Cassazione Civile, 15 aprile 2014, n. 8804 - Infarto per sovraccarico di lavoro e Mobbing




Fatto





Il geom. R.T., dipendente per 32 anni della Regione Autonoma Valle d’Aosta, addetto dapprima all’Assessorato Lavori Pubblici ed in seguito all’Assessorato Agricoltura e Foreste, adiva il tribunale di Aosta esponendo di avere subito in data 24.7.1997 un infarto al miocardio imputabile ex art. 2087 c.c. al datore di lavoro per il sovraccarico di lavoro, le cessazioni di un superiore gerarchico configuranti "mobbing" e la sottoposizione a procedimenti penali - successivamente archiviati - collegati all’attività lavorativa. Rientrato al lavoro dopo l’assenza per malattia, non era stato sottoposto a visite di controllo da parte della Regione e, accertata un’invalidità del 50% all’esito di due visite mediche presso la USL da lui richieste, gli veniva proposto il collocamento in mansioni inferiori che non aveva accettato, sino a quando in data 10.11.2000 veniva dispensato dal servizio e illegittimamente collocato a riposo anzitempo per inabilità fisica. Chiedeva su tali basi la condanna della Regione Autonoma Valle d’Aosta al risarcimento dei danni sotto il profilo del danno biologico, da lucro cessante, "da mobbing", morale e alla vita di relazione.

La domanda, all’esito di prova testimoniale e c.t.u. medico-legale, veniva respinta dal Tribunale, la cui pronuncia veniva confermata dalla Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 563 del 2007. Esaminando i motivi di appello proposti dal geom. T., la Corte riteneva in primo luogo che non avessero attinenza con la fattispecie le censure riferite al rispetto delle disposizioni della L. 626 del 1994, ed in particolare alla valutazione dei rischi di cui agli artt. 3 e 4, considerato che nel l’elaborazione del relativo documento, che era stato regolarmente predisposto dalla datrice di lavoro con il contributo fattivo dello stesso geom. T., non era stato mai prospettato un rischio relativo alla sua posizione, né egli aveva fatto presente alcuna necessità di sorveglianza sanitaria. Quanto alla domanda proposta ex art. 2087 c.c., rilevava che le iniziative giudiziarie che aveva subito non risultavano correlate a disposizioni impartitegli dal datore di lavoro; che la necessità di sovraintendere ad oltre 30 cantieri sparsi in tutta la valle , in assenza di altri dati attinenti la quantità di ore di lavoro, la dislocazione dei cantieri, il numero dei collaboratori, non appariva di per sé significativa ai fini del decidere, e che del resto il fatto che il T. avesse 4-5 assistenti fissi e 25 assistenti di cantiere portava ad escludere l’esistenza di un sovraccarico di lavoro, del quale peraltro egli prima dell’infarto non si era mai lamentato. Parimenti, non era significativo il fatto che al rientro dalla malattia il 24.11.1997, il T. non fosse stato sottoposto a visita medica, considerato che in data 15.12.1997 (dopo 14 mezze giornate lavorative) veniva assegnato al Servizio Corpo Forestale Valdostano, impegnato in attività diverse dalla direzione dei lavori e di cui non aveva lamentato l’incidenza sul suo stato di salute. Le superiori considerazioni escludevano quindi che la Regione fosse incorsa in violazione dei doveri di protezione, sicurezza e tutela della salute del dipendente e quindi una condotta colpevole e rendevano irrilevante, ad avviso della Corte, l’esame delle censure mosse alla c.t.u. di primo grado. Escludeva poi che dagli atti di causa emergesse una condotta di "mobbing" posta in essere a danno del T. dal suo superiore presso la Direzione Forestazione, sia durante il (breve) periodo di sole 14 mezze giornate in cui questi aveva diretto la sua prestazione, sia per il periodo successivo, nel quale dalla corrispondenza intercorsa risultava piuttosto un comportamento ostruzionistico del T. In relazione infine alla dispensa per inabilità fisica, rilevava che essa era stata disposta a seguito della procedura attivata dallo stesso geom. T., che in grado d’appello ne aveva lamentato solo la derivazione dalle mansioni morbigene, già ritenuta insussistente.

