Conclusioni dell'avvocato generale La Pergola del 26 ottobre 1999. - Tanja Kreil contro Repubblica federale di Germania. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Verwaltungsgericht Hannover - Germania. - Parità di trattamento tra gli uomini e le donne - Limitazione dell'accesso delle donne agli impieghi militari della Bundeswehr. - Causa C-285/98.

raccolta della giurisprudenza 2000 pagina I-00069

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I - La questione pregiudiziale


1 Il presente procedimento interessa il divieto, disposto dalla legge nazionale di uno Stato membro, di reclutare donne nelle forze armate in settori diversi da quelli della sanità e della musica militare. La domanda pregiudiziale sollevata dal Verwaltungsgericht (Tribunale amministrativo) di Hannover verte sull'interpretazione della direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976 relativa all'attuazione della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (in prosieguo: la «direttiva») (1). Più precisamente, il giudice remittente chiede a codesto Collegio:

«Se costituisce una violazione della direttiva 76/207/CEE, in particolare del suo art. 2, n. 2, una normativa - come quella di cui all'art. 1, n. 2, terza frase, della legge sulla condizione giuridica dei soldati nella versione del 15 dicembre 1995 (BGBl. I, pag. 1737), modificata da ultimo con legge del 4 dicembre 1997 (BGBl. I, pag. 2846), e all'art. 3a del regolamento sulla carriera militare nella versione promulgata il 28 gennaio 1998 (BGBl. I, pag. 326) - secondo cui le donne possono essere arruolate su base volontaria solo per essere destinate ai settori della sanità e della musica militare, ma sono comunque escluse dal prestare servizio in un reparto armato».

II - Le pertinenti disposizioni comunitarie

2 In virtù dell'art. 1, n. 1, della direttiva, «[s]copo della presente direttiva è l'attuazione negli Stati membri del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro (...). Tale principio è denominato qui appresso "principio della parità di trattamento"».

L'art. 2 della direttiva dispone che:

«1. Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia.

2. La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escluderne dal campo di applicazione le attività professionali ed eventualmente le relative formazioni, per le quali, in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenti una condizione determinante.

3. La presente direttiva non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità.

(...)».

Ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva, «[l]'applicazione del principio della parità di trattamento implica l'assenza di ogni discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso, compresi i criteri di selezione, agli impieghi o posti di lavoro qualunque sia il settore o il ramo di attività, e a tutti i livelli della gerarchia professionale».

Per effetto dell'art. 9, n. 2, della direttiva, «[g]li Stati membri esaminano periodicamente le attività professionali di cui all'articolo 2, paragrafo 2, al fine di valutare se sia giustificato, tenuto conto dell'evoluzione sociale, mantenere le esclusioni in questione. Essi comunicano alla Commissione i risultati di tale esame».

III - Il quadro normativo nazionale

3 In forza dell'art. 1, n. 2, del Soldatengesetz (legge sulla condizione giuridica dei soldati; in prosieguo: l'«SG»), «[p]uò essere nominato soldato di carriera chi si obbliga volontariamente a compiere un servizio militare a vita. Può essere nominato soldato a titolo temporaneo chi si obbliga volontariamente a compiere un servizio militare per un periodo di tempo determinato. Anche le donne possono essere arruolate ai sensi delle frasi 1 e 2 per essere impiegate nei servizi di sanità e nelle formazioni di musica militare» (2).

Ai sensi dell'art. 3a della Soldatenlaufbahnverordnung (regolamento sulla carriera militare; in prosieguo: l'«SLV»), «[l]e donne non possono essere arruolate che sulla base di un impegno volontario e unicamente nei servizi di sanità e nelle formazioni di musica militare» (3).

4 La Repubblica federale di Germania e la Commissione europea (in prosieguo: la «Commissione»), presenti nell'odierno procedimento al pari della signora Kreil e dei governi britannico e italiano, hanno osservato che le richiamate disposizioni, oggetto dell'odierna domanda pregiudiziale, trovano la propria base giuridica nell'art. 12a del Grundgesetz della Repubblica federale di Germania (legge fondamentale o Costituzione; in prosieguo: «Costituzione» o «GG»), il quale prevede che:

«1. A partire dall'età di 18 anni compiuti, gli uomini possono essere chiamati a servire nelle forze armate, nella polizia federale di confine o in un'organizzazione per la protezione civile.

(...).

4. Se, nel corso di uno stato di difesa (4), i bisogni inerenti a servizi di natura civile negli ospedali e nelle strutture sanitarie civili così come negli ospedali militari a struttura permanente non possono essere soddisfatti dall'impiego di volontari, le donne di età compresa tra i 18 ed i 50 anni compiuti possono essere chiamate dalla legge a svolgere tali servizi. Le donne non possono in alcun caso svolgere un servizio che comporti l'impiego delle armi» (5).

Il governo tedesco ha aggiunto che l'art. 12a, n. 4, ultima frase, del GG (in prosieguo: l'«art. 12a GG») rappresenta semplicemente l'aggiornamento, intervenuto nel 1968 - con «una nuova formulazione di ordine puramente linguistico» -, di analoga disposizione del 1956, ossia l'art. 12, n. 3, del GG.

5 Mutuando questa qualifica dal Bundesverwaltungsgericht (il Tribunale amministrativo federale di ultima istanza) e dalla dottrina tedesca, il governo tedesco e la Commissione hanno altresì precisato che l'art. 12a GG e le anzidette disposizioni dell'SG e dell'SLV costituiscono lex specialis (Spezialvorschrift o Sonderregelung) rispetto al principio generale della parità di trattamento tra uomini e donne, sancito sia nella Costituzione (6) sia nella legislazione che interessa i militari (7).

6 Ancora, il governo tedesco fa osservare che, sebbene il divieto di arruolamento delle donne in reparti diversi da quelli della sanità e della musica militare, posto dalla normativa dedotta in giudizio, abbia carattere inderogabile («in alcun caso», v. art. 12a GG), in realtà i numerosi impieghi civili (essenzialmente di natura amministrativa e di supporto), previsti in seno alla Bundeswehr (le forze armate federali) dall'art. 87b GG, sono aperti in ugual misura sia agli uomini sia alle donne.

IV - I fatti ed il giudizio principale

7 Nel 1996 la signora Tanja Kreil, diplomata in elettrotecnica con specializzazione in tecnica delle installazioni, ha presentato domanda di arruolamento volontario nella Bundeswehr, esprimendo l'aspirazione di essere impiegata nei servizi di manutenzione elettronica di sistemi d'arma. La domanda è stata respinta sia dal centro locale di reclutamento sia, in sede di reclamo, dall'amministrazione centrale del personale della Bundeswehr, poiché, in base alla legge nazionale, le donne sono escluse da tutti gli incarichi che comportano l'impiego delle armi. Considerandosi illecitamente discriminata sulla base del sesso, la signora Kreil ha impugnato la decisione di rigetto innanzi al giudice remittente.

V - Analisi giuridica

1) L'asserita discriminazione ed il suo fondamento

8 Il Verwaltungsgericht di Hannover vi chiede se la direttiva osti ad un divieto pressoché integrale per quanto riguarda il servizio volontario femminile nelle forze armate di uno Stato membro.

9 Secondo la ricorrente nel giudizio principale, i limiti cui è sottoposto il reclutamento delle donne nella Bundeswehr costituiscono una flagrante violazione del divieto, di cui all'art. 3 della direttiva, di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso al lavoro (8). La Kreil sottolinea che, nella specie, non interessa tanto il servizio militare obbligatorio, quanto piuttosto la scelta professionale delle donne che desiderano arruolarsi su base volontaria.

10 La Germania considera giustificate le disposizioni nazionali in questione sulla base dell'art. 2, nn. 2 e 3, della direttiva. In tali disposizioni sono proposte le deroghe al diritto individuale alla parità di trattamento. La Commissione (sulla cui posizione si sono in sostanza allineati i governi britannico e italiano) ritiene che già in virtù dell'art. 2, n. 2, la normativa interna in questione sia in linea di principio giustificabile, fermo restando, naturalmente, la necessità di verificarne la fondatezza con riguardo alla totalità degli impieghi in seno alle forze armate e la proporzionalità (9).

11 Nessuna delle parti intervenute nel presente procedimento solleva dubbi sul punto che le disposizioni in discorso determinano l'esclusione delle donne dalla maggior parte degli impieghi nella Bundeswehr, con il risultato di operare una disparità di trattamento fondata sul sesso ai sensi degli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, della direttiva; ossia una discriminazione diretta, la quale ne comporta però altre di tipo indiretto, in considerazione del fatto che i componenti delle forze armate sono in larga maggioranza uomini (10). In taluni casi i militari in congedo godono infatti di priorità nell'accedere a lavori nella pubblica amministrazione (11), e non si può escludere che essi trovino più agevolmente impiego nel mondo civile grazie alla formazione di tipo tecnico-professionale che è possibile acquisire prestando servizio nelle forze armate (12). Al fine di rispondere alla domanda pregiudiziale sollevata dal Verwaltungsgericht, che ha per oggetto la sola discriminazione diretta, occorre controllare se le misure adottate possano rientrare in qualcuna delle deroghe consentite ai nn. 2 e 3 dell'art. 2 della direttiva (13). Prima di procedere a tale verifica, però, è necessario ricordare quali motivi sottostanno alla preclusione di cui all'art. 12a GG, che costituisce la base giuridica delle disposizioni su cui vi interroga il giudice remittente.

12 Secondo la Germania, le disposizioni in questione, dettate per impedire alle donne di partecipare alle azioni di guerra, si spiegano con l'intento di assicurare che in nessun caso esse siano esposte al fuoco nemico in qualità di combattenti, il che vale anche per le donne che desiderano arruolarsi volontariamente. In merito vengono richiamati i lavori preparatori del Bundestag sull'art. 12, n. 3, del GG introdotto nel 1956 (v. paragrafo 4), da cui risulterebbe che la preclusione posta nel nostro caso nei confronti delle donne è il frutto di un obbligo morale derivante dal doloroso passato della Germania. Il governo tedesco richiama altresì la recente pronunzia Sanitätsdienst (v. nota 6), in cui il Bundesverwaltungsgericht ha affermato che da detto obbligo deriva una protezione delle donne che deve essere il più possibile estesa e che può essere assicurata solo mediante un'elevata «armonizzazione» delle regole sul loro reclutamento ed impiego nella Bundeswehr con il diritto umanitario internazionale (14). Quest'ultimo comprende la III Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra (15) (in prosieguo: la «convenzione») ed il I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 per la protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (16) (in prosieguo: il «protocollo»). Secondo il Bundesverwaltungsgericht - ed il governo tedesco, che fa propria completamente la ricostruzione effettuata in Sanitätsdienst - le disposizioni discriminatorie in questione si ispirano all'art. 51 del protocollo, secondo il quale solo la popolazione civile gode di una protezione generale di carattere umanitario contro i pericoli derivanti dalle operazioni militari. Più precisamente, questo significa che la popolazione civile non può formare l'oggetto di attacchi (17), al contrario dei «combattenti» ai sensi dell'art. 43 del protocollo, ovvero di coloro che partecipano alle ostilità utilizzando armi o sistemi d'arma. Sempre i combattenti, inoltre, possono essere fatti «prigionieri di guerra» quando cadono in mano al nemico (18). Al contrario, i componenti del personale sanitario e religioso delle forze armate non solo non possono essere catturati come «prigionieri di guerra», ma devono essere rispettati e protetti e non devono essere attaccati (19). Di qui l'ammissione delle donne nei reparti della sanità. Quanto alle formazioni di musica militare, il governo tedesco ha spiegato che in caso di ostilità esse vengono dissolte ed i loro componenti vengono assegnati a compiti sanitari come infermieri o aiuto-infermieri (già in tempo di pace i musici appartenenti alle bande militari ricevono un apposito addestramento).

