Cassazione Civile, Sez. Lav., 22 ottobre 2013, n. 23949 - Mobbing e Dequalificazione. Mancanza di prove del comportamento persecutorio del datore di lavoro


 

 

 

Fatto



La Corte d’appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda di M.G.P., diretta ad ottenere l’accertamento che gli atti e i comportamenti adottati nei suoi confronti dal Ministero per i beni culturali e ambientali - dopo che il Tar Lazio aveva annullato gli atti con i quali la ricorrente era stata trasferita dall’Ufficio centrale per i beni ambientali e paesaggistici al Gabinetto del Ministro per esigenze del Servizio tecnico e poi all’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione - avevano avuto lo scopo di eludere gli effetti della sopra citata sentenza del giudice amministrativo, assegnandola ad incarichi avulsi dalle competenze proprie della sua qualifica (architetto di nono livello) e caratterizzandosi per un intento persecutorio e punitivo nei suoi confronti. La domanda della ricorrente era diretta ad ottenere, inoltre, l’accertamento del proprio diritto allo svolgimento effettivo delle competenze ministeriali in materia di tutela ambientale e paesaggistica, il riconoscimento di una posizione funzionale adeguata alla sua qualifica e la condanna dell’Amministrazione (e dei dirigenti preposti all’ufficio) al risarcimento dei danni conseguenti alla perdita dei compensi previsti nel contratto e alla perdita delle opportunità professionali, nonché al risarcimento del danno biologico e del danno all’immagine professionale. Alla statuizione di rigetto la Corte territoriale è pervenuta osservando, in sintesi, che le vicende intervenute nel corso del rapporto non evidenziavano l’esistenza di un intento persecutorio da parte dell’Amministrazione, ma piuttosto l’esistenza di una situazione di conflitto tra le parti, determinata anche da una diversa interpretazione dei diritti e degli obblighi derivanti dai provvedimenti del giudice amministrativo.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione M.G.P., affidandosi a due motivi di ricorso cui resistono con controricorso il Ministero per i beni e le attività culturali e i dirigenti chiamati in giudizio dalla ricorrente.

La P. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. e, all’esito della discussione, osservazioni scritte sulle conclusioni del pubblico ministero.



Diritto





1- Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., chiedendo a questa Corte di stabilire se "proposta domanda di accertamento dell’esistenza di un comportamento di mobbing e dequalificazione con conseguente richiesta (anche) di risarcimento dei relativi danni" e "allegati e chiesti di provare, alla prima udienza, a sostegno dell’esistenza e continuità di tali comportamenti e anche ai fini della determinazione della misura del danno, fatti accaduti successivamente al deposito del ricorso, debba ritenersi nulla per violazione dell’art. 112 c.p.c. la sentenza che abbia pronunciato solo sui fatti precedenti il deposito del ricorso e non su quelli sopra indicati".

2- Con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 420, quinto comma, c.p.c., anche in relazione ai principi di economia processuale, ragionevole durata del giudizio e divieto di frazionare in più processi una pretesa fondata su un comportamento lesivo, sostanzialmente unitario, che si protrae nel tempo, chiedendo a questa Corte di stabilire se "proposta domanda per l’accertamento di un comportamento di dequalificazione e mobbing, ai sensi del quinto comma dell’art. 420 c.p.c., tra i mezzi di prova "che le parti non abbiano potuto proporre prima" e che, pertanto, il giudice alla prima udienza deve ammettere, rientrino anche quelli relativi a fatti avvenuti successivamente al deposito del ricorso, purché rientranti nella causa petendi e nel petitum della domanda".

3- Il primo motivo è infondato, posto che la Corte territoriale non ha omesso di prendere in esame un capo della domanda o una questione di merito prospettata dalla parte, ma, al contrario, ritenendo che la proposizione di una domanda intesa ad ottenere la liquidazione del danno con riguardo a fatti verificatisi in epoca successiva al deposito del ricorso introduttivo venisse ad integrare una causa petendi diversa da quella originariamente dedotta, ha adottato una decisione che si pone esplicitamente in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comportandone il rigetto, con conseguente esclusione della possibilità di configurare, nel caso in esame, il vizio di omessa pronuncia.

