Responsabilità dei consiglieri delegati di una società per infortunio occorso a magazziniere impegnato nell'uso di un carrello elevatore elettrico privo dei necessari dispositivi di sicurezza e senza che lo stesso usasse i dispositivi di protezione messi a sua disposizione.
Dalla presente sentenza emergono tre fondamentali indirizzi:
1) innanzitutto la macchina era risultata non soddisfacentemente conforme alle disposizioni legislative ed ai regolamenti vigenti in materia di sicurezza in quanto era sprovvista dei dispositivi di sicurezza per l'arresto delle pale alle estremità della loro corsa, in violazione del D. Lgs. n. 626 del 1994 articolo 6 comma 2).
E' dunque necessario, afferma la Corte, che il datore di lavoro ispiri la sua condotta "alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza.
Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura".
Si tratta,continua la Corte,“di affermazioni pienamente condivisibili, che poggiano sul disposto dell'articolo 2087 c.c. secondo cui l'imprenditore, al di là di ogni formalismo, è comunque tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa quelle misure che, sostanzialmente ed in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”.  
2) Il magazziniere inoltre, al momento dell'infortunio, non indossava le scarpe antinfortunistiche: la Corte afferma che il datore di lavoro, oltre a fornire i dispositivi di protezione individuale, è tenuto a controllare che il lavoratore li utilizzi ed è esente da responsabilità solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute.
Dunque il datore di lavoro non esaurisce il proprio dovere approntando i necessari mezzi di sicurezza ma su di lui incombe anche l'obbligo di accertarsi che quelle misure siano osservate.
Del resto, conclude la sez. IV, “nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento”.
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3) Infine, nel caso di imprese gestite da società di capitali e visto che nessuna delega di gestione era stata effettuata, gli obblighi concernenti l’igiene e la sicurezza sul lavoro gravano su tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione.
Sussiste


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORGIGNI Antonio - Presidente -
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere -
Dott. VISCONTI Sergio - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.G. n. a (OMISSIS), M.E. n. a
(OMISSIS) e M.A. n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 24 febbraio 2005 della Corte di Appello di Milano;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Patrizia Piccialli;
udito il Procuratore generale nella persona del Sost. Proc. Gen. Dott. De Sandro Anna Maria, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità;
udito il difensore della parte civile avv. Salafia Antonio che ha concluso chiedendo la conferma della sentenza impugnata.




FattoDiritto

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, con cui M. G., M.E. e M.A. erano stati riconosciuti colpevoli del reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, applicava ai prevenuti esclusivamente la pena pecuniaria di Euro 250,00 ciascuno, in luogo di quella detentiva, in considerazione delle osservazioni già svolte dal primo giudice sulle difficoltà di assolvere compiutamente agli obblighi prevenzionali nell'ambito delle piccole imprese.
Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso in data 8.10.2001 a S.F., magazziniere della IMAT FELCO s.p.a., contestato ai prevenuti rispettivamente, il primo, nella qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione, gli altri, in qualità di consiglieri delegati della stessa società, per avere messo a disposizione dei lavoratori un carrello elevatore elettrico, non soddisfacente le disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza (lo stesso era privo dei dispositivi di sicurezza per l'arresto delle pale alle estremità della loro corsa, in violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 6, comma 2) e per non avere preteso che il lavoratore usasse i mezzi di protezione messi a sua disposizione, in particolare, le scarpe antinfortunistiche (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, lett. c).
Dalla sentenza emergeva altresì che il carrello, causa del sinistro, era in comodato gratuito dalla Astis s.r.l. e che il legale rappresentante di tale società era stato prosciolto per insussistenza del fatto ascrittogli, non essendo stato possibile escludere con certezza che il carrello era stato consegnato privo dei bulloni-fermo, in quanto la loro rimozione poteva anche essere avvenuta dopo la consegna.
Non sono in contestazione le modalità dell'infortunio, come ricostruite dai giudici di merito, verificatosi allorchè il lavoratore, nell'atto di allargare le pale del carrello elevatore, del peso di circa 55 kg l'una, spingendole manualmente verso l'estremità della loro corsa, veniva colpito al piede sinistro da una di queste, fuoriuscita dalla guida, procurandosi le indicate lesioni da schiacciamento con indebolimento permanente dell'organo della deambulazione sinistro.
Propongono ricorso per Cassazione, tramite difensori, i pervenuti.
Con il primo motivo deducono la manifesta illogicità della motivazione laddove la Corte di merito aveva ritenuto la penale responsabilità di M.E. e M.A., entrambi consiglieri delegati, non preposti alla sicurezza, trascurando il dato che tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione dal 5.11.1998 venivano assolti esclusivamente da M. G..