2) Le deroghe al principio della parità di trattamento: l'art. 2, n. 3, della direttiva

13 Il governo tedesco sostiene che, in ragione dell'obiettivo perseguito dal legislatore, l'esclusione virtualmente totale delle donne dalla Bundeswehr rientra nell'eccezione di cui all'art. 2, n. 3, della direttiva. Per parte mia condivido piuttosto l'avviso della Commissione basato sulla pronunzia resa in Johnston, relativa all'impiego delle donne nei reparti armati della polizia britannica in Irlanda del Nord negli anni '80, ovvero in piena guerra civile. In quella pronunzia, la Corte ha deciso che «[d]all'espressa menzione della gravidanza e della maternità emerge che la direttiva mira a garantire la protezione della condizione biologica della donna e delle relazioni particolari tra la donna e il figlio. L['art. 2, n. 3,] della direttiva non consente pertanto di escludere le donne da un determinato posto di lavoro per il motivo che l'opinione pubblica esigerebbe che esse siano più protette degli uomini contro i rischi che riguardano allo stesso modo gli uomini e le donne e che sono diversi dalle esigenze specifiche di protezione della donna come quelle espressamente menzionate» (20). Ebbene, dal fascicolo del procedimento non risulta che i pericoli ai quali le donne sarebbero esposte in reparti della Bundeswehr che implicano l'impiego delle armi siano diversi o maggiori rispetto a quelli che corrono gli uomini nell'esercizio delle medesime funzioni; il governo tedesco non ha fornito alcuna prova in tal senso. Se così è, l'integrale esclusione delle donne dall'impiego nei reparti diversi da quelli sanitari e della musica militare in ragione di rischi di carattere generale e non peculiari delle donne non può farsi rientrare nell'ambito della disparità di trattamento consentita dall'art. 2, n. 3, della direttiva (21): «l'art. 2, n. 3, presuppone che la disparità di trattamento riservata alla donna non sia discriminatoria: ciò avverrà ogni volta che la disparità di trattamento - protezione della donna - potrà essere giustificata da un'obiettiva differenza fra la situazione del lavoratore e quella della lavoratrice. Questa causa oggettiva è vincolata alla "specificità biologica" della donna, che la citazione esemplificativa della gravidanza e della maternità indicano senza ambiguità» (22). Per quanto riguarda, poi, i termini «in particolare» di cui all'art. 2, n. 3, della direttiva - con cui si introduce la citazione esemplificativa della gravidanza e della maternità -, la Corte ha sempre recisamente respinto gli argomenti avanzati dagli Stati membri per estendere la portata dell'espressione «protezione della donna» al di là di casi quali la gravidanza, l'allattamento o la maternità (23).

3) Le deroghe al principio della parità di trattamento: l'art. 2, n. 2, della direttiva

14 Peraltro, il governo tedesco ritiene che l'obiettivo politico perseguito dal legislatore costituzionale nel 1956 e nel 1968 non contraddica il disposto dell'art. 2, n. 2, della direttiva, la cui interpretazione da parte di codesto Collegio interessa più da vicino al giudice remittente. In effetti, secondo le autorità tedesche l'art. 12a GG e le richiamate disposizioni dell'SG e dell'SLV considerano il sesso come condizione determinante per il compimento del servizio militare armato. La protezione delle donne potrebbe, dunque, essere garantita soltanto mediante la loro completa esclusione da tutte le attività proprie della condizione giuridica di «combattente» ai sensi del diritto umanitario internazionale. La Commissione ed il governo italiano, al riguardo, hanno formulato un'opinione più sfumata. Pur ammettendo che una tale scelta di fondo della politica di difesa di uno Stato membro non possa essere condannata in linea di principio, essi hanno distinto gli impieghi che comportano un rischio concreto (24) da quelle attività di carattere tecnico che possono essere espletate nelle retrovie senza incorrere in rischi particolari e senza bisogno di speciali doti di forza fisica. Tali attività, hanno precisato la Commissione ed il governo italiano, sarebbero estranee a quelle la cui natura o le cui condizioni di esercizio ai sensi dell'art. 2, n. 2, della direttiva andrebbero necessariamente riservate agli uomini piuttosto che alle donne. Spetterebbe, poi, al giudice nazionale valutare se l'impiego per il quale la Kreil ha presentato domanda di arruolamento volontario ricada nell'una o nell'altra categoria di attività. La parziale apertura mostrata dalla Commissione e dal governo italiano nei confronti delle ragioni sottostanti alla discriminazione qui considerata non è condivisa dal governo tedesco per il quale il divieto posto dall'art. 12a GG va inteso come assoluto, in quanto, in caso di attacco, tutti i componenti delle forze armate possono essere chiamati a partecipare attivamente alle operazioni militari. Anche i soldati responsabili della manutenzione elettronica dei sistemi d'arma potrebbero dover essere inviati in prima linea per assicurare l'efficienza bellica della Bundeswehr. Ciò corrisponde, secondo le autorità tedesche, alla realtà odierna: le truppe dotate di un equipaggiamento tecnico avanzato devono, esse affermano, poter essere impiegate, in caso di crisi, in modo «interattivo», senza distinguere impieghi di prima linea o di retrovia.

15 L'art. 2, n. 2, della direttiva ammette che il sesso può costituire un fattore determinante per specifiche attività professionali, sempre che si tenga in conto la «loro natura» o le «condizioni per il loro esercizio». Queste condizioni valgono a definire l'ambito della riserva di cui all'art. 2, n. 2, oltre che a differenziarla concettualmente dall'eccezione prevista al n. 3 del medesimo articolo.

16 Quanto all'ambito della riserva, a mio avviso si deve guardare alle vere e proprie qualifiche professionali, con riferimento alle quali il sesso costituisce una condizione determinante per una certa attività lavorativa; esempi del genere sarebbero quelli dei cantanti e delle cantanti, degli attori e delle attrici, dei ballerini e delle ballerine, dei modelli e delle modelle o degli indossatori (25). Più in generale, secondo una certa dottrina l'art. 2, n. 2, della direttiva contempla una deroga «severa» o «stretta»; lo Stato membro o il datore di lavoro che intenda avvalersene dovrebbe dunque dimostrare che, per quanto riguarda un determinato lavoro, il sesso è una condizione decisiva, tanto che una politica di impiego non discriminatoria renderebbe estremamente difficile, o addirittura impossibile, l'espletamento delle attività proprie di quel lavoro. Altrimenti detto, andrebbe comunque assodato che è necessario impiegare una persona dell'un sesso ad esclusione dell'altro (26). La stessa Corte ha d'altra parte affermato che per poter derogare, in virtù dell'art. 2, n. 2, al riconoscimento di un diritto soggettivo come la parità di trattamento tra uomini e donne vengono in rilievo esclusivamente le «esigenze che sono decisive per l'esercizio dell'attività specifica di cui trattasi» (27). Ora, nel corso dell'udienza innanzi alla Corte, l'agente del governo tedesco ha espressamente dichiarato di non mettere assolutamente in discussione né l'idoneità della Kreil né quella delle donne in generale a prestare servizio nei reparti armati della Bundeswehr. Non sono persuaso, quindi, che quanto addotto dal governo tedesco in merito alla preclusione stabilita dall'art. 12a GG valga a dimostrare che il caso in esame è coperto dalle previsioni dell'art. 2, n. 2, della direttiva. Sempre con riguardo a quest'ultima disposizione, mi pare invero difficilmente sostenibile che la natura o le condizioni del lavoro prestato dai componenti delle forze armate siano tali da rendere del tutto impossibile, o quantomeno estremamente difficile, l'impiego delle donne in un qualunque reparto «combattente», diverso, quindi, dalla sanità e dalla musica militare. Non a caso - salvo eccezioni, peraltro limitate ad ipotesi ben specifiche (28) - le donne vengono regolarmente impiegate, senza distinzioni, in tutti gli eserciti della Comunità (e della NATO) (29).

17 Va, poi, esaminata la differenza che corre tra le disposizioni rispettivamente dettate ai nn. 2 e 3 dell'art. 2 della direttiva e che merita di essere chiarita per precisare ancor meglio il reale campo d'applicazione della riserva contemplata all'art. 2, n. 2. Come è stato osservato in dottrina (30), l'art. 2, n. 2, riguarda l'effetto che, nell'esercizio di una determinata attività professionale, il sesso ha sulle persone diverse dalla lavoratrice (o dal lavoratore), laddove il disposto dell'art. 2, n. 3 - come abbiamo visto - ha per oggetto l'effetto che un particolare lavoro ha sulla lavoratrice medesima. La stessa giurisprudenza della Corte depone per la distinzione or ora richiamata.

18 In Commissione/Regno Unito, il rispetto dovuto alla sensibilità della paziente ha indotto la Corte a considerare legittime determinate limitazioni opposte ai soli uomini in relazione all'attività di levatrice (31). In Johnston, l'esclusione delle donne dai reparti armati della polizia britannica di stanza nell'Irlanda del Nord è stata ammessa in quanto la loro presenza avrebbe potuto contribuire ad aumentare il rischio di attentati, a scapito delle esigenze di pubblica sicurezza, con conseguente nocumento per quanti vivevano in quella zona del paese (32). In Commissione/Francia (causa 318/86), la Corte ha giudicato legittimo che ai sensi dell'art. 2, n. 2, il personale maschile fosse assunto distintamente da quello femminile sia per l'attività di sorvegliante addetto alle case di pena, che implica contatti regolari con i detenuti, sia per quella di sorvegliante capo, incaricato di dirigere le case di pena, in considerazione dell'esperienza professionale acquisita nel corpo dei sorveglianti, utile ad espletare un'attività che comprende il soprintendere tutti gli altri sorveglianti (33). In Sirdar, infine, ho concluso che, in linea di principio, appare giustificabile una politica di arruolamento di soli uomini nel corpo scelto dei Royal Marines, dal momento che non si può escludere che l'ammissione di donne potrebbe avere effetti negativi sul morale e sulla coesione dei soldati in seno alle unità di commando, incrinandone così l'efficienza bellica, a scapito, in ultima analisi, delle esigenze di difesa del Regno Unito (34).

