Cassazione Penale, Sez. 4, 08 maggio 2014, n. 18933 - Accelerazione dell'evoluzione della malattia nei lavoratori esposti ad amianto



Presidente Brusco – Relatore Blaiotta

 

 

FattoDiritto


1. Il Tribunale di Torino ha affermato la responsabilità degli imputati M.M. , G.C. , B.M. , D.C.S. e F.U. in ordine al reato di omicidio colposo plurimo aggravato dalla violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, in danno dei lavoratori dipendenti della centrale Enel di (…) R.D. , T.F. , S.G. ; nonché solo i primi quattro dell'omicidio in danno di Fu.Si. . Li ha altresì condannati, unitamente al responsabile civile Enel, al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili CIGL, CiSL ed INAIL. Ha assolto N.A. per insussistenza del fatto; e F. dal solo omicidio in danno di Fu. per insussistenza del fatto.
La pronunzia è stata riformata dalla Corte d'appello di Torino, che ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di M. e G. per morte degli imputati; ed ha assolto B. e D.C. perché il fatto non sussiste quanto ai reati in danno di R. , T. , Fu. e S. perché il fatto non sussiste; nonché F. quanto ai reati in danno di R. , T. e S. perché il fatto non sussiste. Ha confermato nel resto la sentenza appellata.
L'imputazione attiene alle morti, tra il (…) ed il (…), degli indicati lavoratori per mesotelioma pleurico. L'impianto era massicciamente coibentato con amianto che, nel corso delle lavorazioni e delle operazioni di manutenzione, si disperdeva nell'ambiente. I quattro lavoratori erano stati massicciamente esposti.
Agli imputati, che in diversi tempi hanno ricoperto incarichi dirigenziali, è stato mosso l'addebito di non aver adottato misure per contenere l'esposizione delle vittime all'amianto.
2. Ricorrono per cassazione il Procuratore generale della Repubblica, nonché le parti civili Cisl e Cgil.
3. La parte civile Cisl espone che la perizia disposta in appello non ha risposto al fondamentale quesito afferente alla rilevanza delle esposizioni successive a quella iniziale e soprattutto all'esistenza o meno di una scuola di pensiero scientifico prevalente in ordine al tema della dosedipendenza. La suprema Corte ha già ripetutamente ritenuto affidabile l'enunciazione espressa in due sentenze di merito a proposito di tale dosedipendenza. I periti del giudizio in esame, per contro, esprimono la loro personale opinione circa l'irrilevanza delle esposizioni successive e tuttavia si tratta punti di vista personali espressi da scienziati eminenti ma non introdotti nella specifica materia.
L'opinione dei periti è stata fondatamente ed efficacemente criticata dai consulenti dell'accusa pubblica e privata e la Corte d'appello ne ha dato atto, tanto che ha infine aderito a diverse tesi esposte da tali consulenti nell'ambito della complessiva materia in esame. Su tali basi la Corte medesima si è trovata ad affrontare senza alcun supporto scientifico l'ulteriore questione legata all'accelerazione della fase di latenza a seguito della prosecuzione dell'esposizione ad amianto. E dopo aver ritenuto la fondatezza della tesi afferente all'effetto acceleratore di cui si discute è pervenuta a ritenere che si sia comunque in presenza di legge di tipo probabilistico dal coefficiente statistico medio-basso, rendendosi essa stessa protagonista ed autrice di valutazioni propriamente scientifiche, in tal modo contraddicendo gli insegnamenti della sentenza di legittimità Cozzini alla quale dichiarava di voler aderire. Non si comprende da dove la Corte territoriale abbia tratto la conclusione del carattere probabilistico della legge in questione. La Corte neppure spiega perché abbia aderito alla tesi che individua un periodo di latenza ordinaria lunga e ben superiore alla latenza vera, di circa 10 o 15 anni, ritenuta dai consulenti dell'accusa. L'asserto della sentenza finisce con l'annullare il contenuto della nota sentenza delle Sezioni unite Franzese in tema di accertamento dell'esistenza del nesso causale.
