era emerso che dallo stabilimento gestito dell'ILVA S.p.A. «si sprigionava, con continuità, una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive nocive, provenienti dalla c.d. "area a caldo" (e cioè dall'area parchi, cokeria, agglomerato, altiforni, acciaieria e GRF); che, all'interno dello stabilimento veniva posta in essere, con continuità, un'attività di sversamento nell'aria-ambiente di varie sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale (in particolare IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli e altre polveri) che si diffondevano nelle aree interne del siderurgico, nonché in quelle rurali e urbane circostanti, idonee a cagionare eventi di malattia e di morte tra i lavoratori e la popolazione residente nei quartieri viciniori; che si era già verificato l'avvelenamento di 2.271 capi di bestiame (ovini), poi abbattuti»;

che, a fronte delle indicate risultanze, la stessa Procura riteneva di formulare un'ipotesi accusatoria in cui, accanto ai reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e dagli artt. 674, 635 e 437 cod. pen., figuravano «anche i delitti di cui agli artt. 434 e 439 cod. pen.»;

che, secondo quanto riferisce ancora il ricorrente, le perizie chimico-ambientale e medico-epidemiologica, disposte dal Giudice per le indagini preliminari in seguito a richiesta di incidente probatorio, ai sensi dell'art. 392, comma 2, cod. proc. pen., confermavano l'esistenza dei gravissimi fenomeni già indicati ed evidenziavano «l'impossibilità di ovviare agli stessi senza il previo risanamento (dal punto di vista ambientale) degli impianti funzionanti all'interno dello stabilimento»;

che, in esito a tali ultimi accertamenti, la Procura formulava richiesta di misure cautelari personali e reali;

che il Giudice per le indagini preliminari di Taranto, con ordinanza-decreto del 25 luglio 2012, applicava la custodia cautelare nei confronti di alcuni indagati e disponeva il sequestro preventivo di tutta la cosiddetta area a caldo dello stabilimento siderurgico, nominando custodi-amministratori con il compito di «avviare immediatamente le procedure tecniche di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti»;

che, con riferimento a quest'ultimo profilo, il ricorrente sottolinea che il provvedimento del Giudice è stato oggetto di parziale modifica in sede di gravame, proposto dal legale rappresentante dell'ILVA S.p.A.;

che il Tribunale del riesame, con ordinanza 7-20 agosto 2012, aveva infatti disposto «l'utilizzo degli impianti solo in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare la situazione di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti»;

che, per la restante parte, sempre secondo il ricorrente, il provvedimento impugnato era stato confermato ed il Tribunale del riesame aveva ribadito il divieto di uso degli impianti per finalità di produzione;

che la decisione del Tribunale del riesame non era stata impugnata, sicché su di essa dovrebbe ritenersi formato il cosiddetto giudicato cautelare;

che l'Autorità giudiziaria ricorrente richiama i successivi accadimenti e, in particolare, evidenzia come, a distanza di circa quattro mesi dall'esecuzione del provvedimento di sequestro preventivo dell'area a caldo, i dirigenti dell'ILVA S.p.A. non avessero ottemperato alle prescrizioni giudiziali, proseguendo al contrario l'attività produttiva;

che si giungeva così alla richiesta del secondo provvedimento di sequestro, disposto dal Giudice per le indagini preliminari in data 22 novembre 2012, ai sensi dell'art. 321, commi 1 e 2, cod. proc. pen., avente ad oggetto i materiali prodotti fino a tale data;

che la stessa Procura aveva anche provveduto, nel contempo, ad inviare informazione di garanzia, per i reati prima indicati, ai dirigenti che non avevano ottemperato all'ordine di bloccare la produzione;

che, nel contesto fin qui descritto, è intervenuto il Governo della Repubblica, con il d.l. n. 207 del 2012;

che il ricorrente richiama il preambolo del suddetto decreto-legge dal quale emerge che l'intervento governativo è finalizzato a realizzare il bilanciamento tra la tutela della salute e dell'ambiente, da un lato, e le esigenze di salvaguardia dell'occupazione e della produzione industriale, dall'altro;