19 In conclusione, considerato il significato da attribuire all'art. 2, n. 2, non mi pare che la giustificazione addotta dal governo tedesco valga a legittimare la preclusione prevista all'art. 12a GG. Infatti, le autorità tedesche non hanno fornito alcuna spiegazione del perché, nel particolare ambiente di lavoro di cui si tratta, risulterebbe (tenendo in conto le condizioni per l'esercizio dell'attività rimessa alla Bundeswehr o anche i rapporti che si instaurano tra commilitoni) necessariamente decisivo il sesso maschile. In sostanza, il governo tedesco non ha fatto cenno alcuno di considerazioni quali quelle presentate dal governo britannico in Sirdar, le sole, a ben guardare, che mi hanno indotto, in quel giudizio, a non escludere - seppure solo in linea di principio, senza pregiudizio della puntuale verifica del rispetto del principio di proporzionalità - che gli attuali criteri di arruolamento nei Royal Marines possano rientrare nel campo d'applicazione dell'art. 2, n. 2, della direttiva (35).

4) Le deroghe al principio della parità di trattamento: l'art. 2, n. 2, insieme all'art. 9, n. 2, della direttiva

20 Ho già accennato che, secondo l'avvocato generale Darmon, «esigenze di protezione della donna di indole sociale (culturali, politiche, ecc.)» potrebbero essere rilevanti ai sensi dell'art. 2, n. 2, in virtù dell'art. 9, n. 2, della direttiva (36), ai sensi del quale gli Stati membri devono valutare se sia giustificato mantenere le discriminazioni ammesse ai sensi dell'art. 2, n. 2, «tenuto conto dell'evoluzione sociale». Come si vede, la tesi difensiva delle autorità tedesche, pur senza essere fondata espressamente sull'art. 9, n. 2, della direttiva, sembra echeggiare il pensiero dell'avvocato generale Darmon. Ad accogliere siffatto orientamento l'ambito d'applicazione dell'art. 2, n. 2, verrebbe tuttavia definito in base ad un elemento estraneo ai due soli fattori ivi previsti come pertinenti al fine di consentire deroghe al principio della parità di trattamento: la «natura» e le «condizioni di esercizio» di determinate attività professionali. Si perverrebbe, quindi, ad una lettura ampia della riserva che la Corte, invece, pur qualificandola come un'eccezione, ha statuito debba essere interpretata in senso restrittivo, alla pari dell'art. 2, n. 3, della direttiva (37). In sostanza, includere generiche «esigenze di indole sociale» (tra cui, per esempio, quella di proteggere la donna in casi estranei all'art. 2, n. 3, della direttiva) nel processo ermeneutico della disposizione in esame farebbe sorgere, a mio avviso, il rischio concreto di privare di effetto utile l'intero impianto della direttiva. Con essa la Comunità si è proposta di attuare la parità di trattamento fra uomini e donne - o, meglio, di «promuovere la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera» (38) -, uno dei diritti fondamentali della persona umana (39), ora oggetto di specifiche disposizioni anche a livello di fonte primaria (40). Il corretto criterio di lettura dell'art. 2, n. 2, in relazione al disposto dell'art. 9, n. 2, non è, dunque, quello che sembrava prospettare l'avvocato generale Darmon.

21 Il punto di partenza per interpretare le disposizioni in esame si trova comunque già esposto sopra ai paragrafi 15-19. Riprendo qui il discorso per avvertire come il tenere in conto l'«evoluzione sociale» possa giovare all'interprete che si trova a dover determinare quali siano gli effetti - sulle persone diverse dal lavoratore o dalla lavoratrice - da considerare quando si debba stabilire se il sesso è condizione decisiva per l'esercizio di una determinata attività professionale. La Corte sembra già essersi pronunziata in tal senso. In Commissione/Regno Unito, essa ha esaminato alla luce del combinato disposto degli artt. 2, n. 2, e 9, n. 2, della direttiva una normativa nazionale discriminatoria. La specie interessava specifiche, limitate disparità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'attività di levatrice (41). Per dimostrare la legittimità della propria legislazione, il governo britannico ha provato alla Corte di averne compiuto un riesame periodico, da ultimo mediante un'ampia consultazione, avente ad oggetto due studi sulle levatrici di sesso maschile, con le autorità sanitarie, con gli ordini professionali e con altre organizzazioni (42). Su questa base la Corte ha deciso che le disposizioni censurate dalla Commissione non eccedevano i limiti posti dall'art. 2, n. 2, in quanto, alla luce della (comprovata) evoluzione sociale nello Stato membro interessato, il permettere l'accesso alla professione di levatrice, e il suo esercizio incondizionato, a persone di sesso maschile si sarebbe ripercosso negativamente sulle pazienti quando «il rispetto della sensibilità della paziente è assolutamente necessario» (punto 18) (43). Secondo la Corte, «bisogna (...) riconoscere che attualmente la suscettibilità personale può avere molto peso nelle relazioni tra la levatrice e la paziente. Pertanto, è lecito constatare che, omettendo di dare piena attuazione al principio [della parità di trattamento] stabilito nella direttiva, il Regno Unito non ha oltrepassato i limiti della facoltà attribuita agli Stati membri dagli artt. 9, n. 2, e 2, n. 2, della direttiva» (punto 20; il corsivo è mio). Mi sembra, così, di poter cogliere una certa affinità tra il caso della levatrice e delle sue pazienti e quello dei commilitoni delle unità di commando dei Royal Marines (44): in entrambi i casi non sembra possibile escludere l'incidenza che - in considerazione della sensibilità personale degli interessati, certamente destinata ad evolvere nel tempo - il sesso può avere sulle relazioni tra persone che, nell'esercizio di una determinata attività professionale, vengono a trovarsi in stretto contatto.

22 La riserva di cui all'art. 2, n. 2, della direttiva non consente qualsiasi disparità di trattamento ancorata a generiche considerazioni di ordine sociale o politico. Discriminazioni fondate sul sesso non sono escluse in linea di principio, ma risultano giustificate soltanto quando il legislatore nazionale le abbia disposte in ragione di specifiche istanze, intimamente legate alla natura o alle condizioni di esercizio di un lavoro, se del caso emergenti dal tessuto culturale di un paese in un determinato momento storico. E deve in ogni caso trattarsi di esigenze decisive per l'esercizio della specifica attività lavorativa di cui trattasi.

23 Se leggiamo correttamente il combinato disposto degli artt. 2, n. 2, e 9, n. 2, della direttiva, vedremo che vi sono altri motivi per escludere che le disuguaglianze del trattamento disposte in ragione del sesso possano essere giustificate con il puro e semplice riferimento a generiche esigenze politiche di protezione della donna, perfino, nel nostro caso, contro i rischi che possono correre i «combattenti». Comincio, per precisare il mio punto di vista, con l'osservazione che a voler condividere la tesi delle autorità tedesche si finirebbe per privare il disposto dell'art. 2, n. 3, della direttiva di ogni effetto utile, se non, addirittura, della sua ragion d'essere (45). E questo perché non si riuscirebbe a spiegare come tale precetto debba essere rigorosamente applicato ai soli casi di protezione biologica della donna. Al che si aggiunge che l'art. 2, n. 3, influisce a sua volta sulla portata dell'art. 3, n. 2, lett. c), della direttiva (46), come ha insegnato la Corte, di modo che quest'ultima disposizione resterebbe, una volta accolto l'avviso del governo tedesco, essa pure priva di pratica rilevanza. Vi è di più. Come osservavo, la Corte limita quell'eccezione, ed è una giurisprudenza costante, esclusivamente alle disparità di trattamento motivate dall'esigenza di assicurare la «protezione biologica della donna» (v. paragrafo 13). Tale eccezione è intesa così e non altrimenti, e perciò, al pari della riserva di cui al n. 2 dell'art. 2 (qualificata dalla Corte, ripeto, essa pure come un'eccezione), essa non può essere interpretata che in senso restrittivo (47). Peraltro, codesto Collegio ha già chiaramente disatteso la tesi che l'art. 2, n. 3, potesse giustificare una disparità di trattamento di ordine «protettivo», la quale aveva una ragion d'essere molto simile all'obiettivo politico qui perseguito dal legislatore costituzionale tedesco: l'opinione pubblica. In Johnston, avete statuito che «[l'art. 2, n. 3,] della direttiva non consente (...) di escludere le donne da un determinato posto di lavoro per il motivo che l'opinione pubblica esigerebbe che esse siano più protette degli uomini contro i rischi che riguardano allo stesso modo gli uomini e le donne e che sono diversi dalle esigenze specifiche di protezione della donna (...)» (punto 44; il corsivo è mio). A me pare, dunque, che, in questa logica, la direttiva osti ad ogni misura discriminatoria di natura «protettiva» estranea all'ambito d'applicazione dell'art. 2, n. 3 (48).

24 Ritenere il contrario, d'altra parte, condurrebbe a mantenere la marginalizzazione delle donne in alcuni settori soltanto della Bundeswehr con il rischio di perpetuare il vecchio stereotipo della divisione tra i sessi (49). A tutto ciò si aggiungerebbe, come ha osservato la dottrina tedesca, la negazione dell'indipendenza morale della donna risultante dall'impossibilità di arruolarsi su base volontaria (50).

5) Una deroga in base all'art. 2, n. 2, riguarda specifiche attività professionali

25 Nel presente procedimento la Commissione ed il governo italiano hanno ammesso che, seppure un'esclusione delle donne dalle forze armate motivata da intenti «protettivi» sia in linea di principio ammissibile, essa potrà dirsi effettivamente legittima solo quando interessi attività specifiche, le cui condizioni di esercizio comportino, in concreto, rischi di particolare entità, quali quelli dei reparti armati di polizia in una situazione di guerra civile o di un corpo scelto delle forze d'attacco di un paese (v. paragrafo 14).

26 In effetti, secondo la Corte, limitazioni al principio della parità di trattamento fondate sull'art. 2, n. 2, possono riguardare solo specifiche attività professionali (51). In relazione ad una deroga generale al principio della parità di trattamento per quanto concerne occupazioni in case private, in Commissione/Regno Unito la Corte ha escluso in toto la pertinenza dell'art. 2, n. 2, «benché sia incontestabile che per determinate occupazioni (...) la deroga appare giustificata» dal rispetto della vita privata (punto 14). In Commissione/Francia (causa 318/86), la Corte ha poi giudicato non sufficientemente specifica una deroga al principio della parità di trattamento che interessava le donne non già in relazione al complesso delle forze di polizia francesi, ma a cinque corpi di polizia soltanto (52); in sostanza, secondo la Corte, solo dopo aver individuato in seno a quei particolari reparti singole attività per le quali il sesso costituisce una condizione determinante, sono ammissibili deroghe ai sensi dell'art. 2, n. 2, della direttiva (punti 25-30).

