Paolo Pascucci

Dopo la legge n. 123 del 2007.
Prime osservazioni sul Titolo I del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (*) (**)

Parte prima Parte seconda Parte terza


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(*) Questo scritto, destinato ad essere pubblicato nel n. 1 dei “Quaderni dell’Osservatorio Olympus” della Facoltà giuridica urbinate, trae spunto da due relazioni dell’autore: la prima, dal titolo I principi generali, il sistema istituzionale e la gestione della prevenzione, presentata al Convegno di Urbino del 10 maggio 2008 su “Le nuove regole sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. Un confronto a più voci. Il decreto legislativo attuativo della delega della legge n. 123 del 2007”, organizzato dall’Osservatorio “Olympus” della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, dall’ISPESL, dalla Regione Marche e dalla Direzione regionale delle Marche dell’INAIL; la seconda, dal titolo Legge 123/2007 e decreti attuativi: profili civilistici, presentata al Seminario di studi di Magistratura democratica su “La sicurezza sul lavoro”, svoltosi a Ravenna il 16 e 17 maggio 2008, i cui atti sono in corso di pubblicazione anche su olympus.uniurb.it.

(**) Quella che qui appare è la seconda versione – aggiornata con integrazioni e modifiche (nel testo e bibliografiche) – dello scritto recentemente pubblicato nei Working Papers (WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT-73/2008). L’aggiornamento si è reso necessario per poter tener conto sia delle modifiche al d.lgs. n. 81 del 2008 apportate dall’art. 4, comma 2, del d.l. 3 giugno 2008, n. 97 sia del Commentario curato da M. Tiraboschi, uscito pochissimi giorni dopo la pubblicazione dello scritto. Le integrazioni e le modifiche nel testo riguardano, tra l’altro, il campo di applicazione soggettivo e il computo dei lavoratori (§ 6.2 e successivi sotto-paragrafi), l’interpello (§ 7.7), la vigilanza (§ 7.8), la sorveglianza sanitaria (§ 8.8). In particolare, nel § 7.8 (sulla vigilanza), si è rivista un’impostazione frutto di una non attenta lettura del dato normativo.


SOMMARIO

1. La sicurezza sul lavoro nella “legislatura breve”
2. La l. n. 123 del 2007 tra norme di delega e norme di diretta attuazione: chi riforma che cosa?
3. Alcune precisazioni metodologiche per l’analisi del d.lgs. n. 81 del 2008
4. Il labirinto delle fonti
5. Le finalità: testo unico o unico testo? Quale unicità?
6.1. Il campo di applicazione oggettivo
6.1.1. Il riferimento a tutte le tipologie di rischio: prevenzione o precauzione?
6.2. Il campo di applicazione soggettivo
6.2.1. Il lavoratore
6.2.2. Gli equiparati
6.2.3.1. Specifiche figure: somministrazione, distacco (e lavoro ripartito)
6.2.3.2. Lavoro parasubordinato e lavoro autonomo, lavoro occasionale e accessorio, lavoro a domicilio
6.2.3.3. Telelavoro
6.2.3.4. Lavoro stagionale, lavoro domestico
6.2.3.5. Il computo dei lavoratori
7. Il sistema istituzionale e l’attività di vigilanza
7.1. Il nuovo Comitato nazionale
7.2. La Commissione consultiva permanente
7.3. I Comitati regionali di coordinamento
7.4. Il Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro
7.5. Gli enti pubblici nazionali
7.6. Le attività di supporto e promozionali
7.7. L’interpello
7.8. La vigilanza
7.9. La sospensione dell’attività imprenditoriale
8.1. La gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro. Le misure di tutela e la delega di funzioni
8.2. Gli obblighi dei vari soggetti
8.3. Gli obblighi connessi agli appalti
8.3.1. La qualificazione delle imprese
8.4. La valutazione dei rischi
8.5. I modelli di organizzazione e di gestione
8.6. Il servizio di prevenzione e protezione
8.7. L’informazione e la formazione
8.8. La sorveglianza sanitaria
8.9. La gestione delle emergenze
8.10.1. La partecipazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori
8.10.2. Gli organismi paritetici e il fondo di sostegno
8.10.3. Il ruolo della contrattazione collettiva e la dimensione collettiva della sicurezza sul lavoro
8.11. La semplificazione e le regole sulla documentazione tecnico-amministrativa e le statistiche
9. Brevi spigolature sull’apparato sanzionatorio
10. Conclusione




1. La sicurezza sul lavoro nella “legislatura breve”
Per quanto l’Italia abbia già conosciuto in passato l’esperienza dello scioglimento anticipato delle Camere, quella registratasi nella XV legislatura pare aver assunto un significato particolare rispetto alle precedenti, non foss’altro perché, da dodici anni, il Paese, nonostante le alterne vicende sul piano governativo, aveva vissuto un periodo di stabilità parlamentare. Sebbene l’estrema esiguità della maggioranza scaturita dalla tornata elettorale del 2006 non garantisse al Governo un futuro sereno, tuttavia non tutti osavano pensare che si potesse tornare a vicende tipiche della cosiddetta “prima repubblica”.
Nessuno può dire se l’esito delle elezioni politiche dell’aprile 2008 sarà in grado di spazzar via quello che potrebbe essere definito, si parva licet, “il passato che non vuole passare” [1]. Ma non è improbabile che – per il particolare contesto storico in cui si è collocata e per gli scenari evocati dalla sua fine prematura – la XV legislatura possa essere ricordata più di altre, osando ancora parafrasare, come la “legislatura breve” [2].
Nonostante il tormentato clima politico dovuto alle estenuanti incertezze sui suoi destini, la “legislatura breve” ha tuttavia mostrato in alcuni campi – come quello della sicurezza sul lavoro – una progettualità ed un dinamismo insospettati, tipici piuttosto di una stagione ricca di ampie prospettive. Contrariamente alle apparenze, non si tratta però di un paradosso, ma della presa d’atto collettiva della improcrastinabile necessità di intervenire a porre rimedio ad una situazione che da tempo ha ampiamente oltrepassato ogni limite di tollerabilità.
La particolare, intensa e concreta attenzione al tema della salute e sicurezza dei lavoratori è culminata, dapprima, nel conferimento al Governo della delega per il riassetto e la riforma della materia (art. 1 della l. 3 agosto 2007, n. 123) e poi nel positivo compimento del processo di attuazione di tale delega con l’approvazione definitiva, il 1° aprile 2008, del relativo decreto legislativo, già approvato in via preliminare il 6 marzo 2008, che, tra il 12 ed il 20 marzo, aveva ottenuto, ancorché con numerose proposte emendative, i pareri favorevoli della Conferenza unificata Stato-Regioni e delle competenti Commissioni parlamentari della Camera e del Senato. Presumibilmente non a caso, il decreto legislativo, che reca la data del 9 aprile 2008 ed il numero 81, è stato poi pubblicato in Gazzetta ufficiale alla vigilia della festa dei lavoratori [3], quest’anno incentrata in particolare sulla sicurezza del lavoro.
L’attenzione del legislatore per il tema della sicurezza del lavoro è stata fortemente sollecitata dai ripetuti ed accorati richiami del Presidente della Repubblica, il quale, fin dall’inizio del proprio mandato, non ha mancato di stigmatizzare l’inaccettabilità di una situazione che negli ultimi mesi si è ulteriormente deteriorata a causa di vicende la cui eclatante tragicità ha monopolizzato l’interesse dell’opinione pubblica, mantenendo alta la soglia di interesse sulle azioni intraprese dalle istituzioni. Una prova tangibile è rappresentata dal fatto che, nonostante lo scioglimento anticipato del Parlamento, l’iter di attuazione della delega conferita con l’art. 1 della l. n. 123 del 2007 è proseguito e, anzi, ha subito un’ulteriore accelerazione, al punto di concludersi prima della scadenza del termine di nove mesi fissato dalla legge per l’esercizio della delega (25 maggio 2008).
Per altro verso, il tema della salute e sicurezza dei lavoratori è stato affrontato non soltanto in modo diretto, come è avvenuto in occasione della legge delega in materia, ma anche indirettamente mediante provvedimenti essenzialmente finalizzati a ricondurre il lavoro nell’alveo della regolarità [4]. Anzi – ed è questione su cui si tornerà nel prosieguo – fra i vari provvedimenti adottati in materia di lavoro costituisce senz’altro una novità il rilievo giuridico attribuito al collegamento esistente tra regolarità ed emersione del lavoro [5] e la sua sicurezza [6]. Più in generale, la XV legislatura pare essere stata caratterizzata da una sensibile riaffermazione del ruolo e dei poteri degli organismi pubblici di controllo a fronte di un mercato del lavoro sempre più contraddistinto dalla presenza di fenomeni di evasione o elusione, quando non addirittura di vera e propria criminalità. Se l’equazione “lavoro irregolare-lavoro insicuro” ha favorito l’ampliamento dello spettro degli interventi regolativi e di controllo, occorre tuttavia ammettere che essa ha talora ingenerato alcuni equivoci specialmente sotto il profilo delle competenze ad esercitare i poteri di vigilanza. Non deve infatti trascurarsi che quell’equazione deve misurarsi con un sistema di controlli tutt’altro che unificato e che, proprio sul terreno specifico della sicurezza del lavoro, risulta contraddistinto da una complessità e da una frammentazione tanto evidente quanto discutibile [7].


2. La l. n. 123 del 2007 tra norme di delega e norme di diretta attuazione: chi riforma che cosa?
Al di là di questi ultimi aspetti, è fuor di dubbio che l’intervento realizzato con la l. n. 123 del 2007 abbia rappresentato la principale delle recenti vicende legislative sulla sicurezza del lavoro, soprattutto per due motivi.
Il primo motivo, facilmente intuibile, riguarda il fatto che, per la prima volta da quando il legislatore aveva progettato di unificare le tante norme accumulatesi negli anni in materia di sicurezza del lavoro (art. 24 della l. 23 dicembre 1978, n. 833, riforma sanitaria), tale unificazione riesce a realizzarsi. Ciò accade mentre nella memoria degli osservatori è ancora vivo il ricordo del fallimento del tentativo compiuto nella XIV legislatura, in attuazione dell’art. 3 della l. 29 luglio 2003, n. 229, e sancito con il ritiro, da parte del Governo dell’epoca, dello schema di decreto legislativo dopo il parere estremamente critico del Consiglio di Stato [8].
Il secondo motivo della importanza della l. n. 123 del 2007 concerne il metodo quanto mai originale con cui tale legge, nello stesso momento in cui ha conferito al Governo la delega per l’emanazione di un testo di legge a carattere innovativo e non meramente compilativo (art. 1), ha provveduto a modificare direttamente alcuni importanti istituti, in particolare contenuti nel d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, quasi a voler scaramanticamente esorcizzare i danni di un eventuale, quanto storicamente possibile, insuccesso dell’esercizio della delega [9]. Ne è così scaturito un quadro normativo, per certi versi singolare e per altri discutibile [10], nel quale l’esecutivo, essendo chiamato dal Parlamento a riordinare ed a riformare le norme vigenti, non ha potuto non tenere conto anche di quelle che quest’ultimo ha modificato con la stessa legge con cui l’ha delegato.
Infatti, in questo sorta di sistema circolare, o a “due anime” [11], in cui lo stesso identico legislatore risulta nel contempo “riformatore” [12] e “riformando”, le norme di diretta attuazione della l. n. 123 del 2007 hanno talora finito per svolgere una funzione di indiretto supporto ai criteri di delega, giacché il legislatore delegato, nel dare formale attuazione a questi ultimi, nei fatti difficilmente poteva disinteressarsi delle indicazioni insite nelle norme di diretta attuazione della legge, spesso permeate dalle stesse opzioni di politica del diritto che avevano ispirato i criteri di delega.
Ciò è avvenuto nei casi in cui, nella l. n. 123 del 2007, si era chiaramente evidenziata una sovrapposizione di ambiti tra criteri di delega e norme di diretta attuazione [13]. In tali ipotesi, tuttavia, il legislatore delegato pare aver saputo “gestire il forte condizionamento” [14] delle disposizioni di immediata attuazione introdotte dalla l. n. 123 del 2007: pur tenendole nel debito conto, non si è limitato a confermarle tutte sic et simpliciter, ma in certi casi le ha opportunamente rivisitate anche in modo piuttosto evidente specialmente ove esse appalesavano forti incertezze [15]. Occorre tuttavia sottolineare che l’intervento del legislatore delegato sulle norme di diretta attuazione della l. n. 123 del 2007 ha riguardato non solo i casi in cui a queste si siano chiaramente sovrapposti criteri di delega [16], ma anche quelli in cui la coincidenza degli ambiti (tra delega e norme “dirette”) non era così limpida, come ad esempio è avvenuto in occasione della più che opportuna riscrittura dell’art. 5 della l. n. 123 del 2007 ad opera dell’art. 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 relativo alla sospensione dell’attività imprenditoriale (v. infra § 7.9). Sebbene anche simili ipotesi possano ritenersi coperte dall’“ombrello” dei criteri di delega [17], non si deve peraltro dimenticare come la stessa delega sia stata finalizzata sia al “riassetto” sia alla “riforma” delle disposizioni vigenti (art. 1, comma 1, della l. n. 123 del 2007) [18], attribuendo così al legislatore delegato un potere “generale” di riformare le norme vigenti, ancorché nel rispetto dei criteri di delega [19].
A ben guardare, dunque, la strada che il legislatore delegato è stato chiamato a percorrere è di fatto risultata ben più ampia di quella segnata dal pur vasto perimetro della delega, contraddistinto da ben venti criteri, alcuni dei quali ulteriormente articolati e specificati.


3. Alcune precisazioni metodologiche per l’analisi del d.lgs. n. 81 del 2008
In un’analisi come questa, essenzialmente finalizzata a delineare il raccordo tra l. n. 123 del 2007 e d.lgs. n. 81 del 2008, sarebbe scarsamente utile soffermarsi dapprima sui principi di delega e sulle norme di diretta attuazione della legge del 2007 per poi esaminare la decretazione delegata del 2008. Proprio perché quest’ultima si è misurata con tutta la l. n. 123 del 2007, appare metodologicamente più opportuno verificare i legami tra i due provvedimenti attraverso l’esame dei principali aspetti del decreto legislativo.
Sempre dal punto di vista metodologico, va precisato che l’economia di questo intervento non consente di estendere l’analisi a tutti i 306 articoli contenuti nei 13 Titoli del d.lgs. n. 81 del 2008 ed ai 51 allegati tecnici. Peraltro, non si deve trascurare che, al di là di un nuovo apparato sanzionatorio, i Titoli successivi al I (dal II all’XI) ripropongono, talora pedissequamente, talaltra con alcune modifiche, quanto già previsto nel d.lgs. n. 626 del 1994, nonché in altri provvedimenti, tra cui in particolare alcuni celebri decreti presidenziali degli anni Cinquanta. Vero è che, in alcuni casi, si è proceduto ad un’integrazione tra le varie discipline vigenti in materia (come nel caso del Titolo IV sui cantieri temporanei o mobili), risultandone così un quadro unificato delle relative norme che costituisce, ancorché non formalmente, una sorta di “mini testo unico” della specifica materia [20].
Scopo di questo scritto è quello di svolgere alcune prime (e, pertanto, necessariamente incomplete) riflessioni su quelle che possono essere definite le colonne portanti del sistema, quali risultano essenzialmente dal Titolo I del nuovo decreto, nonché da alcune norme contenute nel suo Titolo XIII [21], rinviandosi peraltro alle ben più competenti analisi dei penalisti (fatte salve alcune brevissime osservazioni nel penultimo paragrafo) l’esame sia delle norme sanzionatorie contenute nel Titolo I sia delle norme speciali penalistiche e processualpenalistiche di cui al Titolo XII [22].
La scelta di circoscrivere l’indagine è dettata non solo da evidenti limiti di spazio e di competenza scientifica, ma anche da una considerazione che attiene al condizionamento esercitato sul compimento dell’iter del decreto delegato dai tumultuosi eventi politici registratisi nei primi mesi del 2008. Come già ricordato, l’anticipato scioglimento delle Camere ha accelerato l’attuazione della delega, con particolare riferimento sia alla parte sanzionatoria sia alle parti speciali (Titoli tecnici successivi al I). Invece di concentrare le energie su di un ponderato completamento sanzionatorio del prodotto fin lì elaborato (il Titolo I), nonché sul suo complessivo perfezionamento, il legislatore delegato ha approntato frettolosamente le sanzioni per tale Titolo avventurandosi nel contempo oltre le sue colonne d’Ercole (Titoli speciali). Non sembra dubbio che una simile strategia sia stata ispirata anche dalla “astuta” considerazione che, confezionando un decreto “completo di tutto”, su “tutto” sarebbe stato poi possibile intervenire (entro 12 mesi) mediante la decretazione delegata correttiva ed integrativa di cui all’art. 1, comma 6, della l. n. 123 del 2007. Sta di fatto che, come quella proverbiale, anche la gatta frettolosa della primavera del 2008 ha partorito qualche gattino cieco e che, in ogni caso, dato l’esito elettorale del 14 aprile, i tempi supplementari della delega saranno giocati da un legislatore delegato diverso da quello autore del d.lgs. n. 81 del 2008 [23]!
Di qui, pertanto, la scelta di concentrarsi per ora sulla parte più meditata, il che – come si vedrà – non significa che anch’essa non richieda qualche manutenzione.

