Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Tribunale di Bergamo, Sez. Civ., 14 febbraio 2013, n. 159 - Mobbing nel luogo di lavoro


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI BERGAMO

Sez. monocratica del lavoro
VERBALE EX ART. 429 C.P.C.
UDIENZA DEL 14 FEBBRAIO 2013


avanti al Giudice, dott.ssa
…………………………., nella causa iscritta al n. 23/11 R.G. e promossa da
………………………………….. (Avv. ……………………………..)
CONTRO ………………………………………………. (Avv. ………………………………)
Sono comparsi: l’avv. ……………………………. per la parte ricorrente, presente personalmente, nonché l’avv. ……………… in sostituzione dell’avv. ……………………, come da delega che deposita, per la società convenuta.
assiste ai fini della pratica forense la dott.ssa ……………………………..
Con il consenso delle parti assiste all’udienza la stagista ……………………… .

L’avv. ………………… insiste nella richiesta di ammissione di c.t.u. medico-legale, riportandosi in ogni caso alle conclusioni di cui al ricorso ed alle note difensive.
L’avv. ………………. si oppone alla richiesta di c.t.u., riportandosi alle deduzioni in atti.

Repubblica Italiana
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Bergamo, visto l’art. 429 c.p.c., udite le conclusioni della parte, nonché i motivi a sostengo, pronuncia la seguente di cui pubblica lettura
SENTENZA

nel nome del popolo italiano
PARTE RICORRENTE: per l’accoglimento del ricorso;
PARTE RESISTENTE: per il rigetto del ricorso;

Fatto

 

 

Con ricorso regolarmente notificato …………….. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo in funzione di giudice del lavoro, gli ……………………………………….. ( già ……………………………………..) per sentir accertare e dichiarare l’illegittimità dei comportamenti tenuti in suo danno, e riconducibili alla fattispecie del mobbing, con conseguente condanna al risarcimento di tutti i danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali, nella misura da accertarsi in corso di causa, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria. Si costituiva regolarmente in giudizio …………………………………..(già ……………………………..), resistendo alla domanda, di cui chiedeva il rigetto. La causa, istruita documentalmente e testimonialmente, è stata discussa e decisa all’odierna udienza, mediante sentenza di cui veniva data pubblica lettura.

Diritto

 