27 Nella specie, l'esclusione delle donne dalla Bundeswehr non si limita a specifici reparti, bensì coinvolge indistintamente tutti i settori diversi dalla sanità e dalla musica militare. Il governo tedesco si è difeso sostenendo che la preclusione è necessariamente totale perché tutti i reparti combattenti devono poter essere impiegati in modo «interattivo» (v. paragrafo 14), senza possibilità di distinguere tra compiti di prima linea (più rischiosi) e di retrovia (meno rischiosi). In altre parole, la generale interoperabilità della Bundeswehr varrebbe a rendere specifica la deroga contemplata sia dall'art. 12a GG sia dalle norme adottate sulla base di tale disposto costituzionale. Una tale interattività (o interoperabilità) ricorda l'«intercambiabilità» caratterizzante le forze di polizia - di cui si discuteva nel caso Commissione/Francia (causa 318/86) - che, secondo il governo francese, avrebbe dovuto giustificare il sistema di reclutamento utilizzato in determinati reparti (53). Quel sistema, tuttavia, è stato considerato incompatibile con la direttiva, poiché era dubbio che il principio dell'«intercambiabilità» fosse necessario e concretamente applicato. L'«interoperabilità» che dovrebbe, nel nostro caso, caratterizzare la Bundeswehr nel suo complesso presenta altresì, sul piano concettuale, alcune somiglianze con l'«interoperatività» dei Royal Marines. Secondo il giudice remittente nel caso Sirdar, il governo britannico aveva provato in modo incontrovertibile che il principio dell'«interoperatività» risultava effettivamente applicato in modo costante a tutti i componenti dei Royal Marines (54); per questo motivo, ho ritenuto sufficientemente specifica la misura discriminatoria oggetto di quel giudizio che pure interessava ogni impiego nei Royal Marines (55). Facendo applicazione dei principi che si ricavano da Commissione/Francia (da cui ho già tratto ispirazione in Sirdar) sono dunque del parere che l'«interoperabilità» cui sarebbero soggetti i soldati della Bundeswehr non vale a rendere ammissibile la discriminazione in esame, non avendo le autorità tedesche provato che essa costituisce una regola effettivamente applicata in tutti i reparti «combattenti», diversi, cioè, da quelli della sanità e della musica militare.

28 Non solo. Un'«interoperabilità» applicata alla generalità delle forze armate mal si concilierebbe con la crescente specializzazione delle diverse unità, dotate di mezzi di combattimento sempre più sofisticati e i cui soldati sono spesso addestrati a tecniche militari proprie del singolo reparto o della singola unità. Sembra quindi poco convincente la pretesa di voler mantenere la possibilità di assegnare ogni «combattente» a ruoli diversi da quelli che questi è stato addestrato a ricoprire, magari con l'impiego di armi il cui uso richiede una familiarità che non si acquisisce in breve tempo. Invece, i Royal Marines sono sottoposti - senza eccezione alcuna - ad un medesimo, lungo e speciale addestramento (inteso esso stesso a garantire la più completa interoperatività) e sono potenzialmente destinati alle medesime missioni. E in quel caso si è visto che anche i cuochi, come ogni loro commilitone, devono altresì superare tre volte all'anno un esame inteso a verificarne la costante forma fisica (56).

29 La mancanza di specificità che caratterizza la deroga al principio della parità di trattamento oggetto dell'art. 12a GG e delle disposizioni adottate sulla sua base sembra così porsi in contrasto con la giurisprudenza della Corte sotto un ulteriore profilo: le discriminazioni per le quali si invoca la riserva di cui all'art. 2, n. 2, devono essere sufficientemente trasparenti al fine di consentirne un controllo efficace da parte della Commissione (57). Nella specie, data la loro genericità, le disposizioni nazionali oggetto della domanda pregiudiziale non consentono di stabilire se tutti i reparti in cui le donne non possono arruolarsi «corrispondano effettivamente alle attività specifiche per le quali, ai sensi dell'art. 2, n. 2, della direttiva, il sesso costituisce una condizione decisiva» (58). Al mantenimento della disparità di trattamento in questione sembra del resto aver contribuito, mi sia consentito di rilevare, la stessa Commissione. Nel corso del presente procedimento la Corte le ha rivolto per iscritto una precisa domanda, intesa a verificare in quale misura la Commissione abbia provveduto a controllare, ai sensi dell'art. 9, n. 2, della direttiva, le professioni e le attività in relazione alle quali i singoli Stati membri (compresa la Germania) escludono l'applicazione del principio della parità di trattamento in forza dell'art. 2, n. 2, della direttiva (59). Ebbene, come già in passato (60), la Commissione non ha fornito, in proposito, dati concreti.

30 Le cose fin qui dette conducono a ritenere che la preclusione oggetto dell'odierna domanda pregiudiziale non rientri nel campo d'applicazione né dell'art. 2, n. 2, né in quello dell'art. 2, n. 3, della direttiva e sia pertanto con essa incompatibile. Per il caso in cui questo Collegio pervenga ad opposta conclusione, ritengo tuttavia opportuno aggiungere qualche riflessione sulla fondatezza della giustificazione addotta dalle autorità tedesche e sulla proporzionalità del regime da esse adottato. Se la Corte dovesse giudicare che la direttiva non si oppone alla normativa nazionale in esame, spetterebbe infatti al giudice nazionale - nell'ambito della ripartizione delle competenze stabilita dall'art. 177 del Trattato CE (divenuto art. 234 CE) - accertare se il diniego opposto alla Kreil possa effettivamente dirsi giustificato e conforme al principio di proporzionalità (61). Vi è un primo e preliminare punto sul quale vorrei qui fermare l'attenzione. Le autorità tedesche ritengono di poter discrezionalmente individuare quali deroghe al principio della parità di trattamento sancite in direttiva possono essere introdotte per motivi socio-culturali. Quale fondamento ha tuttavia una tale pretesa?

6) Il ruolo della discrezionalità nell'individuazione di deroghe al principio della parità di trattamento

31 Secondo il governo tedesco la discrezionale potestà di deroga nei termini or ora precisati sarebbe nella specie giustificata da ragioni di ordine storico con le quali si spiega l'«obbligo morale di protezione delle donne» ai sensi dell'art. 12a GG. Le autorità tedesche accostano così l'attuale caso a quello considerato dalla Corte in materia di limitazioni alla libera circolazione dei lavoratori che siano imposte per motivi di ordine pubblico ai sensi dell'art. 48, n. 3, del Trattato CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 39, n. 3, CE). In Van Duyn (62) e Regina/Bouchereau (63), considerato che «le circostanze specifiche che [in sede di adozione di provvedimenti di espulsione di cittadini stranieri] potrebbero giustificare il richiamo alla nozione di ordine pubblico possono variare da un paese all'altro e da un'epoca all'altra», la Corte ha riconosciuto che «è necessario lasciare, in questa materia, alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale (...)» (64). Non direi, però, che lo stesso criterio possa e debba valere per l'attuale giudizio.

32 Osservavo in Sirdar, dove il Regno Unito aveva avanzato una tesi simile a quella che ora propone il governo tedesco, come la giurisprudenza della Corte non imponga al giudice nazionale, in sede di controllo della fondatezza e della proporzionalità dei motivi addotti per una deroga ai sensi dell'art. 2, n. 2, di tenere in conto quel «certo potere discrezionale» di cui vorrebbe disporre lo Stato membro interessato (65).

7) Elementi per la determinazione della fondatezza e della proporzionalità della deroga in questione

33 Il governo tedesco fa valere che, manifestamente ispirato com'era al diritto umanitario internazionale, l'art. 12a GG e la normativa di attuazione di tale disposizione sono l'unico mezzo per conseguire l'obiettivo di assicurare che «in nessun caso» le donne siano esposte al fuoco nemico in qualità di «combattenti» (v. paragrafo 12). In realtà, come subito vedremo, né alla Costituzione tedesca, né alla convenzione e al protocollo si può annettere un risultato protettivo dal quale risulterebbe assicurato che le donne di cittadinanza tedesca, pur non ammesse (salvo eccezioni) nella Bundeswehr, sfuggono con sicurezza a qualsiasi rischio legato agli attacchi del nemico o alla conseguenza di essere dichiarate prigioniere di guerra in caso di cattura.

34 Come le stesse autorità tedesche hanno dichiarato nel corso dell'udienza innanzi alla Corte, le forze armate federali sono dotate per via dell'art. 87b GG di una struttura amministrativa propria, di natura civile, forte di circa 142 000 persone (a fronte di circa 330 000 soldati), i cui compiti principali sono la gestione del personale ed il soddisfacimento diretto delle necessità materiali della Bundeswehr. Tra i civili impegnati in tali compiti figurano, sempre sulla base di dati forniti dalle autorità tedesche, circa 49 500 donne. Ebbene, non sembrerebbe potersi ritenere che il diritto umanitario internazionale consenta a tutti coloro che appartengono a detta amministrazione di godere della protezione assicurata alla popolazione civile dall'art. 51 del protocollo. Quel diritto pare ammettere, inoltre, quantomeno in taluni casi, che gli addetti all'amministrazione siano considerati «prigionieri di guerra» al pari dei «combattenti». Ai sensi dell'art. 50 del protocollo e dell'art. 4, lett. A, n. 4, della convenzione (al quale il primo di tali disposti rinvia), «[non appartengono alla popolazione civile, ossia sono dei combattenti] le persone che seguono le forze armate senza farne direttamente parte, quali i componenti civili degli equipaggi degli aerei militari, i corrispondenti di guerra, i fornitori, i membri di unità di lavoro o di servizio incaricati del benessere delle forze armate che esse accompagnano (...)». Queste stesse persone, inoltre, se catturate dal nemico, sono considerate «prigionieri di guerra» in virtù dell'art. 4 della convenzione. A mio avviso, dunque, il Verwaltungsgericht di Hannover dovrebbe controllare quali sono in concreto le funzioni cui le donne sono assegnate in forza dell'art. 87b GG, e ciò al fine di accertare che, a norma della citate disposizioni del diritto umanitario internazionale, il loro impiego in funzione di supporto alla Bundeswehr risulti coerente con la ratio dell'art. 12a GG.

35 Devono poi tenersi in conto considerazioni di ordine pratico: non si vede infatti come garantire che le donne addette ex articulo 87b GG al quartier generale, o ad altri posti di comando - per svolgervi, ad esempio, mansioni di segretaria -, o al supporto presso un qualunque reparto della Bundeswehr, possano totalmente sfuggire ai rischi «riservati» dal diritto umanitario internazionale ai «combattenti». E' ben noto che al giorno d'oggi, grazie ai moderni sistemi d'arma di lunga portata, in caso di conflitto, tra i primi obiettivi figurano proprio i centri nevralgici della struttura di comando e di controllo di un esercito. Vi è dunque un nutrito numero di donne, ben 49 500, ammesse nell'amministrazione della Bundeswehr e chiamate a svolgere un'ampia gamma di attività «non militari» a fianco dei soldati (anch'essi impegnati, secondo il governo tedesco, in attività amministrative), che, si dovrebbe ritenere, non sono poste al riparo di eventuali attacchi del nemico. Il giudice a quo dovrebbe dunque valutare la ragionevolezza di una misura «protettiva» che, da un canto, non fuga interamente i rischi che si vogliono evitare e, dall'altro, ha l'effetto di marginalizzare le donne da oltre 300 000 posti di lavoro (i quali, come ha ricordato la Commissione, non subiscono l'incidenza delle congiunture negative dell'economia e del mercato e garantiscono una formazione tecnico-professionale estremamente utile una volta che gli interessati si indirizzano verso attività di carattere civile) (66). Sotto questo profilo il giudice remittente dovrebbe, in particolare, assicurarsi che le donne, pur ricoprendo incarichi «civili», non condividano, in realtà, i medesimi rischi che corrono, magari anche soltanto in seconda linea, i soldati stessi.