La Corte erra pure nel valutare il Consensus document prodotto dalle parti civili, dal quale si desume che non vi è un sapere scientifico unanimemente condiviso in ordine al tema discusso, trascurando che quel documento non aveva il compito di rispondere agli specifici quesiti oggetto del processo ma quello di trattare questioni metodologiche di più ampio respiro.
In conclusione, pur avendo percorso l'itinerario critico evidenziato dal dibattito istruttorio, la Corte di merito non ne ha tratto tutte le necessarie conclusioni; da un lato impropriamente valorizzando il carattere probabilistico dell'enunciato scientifico afferente all'effetto acceleratore; e dall'altro erroneamente ritenendo l'irrilevanza non solo delle esposizioni nel periodo di latenza vera che si verificano negli ultimi 10/15 anni, ma anche nel corso un arco di tempo che finisce con l'essere sostanzialmente indefinito e che viene indicativamente determinato in 32 anni.
4. La Cgil ha prodotto ricorso di contenuto identico a quello dell'altra parte civile.
5. Il ricorso del Procuratore generale propone argomenti in larga parte non dissimili. Si rammenta che la Corte di merito ha disposto perizia d'ufficio sul tema dell'effetto acceleratore dell'esposizione protratta all'amianto, in conformità all'insegnamento della giurisprudenza di questa Corte di legittimità. L'indagine, tuttavia, non ha prodotto risultati soddisfacenti, giacché gli esperti chiamati a rispondere, sebbene scelti per la loro indubbia imparzialità, hanno mostrato di avere competenze specifiche ben inferiori rispetto a quelle dei consulenti di parte. Essi hanno espresso il loro personale punto di vista, senza motivare adeguatamente le loro opinioni e senza dimostrare di essere aggiornati sull'evoluzione delle conoscenze in materia. In tale situazione la Corte d'appello ha finito col decidere disattendendo in toto le richieste accusatorie, riformando la sentenza di primo grado dopo aver seguito un proprio e faticoso percorso. Tale approccio ha determinato incomprensioni ed incongruenze anche vistose, essendosi pervenuti alla personale rielaborazione di concetti scientifici che hanno una coerenza di fondo che li rende inidonei ad essere utilizzati o recuperati solo parzialmente; e che non possono essere correttamente letti senza un adeguato supporto scientifico.
L'erroneità dell'approccio argomentativo si desume in primo luogo dalla valutazione del documento denominato in sigla DCCI. La Corte ha enfatizzato il significato di tale atto, trattandolo alla stregua di una sorta di superperizia. Esso, al contrario, ha connotazione e finalizzazione prettamente scientifica e non è stato pensato per le dinamiche processuali. In conseguenza, erroneamente si è ritenuto che il fatto che non si faccia riferimento all'effetto acceleratore in questione debba indurre a ritenere che esso non sia accreditato nella comunità scientifica. Il documento in questione, pur apprezzabile, non può che essere interpretato per i suoi contenuti reali e non per quelli che ipoteticamente avrebbero potuto essere e non sono stati.
Oggetto di censura è pure il percorso motivazionale che ha condotto la Corte a qualificare l'effetto acceleratore quelle legge di tipo probabilistico a coefficiente statistico medio-basso.
La Corte d'appello ha in larga parte condiviso le valutazioni espresse dai consulenti dell'accusa pubblica e privata, che ha ritenuto più convincenti di quelle dei periti e di quelle dei consulenti delle difese. In particolare si è prestata adesione alle tesi accusatorie a proposito della questione della latenza. Anche sul tema della rilevanza delle esposizioni successive e del loro effetto acceleratore la Corte ha in definitiva ritenuto, con ampia motivazione, di scostarsi dalle opinioni degli esperti della difesa; ha valorizzato una serie di voci scientifiche convergenti nel ritenere la rilevanza di tutte le esposizioni all'amianto ed ha concluso ritenendo la persuasivita e la scientificità del ridetto effetto acceleratore. L'argomentazione della pronunzia viene ritenuta dal ricorrente ampia e sostanzialmente adesiva dell'approccio accusatorio.