4. Il labirinto delle fonti
Da quando il Titolo V della Costituzione è stato profondamente riformato in base alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ed il nuovo art. 117, comma 3, Cost. ha ricompreso “la tutela e la sicurezza del lavoro” fra le materie di legislazione concorrente, la già complessa disciplina della salute e sicurezza dei lavoratori si è arricchita di un ulteriore problema [24].
Per la verità, la questione della pluralità delle fonti era già presente prima della riforma costituzionale, sol che si pensi alla importanza in materia non solo delle convenzioni internazionali, ma soprattutto delle direttive comunitarie, le quali, fin dagli anni Ottanta, stanno sensibilmente influenzando l’ordinamento nazionale sia qualitativamente sia quantitativamente [25]. Se a ciò si aggiunge che la disciplina italiana era già caratterizzata dalla presenza di una miriade di norme sparse e spesso di remota provenienza, non è difficile comprendere l’esigenza di riordino e di razionalizzazione che da molti anni aleggiava nell’ordinamento.
L’ingresso sulla scena della competenza legislativa regionale, ancorché sotto forma di competenza concorrente, ha tuttavia complicato non poco il quadro d’insieme, non foss’altro per una difficoltà per così dire concettuale, qual è quella relativa alla previsione di discipline a dimensione territoriale a fronte dell’esigenza di proteggere beni la cui rilevanza pare postulare una regolamentazione omogenea ed uniforme su tutto il territorio nazionale.
La questione è stata analizzata dalla dottrina sia nella fase immediatamente successiva alla approvazione del disegno di legge delega da parte del Governo (13 aprile 2007) [26], sia immediatamente dopo l’emanazione della l. n. 123 del 2007 [27], non potendosi inoltre trascurare l’esame svolto dal Consiglio di Stato in occasione del richiamato parere reso nel 2005, anche per i costanti riferimenti alla giurisprudenza costituzionale [28].
In questa sede non è certo possibile diffondersi su tutti gli aspetti della questione. Tuttavia, vale la pena di ricordare l’autorevole avvertimento lanciato subito dopo l’approvazione del disegno di legge in sede di Consiglio dei Ministri, secondo cui la prima e pregiudiziale questione che il legislatore delegato avrebbe dovuto affrontare sarebbe consistita nel “come aggirare l’insidioso trabocchetto teso dall’art. 117 Cost.” su cui si era “infranto il precedente disegno di legge delegata”: occorre – si disse – “non ripetere l’errore, evitando di attrarre la materia della sicurezza nella competenza esclusiva della legislazione statale… in quanto da ricomprendere nel concetto di ordinamento ‘civile’ (cfr. art. 117, comma 2, lett. l, Cost.), attraverso la mediazione dell’art. 2087 c.c. e la contrattualizzazione dell’obbligo di protezione” [29].
In effetti, come è stato puntualmente messo in luce dopo l’emanazione della legge delega, è vero che “se ci si fonda sull’art. 2087 c.c., e dunque sull’obbligo contrattuale di sicurezza del datore di lavoro come principio (obbligo) generale da cui derivano tutti gli obblighi specifici di prevenzione, si potrebbe per questa via ricondurre in linea teorica sostanzialmente tutta la materia della sicurezza del lavoro (esclusa la parte amministrativa della vigilanza) all’ordinamento civile, e dunque alla legislazione esclusiva dello Stato”. Senonché non può escludersi una diversa lettura, “atta a conciliare natura contrattuale dell’obbligo di sicurezza e competenza concorrente regionale sulla sicurezza del lavoro”. Quella “normazione dei rapporti intersoggettivi tra datore di lavoro e lavoratore”, che la giurisprudenza costituzionale ricomprende nell’ordinamento civile [30], “pare dover intendersi, quanto all’obbligo di sicurezza, nel senso che “tutti gli obblighi di prevenzione, come individuati dalla legislazione tecnica, come tali entrano nel contenuto dell’obbligo contrattuale di tutela delle condizioni di lavoro, il cui assetto regolativo è appunto riservato alla legge statale; ma la formulazione (individuazione) normativa degli standard (che diventano obbligatori ai fini del contratto) esula dall’ordinamento civile, potendo rientrare nella competenza legislativa regionale (concorrente: fermo restando dunque che allo Stato resta comunque la competenza alla formulazione dei principi generali sui quali può innestarsi la legislazione regionale)” [31].
Per la verità, chi ha messo in guardia contro la tentazione di ricondurre il tutto alla competenza esclusiva dello Stato (sulla scorta della “tesi” dell’ordinamento civile) si è mostrato perfettamente consapevole delle tante difficoltà ed incertezze che circondano l’ambito di operatività della legislazione concorrente regionale. In tal senso si è osservato che “l’area della tutela e (della) sicurezza del lavoro quale materia di competenza legislativa concorrente delle Regioni” è quanto mai compressa, risultando “complicata l’individuazione degli spazi effettivamente lasciati al possibile intervento normativo regionale” [32]. Del resto, in quanto ambito contraddistinto da finalità di tutela, la sicurezza del lavoro, più che come una materia in senso tecnico, può essere considerata come un “valore costituzionalmente protetto”, configurandosi quindi come una materia “trasversale” esposta a diverse competenze [33]. E, in effetti, sul terreno della sicurezza del lavoro, la competenza legislativa concorrente regionale che, come tale, deve attenersi ai principi fondamentali individuati dalla legislazione statale, si incrocia con le competenze legislative esclusive dello Stato connesse all’ordinamento civile, all’ordinamento penale, alla tutela della concorrenza ed alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Pur ipotizzando che “il limite della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni [34] sia un limite solo… in peius, tale cioè da consentire la possibilità di discipline territoriali di maggior tutela, questa possibilità pare in gran parte vanificata dalla necessità di rispettare altre aree di riserva esclusiva statale, come l’ordinamento penale e la tutela della concorrenza, che sembrano ostare a discipline differenziate a livello regionale” [35]. Infatti, la tesi della derogabilità in melius degli standard di tutela da parte della legislazione regionale [36] potrebbe prestare il fianco a serie obiezioni, giacché la presenza di standard di tutela più o meno onerosi a seconda del territorio finirebbe, da un lato, per alterare indirettamente la concorrenzialità tra le imprese (la cui tutela spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, lett. e, Cost.) e, dall’altro, per diversificare ingiustificatamente l’ampiezza di precetti presidiati per lo più da sanzioni penali (su cui vige l’esclusiva competenza statale ex art. 117, comma 2, lett. l, Cost.) [37]. Sebbene la possibilità per le Regioni di introdurre limiti e prescrizioni ulteriori rispetto a quelli fissati dallo Stato sia stata prevista dal legislatore (con l’art. 8, comma 1, lett. b, della l. 6 febbraio 2007, n. 13: legge comunitaria per il 2007) [38], sembra tuttavia ragionevole ritenere che, affinché non si appalesino conflitti con i principi costituzionali (in tema di tutela della concorrenza o di ordinamento penale), i limiti e le prescrizioni ulteriori rispetto a quelli fissati dallo Stato determinabili in senso incrementale dalla legislazione regionale riguardino gli aspetti (solo apparentemente) “collaterali” da cui può trarre sostegno il sistema di prevenzione [39] o, al più, “i livelli di effettiva applicazione delle (ampie) tutele in astratto previste” [40], e non anche nuovi o più pesanti obblighi. In sostanza, una funzione incrementale della legislazione regionale più nel senso del “completamento” della normativa statale [41] che in quello del suo appesantimento [42].
Per altro verso, l’eventuale e residua area della possibile competenza concorrente deve comunque rispettare i “principi fondamentali” stabiliti con legge dello Stato che, “considerando natura e rilevanza dei beni ed interessi sottesi (e tutelati) alla materia in questione”, si può presupporre che “possano essere piuttosto ‘invadenti’ ” [43]. A tale proposito, non deve trascurarsi che l’art. 8, comma 1, lett. a, della citata l. n. 13 del 2007 configura come principio fondamentale in materia la salvaguardia delle disposizioni volte a tutelare in modo uniforme a livello nazionale il bene tutelato “tutela e sicurezza del lavoro”, con particolare riguardo all’esercizio dei poteri sanzionatori. Come è stato osservato, la ratio della norma pare rintracciarsi negli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in materia di tutela della salute [44] secondo la quale, nelle materie espressive di finalità (o valori) di tutela, i principi fondamentali paiono poter assumere carattere più puntuale e pervasivo che nelle “altre” materie di competenza concorrente, e, nella sostanza, vengono pressoché a coincidere con l’area dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, di cui all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost., la cui determinazione è assegnata alla competenza esclusiva dello Stato e giustifica una disciplina nazionale non solo, appunto, di principio [45]. La stessa Corte costituzionale ha peraltro rilevato che la nozione di “principio fondamentale” – che, nelle materie di legislazione concorrente, segna il discrimine tra competenze statali e competenze regionali – “non ha e non può avere caratteri di rigidità e di universalità, perché le ‘materie’ hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. È il legislatore che opera le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l’interprete deve valutare nella loro obiettività, senza essere condizionato in modo decisivo da eventuali autoqualificazioni” [46].
Se non è possibile definire una volta per tutte la nozione di “principio fondamentale”, altrettanto vale nel caso, come quello in esame, di un procedimento legislativo di delega che verte su materia di competenza concorrente, a proposito del “rapporto tra la nozione di principi e criteri direttivi”, che concerne appunto tale procedimento legislativo di delega, “e quella di principi fondamentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà statuale nelle materie di competenza concorrente” [47]. Secondo la Corte costituzionale, con la legge delegata possono essere stabiliti i principi fondamentali di una materia, “stante la diversa natura ed il diverso grado di generalità che detti principi possono assumere rispetto ai ‘principi e criteri direttivi’ previsti” dall’art. 76 Cost. [48]. Ne consegue che “la lesione delle competenze legislative regionali non deriva dall’uso, di per sé, della delega, ma può conseguire sia dall’avere il legislatore delegante formulato principi e criteri direttivi che tali non sono, per concretizzarsi invece in norme di dettaglio, sia dall’aver il legislatore delegato esorbitato dall’oggetto della delega, non limitandosi a determinare i principi fondamentali” [49]. Dunque, i principi fondamentali possono essere contenuti sia nella legge delega sia nel decreto delegato [50].
Scendendo ad esaminare la l. n. 123 del 2007, può condividersi l’osservazione secondo cui tale legge delega – ribadendo, con la consueta “formula di rito” [51], oltre alla generale “conformità” della decretazione delegata all’art. 117 Cost., “l’ormai ‘classico’ rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” – non ha fornito indicazioni di particolare utilità, lasciando “sostanzialmente aperti ed invariati tutti i termini della questione” relativa al riparto delle competenze tra Stato e Regioni [52] ed alla identificazione dei principi fondamentali. Peraltro, come è stato giustamente osservato, il vincolo di conformità all’art. 117 Cost. “non implica alcun restringimento dei poteri legislativi esclusivi dello Stato in materia, né può condurre a ritenere che la potestà legislativa in materia di sicurezza sul lavoro possa articolarsi, per ogni profilo, secondo uno schema strutturato su poteri statali e regionali concorrenti” [53].
Analizzando il percorso tramite cui il d.lgs. n. 81 del 2008 è stato progressivamente costruito, è interessante notare come il legislatore delegato abbia “risposto” alla laconicità della delega in merito al vincolo di conformità all’art. 117 Cost. dando corpo ad alcune ipotesi formulate dalla dottrina. Si era infatti auspicato che il legislatore nazionale cooperasse e condividesse “obiettivi e strumenti normativi con le Regioni (attraverso l’organismo rappresentativo della Conferenza Stato-Regioni), secondo quel principio-metodo della leale collaborazione incentivato dalla stessa Corte costituzionale” [54]. E si era aggiunto che le Regioni avrebbero potuto “contribuire sostanzialmente, anche se indirettamente, alla disciplina della materia ed all’assetto del sistema di prevenzione” mediante “un loro forte coinvolgimento istituzionale “nel percorso di elaborazione legislativa”, potendo ciò “costituire un presupposto decisivo per attenuare fortemente i rischi di successive censure di ‘invasioni di campo’. In particolare” – si era detto – “sarebbe auspicabile che il prodotto legislativo fosse il portato di un ‘intesa’ con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni, laddove la delega… si limita a prevedere come passaggio procedurale l’acquisizione del mero ‘parere’ della Conferenza stessa” [55].
Ebbene, l’esperienza del lavoro tecnico di predisposizione dello schema di decreto conferma che quest’ultimo costituisce indubbiamente il frutto di “un serrato e costante confronto” tra Ministeri e Regioni”, come d’altronde testualmente afferma la relazione tecnico-normativa del decreto legislativo, la quale proprio su questo dato pare fondare la piena compatibilità del decreto con l’assetto delle competenze legislative Stato-Regioni di cui all’art. 117 Cost. [56]. Una simile esperienza sembra confermare l’ipotesi ricostruttiva secondo cui “il modello sotteso all’art. 117 Cost.” è più “quello dell’integrazione e dell’intreccio tra competenze” che non quello “della separazione e di una netta distinzione tra queste” [57].
La concreta sperimentazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, attuata mediante una formazione della disciplina “compartecipata” o “condivisa” [58], non ha tuttavia “esautorato” l’iter formale delineato dall’art. 1, comma 4, della legge delega [59]. Basta infatti ricordare che il parere favorevole reso il 12 marzo 2008 dalla Conferenza Stato-Regioni conteneva in realtà numerose proposte emendative, molte delle quali (ma non tutte) sono state poi accolte in sede di approvazione definitiva del decreto. Per altro verso, l’iter formale di cui all’art. 1, comma 4, della legge delega è stato rispettato anche per quanto concerne la consultazione delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro, più volte convocate in sede ministeriale per esprimere le proprie valutazioni sul lavoro che si stava svolgendo [60].
Sebbene la leale collaborazione tra Stato e Regioni sembra aver consentito, nella fase de iure condendo, di superare l’intricata selva di ostacoli posti dall’incerta previsione costituzionale, de iure condito i problemi non sono del tutto esauriti. Basti pensare, da un lato, all’individuazione degli ambiti in cui potrebbe ora dispiegarsi la legislazione concorrente regionale e, dall’altro lato, ai non pochi rinvii che il decreto opera ad altre fonti.
Quanto al primo aspetto, non è detto che l’atteggiamento di self restraint che finora le Regioni hanno assunto in materia si protragga all’infinito, né che su di esso si possa fare affidamento [61], quasi che si trattasse di una consuetudine con valenza normativa. In altre parole, anche ammettendo che tutti i contenuti del d.lgs. n. 81 del 2008 siano di competenza della legislazione dello Stato [62] e che le prerogative delle Regioni siano state comunque rispettate valorizzando il loro coinvolgimento nell’iter formativo del decreto delegato, non sembra possibile comprimere il dispiegarsi della legislazione concorrente spettante alle Regioni [63]. Non si deve d’altronde trascurare che l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 81 del 2008 contiene un’espressa clausola di “cedevolezza” secondo la quale, in relazione all’art. 117, comma 5, Cost. ed all’art. 16, comma 3, della l. 4 febbraio 2005, n. 11, le disposizioni del decreto riguardanti ambiti di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome si applicano, nell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato e con carattere di cedevolezza, nelle Regioni e nelle Province autonome nelle quali ancora non sia stata adottata la normativa regionale e provinciale e perdono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore di quest’ultima, fermi restando i principi fondamentali ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost. Qui, pertanto, si tratta di individuare la quota della normativa comunitaria che può e deve essere recepita dal legislatore regionale, con il conseguente ritrarsi della legge nazionale [64]. Al di là dei possibili dubbi sulla tenuta e credibilità “di un sistema normativo che potrebbe essere eroso e stravolto in qualsiasi momento dalla concorrente legislazione regionale”, c’è da chiedersi se la previsione della clausola di “cedevolezza” ponga “al riparo la legislazione dello Stato da eccezioni d’incostituzionalità nel caso di indebite scorrerie nelle zone riservate alla competenza regionale” [65]. Né deve trascurarsi, proprio in relazione al recepimento delle norme comunitarie da parte delle Regioni, quanto prevede il menzionato art. 8, comma 1, lett. b, della l. n. 13 del 2007 in ordine alla possibilità per le Regioni di introdurre limiti e prescrizioni ulteriori rispetto a quelli fissati dallo Stato.
Per quanto attiene al secondo aspetto, non è sempre chiaro se i decreti ministeriali o interministeriali a cui il decreto legislativo opera frequenti rinvii abbiano carattere regolamentare, non dovendosi dimenticare che l’art. 117, comma 6, Cost. prevede che la potestà regolamentare spetta allo Stato solo nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni, mentre a queste ultime spetta iure proprio in ogni altra materia (compresa quindi anche quella concorrente). Infatti, soltanto in due ipotesi (art. 3, comma 2) il d.lgs. n. 81 del 2008 evoca il carattere regolamentare dei decreti, richiamando espressamente l’art. 17, comma 2, della l. 23 agosto 1988, n. 400 [66]. Peraltro, dato che, nella maggior parte dei casi, la soluzione accolta nel d.lgs. n. 81 del 2008 si sostanzia in rinvii a decreti da adottare previo parere della Conferenza Stato-Regioni (o previa intesa con la stessa), sembrerebbe doversene inferire che le materie oggetto di rinvio siano state ritenute comunque rientranti nella competenza esclusiva dello Stato. Non potrebbe tuttavia escludersi che il frequente coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni, oltre che un doveroso omaggio all’opinione delle istituzioni nel cui ambito si muovono pur sempre i principali protagonisti della vigilanza in materia (le ASL), possa anche essere un sintomo rivelatore di quell’incertezza sul reale assetto delle competenze, fermo restando tuttavia che, ove mai si trattasse di materie di legislazione concorrente, tale coinvolgimento non sarebbe comunque sufficiente ad escludere l’illegittimità (o, meglio, l’incompetenza) dei decreti ministeriali.
A dire il vero, analizzando l’iter formativo e le prospettive evolutive del d.lgs. n. 81 del 2008, si ha la sensazione che l’assetto costituzionale “formale” delle fonti, almeno come sembra delineato nell’art. 117 Cost., sia stato soppiantato da un assetto “materiale”: così come hanno lealmente collaborato nella fase di costruzione delle regole, Stato e Regioni sembrano intenzionati a fare altrettanto anche nella fase di implementazione delle stesse regole. Una riprova sembra cogliersi anche nella previsione della presenza dei rappresentanti delle Regioni in tutti gli organismi istituzionali delineati dal decreto, nonché nella nuova Commissione preposta a fornire risposte agli interpelli: come si vedrà, trattandosi di un’attività sostanzialmente finalizzata ad interpretare la normativa in materia, non è certo irrilevante che sia svolta insieme dai rappresentanti dei Ministeri (e quindi dello Stato) e delle Regioni, vale a dire dagli stessi soggetti che quelle regole hanno scritto [67].
Detto in altri termini, dal d.lgs. n. 81 del 2008 pare uscire l’immagine di una legislazione della sicurezza del lavoro il cui carattere “concorrente”, più che incentrarsi sulla distinzione logica e temporale tra il momento della definizione dei principi fondamentali (di spettanza statale) e quello della disciplina di dettaglio (di spettanza regionale), sembra atteggiarsi nel senso della “cooperazione simultanea” [68]. È tuttavia evidente come ciò risulti condizionabile, in positivo e in negativo, dall’assetto delle simmetrie politiche tra governo centrale e governi regionali [69].
Un’ultima osservazione va fatta sul ruolo delle amministrazioni ministeriali. Come tempestivamente colto dai primi osservatori [70], per la prima volta il Ministero della salute ha finalmente ricoperto il ruolo di coprotagonista principale, accanto a quello del lavoro, nell’iter formativo sia della delega sia del decreto delegato. Quest’ultimo ha giustamente valorizzato le competenze del Ministero della salute non solo attribuendogli preminenza nel nuovo Comitato istituito dall’art. 5 (su cui v. infra § 7.1), ma coinvolgendolo in pressoché tutte le attività regolamentari previste dal decreto. Presumibilmente, tra questa inusitata e straordinaria sinergia fra i due Ministeri ed il loro recente accorpamento non esiste alcuna relazione. Certo è che così si semplificheranno i tanti adempimenti regolamentari previsti!


5. Le finalità: testo unico o unico testo? Quale unicità?
L’art. 1 della l. n. 123 del 2007 ha conferito la delega al Governo per predisporre il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, rispettando il criterio del riordino e del coordinamento di tali disposizioni [71].
Secondo i più attenti osservatori [72], il legislatore delegato disponeva di due alternative per attuare la delega: a) un testo “pesante”, vale a dire una sorta di d.lgs. n. 626 del 1994 modificato ed integrato, che ricomprendesse la regolazione legislativa statale (purché non in contrasto con quella regionale) di tutti i rischi e di tutti i settori; b) un testo “leggero”, fondato su di un corpus centrale contenente le norme di carattere generale (per intendersi: il titolo I del d.lgs. n. 626 del 1994 modificato ed integrato), a cui si aggiungessero norme sublegislative (regolamenti), relativamente ai rischi e settori specifici [73].
Il d.lgs. n. 81 del 2008 pare aver seguito prevalentemente la prima opzione aggregando in un corpus assai ponderoso (306 articoli suddivisi in 13 Titoli) la maggior parte delle norme generali e speciali in materia e predisponendo poi una nutrita serie di allegati tecnici che ricomprendono le specifiche degli obblighi di sicurezza.
Non si tratta però di un “testo unico”, come convenzionalmente si usa dire. Infatti, diversamente dal suo più immediato antecedente (l’art. 3 della l. n. 229 del 2003), l’art. 1 della l. n. 123 del 2007 si è limitato a conferire la delega al Governo senza evocare l’art. 20 della l. 15 marzo 1997, n. 59 [74] e, quindi, senza collocarsi nel percorso delineato dall’art. 7 della l. 8 marzo 1999, n. 50 [75] dedicato proprio ai testi unici. D’altro canto, nell’epigrafe dell’art. 1 della l. n. 123 del 2007 [76] è scomparso l’esplicito riferimento all’“emanazione di un testo unico” che invece campeggiava nella rubrica dell’art. 1 del disegno di legge approvato dal Consiglio del Ministri il 13 aprile 2007 [77].
Se non si tratta di “testo unico”, potrebbe essere anche discutibile che si tratti di un “unico testo” [78], come pure, con un bisticcio di parole, si va dicendo essenzialmente sulla scorta di quanto previsto dall’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 [79]. In realtà, sebbene abbia riassorbito la maggior parte delle disposizioni vigenti in materia, il nuovo decreto non le contiene tutte: basti pensare alle disposizioni di cui al d.lgs. 27 luglio 1999, n. 271 (sulle attività a bordo delle navi), al d.lgs. 27 luglio 1999, n. 272 (sull’ambito portuale), o di cui al d.lgs. 17 agosto 1999, n. 298 (sulle navi da pesca), alla l. 26 aprile 1974, n. 191 ed ai relativi decreti di attuazione (sul trasporto ferroviario): tutte norme che l’art. 3, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 prevede che debbano essere coordinate con quelle del decreto medesimo mediante successivi decreti, da emanare entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto, ai sensi dell’art. 17 della l. 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti, di concerto con i Ministri del lavoro e della salute, acquisito il parere della Conferenza Stato-Regioni [80]. Né dall’eventuale mancata emanazione entro i termini previsti dei predetti decreti di coordinamento o di armonizzazione può derivare un’automatica ed assoluta caducazione delle menzionate norme speciali: è vero, infatti, che, in base a quanto previsto dall’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2008, in caso di mancata emanazione dei decreti trovano applicazione le disposizioni del decreto medesimo, ma è altresì vero che queste disposizioni integreranno quelle speciali, le quali, per tutta una serie di aspetti, non potranno certamente venir meno (data la peculiare specificità della materia che regolano). Ciò, del resto, pare trovare conferma nell’art. 304, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008 che, individuando le norme abrogate dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto, mantiene fermo quanto previsto dall’articolo 3, comma 3.
Tuttavia, riguardando l’intera questione in termini non rigidamente formalistici, pare ragionevolmente sostenibile che anche l’eventuale sopravvivenza di alcune norme speciali (come quelle appena ricordate) non scalfisca nella sostanza quella che si potrebbe definire l’“unicità sostanziale” della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 81 del 2008, dato che è proprio in tale disciplina che ora si rinvengono i principi generali del sistema prevenzionistico sia per quanto concerne l’assetto istituzionale sia per quanto attiene alla gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro. Si tratta di una affermazione d’altronde confermata con forza dallo stesso art. 304, comma 1, del decreto: tale disposizione, da un lato, abroga esplicitamente (nella lett. a) le principali normative generali preesistenti in materia [81], fermo restando che, come l’Araba Fenice, molti dei contenuti di tali normative rivivono (talora tali e quali erano, talaltra modificati) nelle nuove norme, specialmente dei Titoli successivi al I; dall’altro lato (nella lett. d), abroga qualsiasi altra disposizione legislativa e regolamentare esistente nella materia disciplinata dal decreto legislativo la quale risulti incompatibile con lo stesso decreto.
Il percorso di unificazione sostanziale è peraltro destinato a compiersi ulteriormente, visto che il comma 2 del menzionato art. 304 prevede che, con uno o più decreti legislativi integrativi, attuativi della delega prevista dall’art. 1, comma 6, della l. n. 123 del 2007, da emanarsi entro dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto legislativo, si provvederà all’armonizzazione delle disposizioni dello stesso decreto con quelle contenute in leggi o regolamenti che dispongono rinvii a norme del d.lgs. n. 626 del 1994, ovvero ad altre disposizioni abrogate dal comma 1 [82]. Nell’attesa della realizzazione di questa specifica armonizzazione (vale a dire fino all’emanazione dei predetti decreti legislativi integrativi), l’art. 304, comma 3, prevede comunque un’armonizzazione di carattere generale in forza della quale ove disposizioni di legge o regolamentari dispongano un rinvio a norme del d.lgs. n. 626 del 1994 o ad altre norme abrogate dal comma 1, tali rinvii si intendono riferiti alle corrispondenti norme del decreto legislativo.
È questo, ad esempio, il caso di quelle disposizioni (su cui si tornerà: v. infra § 9) che inibiscono ai datori di lavoro che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ex art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 di utilizzare forme di lavoro flessibili: il richiamo ivi contenuto alla valutazione dei rischi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 626 del 1994 deve quindi intendersi riferito, ex art. 304, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2008, alla valutazione dei rischi di cui agli artt. 17, lett. a, 28 e 29 di tale decreto.


6.1. Il campo di applicazione oggettivo
Fra i tanti criteri di delega previsti, il decreto delegato doveva dare attuazione anche a quello consistente nella ricomprensione dell’applicazione della normativa “a tutti i settori di attività… anche tenendo conto delle peculiarità o della particolare pericolosità degli stessi e della specificità di settori ed ambiti lavorativi, quali quelli presenti nella pubblica amministrazione” (art. 1, comma 2, della l. n. 123 del 2007) [83].
A tale proposito va osservato che quanto poc’anzi rilevato in ordine a determinate ipotesi di adeguamento della disciplina del d.lgs. n. 81 del 2008 vale anche nel caso, preso in considerazione dall’art. 3, comma 2, primo periodo, il quale, ricalcando quanto prevedeva l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994, preconizza una normativa di adeguamento della disciplina per una serie eccessivamente lunga di pubbliche amministrazioni e non solo [84]. In tali ipotesi, le disposizioni del decreto legislativo sono applicate tenendo conto delle effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative, individuate – ed ecco la novità rispetto alla disciplina previgente – entro e non oltre il termine perentorio di 12 mesi dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008 mediante decreti emanati, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della l. n. 400 del 1988 [85]. Fino alla scadenza del predetto termine di 12 mesi, sono fatte salve le disposizioni attuative dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994; decorso inutilmente tale termine, trovano applicazione le disposizioni del d.lgs. n. 81 del 2008. La previsione del termine e della conseguenza del suo vano decorso paiono in grado di scongiurare ingiustificate ed eccessive dilazioni [86] nell’adeguamento normativo.
A differenza delle attività lavorative a bordo delle navi, in ambito portuale, sulle navi da pesca e nel trasporto ferroviario (v. paragrafo precedente) che dispongono già di una propria disciplina (la quale, in caso di mancata emanazione dei decreti, dovrebbe comunque essere “coordinata” con il d.lgs. n. 81 del 2008 grazie alle norme di quest’ultimo), nelle ipotesi precedentemente descritte l’omissione dei decreti farebbe scattare la piena applicabilità delle disposizioni del decreto del 2008 con la caducazione delle discipline speciali emanate sotto l’egida del d.lgs. n. 626 del 1994, senza peraltro alcun rischio di vacatio legis.