Con il secondo motivo lamentano la violazione di legge sotto diversi profili.
Innanzitutto, con riferimento al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 41, che nel prescrivere l'obbligo di protezione e di sicurezza delle macchine, non fa riferimento al datore di lavoro.
Ne consegue, secondo l'assunto difensivo, che ogni responsabilità circa la violazione della norma di sicurezza avrebbe dovuto doveva gravare sulla società Astis, fornitore e addetto alla manutenzione dei carrelli elevatori acquistati dalla IMAT.
In secondo luogo, con riferimento agli artt. 42 e 43 c.p., sul rilievo della non configurabilità della omissione cosciente e volontaria da parte dei prevenuti, considerato la difficile visibilità dei fermi di fine corsa.
Infine, con riferimento all'art. 45 c.p., dovendosi ritenere del tutto imprevedibile il comportamento della Astis, che consegnò un carrello sostitutivo privo di fermi.
Con il terzo motivo censurano la sentenza impugnata nella parte in cui era stata ritenuta la responsabilità dei prevenuti per non avere preteso l'uso delle scarpe antinfortunistiche, così trascurando gli elementi di prova attraverso i quali era stata dimostrata non solo la consegna al dipendente delle scarpe antinfortunistiche ma anche il richiamo scritto allo stesso per ribadirne l'obbligatorietà e la formazione - informazione del lavoratore sui rischi connessi all'espletamento delle mansioni attraverso specifici corsi.
Inoltre, i giudici di merito non avrebbero tenuto conto della violazione da parte dello stesso infortunato della L. n. 626 del 1994, art. 39, comma 2, che impone ai lavoratori l'obbligo di utilizzare le attrezzature messe a loro disposizione.
Il ricorso è infondato.
Infondato è il primo motivo, con il quale si contesta la posizione di garanzia degli imputati M.A. e M.E., assumendo che entrambi, nella qualità di componenti del consiglio di amministrazione della società per azioni IMAT FELCO, non erano delegati alla sicurezza.
Sotto tale profilo, la sentenza impugnata, ha ritenuto che proprio perchè la sicurezza non era stato oggetto di specifica delega, gli obblighi imposti ai datori di lavoro dalla normativa antinfortunistica dovevano ritenersi gravanti su tutti i componenti del Consiglio di amministrazione.
La decisione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte (v. tra le altre, Sez. 4^, 11 luglio 2002, Macola ed altro) secondo la quale nel caso di imprese gestite da società di capitali, gli obblighi concernenti l'igiene e la sicurezza del lavoro gravano su tutti i componenti del Consiglio di amministrazione.
La sentenza sopra citata sottolinea, altresì, che la delega di gestione, in proposito conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva di poteri di deliberazione e spesa, può solo ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del Consiglio, ma non escluderla interamente, poichè non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento, soprattutto nel caso di mancato esercizio della delega.
Quanto al secondo motivo, incensurabile è l'apprezzamento del giudicante che non ha attribuito rilievo esimente della responsabilità degli imputati alla tesi difensiva che già al momento della consegna il carrello era privo dei dispositivi di sicurezza di arresto delle forche.
Sul punto, si rileva, innanzitutto, in fatto, che tale circostanza - asserita dalla difesa degli imputati - è rimasta peraltro non solo indimostrata, ma anche contraddetta dalla pronuncia di assoluzione del legale rappresentante della società tornitrice del carrello e dell'assistenza tecnica.
Ciò che rileva, comunque, assorbentemente, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, è che tra i compiti di prevenzione del datore di lavoro è anche quello di dotare il lavoratore di strumenti e macchinari del tutto sicuri (v., ex pluribus, Sez. 4^, 10 novembre 2005, Minesso).
In altri termini, il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza.
Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura (per riferimenti, Sez. 4^, 26 aprile 2000, Mantero ed altri).
Trattasi di affermazioni, pienamente condivisibili, che poggiano sul disposto dell'art. 2087 c.c. secondo cui l'imprenditore, al di là di ogni formalismo, è comunque tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa quelle misure che, sostanzialmente ed in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
Si è in presenza, infatti, di una disposizione, utilmente qui richiamabile, che costituisce "norma di chiusura" rispetto alle disposizioni della legislazione antinfortunistica, comportando a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e di protezione dell'incolumità dei propri lavoratori e della stessa incolumità pubblica: obblighi che rendono esigibile, da parte del datore di lavoro, il dovere di impedire, mediante adeguato controllo e la predisposizione di ogni strumento a ciò necessario, che il bene o l'attività, sorgente di pericoli e rientrante nella sfera della sua signoria, possa provocare danni a chiunque ne venga a contatto, anche occasionalmente (v. Sez. 4^, 13 giugno 2000, Forti; Sez. 4^, 12 gennaio 2005, Cuccù, secondo cui il datore di lavoro deve attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, appunto, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2).