Pur sulla base di tali premesse, la Corte d'appello ha operato una stridente inversione di rotta che appare illogica e scientificamente infondata, in contrasto con il percorso sino a quel momento seguito.
Il discorso diviene perplesso e si prospettano profili di criticità che non risultano comprensibili. Il giudice, anziché disporre un approfondimento sui punti che riteneva
irrisolti, attraverso nuovi apporti di studiosi qualificati, si è impegnato autonomamente in ragionamenti privi di rigore scientifico, in un ambito che la stessa giurisprudenza di legittimità ha ritenuto supercomplicato. In alcuni aspetti l'argomentazione risulta inappagante pure col metro della logica comune, esprimendosi in una sorta di azione distruttiva rispetto alle non poche certezze ritenute fino a quel momento.
In primo luogo la Corte ha sottolineato l'incertezza sulla durata del periodo di induzione quasi che ciò fosse una novità e non un fatto notorio. È infatti acquisito che nella generalità dei tumori maligni non è dato, allo stato, conoscere con certezza la durata del periodo di induzione ed il tempo nel quale il tumore raggiunge dimensioni tali che la situazione possa essere considerata irreversibile, nel senso che non sono necessarie ulteriori promozioni per fargli acquisire quella connotazione in base alla quale può progredire autonomamente.
L'approccio è censurabile comunque anche dal punto di vista logico: ritenere acquisita la indicata stadiazione irreversibile, non implica affatto che la prosecuzione dell'esposizione non produca una accelerazione dei tempi della progressione della patologia. Insomma, per il ricorrente, irreversibilità non significa che si è esclusa la ulteriore attività di promozione esercitata dalla protratta esposizione all'agente cancerogeno.
Ulteriore punto critico della sentenza riguarda la durata del periodo di latenza convenzionale minima. Convenzionalmente tale periodo è stato indicato dai consulenti in 10 o 15 anni prima della diagnosi, alla luce di studi specifici che la Corte non sembra aver ben compreso. Essa ha infatti ritenuto più logico utilizzare il dato (32 anni) della latenza convenzionale. Al giudice è sfuggito che utilizzare il dato medio o più frequente, cioè 32 anni, di una latenza comunque convenzionale significa, come è intuibile anche a livello di logica comune, tagliare fuori in partenza una fetta del 50% della casistica; mentre occorre fissare un limite che valga per tutti i soggetti. Ma anche in ambito processuale assumere il criterio dei 32 anni sarebbe fuorviante, perché in sostanza equivarrebbe a considerare in partenza irrilevanti le esposizioni più recenti per i soggetti con latenza inferiore alla media.
Si ritiene che la Corte, mossa dallo scrupolo della cautela in questa complicata materia, abbia cercato di contemperare le conclusioni degli epidemiologi con l'esigenza di certezza della responsabilità penale; ed abbia ritenuto in sostanza più garantista un criterio apparentemente meno estremo e più equilibrato. Ma l'equilibrio è solo apparente, perché non basato su solida base scientifica ed in assenza di un contraddittorio sulla specifica questione in ordine alla quale il giudice ha ritenuto di procedere in autonomia. L'esito del giudizio è quindi incongruo, in quanto frutto di sostanziale contaminazione di diversi criteri che il giudice non può gestire in autonomia.
Sulla base di tale incongruo percorso si perviene a ritenere, immotivatamente, di carattere probabilistico l'effetto acceleratore, con una frequenza verosimilmente medio-bassa. L'avverbio da solo dimostra che la Corte non ha acquisito alcuna positiva certezza. Tale incerto epilogo sarebbe stato evitato attraverso l'acquisizione e la valutazione delle più qualificate conoscenze scientifiche e degli approdi conseguiti in diversi contesti processuali.
Oggetto di censura è pure il tema della causalità individuale. La Corte si è basata sull'assunto che l'effetto acceleratore non si verifica immancabilmente dopo l'inizio dell'induzione, costituito dal momento in cui ha luogo la lesione genetica a carico del patrimonio nucleare della cellula mesoteliale. Tali incertezze non sono state però riscontrate in altri procedimenti. E d'altra parte accanto alla probabilità statistica vi è la probabilità logica basata sull'intera evidenza disponibile. La Corte ha esaminato diffusamente la situazione complessiva della centrale Enel con particolare riferimento alla presenza ed alla diffusione delle polveri di amianto, ma si è poi attenuta a criteri rigoristi tali da privilegiare in definitiva l'incertezza.