36 L'esclusione praticamente assoluta delle donne dalla Bundeswehr meramente motivata da intenti «protettivi» sembra porsi altresì in contraddizione con quella che, viceversa, appare essere una politica di impiego delle medesime assai più aperta in relazione ad altre attività che pure comportano pericoli notevoli. Mi riferisco, in particolare, a quelle dei pompieri (67) e della polizia (68). La seconda, soprattutto, pur non caratterizzandosi per rischi di natura uguale a quelli che interessano i soldati in caso di guerra, espone pur sempre i componenti delle sue forze a seri pericoli quotidiani, compresi scontri a fuoco con criminali comuni e terroristi. Quanto ai pompieri, la recente pronunzia del Bundesverfassungsgericht (v. nota 49) considera discriminatoria persino l'esclusione delle donne dal servizio obbligatorio. In proposito, nel corso dell'udienza innanzi a codesto Collegio, il governo tedesco si è limitato a osservare che la differenza di trattamento riservata agli impieghi nella polizia e nella Bundeswehr è dovuta al fatto che solo i soldati sono «combattenti» ai sensi del diritto umanitario internazionale. Come ho già detto, il rivestire oppur no lo status di combattente è un aspetto la cui pertinenza, ai fini della presente indagine, è già di per sé suscettibile di controllo da parte del giudice nazionale (v. paragrafi 33-35). Ciò che più interessa, però, è che il giudice remittente accerti se il trattamento radicalmente diverso delle donne rispetto agli uomini nel settore delle forze armate possa effettivamente giustificarsi sulla base dei pericoli che ineriscono proprio a tale attività.

37 Infine, quanto ai rischi connessi con lo stato di cattività cioè con lo status di «prigioniero di guerra», alla luce dell'odierno diritto umanitario internazionale - assai più sviluppato di quanto non lo fosse nell'immediato secondo dopoguerra (69) - essi appaiono senz'altro minori di quanto non lo fossero quelli che correvano i soldati nel periodo storico ricordato dal governo tedesco, cioè quello corrispondente al Terzo Reich, cui si è ispirato il legislatore costituzionale tedesco del 1956 (v. paragrafo 12). Nel considerare la proporzionalità delle misure nazionali in questione nel presente procedimento non dovrebbe omettersi, a me pare, di dare un qualche rilievo all'evoluzione in senso quanto mai «protettivo» cui è andato incontro il diritto umanitario internazionale negli ultimi 50 anni.

38 Formulata la conclusione secondo cui la direttiva osta alla discriminazione oggetto dell'odierno quesito pregiudiziale, ho poi attirato l'attenzione su di una serie di elementi che il giudice nazionale potrà valutare, nell'esercizio del sindacato che gli compete, al fine di stabilire se l'esclusione pressoché integrale delle donne dalla Bundeswehr possa effettivamente giustificarsi sulla base della motivazione addotta dalle autorità tedesche e sia proporzionale.

VI - Conclusioni

39 Di conseguenza, la domanda pregiudiziale sollevata dal Verwaltungsgericht di Hannover dovrebbe, a mio parere, essere risolta come segue:

«La direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni del lavoro, osta a disposizioni nazionali quali l'art. 1, n. 2, terza frase, del Soldatengesetz nella versione del 15 dicembre 1995, modificata da ultimo con legge del 4 dicembre 1997, e l'art. 3a della Soldatenaufbahnverordnung nella versione promulgata il 28 gennaio 1998, con cui alle donne viene precluso l'arruolamento in tutti i reparti "combattenti" delle forze armate».

(1) - GU L 39, pag. 40.

(2) - Il corsivo è mio.

(3) - Il corsivo è mio.

(4) - Ai sensi dell'art. 115a, n. 1, del GG, lo stato di difesa (Verteidigungsfall) viene dichiarato dal Bundestag (Parlamento federale), d'accordo con il Bundesrat (Consiglio federale, tramite il quale i Länder partecipano all'attività legislativa e amministrativa della Repubblica federale), in caso di attacco armato o di imminenza di un tale attacco.

(5) - Il corsivo è mio.

(6) - La Costituzione sancisce la parità di trattamento tra uomini e donne, in generale (art. 3, nn. 2 e 3, GG) e in relazione all'accesso o, meglio, alla libertà di scelta dell'attività professionale (art. 12, n. 1, GG), oltre che all'impiego nell'amministrazione pubblica (art. 33, n. 2, GG). In una recente pronunzia, richiamata nel presente procedimento dal giudice remittente e dal governo tedesco, il Bundesverwaltungsgericht ha giudicato l'art. 12a GG conforme ai principi di parità di trattamento e di libertà di scelta del lavoro enunziati dalle altre disposizioni della Costituzione sopra richiamate, in quanto lo ha ritenuto lex specialis (sentenza del 30 gennaio 1996 - 1 WB 89/95 - BVerwGE, vol. 103, pag. 301, e NJW, 1996, pag. 2173; in prosieguo: «Sanitätsdienst», servizio sanitario, cioè uno di quei settori in cui, ai sensi degli artt. 12a GG, 1, n. 2, SG e 3a SLV, sono ammesse anche le donne). Sebbene la maggioranza della dottrina tedesca concordi con quella pronunzia, va rilevato che a seguito di un dibattito attualmente in corso in Germania non è pacifico che la norma costituzionale in questione sia legittima, quantomeno nel modo in cui è stata sino ad ora interpretata. Infatti, autorevoli studiosi ritengono che si debba operare una distinzione tra il servizio militare obbligatorio (Pflichtdienst) e quello volontario (freiwilliger Dienst), e che rispetto a quest'ultimo occorra interpretare restrittivamente l'art. 12a GG, anche se ha natura di Sonderregelung; particolare riguardo deve aversi per principi fondamentali come quello dell'uguaglianza e della libertà di scelta del lavoro, cui non è possibile derogare che con prudenza ed in conformità con il dettato costituzionale considerato nel suo complesso (v. H.D. Jarass-B. Pieroth, commento all'art. 12a GG, in Grundgesetz, Kommentar, 1997, 4a ed., punto 3; J. Kokott, commento all'art. 12a GG, in Grundgesetz, Kommentar, a cura di M. Sachs, 1999, 2a ed., punti 3 e ss.; U. Repkewitz, Kein frewilliger Waffendienst für Frauen?, NJW, 1997, pag. 506; M. Sachs, Zur Bedeutung der grundgesetzlichen Gleichheitssätze für das Recht des öffentlichen Dienstes, ZBR, 1994, pag. 133, in particolare pag. 139; M. Zuleeg, Frauen in die Bundeswehr, Die Öffentliche Verwaltung, 1997, pag. 1017). Così, sulla base di un'interpretazione sistematica della costituzione condotta in modo restrittivo (essendo l'esclusione delle donne dalla Bundeswehr una deroga ai principi enunziati agli artt. 3 GG, 12 GG e 33 GG), gli autori citati ritengono che il divieto di cui all'art. 12a GG valga solo per il servizio militare obbligatorio: poiché il complesso dell'art. 12a GG interessa il solo Pflichtdienst, l'esclusione delle donne non può estendersi al servizio volontario (v., in particolare, M. Zuleeg, op. cit., pag. 1018). Vi è, poi, chi osserva che un'interpretazione restrittiva si giustifica in ragione del fatto che l'art. 12a GG non sancisce un diritto fondamentale (Grundrecht), diversamente dai diritti che con esso vengono limitati (v. artt. 3, nn. 2 e 3, GG, 12, n. 1, GG, e 33, n. 2, GG; v. M. Zuleeg, op. cit., pag. 1023). Secondo Scholz, del resto, a differenza di altre disposizioni della Costituzione, l'art. 12a GG può essere modificato in quanto non ricade nell'ambito dei severi limiti dell'art. 79 GG posti alla revisione del dettato costituzionale (R. Scholz, commentario all'art. 12a GG, in Grundgesetz, Kommentar, a cura di T. Maunz, G. Dürig, G. Herzog, 1984, punto 208).

(7) - Entrambi l'SG e l'SLV stabiliscono che la nomina e l'assegnazione dei soldati deve essere effettuata in funzione delle loro attitudini, la loro capacità e le loro qualificazioni professionali, senza riguardo, in particolare, al sesso (v., rispettivamente, gli artt. 3 e 1).

(8) - Per la ricorrente principale non vi è dubbio che la normativa tedesca debba poter essere esaminata alla luce della direttiva, in quanto la Corte l'ha già interpretata, e quindi considerata pertinente, in un caso che interessava disposizioni regolamentari simili all'SG ed all'SLV (v. sentenza 2 ottobre 1997, causa C-1/95, Gerster, Racc. pag. I-5253, in cui la Corte ha giudicato che rientrasse nel campo d'applicazione della direttiva una disposizione - contenuta nella Bayerische Beamtenlaufbahnverordnung, ossia il regolamento sulla carriera dei funzionari pubblici del Land di Baviera - relativa al calcolo dell'anzianità dei dipendenti pubblici; in Gerster, la Corte ha fatto esplicito richiamo all'art. 3, n. 1, della direttiva, che vieta la discriminazione fondata sul sesso «qualunque sia il settore o il ramo d'attività», punto 28).