Per la cassazione di tale sentenza il geom. T. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c., cui la Regione Autonoma Valle d’Aosta ha resistito con controricorso.



Diritto




1. La sentenza della Corte d’Appello è fatta oggetto di plurime censure:

- il primo motivo attiene al travisamento dei fatti e conseguente vizio procedurale, oltre che di motivazione, in cui sarebbe incorsa per non avere esaminato le deduzioni relative alla nullità e/o illegittimità della c.t.u. svolta in primo grado - che aveva ad oggetto la sussistenza (o meno) del nesso di causalità tra attività lavorativa e patologia cardiaca - ed alla conseguente istanza di rinnovazione della stessa.

Il ricorrente formula il seguente quesito: "Dica la Corte se nel caso di istanza di rinnovazione della c.t.u in appello, per mancata risposta ai quesiti peritali, oltre che per gravi errori diagnostici e fattuali, il giudice dell’impugnazione possa prescindere in loto dall’esame di tale motivo di censura, ritenendolo tout court assorbito dal rigetto degli altri motivi di merito".

- Il secondo motivo attiene alla ritenuta non corretta applicazione da parte della Corte d’Appello del D.lgs. n. 626 del 1994 e successive modificazioni ed al conseguente vizio di motivazione, oltre che sul travisamento dei fatti posti a base della decisione. Il quesito è così posto: "Dica la Corte se l’avere approvato il c.d. documento di valutazione dei rischi aziendali senza avere minimamente interpellato né i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza né le rappresentanze sindacali dei lavoratori costituisca violazione del D.lgs. 626/1994 da parte del datore di lavoro, così come l’avere sistematicamente ignorato il carico di lavoro e responsabilità di un dipendente, quale il T., nonostante che egli avesse subito un grave infarto miocardico acuto e quindi la sua salute risultasse di per sé compromessa. Dica infine se il D.lgs. 626/1994 si applichi anche al caso in parola, della P.A. regionale, e non solo delle lavorazioni industriali".

- Con il terzo motivo il ricorrente addebita alla Corte di merito il vizio di violazione di legge e di motivazione e l’omesso esame di risultanze probatorie in cui sarebbe incorsa non ravvisando la mancata predisposizione delle cautele imposte dall’art. 2087 c.c.

Il quesito è il seguente: "Dica la Corte se costituisca o meno violazione dell’art. 2087 c.c. non avere impedito il sovraccarico di lavoro del dipendente ed averlo adibito a mansioni, successivamente giudicate della Commissione medica non compatibili con il suo stato di salute, senza alcuna valutazione dei rischio cui era sottoposto". Riferisce che prima dell’infarto il lavoro era progressivamente aumentato ed egli era divenuto coordinatore di tutti i cantieri della valle e Direttore dei lavori di 30-35 cantieri, con le conseguenti responsabilità che determinarono anche la sottoposizione a procedimenti penali, con un superlavoro eccedente la normale tollerabilità che il datore di lavoro avrebbe dovuto prevenire. Al rientro dall’infarto, poi, egli era stato assegnato ad altro servizio ma non ad altre mansioni essendogli state affidate anche presso il Servizio Forestazione mansioni di responsabilità, come risulterebbe dai documenti 33 e 35 da lui prodotti e 26 della controparte - fino al 11.8.2000, quando gli vennero revocato all’esito di visita della Commissione medica "gli incarichi di responsabilità, in particolare di sorveglianza dei cantieri forestali e di coordinatore del ciclo di vari lavori pubblici".

