Cassazione Penale, Sez. 4, 17 settembre 2014, n. 38103 - Sicurezza dei lavoratori nelle industrie estrattive


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente -
Dott. ESPOSITO Lucia - Consigliere -
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere -
Dott. DOVERE Salvatore - Consigliere -
Dott. IANNELLO Emilio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
G.A. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1671/2012 CORTE APPELLO di GENOVA, del 20/02/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 11/06/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. IANNELLO EMILIO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. MISSERI Francesco del Foro di Roma che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.


Fatto

1. Con sentenza del 20/2/2013 la Corte d'appello di Genova confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Massa, sezione distaccata di Pontremoli, aveva dichiarato G.A. colpevole del reato di lesioni colpose aggravato dalla violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, nonchè del reato p. e p. dal D.Lgs. 25 novembre 1996, n. 624, art. 23, commi 1 e 2 e art. 104 e lo aveva pertanto condannato alla pena, sospesa, di mesi quattro di reclusione per il primo reato e di Euro 1.500,00 di ammenda per il secondo.

Le accuse traevano origine dal sinistro occorso in data 14/4/2008 al lavoratore S.A., dipendente della Ingra S.r.l., nel mentre questi era intento a lavorare, alla guida di un escavatore, al distacco di una bancata di marmo nella cava di (OMISSIS), con il mezzo collocato a valle della bancata e la benna che tirava verso il basso il blocco agganciato: accadeva, infatti, che il blocco si rompeva improvvisamente a metà, cadendo sulla cabina di guida del mezzo e provocando lesioni alle braccia e alle gambe del conducente.

Si contestava al G., direttore responsabile della cava, di aver disposto che le operazioni di ribaltamento della bancata avvenissero con l'escavatore posizionato sotto il bancale da ribaltare, piuttosto che con la tecnica della trazione a fune, ed inoltre di non aver redatto specifico incarico scritto da consegnare al lavoratore chiamato a svolgere la propria attività in una situazione pericolosa.

La Corte d'appello, all'esito di perizia disposta ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3, al fine di accertare l'entità delle lesioni subite dalla vittima, essendo da questa emerso che dall'infortunio era derivata una malattia protrattasi ben oltre i 40 giorni, rigettava il preliminare motivo di gravame con il quale si era dedotta l'improcedibilità dell'azione per difetto di querela, che secondo l'appellante sarebbe stata necessaria per non essere stata dimostrata la sussistenza di lesioni personali gravi.

Nel merito confermava il giudizio di colpevolezza, essendo incontestato che il G. non avesse consegnato al lavoratore alcun ordine scritto con le prescrizioni necessarie per l'esecuzione del lavoro intrinsecamente pericoloso e, quanto al primo reato, ritenendo evidente l'intrinseca pericolosità della descritta operazione di lavoro e conseguentemente dimostrata l'efficacia causale della condotta dell'imputato, consistita nell'aver autorizzato un'operazione evidentemente pericolosa, non assentita dal regolamento di sicurezza della ditta.

Giudicava, inoltre, corretta la mancata concessione all'imputato delle attenuanti generiche, in ragione della macroscopica gravità della condotta, unita al contegno processuale mancante di ogni resipiscenza; quanto alla pena, rilevava che questa risultava prossima ai minimi edittali e riteneva pertanto, per le stesse ragioni, del tutto ingiustificata la doglianza anche sul punto svolta dall'imputato.

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l'imputato, per mezzo del proprio difensore, articolando cinque motivi.

2.1. Con il primo deduce violazione di legge e inosservanza di norme processuali con riferimento alla ritenuta procedibilità dell'azione penale pur in mancanza di querela.

Assume in sintesi che:

a) gli elementi istruttori acquisiti al processo di primo grado non consentivano di ritenere che all'infortunio fosse seguita una lesione con prognosi superiore a giorni 20;

b) che ciò avrebbe dovuto condurre la Corte d'appello ad accogliere il primo motivo di gravame con cui si deduceva l'improcedibilità dell'azione in mancanza di querela;

c) che, invece, irritualmente la Corte territoriale ha ritenuto di poter disporre perizia volta all'accertamento della durata delle lesioni. Rileva, infatti, che una tale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello poteva ritenersi consentita solo ove non fosse possibile decidere allo stato degli atti: presupposto insussistente nella specie, atteso che gli elementi di prova già acquisiti, e segnatamente il certificato del pronto soccorso, confermavano che le lesioni patite dalla persona offesa non superavano la prognosi di giorni 20.

In tale contesto - sostiene il ricorrente - la perizia appare strumentalmente disposta al solo fine di sanare il difetto di procedibilità dell'azione e, in tal senso, integra violazione del divieto di reformatio in peius.