(9) - Per la Commissione è pacifico che l'impiego nelle forze armate non sfugge alla direttiva; essa rinvia alla sentenza 21 maggio 1985, causa 248/83, Commissione/Germania (Racc. pag. 1459, punto 16), in cui la Corte ha statuito che la direttiva si applica anche ai rapporti di lavoro nel settore pubblico. Invece, in via preliminare rispetto alla trattazione del merito della domanda pregiudiziale, i governi britannico, italiano e tedesco - poggiandosi, in particolare, sull'art. 224 del Trattato CE (divenuto art. 297 CE) - sostengono che la direttiva non si applica al caso di specie in quanto le questioni attinenti alla difesa e all'organizzazione delle forze armate sfuggono al Trattato. Il giudice di rinvio non ha evocato questa problematica, così rivelando, mi pare, di considerare l'impiego nella Bundeswehr compreso nel campo d'applicazione della direttiva. Comunque sia, sul punto non posso che rinviare alle mie conclusioni del 18 maggio 1999 nel caso Sirdar (causa C-273/97, non ancora pubblicate in Raccolta), relativo ad una politica di esclusione delle donne da un reparto scelto delle forze armate britanniche. In Sirdar, d'accordo con quanto oggi affermato dalla signora Kreil e dalla Commissione, ho espresso l'avviso che l'accesso al lavoro nelle forze armate sia soggetto, in via generale, alla disciplina prevista dalla direttiva (v. paragrafi 9-29). Rispetto a quanto ho già detto in Sirdar, e con specifico riferimento alla normativa nazionale oggetto del presente procedimento, debbo tuttavia effettuare un ulteriore rilievo. Esso attiene alla giustificazione addotta dal governo tedesco - in via subordinata, qualora si ritenga la direttiva applicabile alla specie - per difendere nel merito la discriminazione de qua. Il governo tedesco si è limitato ad addurre l'obiettivo politico di adempiere all'obbligo morale, frutto di un doloroso passato proprio della Germania, di assicurare la massima protezione delle donne dai pericoli cui vanno incontro i soldati in caso di guerra (v. paragrafo 12 delle presenti conclusioni). In altre procedure innanzi a codesto Collegio il governo britannico ha sostenuto la tesi dell'estraneità alla direttiva dei provvedimenti discriminatori volta a volta in questione adducendo ragioni rispondenti a ben altra logica. Tali provvedimenti, secondo le spiegazioni fornite dalle autorità britanniche, erano stati infatti adottati per motivi di pubblica sicurezza (evitare un aumento degli attacchi alla polizia in una situazione di guerra civile, v. sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston, Racc. pag. 1651, punto 35) e di difesa o sicurezza esterna (assicurare l'efficienza bellica di un corpo scelto delle forze armate, v. Sirdar, paragrafo 4 delle conclusioni); trattasi, come si vede, di ragioni connesse a materie di competenza esclusiva degli Stati membri. Né in Johnston né in Sirdar la direttiva è stata ritenuta inapplicabile. Ebbene, un provvedimento che abbia come unico fondamento la protezione della donna non può, a fortiori, sfuggire alla direttiva né grazie all'art. 224 del Trattato CE, relativo a misure «affatto eccezionali» necessarie al fine di garantire la sicurezza (interna o esterna) o, meglio, la vita stessa di un paese (v. Sirdar, paragrafo 24 delle conclusioni), né per via di considerazioni legate all'autonomia degli Stati membri per quanto riguarda l'organizzazione delle proprie forze armate, al fine di garantirne il migliore funzionamento.

(10) - La direttiva vieta «qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente» (v. art. 2, n. 1), salva l'applicazione di un'eventuale causa di giustificazione rientrante in una delle eccezioni previste dalla direttiva stessa; per una concreta applicazione della direttiva ad ipotesi di discriminazione indiretta, v., per esempio, sentenze Gerster, punti 29-34, e 2 ottobre 1997, causa C-100/95, Kording (Racc. pag. I-5289, specialmente punti 13 e ss.).

(11) - V. K. Bertelsmann-U. Rust, Equality in Law between Men and Women in the European Community - Germany (a cura della Commissione europea), Dordrecht-Lussemburgo, 1995, pag. 53, punto 4.14.3, ove, a titolo di esempio, si ricorda che, ai sensi degli artt. 9 e 10 dell'SVG, a coloro che hanno servito nelle forze armate per almeno 12 anni viene data preferenza nel caso di impieghi nella pubblica amministrazione, anche se estranei alle forze armate. Dal che risulta, secondo gli autori del rapporto, che una certa proporzione degli impieghi disponibili nel settore pubblico può essere riservata ai militari in congedo, anche nell'ipotesi in cui vi siano altri candidati con qualifiche pari o addirittura superiori (op. cit., pag. 54). Inoltre, vi è chi ha affermato che, per via dell'art. 12a GG, le donne non possono avere accesso ad alcune delle più alte cariche politiche dello Stato: Bundeskanzler (Cancelliere federale), Bundesminister der Verteidigung (Ministro federale della Difesa) e Staatsekretär (Segretario di Stato). Secondo la ricostruzione effettuata da taluni autori, infatti, quegli incarichi includono il comando supremo delle forze armate, ossia un servizio che, al pari di ogni ruolo di comando (v. art. 1, n. 4, dell'SG, sulla nozione di Vorgesetzer o Wachvorgesetzer, il comandante) comporta l'impiego delle armi (Waffendienst o Dienst mit der Waffe; v. A. Poretschkin, Verfassungsverbot für einen weiblichen Verteidigungsminister?, NZWehrr, 1993, pag. 232; U. Repkewitz, op. cit., pag. 507; D. Walz, Der «geschlechtsneutrale» Bundesminister der Verteidigung, NZWehrr, 1996, pag. 117). Invero, ai sensi dell'art. 65a GG, il Ministro federale della Difesa (che può delegare o farsi rappresentare dal Segretario di Stato) ha il comando sulle forze armate; in virtù dell'art. 115b GG, al momento della proclamazione dello stato di difesa (v. nota 4), il comando delle forze armate è trasferito al Cancelliere federale. In merito, è appena il caso di ricordare che, ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva, è vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso «a tutti i livelli della gerarchia professionale».

(12) - Questo non sembra essere il caso della signora Kreil, la quale al momento di presentare la domanda di arruolamento era già titolare di un diploma. Tuttavia, quella discriminazione non mi sembra trascurabile: le moderne forze armate impiegano mezzi tecnici sempre più sofisticati, che richiedono conoscenze particolari, certo preziose una volta che ci si rivolga al mercato civile del lavoro, oggi più che mai concorrenziale (si pensi ai piloti militari che, in considerazione della loro esperienza, una volta congedati non hanno difficoltà a trovare un impiego presso le compagnie aeree civili).

(13) - Quella prevista all'art. 2, n. 4, della direttiva non è pertinente; essa, infatti, recita: «[l]a presente direttiva non pregiudica le misure volte a promuovere la parità delle opportunità per gli uomini e le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne nei settori di cui all'articolo 1, paragrafo 1».

(14) - Anche noto come la «legge dei diritti umani nei conflitti armati», v. N. Rodley, The Treatment of Prisoners under International Law, Unesco-Clarendon Press, Parigi-Oxford, 1987, pag. 3.

(15) - BGBl. 1954, II, pag. 838. Oltre alla III Convenzione di Ginevra, esistono la I Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 per il miglioramento della condizione dei feriti e dei malati nelle forze armate in campagna (BGBl. 1954, II, pag. 783), e la II Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 per il miglioramento della condizione dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate di mare (BGBl. 1954, II, pag. 813). Insieme, le tre convenzioni sono note come le Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 per la protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali.

(16) - BGBl. 1990, II, pag. 1550.

(17) - V. artt. 48 e 51, n. 2, del protocollo.

(18) - V. artt. 4 della convenzione e 44, n. 1, del protocollo.

(19) - V., rispettivamente, artt. 33 della convenzione e 12, n. 1, del protocollo.

(20) - Citata nota 9, punto 44; il corsivo è mio. Johnston appartiene a quel filone di costante giurisprudenza della Corte in cui questa ha deciso che l'art. 2, n. 3, della direttiva mira alla sola protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza e delle particolari relazioni tra la donna e il bambino: v. sentenze 12 luglio 1984, causa 184/83, Hofmann (Racc. pag. 3047, punti 25 e 26); 25 ottobre 1988, causa 312/86, Commissione/Francia (Racc. pag. 6315, punto 13); 25 luglio 1991, causa C-345/89, Stoeckel (Racc. pag. I-4047, punto 13); 3 febbraio 1994, causa C-13/93, Minne (Racc. pag. I-371, punto 11); 5 maggio 1994, causa C-421/92, Habermann-Beltermann (Racc. pag. I-1657, punto 21); 14 luglio 1994, causa C-32/93, Webb (Racc. pag. I-3567, punto 20); 30 aprile 1998, causa C-136/95, Thibault (Racc. pag. I-2011, punto 25); 19 novembre 1998, causa C-66/96, Dansk Handel (Racc. pag. I-7327, punto 54). Particolarmente illuminante per comprendere l'approccio della Corte è il seguente passo tratto dal caso Hofmann: «[con l'art. 2, n. 3, della direttiva,] si tratta di garantire, in primo luogo, la protezione della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza, fino al momento in cui le sue funzioni fisiologiche e psichiche si sono normalizzate dopo il parto e, in secondo luogo, la protezione delle particolari relazioni tra la donna e il bambino, durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto, evitando che queste relazioni siano turbate dal cumulo dei pesi derivanti dal fatto di dover contemporaneamente svolgere un'attività lavorativa» (punto 25). In Johnston, poi, l'avvocato generale Darmon ha affermato che «[i]nvero, se l'art. 2, n. 3, può essere invocato per limitare i diritti della donna, è escluso che si possano prendere in considerazione, in forza di detta disposizione, motivi di protezione - per quanto fondati - di natura socioculturale o addirittura politica» (paragrafo 8).

(21) - V. Johnston, punto 45; nello stesso senso v. Commissione/Francia (causa 312/86, punto 14); Stoeckel, punto 15.

(22) - Conclusioni dell'avvocato generale Darmon in Hofmann (paragrafo 10, terzo capoverso; il corsivo è mio); nello stesso senso v. le conclusioni dell'avvocato generale Tesauro in Habermann-Beltermann (paragrafo 11).

(23) - V. quanto sostenuto dal Regno Unito nel caso Johnston in relazione alla quarta domanda pregiudiziale (pag. 1672) e dalla Francia in Commissione/Francia (causa 312/86, pag. 6322) in relazione ad una serie di diritti speciali previsti per la protezione delle donne. Secondo l'avvocato generale Sir Gordon Slynn «[b]enché l'espressione "in particolare" nell'art. 2, n. 3, indichi che anche situazioni diverse dalla gravidanza e dalla maternità possono rientrare nell'ambito di questa norma, la formulazione della stessa illustra la portata delle eccezioni» (conclusioni in Commissione/Francia, causa 312/86, pag. 6327).

(24) - La Commissione ricorda i casi Johnston, relativo ad un impiego nei reparti armati della polizia britannica stazionati in Irlanda del Nord negli anni '80, e Sirdar, avente ad oggetto il reclutamento nel reparto scelto dei Royal Marines, punta di diamante delle forze d'attacco del Regno Unito.

(25) - V. sentenza 21 maggio 1985, causa 248/83, Commissione/Germania (Racc. pag. 1459, punto 34), ove la Corte fa cenno di alcune delle attività lavorative che più tipicamente nei vari Stati membri, per prassi o per legge, sono oggetto di deroghe al principio della parità di trattamento.

(26) - V. T. Hervey, Justifications for Sex Discrimination in Employment, Butterworths, Londra, 1993, sezione 4.2.1.3.

(27) - Sentenza 30 giugno 1988, causa 318/86, Commissione/Francia (Racc. pag. 3559, punto 28; il corsivo è mio). Nello stesso senso, v. sentenze 8 novembre 1983, causa 165/82, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. 3431, punti 18 e 20), e Johnston, punto 38.