che, a tal fine, l'Autorizzazione integrata ambientale (AIA) e il Piano operativo «assicurano l'immediata esecuzione di misure finalizzate alla tutela della salute e della protezione ambientale e prevedono graduali ulteriori interventi sulla base di un ordine di priorità finalizzato al risanamento progressivo degli impianti»;

che il decreto-legge prevede, in presenza di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, qualora vi sia assoluta necessità di salvaguardia dell'occupazione e della produzione, la possibilità per il Ministro dell'ambiente di autorizzare, mediante AIA, la prosecuzione dell'attività produttiva di uno o più stabilimenti, per un periodo determinato, non superiore a 36 mesi, e a condizione che siano adempiute le prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzativo (art. 1, comma 1);

che il d.l. n. 207 del 2012 riconosce inoltre, nel preambolo, che «la continuità del funzionamento produttivo dello stabilimento siderurgico ILVA S.p.A. costituisce una priorità strategica nazionale» e, al comma 4 dell'art. 1, stabilisce che «le disposizioni di cui al comma 1 trovano applicazione anche quando l'autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell'autorizzazione, l'esercizio dell'attività d'impresa a norma del comma 1»;

che il ricorrente richiama l'art. 2 del decreto, nel quale si stabilisce che, nei limiti consentiti dal medesimo decreto, la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti di interesse strategico nazionale rimangano in capo ai titolari dell'AIA, ed il successivo art. 3, che fa salva l'efficacia dell'AIA rilasciata all'ILVA S.p.A. in data 26 ottobre 2012;

che, all'esito della disamina delle disposizioni introdotte con il decreto-legge oggetto del conflitto, la Procura ricorrente segnala che, secondo la dottrina, vi è stato un impiego abnorme della funzione normativa, tale da aver dato luogo ad una sorta di «revoca legislativa» di un provvedimento giudiziario di sequestro;

che l'asserita abnormità dell'intervento risulterebbe tanto più evidente trattandosi di materia penale, nella quale l'esigenza di una tutela immediata e diretta del bene giuridico rafforza le ragioni di garanzia della certezza del diritto e dell'integrità delle attribuzioni costituzionali dei diversi poteri dello Stato;

che, del resto, prosegue il ricorrente, la giurisprudenza costituzionale sarebbe univoca nel vietare al legislatore l'adozione di provvedimenti che incidano sulla «funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso» (è citata la sentenza n. 267 del 2007);

che le considerazioni svolte consentirebbero, sempre per il ricorrente, di «affermare [...] che le disposizioni in esame si pongono in termini di assoluta incompatibilità con gli artt. 101, 102, 103, 104, 111, 113 e 117, primo comma, Cost. (quest'ultimo in relazione all' art. 6 CEDU) e, cioè, con i principi che caratterizzano la funzione giurisdizionale e con quelli del "giusto processo" e della separazione dei poteri»;

che tuttavia, secondo la Procura ricorrente, «quella suesposta» sarebbe questione che «potrà e dovrà formare oggetto di un giudizio costituzionale in via incidentale, poiché non sfugge all[a] scrivente come la Corte costituzionale abbia sempre ritenuto il conflitto di attribuzioni uno strumento residuale da attivare in assenza di altro rimedio»;

che tale principio, invero, è stato affermato proprio in relazione ai conflitti tra poteri originati da atti legislativi, potendo questi ultimi formare oggetto di conflitto «solo nel caso in cui non esista un giudizio nel quale [...] debbano trovare applicazione e, quindi, possa essere sollevata la questione di legittimità costituzionale in via incidentale» (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 221 del 2002 e n. 457 del 1999);

che, ciò posto, l'Autorità giudiziaria ricorrente reputa «non [...] tollerabile nella fattispecie» il vulnus arrecato dal d.l. n. 207 del 2012 ai principi di obbligatorietà dell'azione penale e di indipendenza del pubblico ministero;

che si realizzerebbe, in particolare, una situazione di interferenza sull'esercizio delle attribuzioni dello stesso pubblico ministero, ovvero di menomazione della relativa sfera di competenza, rientrante a pieno titolo nella nozione di conflitto di attribuzione;