- Come quarto motivo il ricorrente deduce violazione di legge, vizio di motivazione e travisamento dei fatti in ordine alla realizzata dispensa dal servizio. Formula il seguente quesito: "Dica la Corte se la dispensa dal servizio per motivi di salute possa essere attuata dal datore di lavoro senza avere dapprima esperito ogni tentativo utile per recuperarlo al servizio attivo in mansioni diverse ma affini a quelle proprie del profilo rivestito". Argomenta che le assegnazioni di mansioni di VII categoria e poi di livello C2 che gli erano state proposte come alternativa alla dispensa erano illegittime e che pertanto egli legittimamente le aveva rifiutate.

- Come quinto motivo lamenta violazione di legge con riferimento all’art. 2087 c.c. e vizio di motivazione in relazione alla dedotta sussistenza del mobbing. Formula il quesito: "Dica la Corte se l’invio sistematico di richieste di chiarimenti e di contestazioni in forma in forma scritta, seppure senza evidenza disciplinare, ad un proprio sottoposto, da parte del dirigente (quantunque questi fosse poi stato trasferito ad altro ufficio e non fosse più in possesso della necessaria documentazione per poter concludere le pratiche e rispondere ai chiesti chiarimenti) inviato per conoscenza ad altri dirigenti, senza alcuna necessità, e proseguito nell’arco di un paio d’anni, integri o meno il fatto illecito noto come "mobbing".

- Come sesto motivo si duole di essere stato condannato al pagamento delle spese legali malgrado la complessità e delicatezza delle motivazioni formulate.

2. Ai fini della decisione occorre premettere che nell’ambito dei motivi di ricorso per cassazione previsti dall’art. 360 c.p.c.. la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige una specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione è concettualmente differente ed implica la puntualizzazione dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito; nessuna delle due censure può, comunque, risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (in tal senso tra le altre Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10131 del 02/05/2006, Sez. 3, Sentenza n. 16254 del 25/09/2012).

Nel caso in esame, i motivi prospettano congiuntamente i vizi previsti dall’art. 360 I comma nn. 3, 4 e 5, con una commistione di profili e di censure che impedisce di comprendere quale sia il tipo di giudizio richiesto a questa Corte di legittimità. Essi peraltro ripercorrono i singoli aspetti puntualmente sottoposti all’esame della Corte di merito che questa ha partitamente esaminato, sicché risultano inammissibili nella parte in cui chiedono di effettuare una nuova valutazione di merito al fine di giungere alle conclusioni patrocinate nell’atto di gravame.

3.1. Passando ad esaminare le singole doglianze, si rileva che, al di là dei rilevati profili di inammissibilità, il primo motivo è infondato.

Rientra infatti nel potere discrezionale del giudice del merito accogliere o rigettare l'istanza di rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio, senza che l'eventuale provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità, quando risulti che gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta della parte siano stati tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e ritenute esaurienti dal giudice con valutazione immune da vizi logici e giuridici (ex plurimis Sez. 2, Sentenza n. 2164 del 14/02/2002, Sez. 3, Sentenza n. 10849 del 11/05/2007, Sez. 3, Sentenza n. 305 del 12/01/2012).

Nel caso in esame, peraltro, la Corte ha ritenuto che l’esame delle critiche alla c.t.u., che aveva ad oggetto l’accertamento del nesso di causalità tra attività lavorativa e patologia cardiaca, fosse precluso dal fatto che il ricorrente non aveva assolto al proprio preliminare onere di dimostrare l’esistenza di una condotta datoriale inadempiente agli obblighi che derivano dall’osservanza delle misure che debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro. Il procedimento logico in tal senso è corretto e coerente con la ripartizione dell’onere probatorio come delineata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale "Al fine dell'accertamento della responsabilità, di natura contrattuale, del datore di lavoro di cui all'art. 2087 cod. civ., incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo" (ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 4840 del 07/03/2006, Sez. 3, Sentenza n. 3650 del 20/02/2006 Sez. L, Sentenza n. 8855 del 11/04/2013).