(28) - Per esempio, i sommergibilisti ed i fanti di marina nei Paesi Bassi, i Royal Marines in Regno Unito e, sino al 1993, i piloti da caccia in Danimarca.

(29) - Il solo paese che, oltre alla Repubblica federale di Germania, non ha ancora ammesso le donne nelle proprie forze armate è l'Italia. Qui, tuttavia, la mancanza del servizio militare volontario femminile non è dovuta a un divieto (costituzionale o contenuto in legge ordinaria), ma all'inerzia del legislatore. Infatti, contrariamente a quanto accaduto per le forze di polizia al momento della loro smilitarizzazione nel 1981, non è stata ancora adottata la speciale regolamentazione intesa a dare concreta applicazione al principio costituzionale della parità di trattamento. Un disegno di legge diretto ad istituire il servizio militare volontario femminile è stato approvato dalla Camera dei Deputati il 29 settembre 1999 (Atto Camera n. 2970-B). Salvo eccezioni, quel provvedimento condurrà ad un'ammissione generale delle donne in tutti i reparti. Secondo quanto riferito dal rappresentante del governo italiano nel corso dell'udienza innanzi alla Corte, si avranno eccezioni in casi particolari in cui le condizioni o le caratteristiche delle missioni affidate ai soldati sono tali da sconsigliare fortemente l'impiego di donne (in questo, mi pare di poter cogliere una qualche affinità con il caso dei Royal Marines recentemente esaminato in Sirdar).

(30) - V. C. Kilpatrick, How Long is a Piece of String? European Regulation of the Post-Birth Period, in Sex Equality Law in the European Union, a cura di T. Hervey e D. O'Keefe, Wiley, 1996, capitolo 6, nota 26.

(31) - V. punti 18 e 20.

(32) - Punto 36 della sentenza, ove la Corte - al termine dell'analisi condotta al fine di verificare la pertinenza dell'invocazione dell'art. 2, n. 2, da parte dello Stato membro interessato - ha deciso che «non si può escludere la possibilità che, in una situazione di gravi disordini interni, il porto di armi da fuoco da parte di donne poliziotto le esponga a un più grave rischio di attentati e sia pertanto in contrasto con le esigenze della pubblica sicurezza» (il corsivo è mio). La Corte non ha ammesso l'esclusione delle donne dai reparti di polizia dotati di armi da fuoco in quanto misura destinata, in ultima analisi, a non esporle ad attentati (non posso pertanto condividere la delusione espressa in proposito da H. Fenwick, Special Protections for Women in European Union Law, in Sex Equality Law, op. cit., pag. 63, a pag. 70, la quale teme che con questo la Corte abbia legittimato la pertinenza della vulnerabilità femminile in relazione all'art. 2, n. 2, della direttiva). Invece, ciò che, a mio avviso, ha realmente indotto la Corte a considerare in linea di massima giustificabile (salvo il superamento del test della proporzionalità, v. punto 38) quell'esclusione, non era tanto la pretesa debolezza delle donne in sé e per sé considerata, e neppure un generico desiderio di evitare che esse (per il loro bene) fossero oggetto di attentati, quanto piuttosto la previsione delle autorità britanniche che il dotare le donne di armi da fuoco «in una situazione di gravi disordini interni» avrebbe aumentato il rischio di quegli attentati e, così, quello che le loro armi cadessero in mano agli assalitori (v. nel rapporto d'udienza quanto sostenuto dal governo britannico, pag. 1672). Ebbene, è quest'ultimo rischio, in sé e per sé considerato, che si scontrava con le esigenze di pubblica sicurezza, ossia le sole esigenze che, in vista delle condizioni di esercizio della specifica attività lavorativa in questione, potevano rendere determinante il sesso maschile: «(...) il porto di armi da fuoco da parte di donne poliziotto le esponga a un più grave rischio di attentati e sia pertanto in contrasto con le esigenze della pubblica sicurezza» (punto 36; il corsivo è mio). Quanto scrivo risulta ancora più chiaro alla luce degli elementi individuati dalla Corte perché il giudice nazionale accerti, ponendoli a confronto, se quell'esclusione potesse dirsi proporzionale. Quegli elementi sono, da una parte, il principio della parità di trattamento di cui all'art. 1, n. 1, della direttiva e, dall'altra, le esigenze della pubblica sicurezza: «[nella specie, il principio di proporzionalità] prescrive di conciliare, per quanto possibile, il principio della parità di trattamento con le esigenze della pubblica sicurezza che sono determinanti per le condizioni di esercizio dell'attività di cui trattasi» (punto 38, il corsivo è mio; secondo la versione inglese della sentenza: «... with the requirements of public safety which constitutes the decisive factor as regards the context of the activity in question»). Nelle sentenza della Corte, dunque, non vi è alcuna traccia di preoccupazione per la protezione delle donne. Noto, da ultimo, che alla luce dei punti 36 e 38 della sentenza Johnston che ho appena citato, la Corte appare non condividere quanto affermato dall'avvocato generale Darmon, e cioè che, in determinate circostanze, in forza dell'art. 2, n. 2, della direttiva, le esigenze di protezione della donna - «di indole sociale (culturali, politiche, ecc.)» - diverse da quelle contemplate dall'art. 2, n. 3, potrebbero legittimamente indurre le autorità di uno Stato membro a riservare talune mansioni attinenti al mantenimento dell'ordine pubblico alle persone di un determinato sesso (v. paragrafo 9 delle conclusioni; sul punto v. anche il paragrafo 20 delle presenti conclusioni).

(33) - V. punti 12-17.

(34) - In Sirdar, da una parte ho rilevato che «il nucleo delle tesi del governo britannico intese a giustificare l'esclusione delle donne dai Royal Marines per esigenze di efficienza bellica sta nel timore che la partecipazione delle donne potrebbe avere effetti negativi "sul morale e sulla coesione" delle unità di commando (i "fire teams")», e ho considerato dotate di una «vena spiccatamente "sociale" (...) le osservazioni del legale del governo britannico contenute in un documento presentato al giudice nazionale nel quadro del giudizio principale». Dall'altra, mi sono chiesto «se non sia possibile verificare (...) se l'efficienza bellica possa essere salvaguardata, anche nei casi in cui sono ammesse le donne, tenendo in conto soprattutto l'effettiva percezione della loro presenza da parte dei compagni d'armi di sesso maschile» (paragrafo 33; i corsivi non figurano nell'originale).

(35) - V. Sirdar, paragrafo 34 delle conclusioni.

(36) - V. nota 32, in fine, in cui rilevo tuttavia come la Corte non sembra aver condiviso quello spunto.

(37) - V. Johnston, punti 36 e 44.

(38) - V. terzo `considerando' della direttiva (il corsivo è mio).

(39) - V., ex multis, sentenze 15 giugno 1978, causa 149/77, Defrenne (Racc. pag. 1365, punto 27); 20 marzo 1984, cause riunite 75/82 e 117/82, Razzouk e Beydoun/Commissione (Racc. pag. 1509, punto 16); 26 febbraio 1986, causa 151/84, Roberts/Tate & Lyle (Racc. pag. 703, punto 35); 26 febbraio 1986, causa 152/84, Marshall (Racc. pag. 723, punto 36); 26 febbraio 1986, causa 262/84, Beets-Proper/Van Lanschot (Racc. pag. 773, punto 38); Johnston, punto 38; 2 agosto 1993, causa C-158/91, Levy (Racc. pag. I-4287, punto 16); 30 aprile 1996, causa C-13/94, P/S (Racc. pag. I-2143, punto 19).

(40) - Con riguardo al principio della parità di trattamento, il quadro normativo comunitario ha visto profilarsi importanti novità, seppure successive ai fatti oggetto del giudizio principale. Il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 ha inserito il nuovo punto quattro nel preambolo del Trattato sull'Unione europea, in cui gli Stati membri confermano «il proprio attaccamento ai diritti sociali fondamentali quali definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989». Entrambe le Carte sanciscono il diritto all'uguaglianza di opportunità e di trattamento tra uomini e donne. Ma soprattutto, sempre in virtù delle modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam, in seno al Trattato CE il principio della parità di trattamento tra uomini e donne non è più limitato agli aspetti retributivi del rapporto di lavoro (v. art. 119 del Trattato CE, ora art. 141 CE; gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE-143 CE), ma, con una serie di norme «programmatiche», diventa un principio informatore e un obiettivo dell'azione della Comunità. Così, tra le modifiche al Trattato CE introdotte in materia dal Trattato di Amsterdam si segnalano ancora: il nuovo testo dell'art. 2 del Trattato CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 2 CE), che, tra i vari compiti che la Comunità deve promuovere, prevede ora «la parità tra uomini e donne»; il nuovo n. 2 dell'art. 3 del Trattato CE (divenuto, a seguito di modifica, art. 3 CE, che enumera le competenze della Comunità), ai sensi del quale «l'azione della Comunità a norma del presente articolo mira a eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne»; per conseguire gli obiettivi sociali indicati all'art. 117 del Trattato CE (gli artt. 117-120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. da 136 CE a 143 CE) - tra i quali figurano la promozione dell'occupazione ed il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro - il nuovo art. 118 del Trattato CE affida alla Comunità il compito di sostenere e completare l'azione degli Stati membri su vari aspetti del lavoro, compresa la «parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro» (v. P. Mori, La parità tra uomo e donna nel Trattato di Amsterdam, in Il diritto dell'Unione europea, 1998, pag. 571).

(41) - Agli uomini era consentito seguire i corsi di preparazione per levatrici solo nei centri autorizzati dal Ministero competente (uno a Londra e l'altro nel centro della Scozia), e l'esercizio da parte loro di quell'attività era possibile solo nei luoghi indicati dal Ministro, cioè in quattro ospedali di Londra e di Edimburgo (v. conclusioni dell'avvocato generale Rozès, Racc. 1983, pag. 3458).

(42) - V. conclusioni dell'avvocato generale Rozès, pag. 3458. Incidentalmente, noto che il governo tedesco non ha fornito la minima prova di avere mai riesaminato, tantomeno periodicamente, le disposizioni discriminatorie in esame ai sensi dell'art. 9, n. 2, della direttiva. La sentenza Sanitätsdienst del 1996, cui è stato rinviato (v. nota 6), non fa che reiterare la ratio che storicamente avrebbe indotto il legislatore costituzionale a introdurre, quarant'anni prima, l'«obbligo» di proteggere le donne nel modo più esteso possibile.

(43) - Il governo britannico ha insistito sulle caratteristiche specifiche dell'attività di levatrice nel timore del rifiuto da parte di talune donne (o dei loro mariti) dell'aiuto di levatrici di sesso maschile ed ha sottolineato l'insostituibilità del compito che le levatrici svolgono - «da sole, specialmente di notte, nel reparto maternità di un ospedale e, soprattutto, a domicilio delle pazienti» - durante il periodo precedente e soprattutto successivo al parto per quel che riguarda cure attinenti all'intimità della donna (v. conclusioni dell'avvocato generale Rozès, pagg. 3458 e 3459).