Gli errori logici e scientifici indicati conducono ad erronee conclusioni quanto alle singole situazioni soggettive dei lavoratori deceduti. Un errore specifico riguarda il lavoratore R. nei cui confronti non è stata ravvisata la prova certa della diagnosi di mesotelioma pleurico, in una situazione di alta esposizione all'amianto ed in assenza di ipotesi causali alternative. Un giudizio in termini di alta credibilità razionale avrebbe dovuto senz'altro indurre a ritenere la patologia in questione.
6. I ricorsi sono fondati.
Il primo giudice ha ritenuto la irrilevanza causale delle esposizioni fino a 10-15 anni prima dell'esplosione della malattia, momento in cui, essendo già innescato il processo cancerogenetico, le successive esposizioni erano irrilevanti. Ha invece ritenuto rilevanti le esposizioni anteriori, che avevano accelerato l'evoluzione del processo morboso e diminuito il periodo di latenza.
Nel giudizio d'appello è stata disposta perizia medicolegale collegiale. Ne è emerso che non vi è, per il solo mesotelioma, una sicura relazione tra dose complessiva e risposta. Il processo cancerogenetico si distingue schematicamente in due fasi: l'iniziazione, che consiste nella mutazione del DNA come fenomeno iniziale per la trasformazione neoplastica; e la promozione, che consiste nella proliferazione di cellule già modificate in senso maligno. L'amianto, alla luce delle evidenze statistiche, costituisce sicuro fattore di iniziazione. Ma non vi sono solide evidenze che contrastino l'ipotesi che esso sia pure promotore: vi è plausibilità biologica, giacché la flogosi cronica potrebbe fornire un importante stimolo alla proliferazione di cellule già iniziate al processo di cancerogenesi. Nella materia svolge un ruolo chiave la lunga latenza: la prima trasformazione neoplastica si determina a breve distanza dall'esposizione. Il mesotelioma insorge dopo una lunga latenza, di alcune decine di anni dalla prima esposizione e mediamente di circa 30 anni. I periti hanno dato conto delle contrastanti opinioni di qualificati esperti indipendenti. Essi hanno ritenuto certa la diagnosi di mesotelioma per T. , Fu. e S. e solo probabilistica quella per R. .
I consulenti dell'accusa pubblica hanno esposto che la latenza diminuisce con l'incremento dell'esposizione. Si tratta di legge scientifica sufficientemente radicata nella comunità scientifica e di carattere universale. Non esiste esposizione irrilevante. Studi accreditati indicano che la latenza minima è di circa 15 anni e di 32 anni quella media. Inoltre, l'esposizione lavorativa implica una latenza più breve. È stata pure confermata la valutazione di certezza diagnostica per i 3 lavoratori già sopra indicati e probabilistica per l'altro.
I consulenti delle parti civili hanno riferito che il criterio di definizione dell'esposizione quale fattore di rischio è dato dalla dose cumulativa: variabile che integra durata e concentrazione dell'esposizione. Vi sono tre stadi: iniziazione, promozione, progressione. L'iniziazione non è costituita da un solo momento ma corrisponde ad un periodo complesso costituito da una sequenza di fasi. Terminata tale fase, la prima cellula mutata in senso neoplastico non può considerarsi autonoma ma è necessario che la cellula stessa si moltiplichi (promozione) sino a raggiungere la dimensione di un clone cellulare capace di resistere alle difese immunitarie. È solo al termine del periodo di induzione che si forma l'aggregato di cellule mesoteliali in grado di proseguire autonomamente il processo verso il mesotelioma. La fase di induzione è determinabile in 10, 12 anni. Il periodo di latenza è difficilmente inferiore a dieci anni. Solo tale ultimo decennio è irrilevante nello sviluppo del processo cancerogenetico. Tale criterio può essere utilizzato con riguardo alle storie lavorative dei lavoratori deceduti. In conseguenza il lavoro in Enel è eziologicamente rilevante.