che, su queste premesse, il Procuratore della Repubblica di Taranto ritiene sussistenti i presupposti di ammissibilità del conflitto sotto il profilo soggettivo ed oggettivo;

che, quanto all'aspetto soggettivo, sarebbe pacifica la qualificazione di potere dello Stato in capo al pubblico ministero, come emergerebbe dalla giurisprudenza costituzionale, nella quale si trova ripetutamente affermata sia la competenza del Procuratore della Repubblica a dichiarare definitivamente la volontà del potere di appartenenza, sia la natura di potere dello Stato dello stesso pubblico ministero, in quanto titolare diretto ed esclusivo dell'attività d'indagine, finalizzata all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (sono richiamate le sentenze n. 420 e n. 216 del 1995, n. 204 del 1991, n. 731 del 1988);

che sussisterebbe, del pari, la legittimazione passiva del Presidente del Consiglio dei ministri, quale organo deputato ad esprimere la volontà del Governo riguardo alle attribuzioni a quest'ultimo conferite dall'art. 77 Cost., nonché del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministro per lo sviluppo economico, in quanto proponenti, unitamente al Presidente del Consiglio dei ministri, del d.l. n. 207 del 2012;

che, quanto al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione dei principi costituzionali previsti dagli artt. 112 e 107, quarto comma, Cost., i quali sanciscono che il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale e gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario;

che, quanto al merito, il Procuratore si sofferma sul significato del principio di obbligatorietà dell'azione penale, osservando che lo stesso incontra il solo limite della richiesta di archiviazione, sul presupposto del riconoscimento, da parte del titolare dell'accusa, dell'infondatezza di una eventuale imputazione;

che, nel caso in cui ravvisi un fatto di reato, il pubblico ministero deve esercitare l'azione penale, secondo un automatismo che impedisce valutazioni di convenienza, di qualsiasi genere (è richiamata la sentenza n. 88 del 1991 della Corte costituzionale);

che il ricorrente elenca numerose disposizioni che costituiscono attuazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale, ovvero ne integrano la portata;

che sono richiamati in primo luogo l'art. 50 cod. proc. pen., che sancisce la titolarità esclusiva dell'azione penale in capo al pubblico ministero, e l'art. 405 cod. proc. pen., che disciplina l'esercizio dell'azione medesima, a partire dal quale si snoda una serie di atti che «ha come epilogo irrinunciabile la decisione giurisdizionale»;

che strumentale all'esercizio dell'azione penale è l'attività investigativa, mediante la quale sono raccolti gli elementi che consentono di definire il fatto di reato, individuare la persona alla quale addebitarlo e verificare la fondatezza della notitia criminis;

che l'esito positivo dell'attività investigativa rende dunque concreto il dovere del pubblico ministero di esercitare l'azione penale;

che quest'ultima, secondo quanto rilevato dal ricorrente, è connotata, oltre che dalla obbligatorietà nel senso appena precisato, dalla ufficialità e dall'irretrattabilità;

che, prima di motivare sulle ragioni del conflitto, il ricorrente precisa come i reati ipotizzati a carico della dirigenza dell'ILVA S.p.A. siano reati «di pericolo, di natura permanente o, al massimo, istantanea ad effetti permanenti, riguardando nella specie, impianti industriali a ciclo continuo»;

che la disciplina impugnata varrebbe, per un verso, ad annullare l'efficacia di un provvedimento adottato al fine di evitare l'aggravamento delle conseguenze dei reati commessi e la consumazione di nuovi reati e, per altro verso, a «legittimare» la realizzazione di ulteriori reati dello stesso genere, quale conseguenza della prosecuzione dell'attività produttiva;

che tali reati non potrebbero essere perseguiti, proprio in forza del decreto-legge in questione e della successiva legge di conversione, con conseguente violazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale;

che le disposizioni contenute nel d.l. n. 207 del 2012 si porrebbero, inoltre, in contrasto con il principio della separazione dei poteri, rendendo impossibile l'applicazione delle misure cautelari nei casi in cui, «secondo l'insindacabile giudizio di merito degli organi giurisdizionali», sussista grave pericolo di lesione di beni alla cui protezione gli strumenti cautelari sono preordinati;

che sarebbe in tal modo violato «il dovere dell'Ordinamento di reprimere e prevenire i reati», desumibile dal combinato disposto degli artt. 25, 27 e 112 Cost.;

che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Taranto chiede, pertanto, alla Corte di dichiarare che non spetta al Governo della Repubblica «autorizzare la prosecuzione dell'attività produttiva per il periodo di tempo predeterminato né [prevedere] che tale disposizione trovi applicazione anche quando l'A.G. abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare del provvedimento nella parte in cui è previsto che tali provvedimenti non impediscono, nel corso del predetto periodo, l'esercizio dell'attività d'impresa».