3.2. Il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui si lamenta violazione o falsa applicazione del D.lgs. 626 del 1994, non essendo pertinenti alla motivazione adottata dalla Corte di merito le censure prospettate, né essendo rilevanti per l’analisi della fattispecie. Non ha attinenza con l’oggetto del contendere infatti la mancata approvazione del documento di valutazione dei rischi da parte delle rappresentanze sindacali aziendali, dal momento che non viene dedotto quale effetto favorevole tale circostanza avrebbe potuto determinare per il ricorrente; né si comprende il quesito avente ad oggetto l’applicazione del D.lgs. 626 alla Regione, circostanza sulla quale non vi è stata discussione in causa, essendo incontestato che questa abbia comunque redatto il documento di valutazione dei rischi.

Le deduzioni formulate inoltre non smentiscono che l’amministrazione abbia operato correttamente nel valutare il carico di lavoro e le responsabilità del dipendente. La Corte di merito ha infatti accertato, valorizzando le deposizioni testimoniali ritenute maggiormente attendibili e significative, che il documento di valutazione dei rischi era stato regolarmente predisposto dalla datrice di lavoro con il contributo fattivo dello stesso geom. T., che non era stato mai prospettato un rischio relativo alla sua posizione e che egli non aveva fatto presente alcuna necessità di sorveglianza sanitaria relativa alla sua posizione.

Quanto all’argomento secondo il quale la Regione non avrebbe provveduto ad aggiornare il documento in relazione alle emergenze successive al suo rientro dalla malattia ed alla sua condizione personale di infartuato, la Corte di merito ha correttamente argomentato che quello che rileva ai fini della valutazione di responsabilità datoriale nella determinazione dei danni di cui si chiede il ristoro in causa non attiene all’assolvimento degli adempimenti imposti dal D.Lgs 626 a titolo generale e preventivo, ma al concreto rispetto degli obblighi di tutela e prevenzione posti a suo carico nei confronti del singolo lavoratore. Ciò vale tanto più quando, come nel caso in esame, non erano state realizzate modificazioni del processo produttivo che imponessero una revisione del documento di valutazione dei rischi e la patologia che ha determinato l’assenza del dipendente è di natura multifattoriale e quindi non automaticamente ricollegabile a specifiche caratteristiche intrinseche di pericolosità dell’attività svolta. A fronte poi dell’assenza nel D.lgs. 626 del 1994 all’epoca vigente di una definizione del concetto di "salute", non risulta possibile imporre al datore di lavoro, in assenza di evidenze epidemiologiche, di segnalazioni o indicazioni da parte dei lavoratori interessati, la specifica analisi nel documento di valutazione dei rischi delle possibili cause dello stress lavoro-correlato.

3.3. Con il terzo motivo di ricorso si sollecita un’inammissibile rivisitazione da parte di questa Corte della valutazione operata dalla Corte d’Appello sulle caratteristiche delle mansioni assegnate prima e dopo l’evento infartuale. Al fine di contestare la valutazione del giudice di merito, secondo la quale al rientro dalla malattia l’amministrazione aveva realizzato una condotta conforme al dovere di protezione del dipendente affidandogli compiti meno stressanti ed impegnativi dei precedenti, il ricorrente invoca il contenuto di due documenti, la lettera prot. 1846 RN dalla quale risulta che alla data del 24 marzo 1998 egli venne nominato "coordinatore del ciclo di realizzazione per le opere di competenza dell’ufficio tecnico del Corpo Forestale Valdostano" e la successiva lettera protocollo 7339 RN del 14.8.1998 con la quale egli venne nominato "Direttore tecnico per la conduzione dei lavori in economia per la manutenzione delle casermette forestali". Tale richiamo tuttavia non consente di comprendere, al di là della qualifica formale attribuita, quali fossero le reali ed effettive caratteristiche delle mansioni assegnate, tali da renderle usuranti. Deve infatti osservarsi che poiché neppure il ricorrente deduce che l’infarto fosse assolutamente impeditivo della prestazione lavorativa, la nocività anche della nuova prestazione lavorativa, assegnata proprio in considerazione dell’eccessiva gravosità della precedente, non può essere ricollegata automaticamente al grado di autonomia ed alla posizione elevata ricoperta dal geom T., peraltro coerente con il suo livello di inquadramento: in tal senso la censura, per essere decisiva al fine di smentire la valutazione del giudice del merito, avrebbe richiesto una puntuale deduzione di circostanze idonee a confutare la valutazione del giudice di merito, ancorate alla concreta e specifica situazione di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alla loro durata e all’intensità e ai ritmi di lavoro.