È stata pure posta la distinzione tra latenza vera e latenza convenzionale. La prima è entità teorica, non essendo possibile determinare la durata del tempo di induzione, al termine del quale si è costituito l'ammasso cellulare in grado di sostenere la successiva evoluzione autonoma del tumore. Si fa quindi riferimento alla latenza convenzionale, periodo compreso tra l'inizio dell'esposizione e la data della morte. All'aumentare della dose cumulativa corrisponde nella coorte una tendenziale riduzione del tempo di latenza convenzionale: in tal senso molti studi sperimentali. La tesi contraria è stata sostenuta solo da uno studioso di nome C. e costruita a tavolino con scopi difensivi.
Il consulente dell'INAIL ha posto in luce la rilevanza della durata ed intensità del'esposizione. Secondo la migliore dottrina solo gli ultimi dieci anni di esposizione sono irrilevanti nello sviluppo della malattia.
I consulenti della difesa hanno rimarcato che i fattori temporali sono molto più importanti della dose. Il rischio cresce in misura estremamente forte in relazione al tempo trascorso dalla prima esposizione, indipendentemente dall'età e da ogni altro fattore. La latenza ha un ruolo dominante e quindi contano le prime esposizioni. Il ruolo delle esposizioni recenti non è quantificabile ma verosimilmente trascurabile. Tale punto di vista è sostenuto da diversi autorevoli studi. La latenza è di molti decenni, e l'eccesso di rischio diviene evidente solo dopo almeno 25 anni dalla prima esposizione. Dose media e durata dell'esposizione non influenzano la latenza.
Le opinioni degli esperti sono state dibattute e chiarite nel giudizio, come esposto analiticamente in sentenza.
7. Anche alla luce di tali acquisizioni istruttorie, la pronunzia propone un'ampia esposizione teorica.
Per tre dei quattro lavoratori è certa la diagnosi di mesotelioma ed altrettanto certa l'eziologia connessa all'esposizione lavorativa. Per R. , invece, tale diagnosi è solo probabile: come ritenuto dai periti d'ufficio, le indagini non sono state utili ai fini della sicura dimostrazione dell'origine mesoteliale primitiva del tumore. Pure alla luce delle critiche espresse dai consulenti di parte, permane una situazione di ragionevole dubbio intorno alla diagnosi.
Si considera che vi è stata esposizione dei lavoratori in epoca anteriore al servizio in Enel e che inoltre gli imputati si sono succeduti nel tempo nel ruolo di dirigenti dell'Enel. Assume, quindi, decisivo rilievo l'esistenza o meno di una legge scientifica a proposito del cosiddetto effetto acceleratore, in base alla quale sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali che conducono all'iniziazione del processo cancerogenetico, ma rilevano pure quelle successive fino all'induzione della patologia, dotate di effetto acceleratore, appunto e di abbreviazione, quindi, della latenza. Interessa inoltre comprendere se, eventualmente, si tratti di legge universale o probabilistica.
Si argomenta pure che i consulenti dell'accusa pubblica e privata sostengono la rilevanza causale della dose cumulativa come fattore condizionante dell'aumento dell'incidenza di mesotelioma. Non sono altrettanto chiare e ponderose le deduzioni a sostegno della rilevanza come effetto acceleratore, come fattore cioè di abbreviazione della latenza.
Viene peraltro data per scontata l'irrilevanza dell'esposizione nella fase di latenza propriamente detta, che viene fatta coincidere con gli ultimi 10-15 anni prima della manifestazione clinica.
I periti d'ufficio ed i consulenti della difesa hanno sostenuto che il mesotelioma si differenzia dagli altri tumori: la latenza è l'elemento chiave. Le esposizioni nel lontano passato sono quelle rilevanti.
Le tesi scientifiche addotte sono inconciliabili. I periti d'ufficio, sono apparsi si indipendenti ma con minore competenza scientifica nella specifica materia: essi non hanno adeguatamente motivato il loro punto di vista.