6.1.1. Il riferimento a tutte le tipologie di rischio: prevenzione o precauzione?
Come risulta dal criterio di delega poc’anzi richiamato (art. 1, comma 2, della l. n. 123 del 2007), l’applicazione della normativa non riguarda solo “tutti i settori di attività”, ma anche “tutte le tipologie di rischio”.
Il riferimento a tutte le tipologie di rischio ha indotto un’autorevole dottrina a chiedersi se ciò possa aprire “uno spiraglio all’ingresso nel sistema italiano del ‘principio di precauzione’ di origine comunitaria (cfr. art. 174, comma 2, del Trattato UE [87]), ove non si ritenga… che lo stesso sia stato già recepito dall’art. 2087 c.c. in ragione della sua storica vis espansiva e della capacità di auto-adattamento quanto ai contenuti”: “in forza di tale principio l’assenza di ‘certezza scientifica’, a fronte di un rischio potenziale e di ragionevoli dubbi circa la possibilità che si producano effetti gravi e negativi per la salute del lavoratore, non deve impedire che si adottino da parte del datore di lavoro misure e cautele appropriate in via preventiva” [88].
A tale interessante sollecitazione si è risposto che l’inclusione di questo tipo di protezione richiederebbe di “essere espressamente contemplata nella legge attuativa, anche in considerazione del fatto che, allo stato attuale, il principio di precauzione ‘non è suscettibile di tradursi, per difetto di concretezza, in un tassativo comando giuridico’ (Tar Lazio, sez. I, 31 maggio 2004, n. 5118)” [89].
Emanato il decreto delegato, non si è poi mancato di segnalare come, sebbene il principio di precauzione sia stato già recepito nell’ordinamento italiano in materia ambientale [90] e in materia di protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici [91], le disposizioni del d.lgs. n. 81 del 2008 escludono ogni richiamo a tale principio [92], come del resto confermerebbe la stessa definizione di “prevenzione” accolta nell’art. 2, comma 1, lett. n, la quale, riferendosi al “complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”, indica che “la serie delle incombenze datoriali rientra nell’ambito dell’apprestamento di un adeguato sistema prevenzionistico”, come tale da non confondere “con un sistema cautelare improntato al principio di precauzione”, giacché “prevenzione e precauzione… attengono a campi applicativi distinti” [93].


6.2. Il campo di applicazione soggettivo
Per misurare l’esatta ampiezza della nuova disciplina dal punto di vista soggettivo, occorre prendere in considerazione l’art. 3 del decreto, combinandone peraltro la lettura con parte dell’art. 2 e con l’art. 4 [94].
L’individuazione del campo di applicazione del decreto costituisce un aspetto non certo secondario sol che si pensi all’insistenza del legislatore delegante sui destinatari della disciplina. Ciò è avvertibile fin dall’art. 1, comma 1, della l. n. 123 del 2007, là dove si evocano le “differenze di genere” e la “condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati” [95], e si percepisce chiaramente subito dopo, quando, fra i criteri della delega (art. 1, comma 2), si ricomprende l’applicazione della normativa “a tutti i lavoratori e lavoratrici, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati, prevedendo: 1) misure di particolare tutela per determinate categorie di lavoratori e lavoratrici e per specifiche tipologie di lavoro o settori di attività; 2) adeguate e specifiche misure di tutela per i lavoratori autonomi, in relazione ai rischi propri delle attività svolte e secondo i principi della raccomandazione 2003/134/CE del Consiglio, del 18 febbraio 2003”.
Questi principi direttivi sembrano essere stati correttamente recepiti dal legislatore delegante non solo nell’art. 1, comma 1 (dove, oltre alle “differenze di genere” ed alla “condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”, si richiama l’“età” [96]) e nell’art. 3, espressamente dedicato al campo di applicazione del decreto, ma anche in alcune disposizioni specifiche nelle quali la eco dei criteri di delega risuona con chiarezza: è il caso, ad esempio, dell’art. 21 dedicato alla protezione dei componenti dell’impresa familiare e dei lavoratori autonomi; dell’art. 28 là dove prevede che la valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi; degli artt. 36, comma 4, e 37, comma 13, i quali, per quanto concerne l’informazione e la formazione dei lavoratori immigrati, sottolineano l’esigenza della previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua utilizzata [97].


6.2.1. Il lavoratore
A dire il vero, la vocazione universalistica della delega si coglie fin dalla prima lettera del lungo elenco di definizioni contenuto nell’art. 2, la cui lett. a definisce, ai fini del decreto, il lavoratore come la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico [98] o privato (sono esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari). Un concetto, quindi, ben più ampio di quello di cui all’art. 2, lett. a, del d.lgs. n. 626 del 1994, che si riferiva alla “persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro… con rapporto di lavoro subordinato anche speciale” [99]. Forse anche più ampio di quello contenuto nell’art. 3 della Direttiva n. 89/391/CEE che, riferendosi a “qualsiasi persona impiegata da un datore di lavoro…” sembrerebbe limitarsi al lavoro subordinato. Va tuttavia rilevato che la normativa comunitaria conserva valore di limite minimale, non consentendo quindi regressi da parte della legislazione nazionale che la attui, che ben potrebbe quindi migliorarla.
Per addivenire ad una definizione di “lavoratore” compatibile con il criterio della legge delega e al tempo stesso coerente con il diritto comunitario, non si poteva non considerare che, in materia di sicurezza del lavoro, il “lavoratore” non rappresenta soltanto il soggetto destinatario della tutela, ma è nel contempo anche un soggetto sul quale gravano responsabilità presidiate da sanzioni, anche penali [100]. Questa dimensione complessa del lavoratore (ai fini della disciplina della sicurezza sul lavoro) fa sì che nella nozione di “lavoratore” debbano necessariamente ricondursi tutti i soggetti che il datore di lavoro [101] coinvolge funzionalmente nel proprio ambito organizzativo utilizzandone le prestazioni lavorative per il perseguimento dei propri scopi, quali che siano (economici, istituzionali, non lucrativi ecc.). Pertanto, fatta eccezione per il lavoro domestico (come prevede la direttiva comunitaria), vengono in considerazione non solo i lavoratori subordinati (al di là delle varie tipologie di contratto di lavoro subordinato stipulato), ma anche i lavoratori che, pur non essendo dipendenti del datore di lavoro, siano tuttavia assoggettati al suo potere direttivo (lavoratori somministrati), nonché i lavoratori che abbiano stipulato con il datore di lavoro un contratto di lavoro autonomo purché, ovviamente, la prestazione lavorativa dedotta in tale contratto, in quanto inserita nell’organizzazione datoriale, li esponga potenzialmente ai rischi per la loro salute e sicurezza derivanti dall’attività svolta dal datore di lavoro.
Quest’ultima precisazione – di fondamentale importanza – ha una duplice finalità: da un lato, vale ad escludere che nella nozione di “lavoratore” rientrino quei lavoratori autonomi (es. liberi professionisti, artigiani ecc.) che, pur prestando un’attività lavorativa a favore del datore di lavoro (in sé anche indirettamente funzionale al perseguimento degli scopi dello stesso datore), tuttavia non si inseriscono minimamente nell’organizzazione di quest’ultimo (si pensi ad un’opera di consulenza una tantum, o ad una prestazione del tutto occasionale di manutenzione [102]); da un altro lato, vale invece a ricomprendere nell’ambito della nozione (e, quindi della tutela, ancorché nei limiti eventualmente individuati nella successiva disciplina del decreto legislativo) quelle prestazioni lavorative che, pur non essendo materialmente o fisicamente svolte nel luogo (di lavoro) in cui si realizza l’attività del datore di lavoro, sono nondimeno inserite (a diverso titolo e più o meno stabilmente) nell’organizzazione dello stesso datore di lavoro consentendo a quest’ultimo il perseguimento degli scopi per i quali svolge la propria attività (es. telelavoro).
Ad ogni buon conto, la nozione di lavoratore ora accolta nel decreto, oltre ad ampliare la gamma dei suoi destinatari, può valere, come criterio ermeneutico generale, a risolvere eventuali antinomie tra le varie previsioni del decreto, come si vedrà in seguito. Per altro verso, essendo contenuta in una disciplina organica che ha di fatto riassorbito la maggior parte delle norme previgenti, pare in grado di superare le asimmetrie che sussistevano a tale proposito tra il d.lgs. n. 626 del 1994 ed i vecchi decreti degli anni Cinquanta.


6.2.2. Gli equiparati
Per quanto concerne i soggetti equiparati al lavoratore, emergono innanzitutto il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell’ente stesso [103], nonché l’associato in partecipazione di cui all’art. 2549 c.c. [104]. Per quanto concerne i soci lavoratori di cooperative, occorre rilevare che la l. 3 aprile 2001, n. 142 già prevede, all’art. 2, l’applicazione di tutte le vigenti disposizioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato. Inoltre, la stessa norma (secondo periodo) prevede l’applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 626 del 1994 nonché del d.lgs. n. 494 del 1996, in quanto compatibili con le modalità della prestazione lavorativa, agli altri soci lavoratori (che, come si inferisce in base all’art. 1, comma 3, della stessa legge, sono inquadrati come lavoratori autonomi in senso lato). Sulla scorta di queste previsioni, l’esplicita equiparazione di tali soggetti al “lavoratore” potrebbe risultare superflua giacché il già ricordato art. 304, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2008 prevede che ove disposizioni di legge operino un rinvio al d.lgs. n. 626 del 1994 o ad altre norme abrogate dall’art. 304, comma 1 (tra cui rientra il d.lgs. n. 494 del 1996), tale rinvio si intende riferito alle norme del d.lgs. n. 81 del 2008. Per quanto concerne invece i soci delle altre società (non cooperative), la previsione dell’equiparazione è più che giustificata, così come per quanto riguarda gli associati in partecipazione.
L’equiparazione al lavoratore che il d.lgs. n. 626 del 1994 riferiva agli “utenti dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria e professionale avviati presso datori di lavoro per agevolare o per perfezionare le loro scelte professionali” è stata opportunamente ricondotta nella più specifica nozione di tirocinante: “soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all’art. 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro”. La nuova formulazione risulta più aderente alle previsioni delle norme appena menzionate [105] e, in particolare, alle finalità ivi indicate, non dovendosi dimenticare che l’espressione del d.lgs. n. 626 del 1994, pur nella sua generalità ed astrattezza, era più circoscritta di quella delle norme speciali in materia di tirocini formativi e di orientamento le quali affidano la promozione degli stessi ad una gamma di soggetti assai più ampia di quelli dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria e professionale. Non si deve altresì trascurare che, specialmente dopo la riforma del Titolo V Cost., la materia dei tirocini qui in oggetto è sempre più frequentemente disciplinata, in virtù della competenza legislativa esclusiva delle Regioni in materia di formazione, nelle leggi regionali (non a caso evocate nella nuova equiparazione), alcune delle quali ampliano vieppiù la platea dei soggetti promotori [106].
Viene riconfermata l’equiparazione dell’“allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici”, aggiungendosi alle predette attrezzature “le apparecchiature fornite di videoterminali” e precisandosi che l’equiparazione vale “limitatamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione”. Del tutto nuove ed opportune sono le equiparazioni del “volontario”, ex l. 1 agosto 1991, n. 266 [107], dei “volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della Protezione civile”, del “volontario che effettua il servizio civile” e dei lavoratori socialmente utili di cui al d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468 e successive modifiche.


6.2.3.1. Specifiche figure: somministrazione, distacco (e lavoro ripartito)
In buona sostanza, mediante l’ampia nozione di lavoratore e tramite la tecnica delle equiparazioni, si ricomprendono nell’ambito di applicazione del decreto, come già suggerito sia dalle organizzazioni sindacali nelle note elaborate in data 21 dicembre 2006 sia dalla dottrina [108], tutte le tipologie contrattuali autonome o subordinate, anche flessibili, nonché del lavoro “fuori mercato” (cosiddetto “non lavoro”), ivi compreso il “volontariato”. L’applicazione a tali soggetti, senza distinzione di genere [109], risulta poi confermata nell’art. 3, comma 4, peraltro nel rispetto di quanto previsto nei suoi successivi commi.
Purtroppo, per quanto concerne le tipologie contrattuali flessibili [110], il decreto delegato pare aver seguito una strada “tradizionalista”, essenzialmente estendendo (e non sempre in toto) le tutele previste per il prototipo del lavoro subordinato a tempo indeterminato e full time, laddove sarebbe stato più opportuno prevedere specifiche misure di protezione in ragione della discontinuità e frammentazione dei cosiddetti nuovi lavori [111]. D’altro canto, per questi ultimi, le norme comunitarie [112] “richiedono la garanzia non delle stesse misure di sicurezza” previste per gli altri lavoratori, “bensì del raggiungimento dello stesso livello di protezione” [113].
La delusione per il fatto che il legislatore delegato non abbia saputo cogliere appieno l’occasione offertagli dal “promettente e bilanciato” programma delineato dal delegante [114] – non riuscendo a rendere pienamente comunicante “il ‘canale’ regolativo della sicurezza del lavoro e quello del mercato di lavoro” [115] – è solo in parte compensata da qualche indicazione più puntuale per la protezione di tali fattispecie, ricavabile, ad una più attenta analisi, dalla complessiva trama normativa. Ciò che maggiormente colpisce è che, come si vedrà fra breve, il legislatore delegato non abbia coerentemente sviluppato le giuste premesse poste con la definizione di “lavoratore”.
Iniziando dalla somministrazione di lavoro, è facile osservare come il d.lgs. n. 81 del 2008 tenda in gran parte ad adagiarsi piuttosto passivamente sulla disciplina già dettata dal d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, senza tentare, da un lato, un forse difficile recupero di alcune delle più pregnanti tutele previste per l’ora soppresso lavoro temporaneo di cui alla l. n. 196 del 1997 e, dall’altro lato, di riformare la disciplina in modo più radicale.
Infatti, per i lavoratori con contratto di somministrazione di lavoro, il comma 5 dell’art. 3, da un lato, riconferma quanto specificamente previsto dall’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003 [116], e, dall’altro, stabilisce che tutti gli obblighi di prevenzione e protezione previsti dal d.lgs. n. 81 del 2008 siano a carico dell’utilizzatore. In realtà, la norma del 2003 già accollava all’utilizzatore tutti gli obblighi di protezione (ma non di prevenzione [117]) previsti per i propri dipendenti (art. 23, comma 5, quarto periodo) [118], pur addossando al somministratore quello di informazione sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale (art. 23, comma 5, prima parte del primo periodo), nonché quello di formazione e addestramento all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale sono assunti (art. 23, comma 5, seconda parte del primo periodo), e prevedendo che quest’ultimo obbligo possa essere adempiuto dall’utilizzatore ove lo preveda il contratto (art. 23, comma 5, secondo periodo). Dato che l’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003 è fatto salvo dalla nuova disposizione, quest’ultima rischia di essere superflua nella sostanza, mentre avrebbe potuto aver altro significato ove avesse lasciato sopravvivere in capo al somministratore soltanto l’obbligo di informazione generale (di cui all’art. 23, comma 5, prima parte del primo periodo), riconducendo ex lege, e non solo ex contractu, più propriamente in capo all’utilizzatore gli obblighi di formazione e addestramento [119].
Per la verità, nonostante il silenzio della legge ed anche qualora il contratto di somministrazione non disponga la traslazione dell’obbligo di formazione e addestramento a carico dell’utilizzatore, non è credibile che l’attività del somministratore possa espandersi al di là di una informazione di carattere generale, mentre, per quanto concerne la formazione e l’addestramento relativi all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa dedotta in contratto, è difficile pensare che il somministratore possa garantire una formazione ed un addestramento non generico [120]. Al di là del fatto che, come è intuibile, quella formazione e quell’addestramento risulteranno più effettivi se impartiti dall’utilizzatore, la loro effettuazione da parte del somministratore non esonera comunque l’utilizzatore da quanto previsto negli artt. 36 e 37 del d.lgs. n. 81 del 2008. In effetti può osservarsi che, sebbene l’art. 23, comma 5, primo periodo, del d.lgs. n. 276 del 2003 testualmente parli di informazione, formazione e addestramento “in conformità alle disposizioni recate” dal d.lgs. n. 626 del 1994 (ora d.lgs. n. 81 del 2008), il suo presumibile riferimento a quanto previsto negli artt. 36 e 37 del nuovo decreto (che parlano di informazione e formazione adeguate, e quindi specifiche) concerne ovviamente soltanto i limitati oggetti dell’informazione e della formazione richiamati dallo stesso art. 23, comma 5, primo periodo, del d.lgs. n. 276 del 2003, senza minimamente estendersi agli altri oggetti dell’informazione e della formazione che risultano dalle due norme citate. Non si deve poi trascurare che l’art. 37, comma 5, del d.lgs. n. 81 del 2008 impone ora che l’addestramento venga effettuato da persona esperta (che certamente non sarà il somministratore) e sul luogo di lavoro (dell’utilizzatore), mentre il comma 4, lett. a, seconda parte, della stessa norma prevede che, in caso di somministrazione di lavoro, la formazione e l’addestramento specifico (ove previsto) devono avvenire in occasione dell’inizio dell’utilizzazione. Raccordando tutte queste norme, è evidente non solo che in capo all’utilizzatore continueranno a gravare gli obblighi di informazione e formazione per tutto quanto non espressamente richiamato dall’art. 23, comma 5, primo periodo, del d.lgs. n. 276 del 2003, ma anche che soltanto a lui potrà competere l’effettuazione dell’addestramento all’uso delle attrezzature di lavoro.
La salvezza del comma 5 dell’art. 23 (almeno per quanto riguarda il primo e il secondo periodo) risulta quindi piuttosto ridimensionata e pare dimostrare come il legislatore delegato non abbia attentamente soppesato la portata della nuova definizione di “lavoratore” da lui stesso proposta. Come si è anticipato, a differenza della omologa previsione contenuta nel d.lgs. n. 626 del 1994, la nuova definizione di “lavoratore” accolta nell’art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 81 del 2008 non si riferisce più esclusivamente alla “persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro”, ma ricomprende qualsiasi “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro” (inteso, quest’ultimo, ovviamente, secondo la definizione di cui alla successiva lett. b). Nella nuova definizione di “lavoratore”, la relazione di sicurezza tra questi e il datore di lavoro, così come può prescindere dalla sussistenza tra di essi di un contratto di lavoro subordinato, può anche prescindere dalla sussistenza tra di essi di un contratto di lavoro, come accade nel caso del lavoratore somministrato di cui l’imprenditore utilizzatore non è il datore di lavoro ex art. 2094 c.c., ma è invece il datore di lavoro ex d.lgs. n. 81 del 2008.
Per il lavoro somministrato (e prima per il lavoro temporaneo) tale relazione di sicurezza è emersa, con connotati di specialità, contestualmente alla nascita della fattispecie. Configurando in capo all’utilizzatore del lavoratore somministrato tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti, le specifiche norme sulla sicurezza del lavoro contenute nel d.lgs. n. 276 del 2003 hanno riconosciuto al somministrato gli stessi diritti propri dei lavoratori dipendenti dall’imprenditore utilizzatore, facendo sì, quindi, che lo stesso somministrato divenisse lavoratore ex d.lgs. n. 626 del 1994 dell’utilizzatore e quest’ultimo datore di lavoro ex d.lgs. n. 626 del 1994 anche nei confronti dei somministrati e non più solo dei propri dipendenti (di cui è anche datore di lavoro ex art. 2094 c.c.). È peraltro evidente che, senza le norme speciali del d.lgs. n. 276 del 2003 (e prima della l. n. 196 del 1997), la definizione di “lavoratore” accolta dal d.lgs. n. 626 del 1994 non avrebbe consentito di configurare l’utilizzatore quale obbligato in termini di sicurezza nei confronti dei somministrati, rischiando di addossare esclusivamente in capo al somministratore il relativo carico debitorio.
Con l’entrata in scena della nuova e più ampia nozione di “lavoratore” del d.lgs. n. 81 del 2008, è invece venuta meno la necessità di norme speciali per i lavoratori somministrati, almeno di quelle finalizzate ad evidenziare la relazione di sicurezza tra di essi e l’utilizzatore della loro prestazione. Ciò di cui c’era e c’è semmai bisogno – ferma restando la plausibilità di una norma “manifesto” che ribadisca in capo all’utilizzatore tutto il carico debitorio di sicurezza (come facilmente si evince dalla nozione di “lavoratore”) – sono disposizioni specifiche che declinino il contenuto degli obblighi di protezione in relazione alle specificità della somministrazione.
Tornando alla questione della ripartizione degli obblighi tra somministratore e utilizzatore si può agevolmente osservare che gli obblighi che l’art. 23, comma 5, primo periodo, del d.lgs. n. 276 del 2003 configura in capo al somministratore costituiscono obblighi di sicurezza che si aggiungono a quelli propri della naturale relazione di sicurezza esistente tra somministrato ed utilizzatore. Infatti, stando alla nuova definizione di “lavoratore”, quegli obblighi gravano sul somministratore non già in quanto “datore di lavoro ex d.lgs. n. 81 del 2008”, ma essenzialmente in quanto “datore di lavoro ex art. 2094 c.c.”, vale a dire in quanto soggetto che non necessariamente coincide con il “datore di lavoro ex d.lgs. n. 81 del 2008”. Se quest’ultimo non può non essere che l’utilizzatore, data la peculiarità della fattispecie ben si comprende il fondamento del parziale coinvolgimento di chi ha la responsabilità “negoziale” del lavoratore somministrato. Un coinvolgimento che non può tuttavia scardinare la posizione debitoria del “datore di lavoro ex d.lgs. n. 81 del 2008”, ma semmai supportarla in ragione delle specificità della fattispecie. Ed allora, quando l’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 81 del 2008 fa salvo “quanto specificamente previsto” dall’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003, non si può non osservare che quanto specificamente previsto, pur riferendosi testualmente a tutto il comma 5, sembra meglio riferibile a ciò che nel comma 5 si aggiunge a quanto normalmente è connesso alla relazione di sicurezza tra il “lavoratore” ed il “datore di lavoro” di cui al d.lgs. n. 81 del 2008, vale a dire ciò che è previsto nel primo e nel secondo periodo [121]. In altri termini, la salvezza del comma 5 pare inquadrabile in termini di aggiunta e non di sottrazione rispetto alla disciplina generale.
A ben guardare, la previsione del coinvolgimento del somministratore avrebbe potuto rivelarsi più opportuna in relazione alla verifica dell’idoneità dei lavoratori prima dell’invio presso gli utilizzatori [122]. Al silenzio del legislatore in materia potrebbe forse ovviarsi considerando il somministratore come “datore di lavoro ex d.lgs. n. 81 del 2008” prima dell’invio in missione del lavoratore, il che tuttavia accadrebbe soltanto nei rari casi in cui quest’ultimo sia assunto a tempo indeterminato dal somministratore. Al di là degli obblighi, è comunque indubbio l’interesse del somministratore ad inviare in missione lavoratori idonei, pena l’inadempimento del contratto di somministrazione con l’obbligo di sostituzione del lavoratore inidoneo [123]. A tale proposito, si è prospettato che l’obbligo gravante sul datore di lavoro ex art. 18, comma 1, lett. c, del d.lgs. n. 81 del 2008 – consistente nel tenere conto, nell’affidare i compiti ai lavoratori, delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza – sia riconducibile in capo al somministratore, in ragione della sua responsabilità in ordine alle informazioni relative al contenuto del contratto scritto di somministrazione: da ciò discenderebbe anche l’obbligo del somministratore di sottoporre il lavoratore a sorveglianza sanitaria preventiva, ove sia prevista [124]. Si tratta di una prospettiva di responsabilizzazione del somministratore che appare di indubbio interesse e particolarmente apprezzabile e che, di per sé, non preclude che il predetto obbligo di cui all’art. 18, comma 1, lett. c, del d.lgs. n. 81 del 2008 gravi, ancorché in parte, anche in capo all’utilizzatore, come nel caso in cui, in seguito all’addestramento iniziale in loco (che come si è detto, non può non coinvolgere l’utilizzatore), quest’ultimo riscontri specifici problemi per la salute e sicurezza del lavoratore preventivamente ed astrattamente non verificabili.
Per altro verso, occorre rilevare che la conferma della disciplina dell’art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003 mantiene vivo l’obbligo – di cui al terzo periodo di tale disposizione – in capo all’utilizzatore di informare il lavoratore in caso di mansioni comportanti rischi specifici o che esigano una sorveglianza medica speciale [125]. Al di là del fatto che, alla luce delle innovazioni apportate dall’art. 25 del nuovo decreto, il predetto obbligo di informazione sembrerebbe ora da ascrivere al medico competente (o, perlomeno, all’utilizzatore in collaborazione con lo stesso medico), il legislatore delegato non ha ritenuto opportuno cogliere l’occasione per reintrodurre esplicitamente il divieto che l’ora abrogato art. 1, comma 4, lett. f, della l. n. 196 del 1997 prevedeva a proposito della fornitura del lavoro temporaneo per le lavorazioni richiedenti sorveglianza medica speciale e per lavori particolarmente pericolosi [126], ferma restando la possibilità dell’eventuale introduzione di divieti in materia da parte della contrattazione collettiva [127].
Nel silenzio dell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 81 del 2008, resta in vigore la previsione di cui all’art. 21, comma 1, lett. d, del d.lgs. n. 276 del 2003 che, fra gli elementi essenziali del contenuto del contratto di somministrazione, annovera “l’indicazione della presenza di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate”, che deve recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi (art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003), dovendo poi detti rischi (ove presenti) e dette misure (ove adottate) essere comunicate per iscritto al lavoratore da parte del somministratore all’atto della stipulazione del contratto di lavoro ovvero all’atto dell’invio presso l’utilizzatore (art. 21, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003) [128]. Come è stato rilevato, quest’ultimo obbligo di comunicazione a carico del somministratore non può non raccordarsi con quello, poc’anzi menzionato, di informazione che grava sull’utilizzatore ex art. 23, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003 [129].
Il comma 6 dell’art. 3 fa riferimento ad un’altra fattispecie disciplinata dal d.lgs. n. 276 del 2003, il distacco, legificando quanto poteva già sostenersi in via interpretativa, nonostante qualche contrasto [130]. In effetti, poiché l’art. 30 del decreto del 2003 nulla prevede a proposito della sicurezza del lavoratore distaccato, la nuova disposizione riconduce tutti gli obblighi di prevenzione e protezione in capo al distaccatario, fatto salvo l’obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato [131]. Vale anche qui quanto già sostenuto a proposito della somministrazione circa l’obbligo del distaccatario di informazione sui rischi specifici e le misure adottate nonché di un’adeguata formazione ed un adeguato addestramento all’utilizzo delle attrezzature di lavoro [132]. Per il personale delle pubbliche amministrazioni che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, organi o autorità nazionali, gli obblighi di cui al d.lgs. n. 81 del 2008 sono a carico del datore di lavoro designato dall’amministrazione, organo o autorità ospitante.
Nulla dispone il d.lgs. n. 81 del 2008 in merito al lavoro ripartito di cui all’art. 41 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003. Il silenzio del legislatore deve intendersi come la conferma dell’applicabilità della disciplina generale del d.lgs. n. 81 del 2008 a questa fattispecie, fermo restando quanto previsto dalla disposizione speciale di cui all’art. 42, comma 1, lett. c, del d.lgs. n. 276 del 2003, ai sensi della quale le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto debbono essere riportate in forma scritta nel contratto di lavoro a fini probatori [133]: disposizione che riguarda solo il quantum di ulteriore tutela necessitata dalla peculiarità del rapporto e non certo l’an della tutela della salute e della sicurezza dei job sharers. Restano nondimeno valide le considerazioni già svolte in dottrina in ordine, da un lato, alla necessità di predisporre in via interpretativa soluzioni di adattamento della normativa generale a tale fattispecie e, dall’altro lato, all’opportunità di un intervento di supporto della contrattazione collettiva, peraltro evocata dallo stesso legislatore nell’art. 43, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 [134].