Diritto




che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ad effettuare, senza contraddittorio, una delibazione preliminare di ammissibilità del ricorso, concernente l'esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza, con riferimento ai requisiti soggettivi ed oggettivi indicati dal primo comma dello stesso art. 37;

che, per quanto attiene all'aspetto soggettivo del presente conflitto, questa Corte ha riconosciuto, con giurisprudenza costante, la natura di potere dello Stato al pubblico ministero, in quanto investito dell'attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (art. 112 della Costituzione), cui si connette la titolarità delle indagini ad esso finalizzate (ex plurimis, sentenze n. 1 del 2013, n. 88 e n. 87 del 2012, ordinanze n. 218 del 2012, n. 241 e n. 104 del 2011), ritenendo, altresì, legittimato ad agire e a resistere nei giudizi per conflitto di attribuzione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, in quanto competente a dichiarare definitivamente, nell'assolvimento della ricordata funzione, la volontà del potere cui appartiene (ordinanza n. 60 del 1999);

che, ancora dal punto di vista soggettivo, nessun dubbio sussiste in ordine alla legittimazione del Governo nel suo complesso a resistere al conflitto, mentre deve essere esclusa la legittimazione a resistere da parte del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministro dello sviluppo economico, posto che l'atto asseritamente lesivo delle attribuzioni del pubblico ministero è imputabile al Governo nella sua interezza;

che, con riferimento ai presupposti oggettivi, il ricorso è indirizzato alla tutela della sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali, in quanto la lesione lamentata concerne l'attribuzione, costituzionalmente garantita al pubblico ministero, inerente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (art. 112 Cost.), nonché le garanzie stabilite nei riguardi dello stesso pubblico ministero dalle norme sull'ordinamento giudiziario (art. 107, quarto comma, Cost.);

che, circa l'idoneità di un decreto-legge a determinare conflitto, deve rilevarsi che la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso, in linea di principio, la configurabilità del conflitto di attribuzione in relazione ad una norma recata da una legge o da un atto avente forza di legge tutte le volte in cui da essa «possono derivare lesioni dirette dell'ordine costituzionale delle competenze» (ordinanza n. 343 del 2003), ad eccezione dei casi in cui esista un «giudizio nel quale tale norma debba trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione incidentale sulla legge» (sentenza n. 221 del 2002; in senso analogo, sentenza n. 284 del 2005, ordinanze n. 38 del 2008, n. 296 e n. 69 del 2006);

che, nel caso di specie, non ricorrono le condizioni alle quali è subordinata l'ammissibilità del conflitto avente ad oggetto norme recate da una legge o da un atto con forza di legge;

che, in particolare, non solo sussiste «la possibilità, almeno in astratto, di attivare il rimedio della proposizione della questione di legittimità costituzionale nell'ambito di un giudizio comune» (sentenza n. 284 del 2005), ma siffatta possibilità, prospettata già dal ricorrente nell'atto introduttivo del presente giudizio, si è poi concretizzata con la rimessione - sia da parte del Giudice per le indagini preliminari (reg. ord. n. 19 del 2013), sia da parte del Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice dell'appello ai sensi dell'art. 322-bis del codice di procedura penale (reg. ord. n. 20 del 2013) - di questioni di legittimità costituzionale, anche in riferimento al parametro di cui all'art. 112 Cost., sulle norme recate dal decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), nel testo risultante dalla sua conversione ad opera dell'art. 1, comma 1, della legge 24 dicembre 2012, n. 231;

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

 

P.Q.M.




per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 febbraio 2013.

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 13 FEB. 2013.