In tale irresolubile situazione si è ritenuto di attribuire importante rilievo al documento di consenso nell'ambito della seconda Consensus conference italiana nel 2011. Il documento costituisce una sorta di metanalisi e tiene conto dei principali contributi scientifici internazionali. Esso, in sintesi estrema, da conto di risultati altamente coerenti nell'indicare la proporzionalità della patologia rispetto alla dose cumulativa. Il documento, invece, tace circa l'abbreviazione del tempo di latenza come conseguenza dell'aumento dell'esposizione. Alla stregua di tale "illuminante chiarificazione scientifica" vengono valutati criticamente i contributi dei consulenti.
Il concetto di dose cumulativa è parametro affidabile nella stima del rischio da esposizione ad asbesto, emergendo da numerosi studi. Le perplessità dei periti al riguardo sono ritenute ingiustificate dalla Corte d'appello. Viene pure ritenuto fuorviante l'attribuzione di ruolo chiave alla latenza da parte dei periti, sempre alla luce del DCCI: non vi sono dubbi sull'interpretazione dell'evidenza disponibile nel senso dell'esistenza di una proporzionalità tra dose cumulativa e occorrenza di mesotelioma.
Quanto all'effetto acceleratore, si da conto della già indicata opinione perplessa dei periti. Essi evidenziano le evidenze contrastanti circa il ruolo di promotore dell'amianto, dopo l'iniziazione; anche se l'ipotesi non è priva di plausibilità biologica.
Si aggiunge che pure il DCCI, dopo aver fornito una completa informazione sullo stato delle conoscenze, non si pronunzia a proposito dell'effetto acceleratore successivo all'iniziazione, nella fase di promozione, cioè di proliferazione della cellula bersaglio "iniziata". Si espone diffusamente il parere del consulente tecnico di parte civile dr. M. secondo cui vi è rilevanza delle esposizioni successive fino ad induzione completata, sorretta da studi epidemiologia e dalla coerenza scientifica tra modello multistadio della cancerogenesi da amianto nonché dall'insostenibilità della tesi della frigger dose. Tuttavia nella ponderosa relazione non vi è alcuna citazione testuale di studi o ricerche nelle quali si enunci espressamente la tesi dell'effetto acceleratore.
I consulenti della difesa ed i periti, invece, si diffondono nel citare numerosi studi che confermerebbero la loro tesi secondo cui deve attribuirsi rilievo preponderante alle esposizioni del lontano passato. L'argomentazione è supportata da diversi studi che vengono analiticamente indicati. Da essi si desume che non vi sono evidenze in favore dell'effetto acceleratore.
All'esito di una valutazione complessiva dei contributi conoscitivi forniti dagli esperti la Corte di merito ritiene che, pur con qualche riserva, sia più convincente e persuasiva e comunque espressione di un sapere scientifico più largamente condiviso, la tesi dell'effetto acceleratore e della rilevanza causale delle esposizioni successive. La Corte si diffonde in una analisi scientifica della materia che si muove attorno ad alcuni passaggi. La tesi della dose killer è espressione di un vecchio e superato modello di cancerogenesi. Ed è superata alla luce della più recente acquisizioni scientifiche che indicano un processo ben più complesso, implicante l'intervento di molte variabili oltre alla dose innescante. Inoltre, costituisce sapere scientifico condiviso il fatto che l'evidenza epidemiologica disponibile sia univoca nell'indicare una relazione proporzionale tra dose cumulativa ed incidenza, nel senso che all'aumento dell'esposizione per intensità e durata aumentano i casi di tumore all'interno della popolazione esposta. Ancora, l'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità è indirizzato nel senso della rilevanza dell'effetto acceleratore. Infine, gli studi citati dai periti e dai i consulenti della difesa circa i soggetti che dopo una breve esposizione hanno sviluppato la patologia a distanza di molti decenni non costituiscono una prova sfavorevole alla tesi dell'effetto acceleratore. Si aggiunge che la teoria dell'effetto acceleratore sostenuta in sede epidemiologica ha trovato convincente conferma anche in sede di patologia sperimentale.