6.2.3.2. Lavoro parasubordinato e lavoro autonomo, lavoro occasionale e accessorio, lavoro a domicilio
Il successivo comma 7 dell’art. 3 si occupa dei lavoratori parasubordinati [135] – intesi sia come lavoratori a progetto ex art. 61 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003, sia come collaboratori coordinati e continuativi ex art. 409, n. 3, c.p.c. – nei confronti dei quali dispone l’applicabilità (integrale) delle norme del d.lgs. n. 81 del 2008 ove la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente. Si tratta di una previsione che equipara, agli effetti della sicurezza, il lavoro subordinato a quello parasubordinato e che, in linea generale, va apprezzata sia perché offre indirettamente una protezione in materia nei frequenti casi di simulazione del contratto, sia perché, anche nei casi di genuina parasubordinazione, riconosce un diritto fondamentale del lavoratore il cui godimento non può essere condizionato dalla qualificazione del rapporto.
Non si tratta, tuttavia, di una disposizione particolarmente nuova, poiché ripropone quanto previsto dall’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003, il quale, fra l’altro, disponeva l’applicazione al lavoro a progetto delle norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al d.lgs. n. 626 del 1994 quando la prestazione lavorativa si svolgesse “nei luoghi di lavoro del committente”, nonché le norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali [136]. Poiché, diversamente dal precedente comma 5, il comma 7 dell’art. 3 non fa salve disposizioni precedenti, pare doversi ritenere che esso si sostituisca integralmente, in parte qua, al predetto art. 66, comma 4 [137]. Tale effetto sostituivo riguarda anche la parte dell’art. 62, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 276 del 2003 là dove tiene fermo quanto disposto dall’art. 66, comma 4.
Non può tuttavia non rilevarsi che l’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 81 del 2008 contiene una sicura novità, là dove, superando tutte le perplessità legate alla disparità di trattamento evocate dalla disciplina del 2003 [138], estende la tutela alle collaborazioni parasubordinate non a progetto [139] (presenti nelle pubbliche amministrazioni), dovendosi tra esse ricomprendere anche le collaborazioni coordinate e continuative a carattere occasionale di cui all’art. 61, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 [140]. Né si deve trascurare che la combinazione tra l’art. 3, comma 7, e la definizione di “lavoratore” di cui all’art. 2, comma 1, lett. a, fa sì che ora possano senz’altro superarsi i dubbi non risolti dalla precedente disciplina del 2003 per quanto riguarda l’assoggettabilità del collaboratore parasubordinato che operi nel luogo di lavoro del committente agli obblighi dei lavoratori di cui all’art. 20: dubbi che dovevano misurarsi con il divieto di ricorso all’analogia in materia penale relativamente alla irrogazione delle sanzioni penali che l’art. 93 del d.lgs. n. 626 del 1994 prevedeva a carico dei lavoratori subordinati.
Per altro verso, va osservato come, riproponendo di fatto il contenuto dell’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003, l’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 81 del 2008 rischi di esporsi agli stessi rilievi critici avanzati sulla norma del 2003, con particolare riferimento alla superficialità con cui il legislatore ha richiamato “una normativa tarata sul lavoro subordinato piuttosto che enucleare dalla stessa le disposizioni compatibili, attorno alle quali elaborare uno statuto protettivo ad hoc per il collaboratore a progetto” [141]. Allo stato e limitatamente al lavoro a progetto, la ricerca di specifiche e più adeguate tutele che meglio si attaglino alla fattispecie potrebbe essere effettuata valorizzando quanto previsto dal già ricordato art. 62, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 276 del 2003, il quale, in tema di forma del contratto, prescrive che quest’ultimo, ai fini della prova, contenga (fermo restando quanto disposto dall’art. 66, comma 4) “le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto”. La indubbia sopravvivenza di tale previsione [142] potrebbe forse consentire – peraltro mediante un previo, opportuno e robusto (ancorché non evocato) intervento di supporto della contrattazione collettiva [143] – di individuare una disciplina ad hoc che potrebbe valere come unica disciplina [144] nel caso in cui la prestazione del collaboratore a progetto non si svolga nei luoghi di lavoro del committente [145], e come disciplina integrativa di quella “generale” del d.lgs. n. 81 del 2008 nel caso in cui la prestazione sia “interna” [146]. È comunque evidente che l’eventuale disciplina negoziale (collettiva ed individuale), unica o integrativa che fosse, potrebbe produrre un effetto meramente obbligatorio sul piano del contratto con conseguente rilevanza risarcitoria, non potendo essere assistita dall’apparato sanzionatorio penale e amministrativo predisposto sul piano pubblicistico dal legislatore.
Resta sullo sfondo l’insoddisfazione per l’eccessiva timidezza del legislatore delegato nell’oltrepassare i confini dell’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 al fine di ricomprendere nella sfera della tutela anche i lavoratori parasubordinati, a progetto e non, che svolgano la prestazione in tutto o in parte al di fuori del luogo di lavoro del committente [147]. È chiaro che, in astratto, la considerazione anche delle collaborazioni “esterne” sarebbe stata perfettamente coerente con la definizione di “lavoratore” di cui all’art. 2, comma 1, lett. a, pur richiedendo in concreto alcune precisazioni, giacché la tutela della sicurezza del lavoratore parasubordinato non può prescindere dalla verifica del livello di integrazione della prestazione nell’organizzazione del committente [148] e, quindi, dall’“intensità della relazione che lega il soggetto all’ambiente di lavoro” [149]. Un’utile indicatore in tal senso avrebbe potuto rinvenirsi, ad esempio, nell’utilizzazione di attrezzature fornite dal committente, apparendo riduttivo limitare la tutela esclusivamente sulla scorta dell’elemento del luogo di lavoro [150]. A ben guardare, per i lavoratori parasubordinati “esterni” a cui il committente fornisca proprie attrezzature di lavoro, la tutela “minimale” relativa alla conformità di tali attrezzature alle prescrizioni del Titolo III dovrebbe già valere fin da ora, nonostante l’imbarazzante silenzio del legislatore delegato: diversamente, si rischierebbe di discriminare i lavoratori – in relazione ad una tutela tanto minimale quanto fondamentale – essenzialmente in ragione del tipo di contratto di lavoro [151], dato che, come si vedrà, la tutela relativa alle attrezzature è riconosciuta esplicitamente ad altri lavoratori che svolgono la propria prestazione al di fuori dei confini aziendali, come i lavoratori subordinati a domicilio (art. 3, comma 9) ed i telelavoratori subordinati (art. 3, comma 10) [152].
Nella speranza che la decretazione delegata correttiva di cui all’art. 1, comma 6, possa riconsiderare opportunamente la questione, si potrebbe far leva sulla valorizzazione dell’art. 2087 c.c., sebbene la sua applicazione al di là dei confini del lavoro subordinato sia tutt’altro che certa, nonostante alcune aperture [153]. Per la verità, sembra difficile che l’estensione della relazione di sicurezza oltre il lavoro subordinato operata dal d.lgs. n. 81 del 2008 non riverberi alcun effetto sull’interpretazione dell’ambito di applicazione dell’obbligo contrattuale di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. [154]. Anche prescindendo da elementi come la collocazione di tale norma (inserita nella parte dedicata non già al lavoro subordinato, ma all’imprenditore [155]) o la sua lettera (vi si parla genericamente di prestatori di lavoro [156]), l’intensità e l’ampiezza del valore costituzionale che essa mira a presidiare postula una sua continua attualizzazione che non sembrerebbe corretto limitare al pur fondamentale piano contenutistico della massima sicurezza tecnologicamente possibile [157]. Proprio la dimensione costituzionale del valore tutelato dall’art. 2087 c.c. potrebbe giustificare una sua lettura estensiva sia per quanto riguarda i soggetti tutelati (risultando inammissibile, anche sul piano dell’uguaglianza, negare tutela alla salute e sicurezza dei lavoratori in ragione del tipo negoziale), sia per quanto attiene al soggetto obbligato (non potendosi sostenere, ad esempio, che una pubblica amministrazione, in quanto non imprenditore, non sia soggetta all’obbligo contrattuale di sicurezza).
D’altro canto, visto che il precetto di cui all’art. 2087 c.c. si colloca sul piano civilistico del contratto di lavoro (ma di quale contratto, appunto?), presidiato dalle sanzioni risarcitorie del diritto privato, mentre gli obblighi di cui al d.lgs. n. 81 del 2008 hanno valenza pubblicistica e sono assistiti da sanzioni “pubbliche” penali ed amministrative, vale la pena chiedersi quale senso possa avere la permanenza di un’asimmetria soggettiva tra i due sistemi prevenzionistici. Quanto meno, una più ampia considerazione del lavoro non subordinato da parte dell’art. 2087 c.c. potrebbe compensare, ancorché solo in parte, quelle lacune che il sistema pubblicistico di prevenzione continua ad appalesare. Per altro verso, però, non si deve sottovalutare come, anche estendendo soggettivamente l’art. 2087 c.c., la pregnanza dell’ambiente di lavoro sottesa a questa norma potrebbe rendere irrealizzabile quella compensazione nei confronti dei soggetti che svolgono la propria prestazione al di fuori di tale ambiente. Cosicché, a prescindere dalla sorte dell’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 2087 c.c., non è inopportuno insistere per una rivisitazione del campo di applicazione soggettivo della disciplina pubblicistica di cui al d.lgs. n. 81 del 2008.
L’estensione del decreto al di fuori dei confini del lavoro subordinato non riguarda soltanto le varie forme di parasubordinazione, ma anche il lavoro autonomo tout court [158]. L’art. 3, comma 11, specifica che nei confronti dei lavoratori di cui all’art. 2222 c.c. [159] si applicano le disposizioni di cui agli artt. 21 e 26. Nella prima di tali norme la tutela prevista è di carattere generale ed ha una fonte bidirezionale, derivando sia dalla previsione di obblighi gravanti sui lavoratori autonomi, sia dalla previsione di facoltà che essi possono esercitare, ancorché con oneri a proprio carico, relativamente ai rischi propri delle attività svolte. Per quanto concerne gli obblighi, i lavoratori autonomi debbono: a) utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al Titolo III; b) munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al Titolo III; c) munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto. Quanto alle facoltà, esse consistono nel: a) beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali; b) partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’art. 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali [160]. In base all’art. 3, comma 12, tutto ciò riguarda anche i componenti dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. [161], i piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c. ed i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo.
Nella seconda norma (l’art. 26) la tutela dei lavoratori autonomi ha carattere speciale in quanto si riferisce alle attività (oggetto di contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione) che vengono affidate ai lavoratori autonomi dal datore di lavoro all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa [162].
L’art. 3, comma 8, si occupa della tutela – precedentemente non contemplata – dei lavoratori che effettuano prestazioni occasionali di tipo accessorio, ex art. 70 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003, nei confronti dei quali viene prevista l’applicazione delle norme del d.lgs. n. 81 del 2008 e di tutte le altre norme speciali vigenti in materia di sicurezza e tutela della salute. Da tale applicazione sono tuttavia esclusi i piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresi l’insegnamento privato supplementare, l’assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani, agli ammalati e ai disabili (art. 70, comma 1, lett. a e b, del d.lgs. n. 276 del 2003) [163].
Coerentemente con l’impostazione accolta nella definizione di lavoratore – che ricomprende chiunque sia funzionalmente inserito nell’organizzazione datoriale, a prescindere dalla localizzazione della prestazione – il legislatore delegato ha dedicato una previsione anche ai lavoratori a domicilio di cui alla l. 18 dicembre 1973, n. 877 (nonché ai lavoratori che rientrano nel campo di applicazione del contratto collettivo dei proprietari di fabbricati), per i quali l’art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 626 del 1994 prevedeva l’applicabilità delle proprie norme solo nei casi espressamente previsti.
L’art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 81 del 2008, da un lato, ricalca quanto già previsto dagli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 626 del 1994 [164], configurando in capo al datore di tali lavoratori gli obblighi di informazione e formazione di cui agli artt. 36 e 37: peraltro, l’art. 36, comma 3, specifica che ai lavoratori a domicilio il datore di lavoro fornisce le informazioni di cui al comma 1, lett. a, e al comma 2, lett. a, b e c. Da un altro lato, l’art. 3, comma 9, grava il datore dell’ulteriore obbligo di fornire ai lavoratori a domicilio i necessari dispositivi di protezione individuali in relazione alle effettive mansioni assegnate, prevedendo altresì che, qualora fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III. Quest’ultima previsione va salutata con favore, non risultando espressamente nella disciplina precedente, sebbene potesse ricavarsi indirettamente dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 626 del 1994.
Scendendo più in dettaglio, si è osservato criticamente [165] che le informazioni di cui all’art. 36, comma 1, lett. a (relative ai rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività della impresa in generale) mal si attaglierebbero al lavoratore a domicilio al quale, data la sua delocalizzazione, esse non interesserebbero, così come le informazioni di cui all’art. 36, comma 2, lett a, sui rischi specifici cui il lavoratore è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia. Tuttavia, questo presunto mancato interesse del lavoratore a domicilio è tutto da dimostrare, sia perché l’ampio concetto di “attività della impresa in generale” è tale da ricomprendere anche i rischi relativi alla prestazione di quel lavoratore che di quell’impresa è pur sempre dipendente e nel cui ciclo produttivo è inserito, sia perché lo stesso lavoratore non può non essere interessato ai rischi specifici a cui è esposto in relazione all’attività svolta ed alle normative di sicurezza che ben potrebbero essere relative anche agli strumenti che utilizza. Né convince l’ulteriore obiezione in merito alle informazioni di cui all’art. 36, comma 2, lett. c, sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate, giacché tali informazioni ben possono attenere anche al corretto uso dei dispostivi di protezione che ora debbono essere forniti al lavoratore a domicilio. La critica alle norme sulla informazione ai lavoratori a domicilio dovrebbe semmai riguardare la previsione dell’art. 36, comma 2, lett. b, relativa alla informazione sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi sulla base delle schede dei dati di sicurezza previste dalla normativa vigente e dalle norme di buona tecnica: previsione che mal si coordina con il perdurante divieto di ricorso al lavoro a domicilio nelle ipotesi di attività che comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute e l’incolumità dei lavoratori e dei loro familiari (art. 2, comma 1, della l. n. 877 del 1973).
Quanto alla formazione, sebbene l’art. 37 sia essenzialmente ritagliato sulla dimensione del lavoro nei luoghi dell’azienda, non sembra tuttavia non adattabile ai lavoratori a domicilio. Piuttosto, visto che, diversamente dall’art. 36, tale norma riguarda in toto i lavoratori a domicilio, c’è da chiedersi come possano applicarsi in tal caso le previsioni di cui ai commi 4 e 5 sull’addestramento.