Correttamente poi a tale proposito la Corte d’Appello al fine di concludere che l’amministrazione aveva tenuto una condotta conforme al dovere di protezione del dipendente ha valorizzato la circostanza che i nuovi compiti furono ancora rimodulati dopo la visita della Commissione medica del 12.7.2000 ed in considerazione di quanto da essa accertato, con la revoca degli incarichi di responsabilità. In un caso analogo a quello in oggetto, questa Corte con la sentenza a 10175 del 2004 ha affermato che "La responsabilità del datore di lavoro per la violazione dell'obbligo posto dall’art. 2087 cod. civ. non ricorre per la sola insorgenza della malattia del lavoratore durante il rapporto di lavoro, richiedendosi che l'evento sia ricollegabile a un comportamento colposo dell'imprenditore che, per negligenza, abbia determinato uno stato di cose produttivo dell’infermità". Nella specie, ha quindi confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto insussistente una responsabilità dell'azienda in relazione a due infarti del miocardio, rilevando che, una volta che il lavoratore era rientrato in servizio dopo il primo infarto e subito dopo che ne aveva fatto richiesta, l'azienda lo aveva esonerato dai turni di notte e aveva ridotto l'orario di svolgimento delle mansioni in ambiente esterno.

3.4. il quarto motivo è poi inammissibile, in quanto il quesito di diritto è un espediente retorico, al quale non può che darsi risposta positiva.

La doglianza peraltro non prospetta un’interpretazione della legge diversa da quella adottata dalla Corte di merito: questa infatti, premesso che l’istanza di dispensa dal servizio era stata presentata in data 3.3.2000 dallo stesso geom. T. ha rilevato che la tesi secondo la quale la dispensa sarebbe stata disposta senza alcuna ricerca di una collocazione lavorativa alternativa era stata abbandonata in grado d’appello, ove veniva riproposto solo il profilo attinente al fatto che essa era stata determinata dall’assegnazione a mansioni morbigene. Tale affermazione non viene contestata dal ricorrente e pertanto la soluzione adottata dalla Corte non è efficacemente revocata in dubbio.

3.5. Anche il quinto motivo è inammissibile, in quanto al fine di ritenere la sussistenza del c.d. mobbing si chiede di rivalutare la portata ed il significato del carteggio intertercorso tra il ricorrente e il dr V., già ampiamente e compiutamente esaminato dalla Corte d’AppelIo, tra l’altro riportando solo alcuni stralci delle lettere, quelli ritenuti significativi per l’accoglimento della propria tesi, e non le stesse nella loro integralità.

3.6. Quanto alla liquidazione delle spese processuali, la Corte di merito ha applicato l’art. 91 c.p.c. in considerazione della totale soccombenza del T. In tema di spese processuali, peraltro, questa Corte ha chiarito che "il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell'ipotesi di concorso di altri giusti motivi" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15317 del 19/06/2013, Sez. 1, Sentenza n. 14542 del 04/07/2011).

4. Per tutti i motivi esposti il ricorso dev’essere rigettato.

Le spese processuali del grado seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo, in applicazione dei criteri previsti dal DM 140 del 2012.



P.Q.M.





Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 3.000,00 per compensi professionali ed € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.