In questa prospettiva, correttamente si è esclusa valenza esimente al fatto - oltretutto indimostrato - che il carrello fosse stato consegnato privo dei dispositivi di fermo, trattandosi di circostanza ex se non tale da elidere il suindicato obbligo cautelare del datore di lavoro.
Mentre eventuali concorrenti profili colposi addebitabili al fabbricante o fornitore (qui, comunque esclusi) non elidono certamente il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo in danno del lavoratore.
Questo, del resto, in linea con la pacifica affermazione secondo cui è configurabile la responsabilità del datore di lavoro il quale introduce nell'azienda e mette a disposizione del lavoratore una macchina - che per vizi di costruzione possa essere fonte di danno per le persone - senza avere appositamente accertato che il costruttore, e l'eventuale diverso venditore, abbia sottoposto la stessa macchina a tutti i controlli rilevanti per accertarne la resistenza e l'idoneità all'uso, non valendo ad escludere la propria responsabilità la mera dichiarazione di avere fatto affidamento sull'osservanza da parte del costruttore delle regole della migliore tecnica (v. sul punto, Sez. 4^, 3 luglio 2002, Del Bianco Barbacucchia).
Infondato è anche il terzo motivo, laddove si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ravvisato un addebito colposo a carico degli imputati per non avere preteso l'uso delle scarpe antinfortunistiche da parte del lavoratore, nonostante fosse stato dimostrato un richiamo, con nota scritta, rivolto in tal senso al lavoratore.
La pronuncia è in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte (v., tra le altre, Sez. 4^, 10 febbraio 2005, Kapelj), secondo la quale in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro (e questo vale anche per chi, delegato formalmente o di fatto, da questi con compiti di direzione e controllo) è articolato, comprendendo, tra l'altro, l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinati lavori, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, ed anche il controllo continuo, congruo ed effettivo, nel sorvegliare e quindi accertare che quelle misure vengano, in concreto, osservate, non pretermesse per contraria prassi disapplicativa, e, in tale contesto, che vengano concretamente utilizzati gli strumenti adeguati, in termini di sicurezza, al lavoro da svolgere, controllando anche le modalità concrete del processo di lavorazione.
Il datore di lavoro, quindi, non esaurisce il proprio compito nell'approntare i mezzi occorrenti all'attuazione delle misure di sicurezza e nel disporre che vengano usati, ma su di lui incombe anche l'obbligo di accertarsi che quelle misure vengano osservate e che quegli strumenti vengano utilizzati.
LL'obbligo del datore di lavoro (e soggetti assimilati) ad informare e istruire i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti discende, del resto, dall'inequivoca disciplina di settore (cfr. il combinato disposto del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4, e del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, artt. 37 e 38).
La Corte di appello ha pertanto fatto corretta applicazione di tale principio quando ha escluso efficacia esimente della responsabilità dei prevenuti alla lettera inviata allo S. in data 10.5.2000, contenente un richiamo all'uso delle scarpe antinfortunistiche, messegli a disposizione.
Le stesse argomentazioni sono utilizzabili per smentire la fondatezza dell'altre profilo di censura, prospettato sul rilievo del comportamento colposo dell'infortunato, che era venuto meno all'obbligo previsto dalla L. n. 626 del 1994, art. 39, comma 2, di utilizzare le attrezzature messe a sua disposizione.
In proposito, ineccepibili sono le argomentazioni del giudicante il quale, pur preso atto dell'imprudenza del lavoratore, ne ha escluso la rilevanza per escludere la responsabilità degli imputati.
Sul punto, la Corte di appello ha fatto applicazione del principio, assolutamente non controverso, in forza del quale, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile.
Peraltro, in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (cfr., di recente, ex pluribus, Sez. 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri).
E' l'ipotesi che qui interessa, ove si ponga attenzione che correttamente il giudicante, con apprezzamento del resto incensurabile in fatto, ha posto in evidenza come il comportamento posto in essere dal lavoratore, pur imprudente, non presentava nessuno dei caratteri di eccezionalità o imprevedibilità, ai fini della pretesa interruzione del nesso causale.
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali ed alle spese sostenute dalla parte civile S. che liquida in Euro 2000, oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2008