6.2.3.3. Telelavoro
Forse consapevole che le non ricchissime previsioni sul lavoro a domicilio avrebbero potuto creare problemi nel caso di una delle sue versioni più evolute, il legislatore delegato, nell’art. 3, comma 10, ha inserito un’apposita previsione per i lavoratori subordinati, pubblici e privati, che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico, compresi quelli di cui al d.P.R. 8 marzo 1999, n. 70 (telelavoratori dipendenti da pubbliche amministrazioni) e di cui all’accordo-quadro europeo sul telelavoro concluso il 16 luglio 2002 tra UNICE/UEAPME, CEEP e CES [166].
L’uso dell’espressione “lavoratori a distanza”, in luogo del termine “telelavoratori”, potrebbe indurre a ritenere che la fattispecie di cui all’art. 3, comma 10, sia più ampia di quella convenzionalmente riconducibile al telelavoro, anche perché i lavoratori a distanza che sono espressamente “compresi” nel primo periodo della norma, vale a dire sia i telelavoratori pubblici sia quelli privati, esauriscono la schiera dei telelavoratori subordinati contemplati nell’ordinamento italiano. Tuttavia, proprio l’esplicito richiamo di tali lavoratori a distanza – definibili a tutti gli effetti “telelavoratori” secondo l’accezione accolta nelle fonti esplicitamente evocate [167] – potrebbe risolvere l’ambiguità della disposizione, focalizzando l’attenzione esclusivamente su quelle prestazioni lavorative connotate sia dal ricorso (almeno prevalente) alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), sia dal fatto che la prestazione si svolga in un luogo diverso dalla normale sede di lavoro il quale non costituisca però un’unità produttiva del datore di lavoro. In questi termini, la più ampia area che emerge dalla lettera dell’art. 3, comma 10, non si riferirebbe a tipologie di telelavoro ulteriori rispetto a quelle evocate nel primo periodo con il richiamo delle fonti regolamentari e contrattuali (tipologie ulteriori appunto inesistenti [168]), bensì solamente a quei contratti individuali di lavoro subordinato del settore privato in cui sia dedotta una prestazione di telelavoro ai quali, in ragione della mancata affiliazione sindacale del datore di lavoro, non fossero applicabili le regole stabilite dalla contrattazione collettiva (di diritto comune) [169], che in detto settore privato costituisce l’unica disciplina di riferimento.
Ci si potrebbe tuttavia chiedere se l’ampia gamma di lavoratori subordinati a distanza di cui all’art. 3, comma 10, si riferisca invece proprio ad una categoria concettuale più vasta dei telelavoratori in senso stretto, ricomprendendo, oltre a questi ultimi, anche tutti quei lavoratori la cui prestazione si avvalga prevalentemente di ICT e si svolga normalmente in un luogo non coincidente con la sede principale (di lavoro) del datore di lavoro, che sia tuttavia identificabile come autonoma unità produttiva (secondo l’accezione accolta dall’art. 2, comma 1, lett. t, del d.lgs. n. 81 del 2008 [170]). Si pensi ai lavoratori subordinati che operano in uno dei tanti call center (remoti) di un’impresa che svolge come attività principale quella di “call center” per conto di altre imprese, ove quel dato call center, per la presenza dei requisiti di legge, sia identificabile come unità produttiva di quella impresa; o si pensi, ancora, ai lavoratori subordinati di un’impresa alimentare (che quindi non svolge come attività principale quella di “call center”) che effettuano indagini di mercato sull’attività dell’impresa collocati in un call center (remoto) di tale impresa anch’esso identificabile come unità produttiva: lavoratori, in entrambi i casi, non qualificabili tecnicamente come telelavoratori in senso proprio [171]. Se si tiene conto del modestissimo sviluppo in Italia del telelavoro in senso stretto e, invece, della ampia diffusione di queste particolari forme di lavoro a distanza (spesso purtroppo ricondotte impropriamente al di fuori dell’alveo della subordinazione), potrebbe essere opportuno ipotizzare che le finalità protettive dell’art. 3, comma 10, si estendano anche a queste fattispecie. Tuttavia, a ben guardare, il contenuto della norma sembra invece ritagliato essenzialmente sulle peculiarità del telelavoro stricto sensu (nelle sue svariate versioni logistiche, compresa quella domiciliare), laddove per i lavoratori a distanza “non telelavoratori” dovranno valere tutte le regole di tutela generali.
Per altro verso, il riferimento dell’art. 3, comma 10, ad una “prestazione continuativa” di lavoro a distanza potrebbe invece indurre ad escludere dall’ambito della disciplina le ipotesi di lavoro a distanza (rectius, di telelavoro) svolte “in alternanza”. In ragione della ratio della disposizione – finalizzata a “portare” tutela là dove normalmente non c’è – sembra tuttavia corretto interpretare la previsione della continuità in senso elastico, facendo rientrare nell’art. 3, comma 10, tutte le ipotesi di telelavoro non meramente occasionale, a prescindere dal fatto che esso sia svolto, come è del resto consentito espressamente [172], anche in forma alternata.
In conclusione, può dunque sostenersi che l’ampiezza dell’art. 3, comma 10, pur non riguardando forme di lavoro a distanza non costituenti “telelavoro”, sia da intendere in senso dinamico, tale cioè da consentire di “ospitare” in futuro ulteriori tipologie di telelavoro attualmente non ancora contemplate nell’ordinamento. In realtà, data la vocazione unificante del decreto e la sua tendenziale prospettiva di medio-lungo periodo, questo metodo dinamico di regolazione avrebbe potuto essere utilizzato anche per altre fattispecie, evitando di limitare la tutela soltanto al “contingente” dell’oggi.
Un’ultimissima notazione sul campo di applicazione dell’art. 3, comma 10, va fatta a proposito dei telelavoratori “a domicilio”, potendocisi chiedere se la norma – che riguarda senz’altro i telelavoratori a domicilio inquadrabili come lavoratori subordinati ex art. 2094 c.c. [173] – sia applicabile anche ai telelavoratori a domicilio inquadrabili (non sembri un bisticcio di parole) come lavoratori “a domicilio” ex l. n. 877 del 1973 [174]. Sebbene il lavoro a domicilio ex l. n. 877 del 1973 costituisca pur sempre lavoro subordinato (ancorché speciale), si tratta di una fattispecie che il d.lgs. n. 81 del 2008 disciplina in un’apposita disposizione (art. 3, comma 9) rispetto alla quale l’art. 3, comma 10, non sembra però rivestire carattere speciale.
Occorre precisare che, in quanto riconducibile nello schema del lavoro subordinato, il telelavoro poteva già ritenersi assoggettato alle disposizioni in tema di salute e sicurezza di cui al d.lgs. n. 626 del 1994 (almeno in relazione all’uso dei videoterminali), né deve trascurarsi che, nel settore pubblico, esso ha ricevuto una disciplina in via legislativa, regolamentare e contrattuale [175], quest’ultima in funzione di adeguamento della disciplina generale [176]. A tale proposito merita ricordare come, nel caso di telelavoro domiciliare – effettuabile solo ove sia disponibile un ambiente di cui l’amministrazione abbia preventivamente verificato la conformità alle norme generali di prevenzione e sicurezza nelle utenze domestiche [177] – il telelavoratore pubblico dipendente debba attenersi strettamente alle norme di sicurezza vigenti, dovendo altresì consentire, con modalità concordate, l’accesso alle attrezzature in uso da parte dei manutentori nonché del responsabile della prevenzione e della protezione e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per la verifica della corretta applicazione delle norme di sicurezza [178]. Anche la disciplina, soltanto negoziale, del settore privato [179] ha previsto un diritto di accesso del datore di lavoro, delle rappresentanze dei lavoratori e delle autorità competenti nel luogo di telelavoro e, ove questo sia il domicilio del lavoratore, subordinando l’accesso al preavviso ed al consenso del lavoratore, il quale ha inoltre il diritto di chiedere ispezioni e di essere informato sulle politiche aziendali in tema di sicurezza, con particolare riferimento all’esposizione al video [180].
L’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81 del 2008 prevede ora esplicitamente che ai telelavoratori subordinati si applichino le disposizioni di cui al Titolo VII (attrezzature munite di videoterminali: artt. 172-179), indipendentemente dall’ambito in cui si svolge la prestazione stessa (e, quindi, anche nel caso di telelavoro svolto in centri remoti ecc.). Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo IX (evidentemente con particolare riferimento al Capo IV contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dai campi elettromagnetici). I telelavoratori – che il legislatore delegato si ostina a definire “lavoratori a distanza” nonostante le precisazioni intervenute da tempo nell’ordinamento [181] – sono informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali ed applicano correttamente le direttive aziendali di sicurezza. La discutibile mancanza di un’esplicita previsione dell’obbligo di formazione pare peraltro agevolmente superabile sulla scorta delle previsioni generali dell’art. 15, comma 1, lett. n, dell’art. 18, comma 1, lett. l, e dell’art. 37, nonché di quella specifica di cui all’art. 177, in base alla quale il datore di lavoro, da un lato, fornisce ai lavoratori informazioni, in particolare per quanto riguarda le misure applicabili al posto di lavoro (in base all’analisi dello stesso di cui all’art. 174), le modalità di svolgimento dell’attività e la protezione degli occhi e della vista e, dall’altro lato, assicura una formazione adeguata in particolare per quanto concerne le misure applicabili al posto di lavoro. Inoltre, recependosi le indicazioni già presenti nell’ordinamento [182], si stabilisce che, al fine di verificare che il telelavoratore attui correttamente la normativa in materia di tutela della salute e sicurezza, il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti abbiano accesso al luogo in cui viene svolto il lavoro nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, dovendo tale accesso essere ovviamente subordinato al preavviso ed al consenso del lavoratore qualora la prestazione sia svolta presso il suo domicilio. Lo stesso telelavoratore può peraltro chiedere ispezioni. Infine, accogliendosi una nozione ampia di salute e sicurezza, si prevede che il datore di lavoro garantisca l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, permettendogli di incontrarsi con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda, nel rispetto di regolamenti o accordi aziendali.
La riproposizione di principi già presenti nell’ordinamento non deve indurre a considerare superflua la nuova norma: non si deve infatti sottovalutare che, al di fuori del settore pubblico, le tutele che essa ora prevede per legge potevano essere precedentemente enucleabili solo in via interpretativa e, quand’anche risultassero dalla contrattazione collettiva, potevano scontare la ben nota difficoltà di applicazione dovuta alla limitata efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune.
L’apprezzamento per la nuova disposizione non può tuttavia celare un certo disappunto per la mancata menzione di un’ulteriore “categoria” di telelavoratori che, come tempestivamente segnalato, rischia di essere piuttosto folta: quella dei telelavoratori parasubordinati [183]. C’è infatti da chiedersi se nei loro confronti esista una disciplina applicabile in materia di salute e sicurezza, stante la combinazione tra la limitata previsione dell’art. 3, comma 10 (applicabile al solo lavoro subordinato) e quella dell’art. 3, comma 7, che, applicando la normativa di tutela ai lavoratori parasubordinati solo se la prestazione lavorativa si svolga nei “luoghi di lavoro del committente” [184], non può ontologicamente riguardare i telelavoratori intesi in senso proprio [185].
Nell’attesa che il già auspicato intervento correttivo [186] in materia di lavoro parasubordinato “esterno” possa fornire risposta anche a questo problema, si può nel frattempo rilevare come, nel settore privato – nel cui ambito il telelavoratore parasubordinato deve essere “a progetto” – si potrebbe fare almeno appello, come già rilevato, alle “eventuali misure” da indicare nel contratto ex art. 62, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 276 del 2003. Tale norma non sarebbe invece invocabile nel settore pubblico, nel quale le collaborazioni parasubordinate non sono disciplinate dal d.lgs. n. 276 del 2003 e la disciplina legislativa, regolamentare e contrattuale del telelavoro si riferisce esclusivamente ai telelavoratori subordinati. In ogni caso, la mancata menzione dei telavoratori parasubordinati (privati e pubblici) nell’art. 3, comma 10, potrebbe forse essere “compensata”, almeno per quanto riguarda gli standard di tutela “di base”, dalla loro possibile ricomprensione nel Titolo VII sui videoterminali, che, nonostante l’assenza di un esplicito raccordo, sembrerebbe comunque applicabile alla fattispecie de qua grazie sia alle sue norme di vasta portata sia alla ampia nozione di lavoratore accolta nel d.lgs. n. 81 del 2008. Può infatti osservarsi che l’art. 172 dispone genericamente l’applicazione del Titolo VII alle attività lavorative che comportano l’uso di attrezzature munite di videoterminali [187] e che l’art. 173, ai fini del Titolo VII, definisce il lavoratore come colui che utilizza un’attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni di cui all’art. 175. Orbene, raccordando queste norme appunto con la ampia definizione di “lavoratore” accolta nell’art. 2, comma 1, lett. a, non sembra peregrino sostenere che il telelavoratore parasubordinato – ancorché “escluso” dalla tutela generale del Titolo I (ex art. 3, comma 7) e da quella più particolare dei telelavoratori subordinati (ex art. 3, comma 10) – sia comunque destinatario (ricorrendone i presupposti) almeno della tutela speciale dei videoterminalisti di cui al Titolo VII [188]. È evidente che tutto dipende da come si interpreta il complesso intreccio qui esistente tra norme generali e speciali, potendocisi a tal fine avvalere anche del criterio ermeneutico insito nella definizione di lavoratore.
È infine evidente che nel caso di telelavoratori autonomi ex art. 2222 c.c., troveranno applicazione le previsioni dell’art. 21.


6.2.3.4. Lavoro stagionale, lavoro domestico
Infine, l’art. 3, comma 13, dedica una previsione ai lavoratori stagionali in agricoltura. In considerazione della specificità dell’attività esercitata dalle imprese medie e piccole operanti nel settore agricolo, il Ministro del lavoro, di concerto con quelli della salute e delle politiche agricole, alimentari e forestali, entro 90 giorni dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008, nel rispetto dei livelli generali di tutela di cui alla normativa in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, e limitatamente alle imprese che impiegano lavoratori stagionali ciascuno dei quali non superi le 50 giornate lavorative e per un numero complessivo di lavoratori compatibile con gli ordinamenti colturali aziendali, provvede ad emanare disposizioni per semplificare gli adempimenti relativi all’informazione, formazione e sorveglianza sanitaria previsti dal medesimo d.lgs. n. 81 del 2008, sentite le organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative del settore sul piano nazionale. Si prevede inoltre che i contratti collettivi stipulati dalle predette organizzazioni definiscano specifiche modalità di attuazione delle previsioni del d.lgs. n. 81 del 2008 concernenti il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza qualora le imprese utilizzino esclusivamente la predetta tipologia di lavoratori stagionali.
Un’ultima osservazione riguarda le esclusioni e, in particolare, il lavoro domestico. Ci si può infatti interrogare se, nella prospettiva inclusiva della delega e tenendo conto della particolare e spesso disordinata diffusione delle varie tipologie di lavoro domestico (si pensi alla espansione del fenomeno delle cosiddette badanti), abbia pieno fondamento l’esplicita esclusione di cui all’art. 2, comma 1, lett. a, primo periodo (addetti ai servizi domestici e familiari) [189], che, sulla scorta di quanto sancito nella direttiva n. 89/391/CEE, ricalca l’art. 2, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 626 del 1994. Fra l’altro non deve dimenticarsi che, sotto l’egida del d.lgs. n. 626 del 1994, l’esplicita esclusione prevista da tale decreto era pur sempre compensata dalla sussistenza delle norme protettive pregresse, contenute in particolare nel d.P.R. n. 547 del 1955 [190], il quale tuttavia ora è stato esplicitamente ed integralmente abrogato dall’art. 304, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 81 del 2008. D’altro canto, proprio in considerazione dell’alto tasso di provenienza delle lavoratrici domestiche da paesi stranieri, la completa esclusione di qualsiasi protezione potrebbe porsi in contrasto con quanto previsto dalla delega a proposito della considerazione delle differenze di genere e della tutela dei lavoratori immigrati.


6.2.3.5. Il computo dei lavoratori
L’analisi del campo di applicazione soggettivo del nuovo decreto non può dirsi completa – beninteso nei ridotti limiti di questa prima indagine – senza prendere in esame l’art. 4, che individua le fattispecie contrattuali lavorative non computabili là dove alcune norme del decreto condizionano la propria applicabilità al numero di lavoratori [191].
È appena il caso di precisare che i criteri del computo dell’organico aziendale costituiscono cosa diversa dal campo di applicazione, nel quale ben possono rientrare anche lavoratori non computabili senza per questo perdere le tutele previste. Certo è vero che più si “riduce” l’organico aziendale da assumere come parametro di applicazione di certe norme più si riduce nei fatti l’applicabilità (soltanto) di tali norme [192].
Senonché, il notevole ampliamento, nell’art. 4 del d.lgs. n. 81 del 2008, del numero delle fattispecie lavorative non computabili, rispetto a quanto prevedeva il d.lgs. n. 626 del 1994 [193], sembra compensato dall’applicabilità del decreto al di là dei confini del lavoro subordinato. Più in particolare, grazie ancora una volta all’ampia definizione di “lavoratore” accolta nel decreto, i lavoratori da computare non sono soltanto subordinati; soprattutto, va rilevato come sia proprio il concetto di “lavoratore” a diventare decisivo in relazione al campo di applicazione di certe norme poiché, diversamente da quanto accadeva con il d.lgs. n. 626 del 1994, il numero da calcolare riguarda i “lavoratori” e non più solo i “dipendenti” [194].
Più in dettaglio, tra i lavoratori non computabili figurano, oltre ai collaboratori familiari di cui all’art. 230-bis c.c., i tirocinanti ex art. 18 della l. n. 196 del 1997 (o ex specifiche leggi regionali), laddove il d.lgs. n. 626 del 1994 computava gli utenti dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria e professionale avviati presso datori di lavoro per agevolare o per perfezionare le loro scelte professionali. La scelta del legislatore del 2008 pare oculata innanzitutto perché i tirocini formativi e di orientamento non costituiscono alcun tipo di rapporto di lavoro [195] ed hanno oltretutto una durata variabile (talora assai breve), fermo restando che non possono attivarsene più di un certo numero in relazione alla dimensione dell’azienda ospitante [196].
Quanto agli altri soggetti non computabili, gli allievi degli istituti di istruzione e universitari e i partecipanti ai corsi di formazione professionale [197] erano già esclusi dal computo nel d.lgs. n. 626 del 1994. Più che plausibile appare la non computabilità dei lavoratori assunti a termine ex d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, dal momento che ricoprono temporaneamente un posto già computato nell’organico aziendale. Ci si può chiedere se, tra i lavoratori a tempo determinato (non computabili) che sostituiscono altri lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro rientrino anche i lavoratori utilizzati mediante somministrazione di lavoro a tempo determinato per esigenze sostitutive. Come si vedrà tra breve, l’art. 4, comma 2, comprende i lavoratori somministrati tra quelli computabili (ancorché sulla base del numero di ore di lavoro prestato nell’arco di un semestre) richiamando l’art. 20 del d.lgs. n. 276 del 2003, il cui comma 4 si riferisce anche alla somministrazione per esigenze sostitutive. Se, tuttavia, la ratio della computabilità va rintracciata nella identificazione dell’organico aziendale con il quale il datore di lavoro svolge normalmente la propria attività, nel quale il “posto” del lavoratore assente è già computato, si potrebbe fondatamente ipotizzare che il lavoratore somministrato che temporaneamente lo sostituisce non debba essere computato.
Analoga plausibilità rivestono le previsioni relative: ai lavoratori che svolgono prestazioni occasionali di tipo accessorio ex art. 70 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003, nonché prestazioni che esulano dal mercato del lavoro ex art. 74 del medesimo decreto; ai volontari ex l. n. 266 del 1991; ai volontari del Corpo dei vigili del fuoco e della Protezione civile; ai volontari che effettuano il servizio civile; ai lavoratori socialmente utili.
Non computabili risultano anche i lavoratori autonomi ex art. 2222 c.c., ma ciò non significa che tutta l’area del lavoro autonomo non sia calcolabile, come dimostra il fatto che invece i lavoratori parasubordinati (sia a progetto sia co.co.co.) si computano senz’altro ove la loro prestazione sia resa a favore del committente con carattere di esclusività. In tal modo, ai fini della configurazione dell’organico aziendale nell’ambito della disciplina della sicurezza del lavoro, si attribuisce una importanza decisiva anche al concetto di dipendenza socio-economica ove si coniughi con un inserimento esclusivo nell’organizzazione produttiva. Lo stesso criterio dell’esclusività vale anche nel caso dei lavoratori a domicilio ex l. n. 877 del 1973. C’è da chiedersi se debbano ritenersi computabili anche le collaborazioni coordinate e continuative a carattere occasionale di cui all’art. 61, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, ove abbiano carattere di esclusività, le quali, come già rilevato, sembrano ora rientrare nella disciplina protettiva del d.lgs. n. 81 del 2008 ex art. 3, comma 7. L’assoggettabilità di tali rapporti alle tutele prevenzionistiche non deve tuttavia far dimenticare che, trattandosi di rapporti di breve durata (complessivamente non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente), difficilmente possono essere assunti come elementi alla stregua dei quali identificare la dimensione occupazionale: nonostante il silenzio della legge, tali rapporti dovrebbero rilevare (come accade esplicitamente nel caso della somministrazione) in base al numero delle ore di lavoro effettivamente prestato (si pensi al datore di lavoro che, sempre mediante questa tipologia negoziale, si avvalga durante l’anno di dodici diversi lavoratori, esattamente uno per ogni trenta giorni, computabili come un’unica unità lavorativa). Qualche dubbio potrebbe porsi in merito all’accertamento dell’esclusività dello svolgimento dell’attività del collaboratore a favore del committente [198]. Potendosi ritenere che spetti al datore di lavoro fornire la prova della dimensione occupazionale della propria azienda, a lui spetterà dimostrare che il lavoratore parasubordinato non si trova in posizione di esclusività, essendo a tal fine rilevante non già l’astratta previsione del contratto, bensì la effettiva situazione reale. Per altro verso, non può escludersi che, al fine di contenere la soglia dimensionale, nel prossimo futuro possano proliferare contratti caratterizzati dalla non esclusività, ponendosi un problema di accertamento della genuinità della relativa pluricommittenza.
Sempre per quanto attiene al computo dei lavoratori parasubordinati, è assai dubbio che – nel silenzio dell’art. 4, comma 1, lett. l – occorra far leva, oltre che sul criterio della esclusività del rapporto, anche sul fatto che la prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente (richiesto dall’art. 3, comma 7, ai fini dell’applicazione della tutela) [199]. A ben guardare, esclusività ed effettuazione della prestazione in loco costituiscono due criteri distinti, assunti dal legislatore a fini diversi e che non debbono necessariamente cumularsi: ne è prova il fatto che, per l’applicabilità della tutela del d.lgs. n. 81 del 2008, l’art. 3, comma 7, non richiede che la prestazione sia resa esclusivamente a favore del committente. Come già anticipato, pur intersecandosi, i profili della dimensione aziendale e della tutela applicabile restano comunque distinti: d’altronde, nel d.lgs. n. 81 del 2008 coesistono ipotesi in cui “lavoratori” non computabili sono pienamente assoggettati alla disciplina di tutela (lavoratori assunti a termine per ragioni sostitutive; tirocinanti, volontari ecc.) con altre in cui “lavoratori” computabili godono di tutele soltanto parziali (lavoratori a domicilio) o davvero minimali (lavoratori parasubordinati non in loco, i quali, come già detto, potrebbero eventualmente invocare le tutele sulle attrezzature, ove fornite dal committente, e casomai esercitare le facoltà di cui all’art. 21, comma 2, riconosciute ai lavoratori autonomi). Se, come pare, la ratio della computabilità sottesa all’art. 4 consiste essenzialmente nell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva di cui il datore di lavoro si avvalga non marginalmente per il perseguimento dei propri scopi economici o istituzionali, meritano di essere computati anche quei lavoratori che godono solo in parte della tutela in ragione delle modalità di svolgimento della prestazione. Anzi, proprio la loro computabilità può consentire a tali soggetti di trarre indirettamente beneficio dall’applicazione di quelle norme la cui operatività è condizionata al numero dei lavoratori: si pensi, ad esempio, alla riunione periodica, nella quale non potrebbero essere ignorati i problemi di quei lavoratori.
Confermando quanto previsto dall’art. 22, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003, si prevede la computabilità, nell’organico dell’utilizzatore, dei lavoratori utilizzati mediante somministrazione di lavoro, anche se, differentemente da quanto previsto nella norma del 2003, il computo avviene sulla base del numero di ore di lavoro effettivamente prestato nell’arco di un semestre. Identico criterio vale per i lavoratori assunti a tempo parziale ex d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61. Sia nel caso della somministrazione sia in quello del part-time si dovranno quindi calcolare tutte le ore svolte nel semestre (considerando, nel caso del part-time, anche quelle di lavoro supplementare e di lavoro prestato in virtù di clausole elastiche: circ. Min. lav. n. 9 del 2004) rapportandole al tempo pieno svolto normalmente dai lavoratori dell’impresa ed arrotondando ad unità intere le frazioni di orario eccedenti che superino la metà dell’orario di lavoro a tempo pieno [200].
In base al comma 3 dell’art. 4, nell’ambito delle attività stagionali definite dal d.P.R. 7 ottobre 1963, n. 1525, nonché di quelle individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, il personale in forza si computa a prescindere dalla durata del contratto e dall’orario di lavoro effettuato. Tuttavia, il comma 4 prevede che il numero dei lavoratori impiegati per l’intensificazione dell’attività in determinati periodi dell’anno nel settore agricolo e nell’ambito di attività diverse da quelle indicate nel comma 3 corrispondono a frazioni di unità-lavorative-anno (ULA) come individuate sulla base della normativa comunitaria.
Stante la tassatività dell’elenco dell’art. 4, tutti i lavoratori ivi non menzionati rientreranno nel computo dell’organico aziendale. Sembra da ritenere che debba trattarsi comunque di “lavoratori” intesi ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a, dovendosi quindi escludere coloro che tali non siano, come i lavoratori domestici. Dovranno quindi ricomprendersi, innanzitutto, tutti i lavoratori subordinati anche con rapporto speciale di lavoro: dirigenti; apprendisti; lavoratori con contratto di inserimento; job sharers, computabili come una sola unità; lavoratori intermittenti già assunti come tali al 31 dicembre 2007 (il cui contratto sopravvive, fino alla sua scadenza o estinzione, all’abrogazione degli artt. 33-40 del d.lgs. n. 276 del 2003 da parte dell’art. 1, comma 45, della l. 24 dicembre 2007, n. 247) e “futuri” lavoratori intermittenti ai sensi dell’art. 1, comma 47, della stessa l. n. 247 del 2007, presumibilmente computabili in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre (circ. Min. lav. n. 4 del 2005); i lavoratori distaccati, che, stante la previsione dell’art. 3, comma 6, e in analogia a quanto previsto per la somministrazione, dovrebbero essere computati nell’organico del distaccatario. Dovranno inoltre ricomprendersi i soci lavoratori di cooperativa (con rapporto di lavoro subordinato o autonomo) e di società, anche di fatto, che prestino la propria attività per conto delle società e dell’ente stesso, nonché gli associati in partecipazione di cui all’art. 2549 c.c. [201]. Sebbene alcuni di questi ultimi lavoratori non siano subordinati (i soci di cooperativa di cui all’art. 1, comma 3, della l. 3 aprile 2001, n. 142; non pochi soci di società; gli associati in partecipazione), non sembra che possano ricomprendersi nella generica categoria dei lavoratori autonomi di cui all’art. 2222 c.c. che l’art. 4, comma 1, lett. i, considera non computabili, trattandosi di lavoratori autonomi il cui rapporto risulta tipizzato da specifiche norme.
Quanto all’individuazione dell’arco temporale entro il quale va verificata la dimensione occupazionale, su cui il legislatore delegato tace, sembra eccessivo richiedere che il dato occupazionale vada riferito all’esatto momento in cui viene in gioco l’applicazione della norma subordinata a tale dato. Pare invece preferibile fare appello al criterio, del resto già noto nell’ordinamento, del dato medio della consistenza numerica in un periodo di tempo anteriore all’adempimento in relazione al quale rileva il numero di lavoratori. D’altro canto, tale criterio sembra in grado di razionalizzare il tenore letterale, tutt’altro che univoco, delle varie norme de quibus, in cui talora figura l’espressione “che occupano” (apparentemente connessa a quel preciso momento storico) e talaltra compaiono espressioni assai più generiche come “con più di”, “fino a”, “con oltre” tot lavoratori. Non è peraltro chiaro se tale periodo di tempo debba corrispondere all’anno (come normalmente avviene e come sembrerebbe plausibile) o al semestre (che il legislatore richiama espressamente per la somministrazione ed il part-time), potendosi per il momento assumere quest’ultimo dato nell’attesa di chiarimenti [202], che potrebbero magari provenire dalla Commissione per gli interpelli.
Un’ultimissima questione attiene al mancato coordinamento tra quanto previsto nel Titolo I del d.lgs. n. 81 del 2008 ed alcuni suoi Allegati, nei quali, presumibilmente per la fretta con cui sono stati assemblati nelle concitate fasi che hanno caratterizzato la fine anticipata della XV legislatura, l’applicazione di determinate discipline, invece di dipendere dal numero dei “lavoratori”, continua ad essere condizionata dal numero dei “dipendenti” o degli “addetti” (v. l’Allegato II, o i punti 1.11.2.1. e 5.1. dell’Allegato IV). Sebbene, in linea generale, tali termini dovrebbero essere intesi come sinonimi di “lavoratori” ai sensi degli artt. 2 e 4 del d.lgs. n. 81 del 2008, non ci si può nascondere che, ove alle previsioni degli allegati siano connesse sanzioni penali, tale sinonimia potrebbe essere tecnicamente plausibile solo nel caso degli “addetti” (termine in sé assai generico), risultando invece difficilmente proponibile a fronte della parola “dipendenti”, giuridicamente ben più significativa. Di qui l’esigenza di una correzione, mediante la decretazione delegata di cui all’art. 1, comma 6, della l. n. 123 del 2007, che restituisca al testo la necessaria omogeneità.