Il ricorso è fondato.
Il “mobbing”, nella definizione offerta dalla psicologa del lavoro, cui gran parte della giurisprudenza ha ormai aderito, rappresenta “una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente” (v., tra le molte, Trib. Forlì n. 28/05). Più in particolare, si è in presenza di una condotta “sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (cass. Civ., 3785/09). Si tratta, come riconosciuto dalla Suprema Corte, di “un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (v. in motivazione, cass. Civ., 18927/12, nonché Corte cost. sentenza 359/03).
Ciò che è importante evidenziare è che ai fini delle configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti “la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio” (cass. Civ., 3785/09).
Le azioni suscettibili di integrare tale fattispecie giuridica possono essere le più diverse: gli attacchi ai contatti umani (limitazioni alle possibilità di esprimersi, continue interruzioni del discorso, rimproveri e critiche frequenti, sguardi e gesti con significato negativo); l’isolamento sistematico (trasferimento in un logo di lavoro isolato, atteggiamenti tendenti ad ignorare la vittima, divieti di parlare od avere rapporti con questa); i cambiamenti delle mansioni (privazione totale delle mansioni, assegnazione di lavori inutili, nocivi o al di sotto delle capacità della vittima); gli attacchi contro la reputazione (pettegolezzi, ridicolizzazioni, anche calunnie, umiliazioni); la violenza o la minaccia di violenza (minacce od atti di violenza fisica, anche a sfondo sessuale). Inoltre, il “mobbing” non è costituito e non si esaurisce in una singola condotta (ad esempio in un singolo demansionamento od in una molestia sessuale), ma si traduce in una vera e propria aggressione, in un accerchiamento della vittima, in un conflitto mirato contro una persona od un gruppo di persone ove deve essere ben percepibile un intento persecutorio (al fine di distinguerlo, a titolo esemplificativo, da tutte quelle situazioni di tensioni naturalmente conseguenti da un cambiamento di gestione o di organizzazione).
Infine, come già accennato, possono aver rilievo non solo condotte illecite, ma pure di comportamenti leciti che, per la frequenza, la reiterazione e l’essere sottesi dall’intendo persecutorio nei confronti della vittima danno luogo a questa fattispecie, ricadendo nell’alveo della illiceità. Per la configurabilità del fenomeno “devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendenti; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (v. in motivazione, cass. Civ., 18927/12, nonché Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26/3/2010 n. 7382).
Esso è fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.. Ed è importante evidenziare che “se anche la diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati”, di cui si è detto ((v. in motivazione, cass. Civ., 18927/12) ed “a ciò non è di ostacolo neppur la eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell’azione che il giudice è tenuto ad effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (v. in motivazione, cass. Civ., 18927/12, nonché Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 1° settembre 2004, n. 17610; Cass. 12 aprile 2006, n. 8519).
Fatte queste premesse, gli elementi acquisiti con l’istruttoria consentono di ritenere provata la domanda della ricorrente. E’ emerso, infatti, che nel reparto di otorinolaringoiatria il personale infermieristico si era, di fatto, suddiviso in due gruppi, uno composto dalla caposala, dalla ……….e dalla ……………….., e l’altro formato dalla altre infermiere, che subivano da parte delle prime, una situazione di vero e proprio isolamento e disprezzo personale (v. dep. ……………………………………….). In proposito, la teste …………………………., che, senza aver azionato alcun contenzioso nei confronti della convenuta, ha lavorato in quel reparto ed ha vissuto la stessa situazione di isolamento della ricorrente, ha riferito che in otorinolaringoiatria alcune infermiere, tra cui la ricorrente, erano state relegate in una situazione di isolamento, per cui a loro non veniva rivolta la parola, né il saluto, non venivano inserite (o lo venivano ma in misura decisamente inferiore alle altre) nei turni del sabato e della domenica, quelli che, pur essendo meno faticosi per l’assenza di interventi chirurgici, sono però più remunerativi (v. dep. ……………………, nonché ……………….). La situazione, nell’arco di 4 mesi, era diventata così insostenibile per la ………………………., da indurla a chiedere il trasferimento, fatto a seguito del quale la caposala l’avvicinò, dicendole che non la riteneva idonea per il reparto e che pertanto ne aveva a sua volta domandato il trasferimento (v. dep. ………………………..). Ciò è chiaramente indice dell’intendo vessatorio sotteso alle condotte poste in essere dalle altre infermiere del reparto e dalla caposala che, comunque, non impedendole, le avvallava. Se ne deve pertanto dedurre che questa situazione di ostilità, di isolamento e di ostruzionismo fosse finalizzata ad estraniare dal gruppo il personale non gradito ed a far sì che questo, alla fine, chiedesse il trasferimento.