Fatte tali premesse in tema di causalità generale, si aggiunge che essa presenta aspetti problematici e profili di criticità nella sua applicazione concreta. È pacifico che allo stato attuale delle conoscenze è impossibile determinare la durata del periodo di induzione. Non vi sono certezze sulla durata dell'induzione convenzionale e di quella vera. Vi sono poi in questione temi afferenti alla suscettibilità genetica individuale. Ancora, come dimostrato dal documento DCCI, non vi è prova che la latenza vera non possa essere inferiore a 10-15 anni. La conclusione è che occorre ritenere che l'atteso effetto acceleratore non si manifesti indistintamente in tutte le esposizioni successive e non per tutti i lavoratori. Insomma, per una quota degli esposti, è irrilevante che vi siano state esposizioni aggiuntive.
Nello specifico, non emerge affatto in concreto l'effetto acceleratore con riguardo alla posizione dei lavoratori deceduti, essendosi in presenza di periodi di latenza assai lunghi.
Alla luce di tali principi si analizza la vita lavorativa dei defunti e la durata dei ruoli dirigenziali, riscontrando che per i tempi delle esposizioni, per la loro durata o la loro intensità, per l'approssimatività delle conoscenze scientifiche di fondo non vi è prova certa che l'effetto acceleratore si sia riscontrato in concreto.
Per R. a tali incertezze si aggiungono quelle sulla diagnosi di mesotelioma.
8. Tale metodo di analisi delle problematiche causali non può essere condiviso, mostra aspetti di illogicità e, soprattutto, non è conforme alle enunciazioni metodologiche offerte nella materia dalla giurisprudenza di questa Suprema corte.
Il giudice di merito si è trovato davanti un tema scientifico estremamente complesso, che presenta indubbio rilievo e, di fronte ad opinioni disparate e dubbiose è infine pervenuto a produrre un proprio, autoreferenziale, incontrollabile discorso scientifico.
Occorre rammentare che questa Corte suprema ha avuto modo di fornire indicazioni metodologiche proprio con riguardo a situazioni del genere di quella in esame (Cass. IV, 17 settembre 2010, Cozzini, Rv. 248944). Si è preso atto che sul tema scientifico dell'accelerazione dei processi eziologici si registra nella giurisprudenza una situazione che, magari giustificata all'interno di ciascun processo e delle informazioni e valutazioni scientifiche che vi penetrano, risulta tuttavia difficilmente accettabile nel suo complesso: come nel presente giudizio, il ridetto effetto acceleratore viene ammesso, escluso, o magari riconosciuto solo parzialmente, con apprezzamenti difformi dei giudici di merito. Questa Corte di legittimità, d'altra parte, è chiamata ad esprimere solo un giudizio di razionalità, di logicità dell'argomentazione esplicativa. È dunque errato affermare che essa abbia ritenuto o escluso l'esistenza di tale fenomeno.
La indicata situazione di incertezza chiama in causa questa Corte Suprema non per stabilire se la legge scientifica sia affidabile o meno, questione sulla quale essa non ha alcuna competenza o qualificazione; quanto piuttosto per definire quale debba essere l'itinerario razionale di un'indagine che si colloca su un terreno non proprio nuovo, ma caratterizzato da lati oscuri, da molti studi contraddittori e da vasto dibattito internazionale. Orbene, in situazioni di tale genere il primo passo da muovere, è quello di valutare la qualificazione e l'imparzialità dell'esperto. Però l'esperto, per quanto autorevole e coinvolto personalmente nell'attività di studio e ricerca, costituisce solo una voce che, sebbene qualificata, esprime un punto di vista personale, scientificamente accreditato ma personale; ed offre, quindi, una visione forse incompleta del tema. Non si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze.
Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono; le basi fattuali sui quali essi sono condotti; l'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca; il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi; la discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate; l'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove. È ovvio che, in tema di amianto, un conto è un'indagine condotta da un organismo pubblico, istituzionale, realmente indipendente; ed altra cosa è un'indagine commissionata o gestita da soggetti coinvolti nelle dispute giuridiche. D'altra parte, in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che dopo aver valutato l'affidabilità metodologica e l'integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso. Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze e delle competenze per esperire un'indagine siffatta: le informazioni di cui si parla relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero, dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti. Costoro, come si è accennato, non dovranno essere chiamati ad esprimere (solo) il loro personale seppur qualificato giudizio, quanto piuttosto a delineare lo scenario degli studi ed a fornire gli elementi di giudizio che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, possa pervenirsi ad una "metateoria" in grado di guidare affidabilmente l'indagine. Di tale complessa indagine il giudice è infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti, dell'apprezzamento compiuto.
9. Alia luce di tali principi si mostrano i cennati, cruciali vizi motivazionali.
I periti d'ufficio hanno esposto una tesi che è apparsa vulnerabile agli occhi della stessa Corte di merito, per un duplice ordine di ragioni. Da un lato gli esperti, sebbene indipendenti e qualificati, hanno mostrato una conoscenza non sufficientemente approfondita e completa dello specifico tema nel suo complesso, soprattutto con riguardo agli sviluppi della letteratura scientifica universale. Essi, inoltre, non hanno documentato l'esistenza di una accreditata, prevalente, affidabile ricerca scientifica a sostegno del loro assunto ed hanno anzi dato conto delle contrastanti opinioni espresse da esperti indipendenti.
Pure le tesi favorevoli all'esistenza dell'effetto acceleratore esposte dall'accusa pubblica e privata, per la Corte di merito, non sono sorrette da basi sufficientemente chiare e ponderose. Il parere dell'esperto M. non è accompagnato da alcuna citazione testuale o dall'evocazione di ricerche pertinenti ed affidabili.
La pronunzia aggiunge che le tesi dei consulenti della difesa, che attribuiscono rilevanza eziologica preponderante all'esposizione iniziale, sono sostenute da diversi autorevoli studiosi.
A fronte di una situazione tanto articolata e divaricata, il giudice di merito si è generosamente ma erroneamente assunto un ruolo non proprio, tentando di elaborare un originale, eclettico punto di vista scientifico. Si è ritenuto di attribuire speciale rilievo ad un unico documento già ripetutamente citato (la Consensus conference) che, tuttavia, nulla ha detto sullo specifico tema dell'effetto acceleratore. E si è in conclusione affermato che la tesi dell'esistenza di tale effetto sia più convincente e più condivisa. Non si spiega alla luce di quale autorità scientifica sia espresso il giudizio di prevalenza di tale tesi; ma soprattutto tale enunciazione è in contrasto con quanto in precedenza esposto a proposito delle malferme opinioni dei periti e dei consulenti dell'accusa. L'enunciazione, in breve, è non motivata ed incoerente rispetto alla precedente esposizione della carenza di supporto scientifico accreditato che condiziona la tesi accusatoria.
La medesima censura metodologica coglie l'ulteriore passaggio argomentativo con il quale si enuncia il carattere probabilistico della legge scientifica inerente all'effetto acceleratore. L'enunciato non è dimostrato in alcun modo.
In tale situazione, la pronunzia deve essere annullata con rinvio. La questione dovrà essere esaminata nuovamente a fondo. I dubbi, le incertezze, le contraddizioni dovranno essere se possibile risolti in modo convincente. Come già enunciato si dovrà compiere, con l'ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, una documentata metanalisi della letteratura scientifica universale. Le opinioni e le enunciazioni degli esperti di parte dovranno essere vagliati, se necessario, con l'aiuto di periti. Ma ci si dovrà astenere da valutazioni ed enunciazioni scientifiche proprie. Infatti, né il giudice di merito né quello di legittimità possono ritenersi ad alcun titolo detentori di sapere scientifico, che deve essere invece veicolato nel processo dagli esperti. Alla luce di tali principi sarà pure vagliata la questione inerente alla dipendenza da mesotelioma della morte del lavoratore R. .
All'esito, la Corte d'appello vorrà pure provvedere al regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d'appello di Torino cui rimette anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.