1 E. Nolte, Il passato che non vuole passare, in G.E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa, Einaudi, Torino, 1987, p. 8.
2 Il riferimento è ovviamente a E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano, 1999 (tit. orig. Age of Extremes - The Short Twentieth Century 1914-1991, Pantheon Books - Random House, New York, 1994).


3 In GU n. 101 del 30 aprile 2008, suppl. ord. n. 108/L.


4 Come osservato puntualmente da C. Smuraglia, Quadro normativo ed esperienze attuative in tema di sicurezza e igiene del lavoro: nuove prospettive di coordinamento e di interventi urgenti, in RGL, 2007, supplemento al n. 2, p. 5 ss., qui pp. 15-16. Cfr. altresì A. Bellavista, Le politiche statali di emersione del lavoro nero: strumenti e tecniche, in V. Pinto (a cura di), Le politiche pubbliche di contrasto al lavoro irregolare, Cacucci, Bari, 2007, p. 15 ss.; Id., Al di là del lavoro sommerso, in RGL, 2008, I, p. 9 ss.; F. Scarpelli, Il contrasto al lavoro irregolare, tra sanzioni e regole di responsabilità, ivi, p. 59 ss.; V. Pinto, Sanzioni promozionali e indici di congruità nelle politiche di contrasto al lavoro irregolare, ivi, p. 25 ss.; L. Zoppoli, Unione europea e lavoro sommerso: nuove attenzioni e vecchie contraddizioni, ivi, p. 81 ss.

5 Cfr. F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza: la nuova delega con qualche succosa anticipazione, in ADL, 2008, I, p. 343 ss., qui p. 344, nonché in F. Bacchini (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123. Commentario alla sicurezza del lavoro. Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia, Ipsoa-Indicitalia, (senza luogo, ma Milano), 2008, p. XI ss., il quale sottolinea altresì il nesso esistente tra lavoro sommerso e immigrazione clandestina.

6 P. Tullini, Sicurezza e regolarità del lavoro negli appalti, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, Atti del convegno di studi giuridici sul disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2007 (Urbino, 4 maggio 2007), Ministero della salute-Ispesl, Roma, 2007, p. 95 ss., nonché in ADL, 2007, p. 890 ss.; P. Pascucci, La sicurezza del lavoro nella XV Legislatura, in M. Cinelli e G. Ferraro (a cura di), Lavoro, competitività, welfare. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247 e riforme correlate, Utet, Torino, 2008. p. 431 ss.

7 P. Pascucci, Fondamenti della competenza in materia di vigilanza sulla sicurezza del lavoro in attesa del T.U., in LG, 2008, p. 249 ss.

8 Cons. Stato (parere), 4 aprile 2005, in www.fmb.unimo.it., su cui cfr. M. Ricci, Sicurezza sul lavoro e responsabilità sociale d’impresa, in D. Garofalo, M. Ricci (a cura di), Percorsi di diritto del lavoro, Cacucci, Bari, 2006, p. 455 ss., qui p. 468; L. Fantini, Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla salute e sicurezza nell’attuale assetto costituzionale, in DRI, 2005, p. 880 ss. Fra la previsione dell’art. 24 della l. n. 833 del 1978 e l’art. 3 della l. n. 229 del 2003 si sono registrati ulteriori tentativi di unificazione normativa: ci si riferisce al disegno di legge “Toth, Lama e altri” n. 2154 del 1990, all’art. 8 della l. delega 22 febbraio 1994, n. 146 (con successiva ipotesi di riordino predisposta da una Commissione ministeriale istituita con d.m. 23 luglio 1996 e presieduta da Marco Biagi, sui cui lavori si veda Per un Testo Unico in tema di sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, in DRI, 1998, p. 77 ss.), al disegno di legge “Smuraglia” n. 2389 del 1999. Sulla delega di cui all’art. 3 della l. n. 229 del 2003 cfr. L. Montuschi, Aspettando la riforma: riflessioni sulla legge n. 229 del 2003 per il riassetto in materia di sicurezza sul lavoro, in ADL, 2004, p. 749 ss.; O. Bonardi, La sicurezza del lavoro nella Comunità europea, nella Costituzione e nella legge di semplificazione n. 229/03, in RGL, 2004, p. 437 ss.; M. Lai, Il nuovo «codice» sulla sicurezza del lavoro: spunti di riflessione, in DRI, 2003, p. 200 ss.; Id., Prospettive di riforma nello schema di Testo unico, in DPL, 2005, p. 137 ss. Per una ricostruzione dei diversi tentativi (e progetti) di testo unico, cfr. M. Lai, Flessibilità e diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2006, p. 231 ss.

9 Cfr. F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 343. Sui principi della delega e sulle norme direttamente applicabili, oltre a F. Carinci, op. ult. cit., cfr. G. Natullo, Presupposti e finalità della l. n. 123/2007 tra riordino (delega) e rimedi immediati, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro. Appendice di aggiornamento alla legge 3 agosto 2007, n. 123, in F. Carinci (dir.), Diritto del lavoro – Commentario, VIII, Utet, Torino, 2008, p. 1 ss.; V. Speziale, La nuova legge sulla sicurezza del lavoro, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT - 60/2007; M. Lai, T.U. sulla sicurezza: principi e criteri direttivi della delega, in DPL, 2007, p. 768 ss.; F. Corso, La delega in materia di sicurezza sul lavoro nella l. 123/07: vecchi problemi e nuove esigenze, in DLM, 2007, n. 2; S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, Commento all’art. 1, in F. Bacchini (a cura di), Legge 3 agosto 2007, n. 123, cit., p. 3 ss., qui p. 14 ss.

10 Cfr. O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega per l’emanazione di un Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, in RGL, 2007, supplemento al n. 2, p. 23 ss., qui p. 33, la quale, con riferimento al disegno di legge da cui è scaturita la l. n. 123 del 2007, avvertiva come una normazione anticipata rispetto alla riforma complessiva esponesse “ai rischi della duplicazione di interventi e dell’emanazione nel giro di breve tempo di norme tra loro contraddittorie o in ogni caso da dover poi nuovamente coordinare tra loro”, rischiandosi di riprodurre “prima ancora dell’emanazione del testo unico, lo stesso difetto della stratificazione normativa che pure si vuole eliminare”. Cfr. Anche F. Basenghi, La legge delega e le norme immediatamente precettive, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Commentario al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Giuffrè, Milano, p. 47 ss., qui p. 49.

11 G. Natullo, Presupposti e finalità della l. n. 123/2007, cit., p. 3.

12 Mediante delega e mediante le norme di diretta efficacia.

13 È quanto è avvenuto, ad esempio, in tema di appalti (art. 1, comma 2, lett. s, e art. 3, comma 1, lett. a e b), di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (art. 1, comma 2, lett. g, e art. 3, comma 1, lett. c, d, e, f), di organismi paritetici (art. 1, comma 2, lett. h, e art. 7).

14 S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 16.

15 È il caso della previsione (su cui si tornerà) di cui all’art. 7 della l. n. 123 del 2007 che aveva discutibilmente attribuito agli organismi paritetici un potere di effettuare sopralluoghi che, per certi versi, avvicinava tali organismi a quelli istituzionalmente preposti alla vigilanza: tale previsione è stata opportunamente modificata dall’art. 51 del d.lgs. n. 81 del 2008.

16 S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 16.

17 Nel caso appena citato, possono richiamarsi i criteri di cui all’art. 1, comma 2, lett. q, e lett. f, n. 6.

18 Cfr. P. Soprani, Il “TU sicurezza”: novità, obblighi, responsabilità, sanzioni, in F. Bacchini (a cura di), Speciale Testo Unico sicurezza del lavoro, in ISL, 2008, p. 237 ss., qui p. 238.

19 Secondo O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 27, nella delega si coglie “l’intento di voler lasciare al legislatore delegato discreti margini di manovra”.

20 Questi, in estrema sintesi, sulla scorta delle indicazioni contenute nella relazione illustrativa del provvedimento, sono i contenuti dei Titoli II-XI (che, come anticipato nel testo, prevedono nuovi apparati sanzionatori):

- Titolo II (luoghi di lavoro: artt. 62-68): in attuazione della direttiva 89/654/CEE, sulla scorta delle disposizioni contenute nell’omologo Titolo del d.lgs. n. 626 del 1994 e di alcune disposizioni contenute nel d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, si ridefiniscono i “luoghi di lavoro”, prevedendosi i relativi requisiti di salute e sicurezza ed i connessi obblighi del datore di lavoro.

- Titolo III (uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale: artt. 69-87): si ripropongono le disposizioni del Titolo III del d.lgs. n. 626 del 1994 (che ha recepito la direttiva 89/655/CEE), nonché alcune disposizioni di cui al d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547; si ribadiscono le norme del Titolo IV del d.lgs. n. 626 del 1994 (attuativo della direttiva 89/656/CEE); infine, mediante previsioni derivanti da disposizioni scaturenti dal d.P.R. n. 547 del 1955, nonché dalle normative di buona tecnica esistenti, si stabiliscono le misure necessarie affinché i materiali, le apparecchiature e gli impianti elettrici messi a disposizione dei lavoratori siano progettati, costruiti, installati, utilizzati e mantenuti in modo da salvaguardare i lavoratori da tutti i rischi di natura elettrica.

- Titolo IV (cantieri temporanei o mobili: artt. 88-160): si prevedono le misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili mediante disposizioni derivanti dal d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494 (con cui è stata recepita la direttiva 92/57/CEE) e da una serie di allegati al citato decreto legislativo e dal d.P.R. 3 luglio 2003, n. 222 (regolamento sui contenuti minimi dei piani di sicurezza nei cantieri temporanei o mobili, in attuazione dell’art. 31, comma 1, della legge 11 febbraio 1994, n. 109); si stabiliscono le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota tramite un articolato parzialmente derivante dal d.P.R. n. 547 del 1955, dal d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, dal d.lgs. n. 494 del 1996, dal d.lgs. n. 626 del 1994 e dal d.lgs. 8 luglio 2003, n. 235 ed una serie di allegati derivanti dai decreti del Ministero del lavoro del 2 settembre 1968, 23 marzo 1990, n. 115, 27 marzo 1998, 23 marzo 2000, 6 agosto 2004, oltre che dagli accordi Stato-Regioni del 26 gennaio 2006 e 16 marzo 2006 e dalle circolari del Ministero del lavoro n. 46 del 2000 e n. 25 del 2006.

- Titolo V (segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro: artt. 161-166): si stabiliscono le prescrizioni per la segnaletica di salute e sicurezza sul luogo di lavoro confermando le disposizioni del d.lgs. 14 agosto 1996, n. 493 (attuativo della direttiva 92/58/CEE).

- Titolo VI (movimentazione manuale dei carichi: artt. 167-171): si confermano le norme del Titolo V del d.lgs. n. 626 del 1994 (che ha recepito la direttiva 90/269/CEE).

- Titolo VII (attrezzature munite di videoterminali: artt. 172-179): le previsioni corrispondono a quelle contenute nel Titolo VI del d.lgs. n. 626 del 1994 (che ha recepito la direttiva 90/270/CEE).

- Titolo VIII (agenti fisici: artt. 180-220): nel Capo I sono previste disposizioni di carattere generale che trovano applicazione nei confronti di tutti gli agenti fisici, con riferimento anche alla valutazione dei rischi, all’eliminazione o riduzione dei rischi, all’informazione e formazione dei lavoratori e alla sorveglianza sanitaria; il Capo II ripropone il Titolo V-bis del d.lgs. n. 626 del 1994 (attuativo della direttiva 2003/10/CE) e determina i requisiti minimi per la protezione dei lavoratori contro i rischi per la salute e la sicurezza derivanti dall’esposizione al rumore durante il lavoro e, in particolare, per l’udito; il Capo III introduce le disposizioni relative al d.lgs. 19 agosto 2005, n. 187 (attuativo della direttiva 2002/44/CE contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti da vibrazioni meccaniche); il Capo IV mutua le disposizioni del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 257 (attuativo della direttiva 2004/40/CE contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all'esposizione dei lavoratori dai rischi derivanti dai campi elettromagnetici); il Capo V prevede l’attuazione delle prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dalle radiazioni ottiche artificiali di cui alla direttiva 2006/25/CE. In tale Capo sono state trasfuse le disposizioni approvate dal Consiglio dei Ministri, in via preliminare, nella seduta del 27 febbraio scorso, in sede di attuazione della direttiva in argomento, inserita all'Allegato B della legge 6 febbraio 2007, n. 13 (legge comunitaria 2006).

- Titolo X (esposizione ad agenti biologici: artt. 266-286): vengono riproposte le disposizioni del Titolo VIII del d.lgs. n. 626 del 1994 (attuativo della direttiva 90/679/CEE relativa alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall'esposizione agli agenti biologici durante il lavoro).

- Titolo XI (protezione da atmosfere esplosive: artt. 287-297): le norme di questo Titolo corrispondono a quelle del Titolo VIII-bis del d.lgs. n. 626 del 1994, introdotto dall’art. 2 del d.lgs. 12 giugno 2003, n. 233 (che ha recepito la direttiva 99/92/CE relativa alle prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori esposti a rischio di atmosfere esplosive).

21 Il Titolo XIII (norme transitorie e finali: artt. 304-306) è dedicato alle abrogazioni, alle norme di coordinamento ed alla decorrenza dell’efficacia di alcune disposizioni del decreto.

22 Il Titolo XII (disposizioni in materia penale e di procedura penale: artt. 298-303) contiene disposizioni relative all’esercizio di fatto di poteri direttivi, talune modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, nonché norme in materia di prescrizione e definizione delle contravvenzioni punite con la pena dell’arresto ed in materia di circostanze attenuanti.

23 Che peraltro dovrà confrontarsi con gli stessi protagonisti regionali che hanno collaborato alla predisposizione del d.lgs. n. 81 del 2008.

24 Come è noto, il nuovo testo dell’art. 117 Cost. è stato interpretato restrittivamente, nel senso che la competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro non riguarda la disciplina dei rapporti di lavoro, rientrante invece nell’ordinamento civile e, quindi, nella competenza esclusiva del legislatore statale: tra i tanti cfr. F. Carinci, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in ADL, 2003, p. 17 ss., qui p. 57; Id., Il principio di sussidiarietà verticale nel sistema delle fonti, in ADL, 2006, p. 1496 ss.; F. Liso, Collocamento e agenzie private, in DLRI, 2002, p. 591 ss., qui p. 609; M.G. Garofalo, Pluralismo, federalismo e diritto del lavoro, in RGL, 2002, I, p. 401 ss. V. peraltro B. Caruso, Il diritto del lavoro nel tempo della sussidiarietà (le competenze territoriali nella governance multilivello), in ADL, 2004, p. 801 ss. Sull’incidenza della riforma costituzionale in merito alle competenze legislative in materia di lavoro si vedano, tra gli altri, anche M. Persiani, Devolution e diritto del lavoro, in ADL, 2002, p. 19 ss.; M. Luciani, Regioni e diritto del lavoro. Note preliminari, ivi, p. 57 ss.; R. Pessi, Il diritto del lavoro tra Stato e Regioni, ivi, p. 75 ss.; M. Dell’Olio, Mercato del lavoro, decentramento, devoluzione, ivi, p. 171 ss.; M. Pallini, La modifica del Titolo V della Costituzione: quale federalismo per il diritto del lavoro?, in RGL, 2002, I, p. 21 ss. Si veda altresì Federalismo e diritti del lavoro, numero monografico di LD, 2001, n. 3, con contributi di L. Mariucci, M.V. Ballestrero, R. Del Punta, B. Caruso, A. Perulli, M.G. Garofalo, L. Zoppoli, G.G. Balandi, M. Rusciano, M. Roccella, T. Blanke.

25 A partire dalla cosiddetta direttiva “madre” n. 89/391/CEE. Per una ricostruzione delle direttive europee in materia v. G. Proia-M. Lepore, Sicurezza e salute dei lavoratori, in EGT, XXVIII, 1996, p. 1 ss.

26 L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 27 ss., ora (con qualche modifica e integrazione) anche in DLRI, 2007, p. 799 ss.; G. Natullo, La disciplina della sicurezza sui luoghi di lavoro nel labirinto delle competenze legislative di Stato e Regioni, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 35 ss.; Id., Competenze regionali e tecniche giuridiche su standard di prevenzione ed effettività delle tutele normative, in RGL, 2007, supplemento al n. 2, p. 61 ss.; O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 23 ss. Cfr. anche, prima dell’approvazione del disegno di legge delega, C. Smuraglia, Il sistema normativo italiano in tema di sicurezza e igiene del lavoro: tentativi di coordinamento e prospettive, in L. Guaglianone e F. Malzani (a cura di), Come cambia l’ambiente di lavoro: regole, rischi, tecnologie, Giuffrè, Milano, 2007, p. 333 ss.; O. Bonardi, Il Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro nel sistema delle fonti, ivi, p. 347 ss.

27 F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 344 ss.; G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, relazione presentata al Convegno di Benevento del 9 novembre 2007 su “Ambiente e sicurezza sul lavoro. Quali tutele in vista del Testo Unico”, organizzato dal Dipartimento di analisi dei sistemi economici e sociali dell’Università degli Studi del Sannio (in corso di pubblicazione nei relativi Atti); S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 6 ss.

28 Critiche all’interpretazione della Costituzione e delle sentenze della Corte costituzionale proposta dal Consiglio di Stato si rinvengono in V. Speziale, La nuova legge sulla sicurezza del lavoro, cit., pp. 9-10.

29 Così L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 27.

30 Corte cost., 11 ottobre 2005, n. 384, in GU del 19 ottobre 2005; 13 gennaio 2005, n. 50, in GU del 2 febbraio 2005.

31 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 4 e 5 del dattiloscritto; V. Speziale, La nuova legge sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 7.

32 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 7 e 8 del dattiloscritto.

33 Cfr. Corte cost., 26 luglio 2002, n. 407, in DML, 2003, p. 18, con nota di A. Trojsi, Prime indicazioni su “tutela e sicurezza del lavoro nella recente giurisprudenza costituzionale”. Cfr. anche S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 8.

34 Sull’importanza di questo principio insiste V. Speziale, La nuova legge sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 8.

35 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 7 e 8 del dattiloscritto.

36 Criticata da F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 348, sulla scorta dell’inquadramento dell’obbligo di sicurezza nell’ambito dell’ordinamento civile: “se il dovere di sicurezza rientra in quel diritto privato riservato alla competenza esclusiva dello Stato… vi rientra in toto, senza alcuna possibile eccezione, foss’anche per una deroga in melius”.

37 Sul punto cfr. S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 9; O. Bonardi, Il Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro, cit., p. 357.

38 Tale norma ricomprende tra i “principi fondamentali, nel rispetto dei quali le Regioni e le Province autonome esercitano la propria competenza normativa per dare attuazione o assicurare l’applicazione degli atti comunitari… in materia di ‘tutela e sicurezza del lavoro’ ”, la “possibilità per le Regioni e le Province autonome di introdurre, laddove la situazione lo renda necessario, nell’ambito degli atti di recepimento di norme comunitarie incidenti sulla materia ‘tutela e sicurezza del lavoro’ e per i singoli settori di intervento interessati, limiti e prescrizioni ulteriori rispetto a quelli fissati dallo Stato, con contestuale salvaguardia degli obiettivi di protezione perseguiti nella medesima tutela dalla legislazione statale”.

39 Come osserva G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 13-14 del dattiloscritto, se la legislazione regionale non può occuparsi della “definizione degli standard di prevenzione in senso stretto (individuazione dei ‘rischi’ e definizione di misure e strumenti ‘tecnici’ di prevenzione), su cui indubbiamente una differenziazione sul territorio (considerando anche la loro origine tecnico-scientifica, oltre che normativa, europea quando non internazionale) non pare plausibile”, essa potrebbe invece trovare spazi, soprattutto a fini incrementali, nei seguenti campi: “a) integrazione della normativa generale (statale) tecnica, laddove quest’ultima non sia del tutto puntuale e specifica (norme “elastiche”), e/o laddove gli standard di prevenzione debbano essere in concreto individuati sulla base della fattibilità tecnologica; b) previsione di strumenti e azioni per la promozione e la diffusione sul territorio della “cultura” della prevenzione; c) supporto alla presenza ed all’attività delle rappresentanze dei lavoratori e degli organismi bilaterali/paritetici; d) rafforzamento delle attività di vigilanza, come noto affidata in primo luogo alle ASL, ma anche implementazione di altre funzioni rilevanti degli organismi pubblici regionali (monitoraggio, informazione, supporto consulenziale) e soprattutto miglior coordinamento con gli altri organismi pubblici competenti; e) previsione e realizzazione di strumenti ed azioni volti a sostenere ed incentivare, anche economicamente, la corretta applicazione degli standard ed in generale il miglioramento degli ambienti di lavoro”. Sul ruolo della legislazione regionale v. F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 349, e S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 11.