Del resto, la teste ………………, pur riferendo di non aver in alcun modo percepito quel clima di visibile e palese ostilità pienamente ed univocamente emerso dalle altre deposizioni, dimostrando così la propria inattendibilità, ha comunque confermato che alcune colleghe, come la ………. e la ricorrente, chiesero il trasferimento (v. dep. ……………………..).
Negli stessi termini si è espressa la teste ………………………, rispetto alla quale, come noto, non sussiste alcuna situazione di incapacità a testimoniare per il solo fatto di aver a sua volta promosso giudizio per fatti analoghi.
Si tratta, più semplicemente, di valutarne l’attendibilità, che non può essere esclusa, sia perché i fatti riferiti sono stati ampiamente confermati dalla …………………………. e dalla ………………, che non hanno intentato alcun contenzioso nei confronti della datrice di lavoro, sia perché i medesimi fatti sono stati esposti, nel corso del racconto, in maniera serena, precisa e perciò credibile.
Quanto alla ………………….., pure costei ha riferito di questo clima ostile, di isolamento, di mancanza di collaborazione, circostanza assai grave e per la quale, ad esempio, al cambio del turno il gruppo di infermiere vicine alla caposala non rivolgeva la parola alla collega entrante, limitandosi a lasciare dei bigliettini scritti (v. dep. ………….).
In proposito, non può fare a meno di rilevarsi la gravità di una simile condotta avuto riguardo al contesto, ospedaliero, in cui essa si inseriva e tale da richiedere la massima collaborazione tra il personale infermieristico.
Altrettanto gravi sono gli ulteriori fatti riferiti dalla ………………….., secondo cui lei era stata soprannominata “la mamma di Cogne”, mentre la caposala si rivolte al gruppo della ricorrente dicendo che erano “bambine dell’asilo” (v. dep. ………………….).
La pesantezza di tale situazione emerge chiaramente dalle parole della …………. che si sentiva “colpita nella dignità” ed “intimamente stressata”, tant’è che alcune colleghe del suo gruppo si facevano cambiare il turno per non lasciarla “sola” in quelle “10 ore di silenzio con le altre” (v. dep. …………………..).
Lo stesso stato di angoscia e di frustrazione veniva vissuto dalla ricorrente che, secondo il racconto della ………………………….., era molto stressata, era diventata insicura e stava male all’dea di andare a lavorare (v. dep. ……………………….). In definitiva, non può negarsi che le condotte descritte (l’isolamento, l’atteggiamento ostile o mortificante della ………………….), siano riconducibili alla fattispecie del “mobbing”, trattandosi di condotte reiterate, sistematiche, umilianti, emarginanti, offensive della dignità e del decoro della persona, sottese, inoltre, da un intento meramente vessatorio e dalla volontà di emarginare la vittima. In ogni caso, a prescindere dal nomen iuris ovvero dalla loro qualificazione come “mobbing” , si connotano di antigiuridicità e perciò la datrice di lavoro che ne è chiaramente responsabile, deve essere condannata al risarcimento dei danni che ne sono conseguiti.
Si tratta, indubitabilmente, di comportamenti lesivi del diritto alla dignità personale e professionale della ricorrente. Si è in presenza di fatti, oltre che ingiustificati in un ambiente lavorativo, come già rilevato, offensivi del decoro e della dignità della persona. Oltretutto, non può trascurarsi che a porli in essere, o comunque ad avallarli, era la caposala che invece aveva il dovere di ripartire equamente i turni, senza preferenze, solo tenendo conto delle esigenze del reparto, delle attitudini, delle specifiche capacità professionali del personale infermieristico e non. La …………………………. doveva far sì, soprattutto in un ambiente oggettivamente delicato come quello ospedaliero, che i rapporti interpersonali fossero corretti e rispettosi, perché il contrario, oltre a ledere la dignità delle persone che subivano quel processo di isolamento e mortificazione, rischiava di mettere a repentaglio la serenità dell’ambiente lavorativo, fatto che, nel settore della sanità, del contatto con il paziente, sarebbe stato particolarmente pericoloso e deprecabile. Quanto all’assunto della società secondo cui lei era all’oscuro della vicenda e che, non appena informata, ha assunto gli opportuni provvedimenti, attuando una serie di trasferimenti ed una riorganizzazione, va ricordato che la responsabilità di cui all’art. 2087 c.c. sussiste anche in caso di omesso controllo e vigilanza.
Nella situazione in esame, la ricorrente, al pari di altre colleghe, è stata lasciata completamente sola, isolata dalla caposala e dalla infermiere che si stringevano a lei, ignorata dal personale medico che non poteva non aver percepito una simile situazione di disagio all’interno del reparto.