(44) - Rinvio ai passi tratti delle mie conclusioni nel caso Sirdar citati alla nota 34.

(45) - Circa l'importanza di assicurare la piena efficacia pratica dell'art. 2, n. 3, della direttiva v. Habermann-Beltermann, punto 24, e sentenza 29 maggio 1997, causa C-400/95, Larsson (Racc. pag. I-2757, punto 22).

(46) - V. Johnston, punto 44. Ai sensi dell'art. 3, n. 2, della direttiva, «[al fine di garantire l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso], gli Stati membri [entro il termine di quattro anni dalla notifica della direttiva, v. art. 9, n. 1] prendono le misure necessarie affinché: (...) c) siano riesaminate quelle disposizioni (...) contrarie al principio della parità di trattamento, originariamente ispirate da motivi di protezione non più giustificati (...)».

(47) - V. Johnston, punto 44.

(48) - In senso conforme, v., per esempio, H. Fenwick, op. cit., pag. 79.

(49) - V., nello stesso senso, le pronunzie del Bundesverfassungsgericht (Corte Costituzionale della Repubblica federale di Germania) del 28 gennaio 1992 sul divieto del lavoro notturno (Nachtarbeitsverbot) femminile (1 BvR 1025/82, 1 BvL 16/83 e 10/91, BVerfGE, vol. 85, pag. 191, a pag. 207) e del 24 gennaio 1995 che ha giudicato incostituzionale l'esclusione delle donne dal servizio obbligatorio nei pompieri (Feuerwehrdienstpflicht; 1 BvL 18/93 e 5, 6, 7/94, 1 BvR 403, 569/94 - BVerfGE, vol. 92, pag. 91). In effetti, quello della protezione della donna è un tema assai ricorrente nella legislazione giuslavoristica tedesca (v. R. Harvey, Equal Treatment of Men and Women in the Work Place: the Implementation of the European Community's Equal Treatment Legislation in the Federal Republic of Germany, in The American Journal of Comparative Law, 1990, pag. 31). Che una tale «protezione» rischi effettivamente di relegare la donna al ruolo tradizionale di moglie e madre traspare dall'insistenza con cui ancora nel 1992 - e cioè un anno dopo la sentenza Stoeckel (v. nota 20) in cui la Corte ha per la prima volta giudicato ingiustificatamente discriminatorio il divieto del lavoro notturno femminile - il Ministro federale del Lavoro e degli Affari sociali (Bundesminister für Arbeit and Sozialordnung) ha difeso il principio del Nachtarbeitsverbot, risalente ad una legge del 1891. Dalla citata pronunzia del Bundesverfassungsgericht, in cui è stato chiaramente affermato il principio della superiorità della direttiva sulle disposizioni nazionali con essa incompatibili, risulta che l'amministrazione - sollevando le più vivaci critiche della Federazione tedesca delle donne giuriste (Deutscher Juristinnenbund) e dell'Associazione delle donne tedesche (Deutscher Frauenring) intervenute in giudizio - ha tentato di giustificare il divieto in questione con il fatto che «le donne hanno, molto più spesso degli uomini, la responsabilità dei bambini e dei lavori domestici al di là della loro attività professionale» (op. cit., pag. 200). Simili riflessioni si rinvengono nella comunicazione della Commissione del 20 marzo 1987, La legislazione protettrice delle donne negli Stati membri della Comunità europea, COM(87) 105 def., sezione I-4, pag. 5; in prosieguo: la «comunicazione».

(50) - V. Kokott (op. cit., sub art. 12a, punto 6).

(51) - V. Commissione/Regno Unito, punti 14-16; Commissione/Francia (causa 318/86, punto 25) e le relative conclusioni dell'avvocato generale Sir Gordon Slynn (Racc. pag. 3570-3571); Sirdar (paragrafi 35-37 delle conclusioni).

(52) - I commissari di polizia, i comandanti e gli ufficiali di pace, gli ispettori, gli investigatori, i graduati ed i guardiani (v. pagg. 3561 e 3562).

(53) - Sul punto, v. le mie riflessioni nelle conclusioni rese nel caso Sirdar, paragrafo 36.

(54) - V. paragrafo 7 delle mie conclusioni.

(55) - V. paragrafi 35 e 36 delle mie conclusioni.

(56) - V. Sirdar, paragrafi 6 e 7 delle mie conclusioni.

(57) - V. Commissione/Francia (causa 318/86, punti 25 e 26); nello stesso senso, in sostanza, Commissione/Germania (punti 36 e ss.).

(58) - Commissione/Francia (causa 318/86, punto 27).

(59) - In Commissione/Germania, punto 38, la Corte ha fatto esplicito riferimento a questo preciso potere-dovere di controllo della Commissione, guardiana del Trattato.

(60) - V. Commissione/Germania, punto 34.

(61) - V. Johnston, punti 38 e 39.

(62) - Sentenza 4 dicembre 1974, causa 41/74, Van Duyn/Home Office (Racc. pag. 1337, punti 18 e 19).

(63) - Sentenza 27 ottobre 1977, causa 30/77, Regina/Bouchereau (Racc. pag. 1999, punti 33-35).

(64) - Regina/Bouchereau, punto 34; v. anche Van Duyn, punto 18.

(65) - V. paragrafi 40-41 delle mie conclusioni in Sirdar ove richiamo la pronunzia Johnston. Con più diretto riferimento alle ragioni storiche poste a fondamento dell'art. 12a GG, ricordo che, in Vogt/Germania (sentenza 26 settembre 1995, Vogt/Germania, Serie A, vol. 323), la Corte europea dei diritti dell'uomo (in prosieguo: la «CEDU») si è mostrata assai restia a condividere la posizione allora espressa dal governo tedesco, secondo il quale l'esperienza sofferta dalla Germania durante il periodo che ha condotto al regime nazista costituiva una valida giustificazione di una misura palesemente contraria al diritto di espressione. Con riferimento al licenziamento di un insegnante di scuola secondaria motivato dalla sua slealtà nei confronti della costituzione democratica perché membro attivo del Partito comunista tedesco (Deutsche Kommunistische Partei), la CEDU ha deciso che neppure l'esperienza sofferta dalla Germania durante la Repubblica di Weimar sfociata poi nell'«incubo del nazismo» vale a giustificare una misura tanto radicale dettata dalla difesa di valori fondamentali come la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico (v. punti 49 e ss.). In una prospettiva simile a quella del presente procedimento, il governo tedesco aveva sostenuto che la Repubblica federale di Germania è investita di una speciale responsabilità nella lotta contro tutte le forme di estremismo, di destra o di sinistra, e che per questa precisa ragione ed alla luce dell'esperienza della Repubblica di Weimar ogni funzionario pubblico è legato da uno speciale dovere di lealtà politica, posto che l'amministrazione costituisce la pietra d'angolo di una «democrazia in grado di difendere sé stessa» (punto 54). Degna di rilievo è l'affermazione della CEDU per cui «è impressionante la natura assoluta del dovere di lealtà politica [dei funzionari] come è interpretato dai giudici tedeschi» (punto 59; il corsivo è mio).

(66) - La commistione e la prossimità degli incarichi civili e quelli militari ai fini dell'amministrazione della Bundeswehr è accentuata dal fatto che, come ha sottolineato il governo tedesco, le forze armate degli altri paesi non conoscono una ripartizione degli incarichi tra quelli «civili» e quelli «militari», essendo la gestione affidata in via praticamente esclusiva ai militari. Stante ciò, torno a chiedermi come sia possibile assicurarsi che le donne, impiegate in gran numero nelle attività di supporto alla Bundeswehr, non soffrano «in nessun caso» degli attacchi lanciati dal nemico contro obiettivi come le basi militari, i depositi di materiale bellico e tutta l'infrastruttura logistica.

(67) - In Feuerwehrdienstpflicht (v. nota 49), il Bundesverfassungsgericht ha giudicato incostituzionale l'esclusione - prevista dalla normativa di oltre la metà dei Länder - delle donne dal servizio obbligatorio nei reparti dei pompieri perché non giustificata oggettivamente dall'esigenza di proteggere le donne da rischi cui invece non sono esposti gli uomini e capace di perpetuare una ripartizione tradizionale dei ruoli (pagg. 109-113). La pronunzia è particolarmente significativa in quanto per tutti gli anni '70 e '80 il Bundesverfassungsgericht aveva ripetutamente deciso che l'esclusione delle donne da quell'attività (prevista per tutti gli uomini adulti fisicamente idonei, ma che può essere sostituita mediante il pagamento di un'apposita tassa municipale, Feuerwehrabgabe, nell'ipotesi in cui ci sia un numero di volontari sufficiente a espletare i compiti assegnati alle unità di pompieri) fosse oggettivamente giustificata in considerazione dei rischi ad essa inerenti, ed anche se in numerosi Länder, sin dal 1978, le donne potevano arruolarsi come volontarie (per una migliore comprensione delle problematiche discusse dal Bundesverfassungsgericht, v. sentenza 18 luglio 1994 della Corte europea dei diritti dell'uomo, Schmidt/Germania, Serie A, vol. 291-B).

(68) - Già Zuleeg (op. cit., pag. 1020) ha rilevato questa contraddizione. Si pensi, poi, sempre a titolo di esempio, all'attività di assistente sociale negli istituti di pena maschili: in Van Colson e Kamann (sentenza 10 aprile 1984, causa 14/83, Racc. pag. 1891), nel porre alla Corte una serie di quesiti pregiudiziali vertenti sulle sanzioni previste dal diritto nazionale nei confronti del datore di lavoro resosi colpevole di discriminazioni fondate sul sesso, il giudice remittente tedesco non ha avuto dubbi circa la natura discriminatoria del rifiuto da parte di un istituto di pena maschile di assumere due assistenti sociali diplomate per motivi attinenti al sesso adducendo «i problemi ed i rischi connessi all'ammissione di candidati di sesso femminile per istituti di questo genere» (v. punti 2 e 3).

(69) - Secondo Rodley, prima del secondo conflitto mondiale il diritto internazionale per la protezione dei diritti umani non esisteva (op. cit., pag. 1) ed esso ha iniziato a svilupparsi, anche in relazione ai conflitti armati, soltanto con le tre convenzioni di Ginevra, cui nel corso degli anni si sono aggiunti tutta una serie di strumenti internazionali che non si sono più limitati alla definizione di regole («standard setting»), ma che contengono altresì meccanismi intesi ad assicurare il rispetto degli impegni assunti internazionalmente dagli Stati (il più noto è la procedura approvata dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite con risoluzione n. 1503 del 27 maggio 1970, in forza della quale la Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite è stata investita del potere di effettuare investigazioni o studi dettagliati di presunte gravi violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali; v. N. Rodley, op. cit., pag. 6, nota 18).


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