4- Anche il secondo motivo deve ritenersi infondato.

Questa Corte ha già precisato (cfr. ex plurimis Cass. n. 10045/96) che la domanda giudiziale di risarcimento del danno si fonda su di una causa petendi identificabile in uno specifico accadimento lesivo spazialmente e temporalmente determinato, sicché, una volta che essa sia stata proposta in relazione a determinati fatti, il riferimento all’eventualità che nelle more del giudizio abbiano a verificarsi nuovi accadimenti (siano pur essi omogenei rispetto ai precedenti), suscettibili di ledere ancora la situazione giuridica protetta e di cagionare cosi una ulteriore ragione di danni, non introduce alcuna valida domanda, né, una volta che tali fatti si siano verificati, può legittimare alla sua proposizione nel corso del giudizio. Ne deriva che la richiesta di ristoro del danno per fatti sopravvenuti in corso di causa comporta un non consentito mutamento della primitiva domanda, con la conseguente inammissibilità della stessa anche in appello, senza che, in contrario, possa argomentarsi dalla deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 345, primo comma, c.p.c., trovando tale norma applicazione solo quando nel giudizio di primo grado sia stato richiesto il risarcimento del danno maturato in precedenza, e giustificandosi tale deroga solo nel presupposto che si incrementino le conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa, senza che gli ulteriori danni siano ricollegabili anche a fatti nuovi e diversi.

Né, per giungere a diverse conclusioni, potrebbe valere il richiamo al principio espresso in alcune decisioni di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 17101/2009, citata nella memoria ex art. 378 c.p.c. di parte ricorrente) secondo cui nel rito del lavoro, proposta una domanda risarcitoria ex art. 414 c.p.c., la richiesta del risarcimento degli ulteriori danni maturati nel corso del processo e di una somma maggiore rispetto a quella inizialmente indicata in relazione ad un più ampio periodo temporale maturato nel corso dello svolgimento del giudizio, non comporta alcuna immutazione dei fatti posti a fondamento della domanda, non introducendo alcun nuovo tema di indagine sul quale la controparte non abbia potuto svolgere le proprie difese, né un ampliamento del tema sottoposto all’indagine del giudice, versandosi in tema di conseguenze risarcitorie dipendenti dall’unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo e maturate in corso di causa, e non già di eventi provocati da circostanze diverse successive alla proposizione della domanda e sulle quali sarebbe necessaria un’ulteriore indagine in punto di fatto.

E’ evidente, infatti, che anche nelle ipotesi prese in esame nelle suddette pronunce viene sì ammessa la risarcibilità degli "ulteriori danni maturati nel corso del processo", ma viene anche sottolineato come sia pur sempre necessario, a questi fini, che si tratti di "conseguenze risarcitorie dipendenti dall’unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo", e non già di "eventi provocati da circostanze diverse successive alla proposizione della domanda", sulle quali si renda necessaria un’ulteriore indagine in punto di fatto.

5 - Nella specie, come è stato rilevato dai giudici di merito, le ulteriori conseguenze dannose che si assumono verificate dopo il deposito del ricorso introduttivo sarebbero, per l’appunto, dipendenti da ulteriori sviluppi della vicenda lavorativa - consistenti, fra l’altro, nell’avvio di un procedimento disciplinare in relazione alla mancata esecuzione di un incarico di lavoro - e cosi da eventi successivi alla proposizione della domanda e sui quali sarebbe stata senz’altro necessaria un’ulteriore indagine istruttoria (come, peraltro, richiesto anche dalla ricorrente nel corso del giudizio di primo grado). Ne consegue la correttezza della decisione della Corte d’appello, che ha confermato la statuizione con cui il primo giudice ha ritenuto di non dare ingresso alle richieste proposte dalla ricorrente con riguardo alla verificazione dei suddetti eventi.

6 - In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la conferma della sentenza impugnata.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo, facendo riferimento alle disposizioni di cui al d.m. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 d.m. cit.), e procedendo ad una liquidazione unitaria delle stesse in ragione della identità delle posizioni processuali delle parti resistenti.



P.Q.M.





Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in € 4.000,00 oltre accessori di legge.