Peraltro, il rischio derivante da situazioni analoghe a quella in esame (mobbing o rischio stress correlato) dovrebbe essere evitato dal datore di lavoro attuando apposite misure di sicurezza, come, per fare l’esempio più semplice, la previsione di colloqui con i lavoratori, al fine di acquisire situazioni di disagio, soprattutto in contesti molto grandi, ma al contempo delicati, come quello ospedaliero. Nulla di tutto ciò è stato fatto dalla resistente, nonostante ci fossero stati alcuni segnali di allarme, come, ad esempio, il trasferimento chiesto dalla …………………….. dopo appena 4 mesi e quelli chiesti dalla ………………… e dalla ricorrente, rispetto alle cui motivazioni nessuno si è mai interrogato.
Tuttavia, il fatto che a rotazione le infermiere assegnate al reparto otorinolaringoiatria chiedessero di essere trasferite altrove non poteva essere ignorato dal datore di lavoro.
Si trattava, all’evidenza, dell’inizio che qualcosa non funzionava e su cui occorreva indagare, non solo a tutela di coloro che in quel reparto operavano, ma pure a tutela dell’utenza e dell’organizzazione del servizio reso.
Pertanto, per tutte le ragioni esposte, va affermata la responsabilità della convenuta per i fatti posti in essere in danno della ……………………………..
Occorre inoltre ricordare che il danno morale attiene ad un diritto inviolabile della persona ovvero “all’integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall’art. 2 della Costituzione in relazione all’art. 1 della carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008 n. 190” (v. Cass. Civ., 12.12.2008 n. 29191). Sempre la Corte di Cassazione ha recentemente precisato che “alla luce del sistema bipolare introdotto in materia risarcitoria dall’arresto della S.U. n. 26972/2008, nella disciplina del rapporto di lavoro, ove già numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (artt. 32, 37 Cost.), il danno non patrimoniale è configurabile, indipendentemente dalla violazione di un precetto penale, ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato in modo grave i diritti della persona del lavoratore, concretizzando in vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria, dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice di merito, il quale, senza duplicare il risarcimento, dovrà discriminare i meri pregiudizi, che si risolvono in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili, dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione che, se congrua e coerente con i principi giuridici applicabili alla materia, resta esente dal sindacato di legittimità. E fermo restando, anche con riferimento all’ambito lavori stico, la necessità che sia provato non solo il nesso causale fra la condotta illecita ed il pregiudizio lamentato, ma anche che sia accertata l’esistenza del danno, seppure eventualmente a seguito di presunzioni, che, però, in quanto gravi, precise e concordanti, debbono assurgere a fonti di “prova” (cass. Civ., 30.12.2009 n. 27845). Fortunatamente per la ricorrente, secondo quanto può evincersi dalla documentazione in atti, tale situazione non ha determinato un danno biologico permanente, essendo documentato solo un periodo di malattia di circa un mese ed un paio di viste mediche tra il 2007 ed il 2008 (v. doc. 7, 8 fasc. ricorrente).
Non v’è dubbio però che un disagio ed una sofferenza vi siano stati e non si è trattato di meri pregiudizi, ma di lesioni di interessi costituzionalmente garantiti che hanno condotto ad uno stato, sia pure temporaneo, di malattia. A tale titolo va dunque riconosciuto alla ricorrente un importo di € 3.000,00 a titolo di inabilità temporanea, incrementato, in virtù della cd. personalizzazione, alla complessiva somma di euro 5.000,00, quantificati in maniera assolutamente equitativa in ragione delle modalità di compimento della condotta, per come ampiamente illustrate, e della sua durata. Poiché la liquidazione avviene ai valori attuali ed è quindi comprensiva della rivalutazione monetaria su tale somma competono gli interessi legali calcolati dalla data del fatto (ovvero dalla data del trasferimento presso altro ente) sul capitale (previa devalutazione della somma sopra liquidata) p il premio anno sul capitale annualmente rivalutato secondo i criteri di cui all’art. 150 disp. att. C.p.c. per gli anni successivi fino al saldo. Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica ed in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sulla causa n. 23/11 R.G. 1.
Condanna la
…………………………………………. (già ………………………………), in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore di ………………………….., della somma di euro 5.000,00 oltre ad interessi legali dal dovuto al saldo;
Condanna la
…………………………………………. (già ………………………………), in persona del legale rappresentante pro tempore, alla refusione in favore di ……………………………., delle spese processuali, liquidate in complessivi €