40 G. Natullo, Competenze regionali e tecniche giuridiche, cit., pp. 71-72.

41 Cfr. in tal senso M. Magnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, in ADL, 2002, p. 645 ss., qui p. 657; S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., pp. 10-11, il quale tuttavia non sembra escludere la possibilità di più elevati livelli di tutela del lavoro.

42 Non si deve peraltro trascurare che il tenore letterale del citato art. 8, comma 1, lett. b, della l. n. 13 del 2007 non chiarisce se la funzione incrementale delle disposizioni e delle tutele previste dalla normativa statale – fermo restando il ruolo di quest’ultima di garanzia generale ed uniforme per tutto il territorio: cfr. A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative sulla “sicurezza del lavoro”, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, in F. Carinci (dir.), Diritto del lavoro – Commentario, VIII, Utet, Torino, 2007, p. 25 ss., qui p. 57 – sia limitata ai soli atti (legislativi) regionali che recepiscono “direttamente” norme comunitarie in materia di sicurezza del lavoro o riguardi invece tutte le leggi regionali che si occupino di tale materia sulla scorta dei principi fondamentali contenuti nella legge statale.

43 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 7 e 8 del dattiloscritto.

44 Anch’essa rientrante nella legislazione concorrente: v. funditus A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative, cit., p. 48 ss.

45 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p. 10 del dattiloscritto.

46 Corte cost., n. 50 del 2005, cit.

47 Corte cost., n. 50 del 2005, cit.

48 Corte cost., 26-30 luglio 1993, n. 359, in GU del 4 agosto 1993. Cfr. anche Corte cost., 25 settembre-1° ottobre 2003, n. 303, in GU dell’8 ottobre 2003; Corte cost., 13-28 luglio 2004, n. 280, in GU del 4 agosto 2004.

49 Corte cost., n. 50 del 2005, cit.

50 Come osservato puntualmente da V. Speziale, La nuova legge sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 11. V. altresì O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 28.

51 Così F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 346.

52 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p. 12, nota 15, del dattiloscritto; L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 27.

53 S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 10.

54 In tal senso cfr. ancora A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative, cit., p. 61 ss., nonché P. Pascucci, Fondamenti della competenza in materia di vigilanza, cit., passim.

55 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p. 12 del dattiloscritto.

56 Come è stato lucidamente evidenziato, “il legislatore affida la ‘tenuta’ della nuova normativa, più che ad articolate (e solide) soluzioni tecniche, alla ‘proceduralizzazione’ del percorso di elaborazione del testo normativo stesso, con la piena partecipazione e condivisione dei rappresentanti delle Regioni”: così G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p. 11 del dattiloscritto.

57 A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative, cit., p. 40.

58 Cfr. in tal senso O. Bonardi, Il Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro, cit., pp. 357, 360 e 361, secondo la quale in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, più che una competenza concorrente, si evidenzia una concorrenza di competenze che deve essere risolta in base al principio di leale collaborazione, ma non in base a quello di prevalenza (cfr. Corte cost., n. 50 del 2005, cit.): infatti, applicandosi tale ultimo principio si rinuncerebbe al “riconoscimento del principio della globalità dell’intervento pubblico in materia di tutela della salute… che impone di tenere conto di tutti i fattori che incidono sulle condizioni di salute delle persone e… dell’inscindibilità della tutela della salute dentro e fuori dai luoghi di lavoro”, privando così “il sistema di strumenti conoscitivi e di intervento fondamentali al fine della tutela della salute dell’intera collettività”.

59 Definito anch’esso “di rito” da F. Carinci, La telenovela del T.U. sulla sicurezza, cit., p. 346.

60 Per la verità, non si è mancato di rilevare criticamente come la consultazione delle parti sociali abbia riguardato solo la parte generale (Titolo I): cfr. M. Tiraboschi, Restyling necessario ma con le parti sociali, in Il Sole 24 ORE del 10 maggio 2008, p. 23.

61 Come giustamente ammonisce L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 28.

62 O perché afferenti all’ordinamento civile e penale (art. 117, comma 2, lett. l, Cost.), o alla tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e, Cost.), o in quanto riconducibili alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.), o perché comunque ascrivibili ai principi fondamentali della legislazione concorrente (art. 117, comma 3, secondo periodo, Cost.).

63 Cfr. G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 13-14 del dattiloscritto.

64 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p. 15 del dattiloscritto.

65 L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 28. Sul carattere “cedevole” di molte norme in materia di sicurezza del lavoro cfr. il citato parere del 2005 del Consiglio di Stato.

66 Nel parere reso nel 2005, il Consiglio di Stato aveva sottolineato la necessità di richiamare tale norma del 1988 al fine di chiarire il carattere regolamentare del decreto e l’iter da seguire per la sua adozione, ribadendo che “non è consentito escludere con norma primaria la natura regolamentare di atti che presentino quell’attitudine innovativa dell’ordinamento e i requisiti di generalità ed astrattezza”, essendo “evidente la necessità di rispettare il disposto di cui all’art. 117, comma 6, Cost., altrimenti eluso”.

67 Il che corrisponde a quanto correttamente auspicato da S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 45.

68 Secondo M. Masi, Intervento al Convegno di Urbino del 10 maggio 2008 su “Le nuove regole sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. Un confronto a più voci”, cit., la concorrenza delle competenze va intesa non in senso competitivo, bensì collaborativo.

69 L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 28.

70 B. Deidda, Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 89 ss., qui p. 93.

71 Va ricordato che l’art. 1, comma 3, della legge delega ha previsto che i decreti legislativi attuativi non possono comunque disporre un abbassamento dei livelli di protezione.

72 G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., pp. 15 e 16 del dattiloscritto.

73 In questo senso v. L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 29, secondo cui tale soluzione offre evidentemente il vantaggio di rendere assai più agevole il costante aggiornamento delle norme tecniche anche in sede di trasposizione delle direttive europee, anche se – come osserva G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p 16 del dattiloscritto – può scontrarsi con i limiti derivanti dall’art. 117, comma 6, Cost. in merito al divieto di regolamenti su materia non di competenza esclusiva dello Stato.

74 Come sostituito dall’art. 1 della stessa l. n. 229 del 2003, che dispone in materia di semplificazione e riassetto normativo.

75 Modificata dalla l. 24 novembre 2000, n. 340.

76 “Delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro”.

77 Stante l’estraneità del decreto legislativo alla categoria dei testi unici, è quindi ozioso interrogarsi sulla sua natura alla luce del dibattito sulla natura dei testi unici. Come si ricorderà, già con la sentenza 10 aprile 1957, n. 54, (in GU n. 104 del 20 aprile 1957) la Corte costituzionale ebbe modo di precisare che i testi unici si distinguono in due categorie: quelli che per la loro formazione non richiedono esercizio di potestà legislativa delegata e quelli che sono vere e proprie leggi delegate. Per stabilire a quale delle due categorie appartenga un determinato testo unico occorre esaminare la norma in base alla quale il testo unico è stato emanato, verificando se tale norma contiene una delega legislativa, nel qual caso il Governo riceve facoltà di modificare, integrare, coordinare le norme vigenti, o se quella norma conferisce una autorizzazione alla formazione del testo unico. La differenza fondamentale tra i due tipi di testi unici è che, mentre nel testo unico emanato nell’esercizio di poteri legislativi delegati, il testo unico è una vera e propria legge delegata, nel testo unico di mera compilazione la forza di legge delle singole norme, raccolte nel testo unico, resta sempre ancorata alle leggi dalle quali le norme stesse sono tratte, cosicché questo genere di testi unici non costituisce una manifestazione di volontà legislativa, bensì di potestà amministrativa. Sulle questioni metodologiche e di tecnica legislativa relative ad un testo unico in materia di sicurezza sul lavoro cfr. Note metodologiche per la predisposizione di un Testo Unico in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, in DRI, 1998, p. 79 ss.
Peraltro, al di là delle parole usate nella sua epigrafe, anche il disegno di legge governativo non mostrava di credere più di tanto nella possibilità di un testo unico, visto che, anche in tale disegno, la delega riguardava uno o più decreti legislativi: cfr. in tal senso anche G. Natullo, Riassetto normativo e sistema delle fonti, cit., p. 17 del dattiloscritto.

78 Cfr. P. Soprani, Il “TU sicurezza”, cit., p. 238.

79 Il quale appunto prevede che “Le disposizioni contenute nel presente decreto legislativo costituiscono attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, per il riassetto e la riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro, mediante il riordino e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo”.

80 Nel caso della disciplina del trasporto ferroviario ex l. n. 191 del 1974, l’art. 3, comma 2, del decreto legislativo prevede che, mediante i predetti decreti, essa sia armonizzata con le disposizioni tecniche di cui ai Titoli dal II al XII del decreto legislativo.

81 Vale a dire: il d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547; il d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164; il d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (fatta eccezione per l’art. 64); il d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277; il d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626; il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 493; il d.lgs. 14 agosto 1996, n. 494; il d.lgs. 19 agosto 2005, n. 187. L’art. 304, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008 abroga inoltre (nella lett. b) l’art. 36-bis, commi 1 e 2, del d.l. 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni dalla l. 5 agosto 2006, n. 248 e (nella lett. c) gli artt. 2, 3, 5, 6 e 7 della l. n. 123 del 2007. Si noti che, fra le norme abrogate, non è compreso il d.P.R. 19 marzo 1956, n. 302, le cui norme, costituendo integrazione di quelle contenute nel d.P.R. n. 547 del 1955, ora introiettate nel d.lgs. n. 81 del 2008, avrebbero dovuto anch’esse essere “recuperate” nel nuovo decreto: ciò non è invece accaduto, presumibilmente per una dimenticanza, a cui pare aver posto un qualche rimedio l’art. 306, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008 il quale prevede che le disposizioni del d.P.R. n. 302 del 1956 costituiscono integrazione di quelle contenute nello stesso d.lgs. n. 81 del 2008.

82 Come già anticipato nella nota precedente, il d.lgs. n. 626 del 1994 è stato espressamente abrogato dall’art. 304, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 81 del 2008.

83 Occorre rilevare che la scelta di inserire nell’art. 2 una specifica definizione di “azienda”, intesa come il complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro pubblico o privato, consente di evitare quelle confusioni che nel d.lgs. n. 626 del 1994 si ingeneravano per il ricorrente uso della parola azienda, la quale, non essendo appunto definita ai fini del decreto, si prestava ad essere considerata nella sua tradizionale accezione privatistica ex art. 2555 c.c. come complesso organizzato dall’“imprenditore”, così rischiando di escludersi le pubbliche amministrazioni.

84 Vale a dire: le Forze armate e di Polizia; il Dipartimento dei vigili del fuoco; il soccorso pubblico e della difesa civile; i servizi di protezione civile; le strutture giudiziarie e penitenziarie destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica; le università; gli istituti di istruzione universitaria; le istituzioni dell’alta formazione artistica e coreutica; gli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado; le organizzazioni di volontariato ex l. n. 266 del 1991; i mezzi di trasporto aerei e marittimi. Occorre ricordare che è la stessa Direttiva n. 89/391/CEE a prevedere una disciplina speciale per le pubbliche amministrazioni in presenza di determinate esigenze, senonché – come osserva O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 39 – si dovrebbe trattare di limitate eccezioni.

85 Dai Ministri competenti di concerto con i Ministri del lavoro, della salute e delle riforme e innovazioni nella pubblica amministrazione, acquisito il parere della Conferenza Stato-Regioni e sentite le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Relativamente agli schemi di decreti di interesse delle Forze armate, compresa l’Arma dei carabinieri ed il Corpo della Guardia di Finanza, dovranno essere sentiti gli organismi a livello nazionale rappresentativi del personale militare. Analogamente si provvede per quanto riguarda gli archivi, le biblioteche e i musei solo nel caso siano sottoposti a particolari vincoli di tutela dei beni artistici storici e culturali.

86 Giustamente paventate da O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 39.

87 Ai sensi del quale “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’. In tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell’ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette ad una procedura comunitaria di controllo”.

88 Così L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 29, il quale puntualizza che “non si tratta di imporre al datore di assumere iniziative autonome e straordinarie per far fronte al cosiddetto ‘ignoto tecnologico’, ma di ribadire che il debitore di sicurezza non può esimersi dal misurarsi anche con i rischi potenziali, pur se le conseguenze negative in termini di lesioni del diritto alla salute del lavoratore non sono state ancora accertate in maniera univoca né condivise dalla comunità scientifica della medicina del lavoro”.

89 V. Speziale, La nuova legge sulla sicurezza del lavoro, cit., pp. 13-14. Cfr. anche S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., pp. 22-23.

90 Cfr. l’art. 3-ter del d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, in forza del quale “La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio ‘chi inquina paga’ che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale”.

91 Cfr. l’art. 1, comma 1, lett. b, della l. 22 febbraio 2001, n. 36, che parla di promozione della ricerca scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine e dell’attivazione di misure di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione di cui all’art. 174, par. 2, del Trattato istitutivo dell'Unione europea.

92 Per la verità, nel Titolo I, l’unico riferimento testuale alla parola “precauzione” si rintraccia nell’art. 46, comma 3, lett. a, n. 2 (in materia di prevenzione incendi), in cui si parla di “misure precauzionali di esercizio” come oggetto di definizione da parte di un decreto interministeriale.

93 G. Nicolini, Disposizioni generali: nuove definizioni e allargamento del campo di applicazione, in F. Bacchini (a cura di), Speciale Testo Unico sicurezza del lavoro, cit., p. 242 ss., qui pp. 245-246.

94 Sul campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 cfr. R. Romei, Il campo di applicazione del d. leg. n. 626 del 1994 e i soggetti (artt. 1, 2, 3), in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza. Per una gestione integrata dei rischi da lavoro, Giappichelli, Torino, 1997, p. 59 ss.

95 Per una prima analisi dei criteri di delega risultanti dall’originario disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 aprile 2007, cfr. L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 27 ss.; B. Deidda, Il testo unico sulla sicurezza sul lavoro, cit., p. 89 ss.; C. Smuraglia, Quadro normativo ed esperienze attuative, cit., p. 16 ss.; G. Natullo, Presupposti e finalità della l. n. 123/2007, cit., p. 1 ss.; O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 23 ss.; M. Lai, T.U. sulla sicurezza: principi e criteri direttivi della delega, in DPL, 2007, p. 768 ss.

96 Nonostante la sua assoluta genericità (v. L. Caiazza, Lavoro, stress sotto esame, in Il Sole 24 ORE del 7 maggio 2008, p. 33), il termine “età” sembrerebbe tendenzialmente da interpretare con riferimento ai minori, sebbene non possa escludersi che possa anche riferirsi a lavoratori in età avanzata qualora questa possa in qualche modo creare problemi in ordine allo svolgimento di determinate mansioni. Sull’esigenza di una particolare attenzione per la sicurezza dei minori v. O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 42.

97 Nonostante alcune prime perplessità (L. Caiazza, Lavoro, stress sotto esame, cit.), la previsione della verifica della lingua pare perfettamente funzionale all’effettivo scopo per cui è posta, né sembra che sia in sé d’ostacolo, come pure paventato, alla stessa costituzione del rapporto di lavoro.

98 Senza potersi qui addentrare nell’esame minuzioso di tutte le definizioni contenute nell’art. 2, merita sottolineare la puntualizzazione operata a proposito del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come nel d.lgs. n. 626 del 1994, si intende per tale “il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”, ma poi si specifica “individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”. Quest’ultima precisazione di chiusura è apprezzata da P. Soprani, Il “TU sicurezza”, cit., p. 238. Sulla precedente definizione cfr. L. Zoppoli, La sicurezza del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in L. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., p. 83 ss., qui p. 96 ss.

99 R. Romei, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994, cit., p. 74.

100 Si pensi all’obbligo (già previsto dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 626 del 1994, la cui formulazione è oggi quasi testualmente riproposta nell’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008) gravante in capo al lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.

101 Anch’esso inteso secondo la definizione proposta ai fini della disciplina della sicurezza del lavoro, vale a dire “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. Rimarca l’accento posto sulla responsabilità dell’organizzazione e non più dell’impresa P. Soprani, Il “TU sicurezza”, cit., p. 238.

102 Fermo restando, in quest’ultimo caso, quanto previsto in relazione alla tutela dagli eventuali rischi interferenziali: v. infra § 8.3.

103 Questa equiparazione figurava anche nel d.lgs. n. 626 del 1994.

104 Equiparazione non contemplata nel d.lgs. n. 626 del 1994. Secondo G. Nicolini, Disposizioni generali, cit., p. 243, nonostante il generico rinvio all’art. 2549 c.c., tale equiparazione “concerne esclusivamente l’associato il cui apporto consista nella prestazione d’opera nell’ambito dell’organizzazione datoriale”.

105 Che ancora non erano state emanate all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 626 del 1994. Sui tirocini di cui al testo e sull’evoluzione della relativa disciplina, cfr. P. Pascucci, Stage e lavoro. La disciplina dei tirocini formativi e di orientamento, di prossima pubblicazione per i tipi di Giappichelli, Torino, 2008.

106 Cfr. ancora P. Pascucci, Stage e lavoro, cit., passim.

107 Occorre ricordare che tale legge (legge-quadro sul volontariato), da un lato, all’art. 2, comma 3, prevede l’incompatibilità tra la qualità di volontario e qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato e autonomo, mentre, da un altro lato, all’art. 4, comma 1, impone alle organizzazioni di volontariato di assicurare i propri aderenti contro gli infortuni e le malattie connesse allo svolgimento delle attività di volontariato (fornendo quindi una chiara indicazione circa gli obblighi di protezione).

108 L. Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 29; C. Smuraglia, Il sistema normativo italiano, cit., p. 343; S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 22.

109 Oltre all’art. 1, comma 1, dedicato alle finalità, nel decreto delegato la tutela della sicurezza in relazione al genere emerge nelle seguenti norme: l’art. 6, comma 8, lett. l, che affida alla Commissione consultiva permanente il compito di promuovere la considerazione della differenza di genere in relazione alla valutazione dei rischi e alla predisposizione delle misure di prevenzione; l’art. 8, comma 2, secondo periodo, il quale prevede che allo sviluppo del SINP concorrano gli istituti di settore a carattere scientifico, ivi compresi quelli che si occupano della salute delle donne; l’art. 11, comma 6, che, nell’ambito dei rispettivi compiti istituzionali, affida alle amministrazioni pubbliche la promozione di attività specificamente destinate anche alle lavoratrici, finalizzate a migliorare i livelli di tutela delle medesime negli ambienti di lavoro; l’art. 27, comma 1, secondo il quale la valutazione dei rischi deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere; l’art. 40, comma 1, là dove obbliga il medico competente a trasmettere ai servizi competenti per territorio le informazioni, elaborate evidenziando le differenze di genere, relative ai dati collettivi aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori, sottoposti a sorveglianza sanitaria.

110 Fra le più recenti analisi delle questioni giuridiche legate alla flessibilità del lavoro, si vedano: E. Ghera, Il nuovo diritto del lavoro. Subordinazione e lavoro flessibile, Giappichelli, Torino, 2006; M. Rusciano, C. Zoli, L. Zoppoli (a cura di), Istituzioni e regole del lavoro flessibile, Editoriale scientifica, Napoli, 2006; L. Mariucci (a cura di), Dopo la flessibilità, cosa? Le nuove politiche del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2006.

111 È quanto rilevava puntualmente, ancor prima dell’approvazione del disegno di legge delega governativo, C. Smuraglia, Il sistema normativo italiano, cit., p. 343, sottolineando in particolare l’esigenza del potenziamento dell’informazione e della individuazione di nuovi criteri per la formazione. Su ciò v. anche M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, in DLM, 2005, p. 99 ss., passim; M. Tiraboschi, Campo di applicazione e tipologie contrattuali, in Id. (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 65 ss.

112 V. la direttiva n. 91/383/CEE.

113 Così, condivisibilmente, O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 40, la quale rileva che, poiché i lavoratori atipici sono maggiormente esposti al rischio, occorrono “misure ulteriori volte a neutralizzare tale maggiore pericolo”.

114 S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 20.

115 L. Angelini, Lavori flessibili e sicurezza nei luoghi di lavoro: una criticità da governare, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 103 ss., qui p. 104.

116 Su cui cfr. per tutti M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 101 ss. Tale norma recupera le disposizioni relative al lavoro temporaneo di cui agli artt. 3, comma 5, e 6, comma 1, della l. n. 196 del 1997.

117 C. Bizzarro, Somministrazione di lavoro e distacco, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 195 ss., qui p. 199.

118 Che, essendo riferiti al d.lgs. n. 626 del 1996, sono ora da ricondurre – ex art. 304, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2008 – a quelli di cui a tale ultimo decreto.

119 Come già osservava puntualmente M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 106, a proposito della norma del 2003.

120 In generale, sulla formazione nella somministrazione, v. B. Caruso, Occupabilità, formazione e «capability» nei modelli giuridici di regolazione dei mercati del lavoro, in DLRI, 2007, p. 1 ss., qui p. 74 ss.

121 Perché gli altri periodi non creano problemi di coordinamento con la disciplina generale, riferendosi esclusivamente all’utilizzatore.

122 Cfr. M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 108.

123 M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 109. Sulla ripartizione degli obblighi di sicurezza tra somministratore ed utilizzatore v. G. Natullo, Lavori temporanei e sicurezza del lavoro, in R. De Luca Tamajo, M. Rusciano, L. Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema. Dalla legge 14 febbraio 2003 n. 30 al decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, Editoriale scientifica, Napoli, 2004, p. 151 ss., qui p. 154.

124 C. Bizzarro, Somministrazione di lavoro e distacco, cit., pp. 203-204.

125 “Conformemente a quanto previsto dal d.lgs. n. 626 del 1994” e, quindi, ora “a quanto previsto dal d.lgs. n. 81 del 2008”.

126 Che, in base alla norma del 1997, erano state individuate mediante il d.m. 31 maggio 1999. Per alcune indicazioni sul dibattito relativo alla presunta sopravvivenza di tale decreto nonostante l’abrogazione della norma di riferimento, cfr. P. Albi, Decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626. Art. 1, in M. Grandi, G. Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, 3° ed., Cedam, Padova, 2005, p. 1236; M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., pp. 102-103.

127 R. Del Punta, La nuova disciplina degli appalti e della somministrazione di lavoro, in Aa.Vv., Come cambia il mercato del lavoro, Ipsoa, Milano, 2004, p. 185, nota 28; M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 102.

128 Occorre ricordare che, dopo la modifica dell’art. 21, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 da parte dell’art. 5 del d.lgs. 6 ottobre 2004, n. 251, la nullità del contratto di somministrazione, con la conseguente riconduzione dei rapporti di lavoro in capo all’utilizzatore, si verifica soltanto per la mancanza di forma scritta del contratto medesimo e non più per la carenza anche di alcuni dei suoi elementi, tra cui quello di cui all’art. 21, comma 1, lett. d.

129 C. Bizzarro, Somministrazione di lavoro e distacco, cit., p. 201.

130 Cfr. Pret. Milano, 26 novembre 1996, in LG, 1997, p. 333, secondo cui la responsabilità della tutela grava sul fruitore della prestazione; contra Pret. Brescia, 12 maggio 1998, in RCDL, 1998, p. 969.

131 Per il personale delle pubbliche amministrazioni che presta servizio con rapporto di dipendenza funzionale presso altre amministrazioni pubbliche, organi o autorità nazionali, gli obblighi di cui al d.lgs. n. 81 del 2008 sono a carico del datore di lavoro designato dall’amministrazione, organo o autorità ospitante.

132 C. Bizzarro, Somministrazione di lavoro e distacco, cit., p. 205.

133 Detta previsione è stata ritenuta insufficiente ove non conduca a prendere in considerazione, oltre ai rischi connessi all’attività da svolgere, la variabile soggettiva del lavoro in coppia (ancorché ripartito): cfr. Soprani, Nuove tipologie contrattuali e sicurezza del lavoro, in Aa.Vv., Come cambia il mercato del lavoro, cit., p. 443 ss., qui p. 462.

134 V. per tutti M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., pp. 117-119, anche per riferimenti bibliografici.

135 Sul tema v. già M. Lai, Sicurezza del lavoro e rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, in RGL, 2003, p. 320 ss.; Id., La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 119 ss.

136 Cfr. C. Lazzari, Nuovi lavori e rappresentanza sindacale, Giappichelli, Torino, 2006, pp. 258 ss. Formalmente, l’applicabilità al lavoro a progetto delle norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non è subordinata alla condizione che la prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente. La previsione di cui all’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 (ora “recuperata” ed estesa nel nuovo decreto del 2008) aveva risolto anche la questione relativa all’applicabilità al lavoro parasubordinato delle sole tutele previste dall’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 (che peraltro era stata prevista nello schema di decreto legislativo per l’emanazione di un Testo unico approvato e poi ritirato nella XIV legislatura anche nei confronti dei collaboratori parasubordinati a progetto e non), così come consente di superare l’irrilevanza per il committente dei rischi specifici dei lavoratori autonomi che (già l’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 ed ora) l’art. 26 del d.lgs. n. 81 del 2008 prevede nel caso di appalti interni: cfr. C. Lazzari, Brevi riflessioni in tema di tutela della salute e della sicurezza nel lavoro autonomo, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, cit., p. 43 ss.

137 L’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 resta invece in vigore per quanto concerne l’applicabilità delle disposizioni processuali di cui alla l. 11 agosto 1973, n. 533, dell’art. 64 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (in materia di tutela della maternità), delle norme di cui all’art. 51, comma 1, della l. 23 dicembre 1999, n. 488 (in materia previdenziale) e del decreto del Ministro del lavoro del 12 gennaio 2001 (in materia di corresponsione dell’indennità di malattia).

138 C. Lazzari, Brevi riflessioni in tema di tutela della salute, cit., p. 49.

139 Come già auspicato da O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 40.

140 Alquanto incerta era, infatti, l’applicabilità dell’art. 66, comma 4, del d.lgs. n. 276 del 2003 a quest’ultima fattispecie, salvo nel caso in cui il compenso percepito nell’anno solare superasse i 5.000 euro. Solo in questa ipotesi, infatti, le norme del Capo relativo al lavoro a progetto (comprese quelle sulla sicurezza) potevano senz’altro applicarsi alle collaborazioni coordinate e continuative a carattere occasionale, a meno di non pensare che l’esclusione di queste ultime dalla disposizione di cui al comma 1 (vale a dire la necessità della riconduzione ad un progetto) prevista dall’art. 61, comma 2, del predetto decreto non corrispondesse alla esclusione dalle norme del Capo relativo al lavoro a progetto: ipotesi peraltro smentita dalla stessa lettera del medesimo art. 61, comma 2, là dove parla di applicabilità del predetto Capo alle collaborazioni occasionali con compenso superiore ai 5.000 euro. Sul punto v. M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 128.

141 C. Lazzari, Nuovi lavori, cit., p. 259, la quale richiama le critiche già avanzate da P. Soprani, Collaborazioni a progetto: quale modello di sicurezza?, in ISL, 2004, n. 2, p. 142, e da P. Sciortino, La riforma del mercato del lavoro e le collaborazioni “a progetto” nella disciplina prevenzionistica, in MGL, 2004, p. 244 ss., rilevando in particolare che poiché il progetto – ex art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 – deve essere autonomamente gestito dal collaboratore, non risulta agevole individuare come responsabile della tutela un soggetto (come il committente) “estraneo alla determinazione delle modalità, anche organizzative, osservate per l’esecuzione” (così S. Piccininno, I “nuovi lavori” e l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in ADL, 2004, p. 158). Per altro verso, l’assimilazione del collaboratore agli altri lavoratori per quanto attiene alla sicurezza sul lavoro fa sì che, relativamente a questo ambito, in capo al committente si configuri un potere direttivo a cui si contrappone un obbligo di obbedienza del collaboratore che, in caso di violazione, al di là della eventuale specifica sanzionabilità prevista dal d.lgs. n. 81 del 2008, potrebbe legittimare l’esperimento dei rimedi contrattuali (G. Bubola, I collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori a progetto, gli occasionali, gli associati in partecipazione, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 271 ss., qui p. 275). Più in generale, una tutela specifica e non semplicemente “estesa” era stata da tempo auspicata ravvisandosi l’occasione più propizia nella predisposizione di un testo unico in materia: cfr. la circolare del Ministero del lavoro dell’8 gennaio 2004, n. 1 che peraltro si riferiva al testo unico di cui all’art. 3 della l. n. 229 del 2003. Cfr. anche S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., pp. 19-20.

142 Salvo, come si è detto, il suo riferimento indiretto – tramite il richiamo all’art. 66, comma 4 – al d.lgs. n. 626 del 1996, che ora va inteso al d.lgs. n. 81 del 2008.

143 C. Lazzari, Nuovi lavori, cit., p. 261; Ead., Brevi riflessioni in tema di tutela della salute, cit., p. 52.

144 Salvo quanto disposto dall’art. 2087 c.c. ove lo si ritenga applicabile al di là dei confini del lavoro subordinato: per richiami al dibattito in materia cfr. C. Lazzari, Nuovi lavori, cit., p. 261.

145 Come si è prevalentemente ritenuto: cfr. A. Viscomi, Lavoro a progetto e occasionale: osservazioni critiche, in G. Ghezzi (a cura di), Il lavoro tra progresso e mercificazione: commento critico al decreto legislativo n. 276/2003, Ediesse, Roma, 2004, p. 316 ss., qui p. 326; L. Castelvetri, Il lavoro a progetto: finalità e disciplina, in M. Tiraboschi (a cura di), La riforma Biagi del mercato del lavoro, Giuffrè, Milano, 2004, p. 137 ss., qui p. 163; M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 123; C. Lazzari, Nuovi lavori, cit., p. 261. In senso critico v. P. Soprani, Nuove tipologie contrattuali, cit., p. 466.

146 Cfr. la circolare del Ministero del lavoro n. 1 del 2004, cit.

147 Fermo restando che, ove la prestazione sia svolta in parte in loco, dovranno in parte qua applicarsi le tutele: cfr. G. Bubola, I collaboratori coordinati e continuativi, cit., p. 276.

148 M. Lai, Sicurezza del lavoro, cit. p. 324.

149 C. Lazzari, Brevi riflessioni in tema di tutela della salute, cit., p. 51.

150 P. Ichino, Il lavoro e il mercato. Per un diritto del lavoro maggiorenne, Mondadori, Milano, 1996, p. 68; M. Lai, La sicurezza del lavoro nelle nuove tipologie contrattuali, cit., p. 127; C. Lazzari, Brevi riflessioni in tema di tutela della salute, cit., p. 52.

151 Il che contrasterebbe con la definizione di “lavoratore” accolta dal decreto che prescinde dalla tipologia del contratto di lavoro.

152 Né deve dimenticarsi che l’art. 15, comma 1, lett. d, del decreto ricomprende tra le misure generali di tutela il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo.

153 G. Natullo, Principi generali della prevenzione e “confini” dell’obbligo di sicurezza, in M. Rusciano e G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, cit., p. 79 ss., qui p. 83, il quale rileva come l’estensione dell’ambito oggettivo della tutela di cui all’art. 2087 c.c. all’intero ambiente di lavoro abbia consentito di ricomprendervi chiunque si trovi esposto ai relativi rischi quand’anche estraneo all’azienda. Cfr. altresì V. Pasquarella, L’art. 2087 cod. civ. e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa: un connubio impossibile o difficile?, in RGL, 2002, p. 489 ss.; C. Lazzari, Brevi riflessioni in tema di tutela della salute, cit., p. 51.

154 Sull’art. 2087 c.c., v. per tutti L. Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, F. Angeli, Milano, 1989, p. 75 ss. Tra i contributi più recenti cfr. G. Pino, Una rilettura degli obblighi di sicurezza sul lavoro. L’art. 2087 del codice civile tra potere direttivo del datore di lavoro e responsabilità sociale d’impresa, in DML, 2006, n. 1 e 2, p. 77 ss.

155 Sezione I del Capo I del Titolo II del Libro V del codice civile.

156 Laddove l’espressione “prestatore di lavoro” trova la qualificazione di “subordinato” solo a partire dalla successiva Sezione II con l’art. 2094 c.c. Né decisivo appare in senso contrario il fatto che nella Sezione III si parli solo di prestatore di lavoro, trattandosi di una semplificazione relativamente a norme che si occupano solo del rapporto di lavoro subordinato.

157 Cfr. G.G. Balandi, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, in QDLRI, 1993, n. 14, Utet, Torino, p. 79 ss.

158 Cfr. L. Fantini, I componenti l’impresa familiare, i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 263 ss. In generale cfr. C. Lazzari, Brevi riflessioni in tema di tutela della salute, cit., p. 43 ss.

159 Per la verità, se l’art. 3, richiamando l’art. 2222 c.c., sembra riferirsi solo al contratto d’opera, il richiamo del lavoro autonomo deve essere inteso in senso più ampio visto che poi l’art. 21, evocato dall’art. 3, si riferisce espressamente non solo ai lavoratori autonomi ex art. 2222 c.c., ma anche ai piccoli imprenditori di cui all’art. 2083 c.c. ed ai soci delle società semplici operanti nel settore agricolo.

160 Risultano quindi solo parzialmente realizzate le aspettative di chi preconizzava la garanzia per i lavoratori autonomi di una informazione, una formazione e una sorveglianza adeguate (cfr. O. Bonardi, Ante litteram. Considerazioni «a caldo» sul disegno di legge delega, cit., p. 41). Peraltro, sebbene si tratti di facoltà (con oneri a carico dei lavoratori), ove questi intendano avvalersene, il datore di lavoro non potrà rifiutarsi di cooperare per il loro soddisfacimento.

161 Per la verità, la tutela (se così la si può chiamare) che risulta complessivamente prevista per i membri dell’impresa familiare lascia un po’ perplessi, anche a non voler considerare le frequenti ipotesi di vero e proprio sfruttamento che si celano dietro lo schermo di cui all’art. 230-bis c.c. Per cercare un quid pluris nelle pieghe del decreto occorrerebbe forse far leva sul fatto che la facoltà di beneficiare della sorveglianza sanitaria e della formazione di cui all’art. 21, comma 2, riguarda i “rischi propri delle attività svolte”, potendocisi chiedere se nell’impresa familiare esistano anche rischi dell’impresa in quanto tale che potrebbero giustificare una ben diversa protezione.

162 Trattandosi di una normativa con tratti di elevata specificità, se ne tratterà nel prosieguo (infra § 8.3).

163 Per la verità, diversamente dall’art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 81 del 2008, l’art. 70, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 non annovera tra i piccoli lavori domestici a carattere straordinario (lett. a) anche l’insegnamento privato supplementare (contemplato nella lett. b), dovendosi quindi ritenere che la tutela apprestata dalla nuova norma non riguardi quest’ultima fattispecie nel caso in cui l’insegnamento privato abbia carattere “domestico”, vale a dire sia svolto presso l’abitazione dello studente (il che appare comunque in linea con l’esclusione in generale del lavoro domestico). La tutela riguarda quindi le prestazioni di lavoro di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, nell’ambito: dei piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione di edifici e monumenti; della realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli; della collaborazione con enti pubblici e associazioni di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà; dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. (per i quali sono previste apposite tutele nell’art. 21), limitatamente al commercio, al turismo e ai servizi; dell’esecuzione di vendemmia di breve durata e a carattere saltuario, effettuata da studenti e pensionati.

164 Su tali obblighi v. P. Soprani, Tutela della sicurezza nel lavoro a domicilio, in DPL, 2008, p. 87 ss., anche per un commento ad una sentenza di legittimità (Cass. pen., sez. III, 13 dicembre 1999) che ha escluso la possibilità di estendere ai lavoratori a domicilio le altre tutele della disciplina prevenzionistica in ragione dello svolgimento della prestazione in un luogo di cui il datore non ha disponibilità e, quindi, al di fuori della sfera di vigilanza datoriale.

165 A. Antonucci, Lavoro a domicilio e telelavoro, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 285 ss., qui p. 288.

166 Su tali disposizioni cfr. da ultimo P. Pascucci, Il telelavoro, in N. Irti (dir.), Dizionario di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008 (in corso di pubblicazione).

167 Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 70 del 1999 (valido per le pubbliche amministrazioni), per “telelavoro” si intende la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente di una delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, “in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie della informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce”. Nell’art. 1, comma 1, dell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 (con il quale – ai sensi dell’art. 139, par. 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea – è stato recepito l’accordo-quadro europeo sul telelavoro concluso il 16 luglio 2002) il telelavoro è definito “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”.

168 Si noti che la norma si riferisce esclusivamente al lavoro subordinato, restandone escluse tutte le fattispecie di telelavoro inquadrabili in diversi schemi negoziali.

169 Appunto il citato accordo interconfederale del 9 giugno 2004.

170 Vale a dire: stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.

171 Sulla ricomprensione dei lavoratori dei call center nell’art. 3, comma 10, cfr. P. Soprani, Il “TU sicurezza”, cit., p. 238.

172 V. l’art. 5, comma 1, dell’accordo collettivo quadro del 23 marzo 2000 che, nel settore delle pubbliche amministrazioni, prevede che la fattispecie e la disciplina del telelavoro si estenda ad “altre forme flessibili anche miste, ivi comprese quelle in alternanza”, contemplando quindi una modalità di telelavoro “parziale”. Tale modalità è, fra l’altro, l’unica prevista per i dirigenti (art. 3, comma 6, del d.P.R. n. 70 del 1999; art. 4, comma 4, dell’accordo collettivo quadro del 23 marzo 2000), poiché la natura delle loro funzioni richiede la presenza fisica in sede per determinati periodi di tempo.

173 L. Gaeta, La qualificazione del rapporto, in L. Gaeta - P. Pascucci (a cura di), Telelavoro e diritto, Giappichelli, Torino, 1998, p. 1. ss., qui p. 17.

174 L. Gaeta, La qualificazione del rapporto, cit., p. 11 ss.

175 Cfr. l’art. 4 della l. 16 giugno 1998, n. 191, il suo regolamento attuativo emanato con il citato d.P.R. n. 70 del 1999, l’accordo collettivo quadro del 23 marzo 2000, nonché le varie norme in materia contenute nei contratti collettivi di comparto: cfr. L. Gaeta, P. Pascucci, U. Poti (a cura di), Il telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, Il Sole 24 ORE, Milano, 2000.

176 L’accordo quadro del 23 marzo 2000 ha previsto che le amministrazioni pubbliche provvedano alle spese relative al mantenimento dei livelli di sicurezza ed alla copertura assicurativa delle attrezzature in dotazione (art. 5, comma 2), nonché a fornire la formazione necessaria perché la prestazione di lavoro sia effettuata in condizioni di sicurezza per il lavoratore e per chi vive in ambienti prossimi al suo spazio lavorativo (art. 5, comma 5).

177 Art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 70 del 1999.

178 Art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 70 del 1999; art. 6, comma 2, dell’accordo quadro del 23 marzo 2000. Peraltro, in virtù del principio dell’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), dovrebbe escludersi che il lavoratore possa rinunciare alla prerogativa di rifiutare in qualsiasi momento l’accesso ai predetti soggetti.

179 Contenuta nel citato accordo interconfederale del 9 giugno 2004, su cui cfr. P. Pascucci, Il telelavoro, cit., anche per riferimenti bibliografici.

180 Art. 7 dell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004.

181 Almeno per quanto concerne l’ambito delle pubbliche amministrazioni, la generica espressione “lavoro a distanza” utilizzata nell’art. 4 della l. n. 191 del 1998 è stata “convertita” nel termine di “telelavoro” dall’art. 2 del d.P.R. n. 70 del 1999: cfr. L. Gaeta, La nozione, in L. Gaeta, P. Pascucci, U. Poti (a cura di), Il telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., p. 33 ss.

182 Cfr. gli artt. 4 e 8 del d.P.R. n. 70 del 1999, nonché l’art. 6 del contratto collettivo quadro del 23 marzo 2000, su cui cfr. A. Viscomi, La salute e la sicurezza, in L. Gaeta, P. Pascucci, U. Poti (a cura di), Il telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., p. 145 ss. Cfr. altresì M. Esposito, Salute e sicurezza, in L. Gaeta - P. Pascucci (a cura di), Telelavoro e diritto, p. 125 ss.

183 L. Gaeta, La qualificazione del rapporto, cit., p. 11 ss.

184 Pare difficile interpretare quest’ultima espressione come comprensiva di qualsiasi luogo in cui operi il telelavoratore, fatti salvi quelli che in qualche modo rientrano nella disponibilità del committente (si pensi ad una delle tante postazioni di telelavoro collocate in un centro remoto o satellitare che tale centro ponga a disposizione, mediante locazione, dell’imprenditore committente). Né di qualche ausilio pare rivelarsi la definizione di luogo di lavoro contenuta nell’art. 62, comma 1, lett. a (“i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”) che, ferme restando le disposizioni del Titolo I, vale unicamente ai fini dell’applicazione del Titolo II.

185 Come invece pare sostenere Antonucci, Lavoro a domicilio e telelavoro, cit., p. 291.

186 Realizzabile mediante i decreti legislativi integrativi o correttivi di cui all’art. 1, comma 6, della l. n. 123 del 2007, da emanare entro 12 mesi dalla entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008.

187 Restando esclusi soltanto i lavoratori addetti: ai posti di guida di veicoli o macchine; ai sistemi informatici montati a bordo di un mezzo di trasporto; ai sistemi informatici destinati in modo prioritario all’utilizzazione da parte del pubblico; alle macchine calcolatrici, ai registratori di cassa e a tutte le attrezzature munite di un piccolo dispositivo di visualizzazione dei dati o delle misure, necessario all’uso diretto di tale attrezzatura; alle macchine di videoscrittura senza schermo separato.

188 Tutela che prevede, oltre alle misure connesse agli obblighi del datore di lavoro, tra cui quelli di informazione e formazione, anche la sorveglianza sanitaria.

189 In tal senso cfr. anche S. Vergari, Ancora una delega per il riassetto e la riforma, cit., p. 22.

190 Cfr. Cass. pen., 24 aprile 2003, n. 34464, in DPL, 2003, p. 472. In dottrina v. R. Romei, Il campo di applicazione del d. leg. n. 626 del 1994, cit., p. 76.

191 Nel Titolo I, tali norme sono: l’art. 25, comma 1, lett. c, relativo alla custodia della cartella sanitaria e di rischio nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori; l’art. 29, commi 5 e 6, relativamente all’utilizzo delle procedure standardizzate per la valutazione dei rischi rispettivamente per i datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori e fino a 50 lavoratori; l’art. 30, comma 6, sulla finanziabilità dell’adozione del modello di organizzazione e di gestione nelle imprese fino a 50 lavoratori; l’art. 31, comma 6, lett. d, f, e g, là dove si impone il servizio di prevenzione e protezione interno rispettivamente nelle aziende industriali con oltre 200 lavoratori, nelle industrie estrattive con oltre 50 lavoratori e nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori; l’art. 35, commi 1 e 4, relativamente alla riunione periodica nelle aziende o unità produttive che occupano più di 15 lavoratori; l’art. 37, comma 11, relativo all’aggiornamento periodico del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) nelle imprese che occupano rispettivamente da 15 a 50 lavoratori e più di 50 lavoratori; l’art. 47, commi 3 e 4, sulla individuazione del RLS nelle aziende che occupano rispettivamente fino a 15 o più di 15 lavoratori; l’art. 47, comma 7, relativo al numero minimo di RLS in relazione alle dimensioni dell’organico aziendale; l’art. 49, comma 1, lett. e, relativo alla individuazione del RLS di sito produttivo nei contesti produttivi con oltre 500 addetti. Sempre collegato al Titolo I, va poi ricordato l’Allegato II, relativo alle ipotesi in cui il datore di lavoro può svolgere direttamente i compiti del servizio di prevenzione e protezione. Quanto al contesto da assumere a base del computo dei dipendenti, questo varia a seconda delle diverse disposizioni: in certi casi ci si riferisce al datore di lavoro, in altri all’azienda o all’unità produttiva, in altri alle industrie in altri ancora alla impresa (sebbene quest’ultimo termine sembra utilizzato in senso atecnico).

192 Pare questo il senso della critica rivolta da O. Bonardi, Il Testo Unico in materia di sicurezza del lavoro, cit., p. 350 allo schema di decreto legislativo approvato, nella XIV legislatura, dal Consiglio dei Ministri il 18 novembre 2004.

193 L’art. 2, terzo periodo, del d.lgs. n. 626 del 1994 considerava non computabili soltanto gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari e i partecipanti a corsi di formazione professionale nei quali si facesse uso di laboratori, macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici. Va peraltro ricordato che tale scarna disposizione legislativa era stata arricchita in via interpretativa mediante la circolare del Ministero del lavoro del 19 novembre 1996, n. 154.

194 Si noti che l’ora abrogato art. 6, comma 2, della l. n. 123 del 2007, a proposito della registrazione del personale delle imprese appaltatrici e subappaltatrici, definendo un meccanismo alternativo alla tessera di riconoscimento per i datori di lavoro con meno di 10 dipendenti, aveva previsto che nel computo di tali unità lavorative si tenesse conto di tutti i lavoratori impiegati a prescindere dalla tipologia dei rapporti di lavoro instaurati, ivi compresi quelli autonomi (v. infra § 8.3).

195 P. Pascucci, Stage e lavoro, cit., passim.

196 Art. 1, comma 3, del d.m. 25 marzo 1998, n. 142 (regolamento di attuazione dell’art. 18 della l. n. 196 del 1997).

197 Nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le attrezzature munite di videoterminali.

198 G. Bubola, I collaboratori coordinati e continuativi, cit., p. 277.

199 F. Giazzi, N. Persico, Il computo dei lavoratori, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., p. 177 ss., qui p. 179; G. Bubola, I collaboratori coordinati e continuativi, cit., p. 277.

200 F. Giazzi, N. Persico, Il computo dei lavoratori, cit. p. 180; circ. Min. lav. n. 46 del 2001.

201 F. Giazzi, N. Persico, Il computo dei lavoratori, cit. pp. 181-182.

202 M. Cudiferro, La dimensione aziendale e le nuove norme del Testo unico, in Guida lav., 2008, 23, p. 12 ss., qui p. 20.