2.2. Con il secondo motivo deduce violazione dell'art. 42 c.p. e art. 590 c.p., commi 1, 2 e 3.

Assume che la Corte d'appello, nell'affermare la responsabilità dell'imputato con riferimento al primo reato, erra nell'interpretazione delle norme di cui ai richiamati primi tre commi dell'art. 590 c.p., omettendo di considerare che si tratta di tre distinte e differenti fattispecie criminose, con presupposti, anche di fatto, distinti e dissimili.

Lamenta inoltre l'erronea applicazione dell'art. 42 c.p., in ordine all'elemento psicologico del reato, argomentando sul punto sulla base di una mera presunzione di conoscenza del divieto stabilito dal documento sulla sicurezza.

2.3. Con il terzo motivo deduce erronea applicazione del D.Lgs. n. 624 del 1996, artt. 23 e 104.

Assume che la norma di cui all'art. 23 D.Lgs. cit. persegue la finalità di rendere edotto il lavoratore circa la pericolosità dell'operazione cui viene addetto, con la conseguenza che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del merito, l'incarico scritto deve ritenersi non necessario ove le operazioni siano dirette in prima persona dal responsabile, presente sul luogo.

2.4. Con il quarto motivo deduce inosservanza di norme processuali in tema di correlazione tra accusa e sentenza, per avere la Corte confermato una pronuncia di condanna riferita, in imputazione, all'art. 25 D.Lgs. cit., che riguarda fattispecie diversa da quella contestata.

2.5. Con il quinto motivo deduce infine violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena.

 

Diritto

3. Il ricorso è manifestamente infondato con riferimento a tutti i dedotti profili di doglianza.

3.1. Con riferimento al censurato rinnovo dell'istruttoria, disposto allo scopo di accertare, attraverso una perizia, la durata delle lesioni patite dalla persona offesa, la Corte territoriale offre adeguata e pertinente motivazione evidenziando la sussistenza di contrastanti indicazioni al riguardo emergenti, da un lato, dal certificato di pronto soccorso che indica la prognosi in 20 giorni, dall'altro, dalla testimonianza della vittima che, sentito in dibattimento, ha rappresentato una durata della malattia ben superiore. In modo del tutto coerente e ineccepibile sul piano logico ha quindi evidenziato la Corte che "l'unico modo per precisare i contorni del problema era congedare una consulenza d'ufficio, che appariva assolutamente necessaria".

A fronte di tale specifica e pertinente giustificazione, nessun fondamento logico-giuridico può riconoscersi all'affermazione del ricorrente secondo cui la Corte d'appello avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto delle emergenze desumibili dal citato certificato di pronto soccorso. Tale affermazione evidentemente trascura di considerare il rilievo attribuibile, anche a detti fini, alle dichiarazioni della persona offesa, quanto meno perchè idonee a prospettare un dubbio sull'efficacia dimostrativa dell'altro contrastante elemento di prova e la necessità di un approfondimento istruttorio, quale quello disposto.

In proposito occorre rammentare che, secondo pacifico indirizzo, il sindacato che il giudice di legittimità può esercitare in relazione alla correttezza della motivazione di un provvedimento pronunciato dal giudice d'appello sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento non può mai essere svolto sulla concreta rilevanza dell'atto o della testimonianza da acquisire, ma deve esaurirsi nell'ambito del contenuto esplicativo del provvedimento adottato.
(Sez. 4^, n. 37624 del 19/09/2007 - dep. 12/10/2007, Giovannetti, Rv. 237689; cfr. anche Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995 - dep. 23/02/1996, P.G. in proc. Fachini, Fachini e altri, Rv. 203764).

Incomprensibile poi appare la doglianza secondo cui, nel descritto contesto, la perizia dovrebbe ritenersi strumentalmente disposta al solo fine di sanare il difetto di procedibilità dell'azione e, in tal senso, integrerebbe violazione del divieto di reformatio in pejus.

Al riguardo è appena il caso di rilevare che, da un lato, come detto, l'approfondimento istruttorio, lungi dal potersi considerare preconcetto e strumentale, trova specifica e congrua giustificazione nei termini sopra detti e, dall'altro, come già rimarcato nella sentenza impugnata, l'aggravante che rende procedibile d'ufficio il reato è stata espressamente contestata nel capo d'imputazione ed è stata ritenuta sussistente dal primo giudice, tanto bastando per ritenere l'argomento del tutto destituito di fondamento.

3.2. Meno ancora intellegibile - e comunque palesemente destituito di fondamento - è l'assunto secondo cui nella contestazione del primo reato (lesioni colpose gravi, aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), i giudici di merito sarebbero incorsi in violazione di legge per il riferimento contestuale ai primi tre commi dell'art. 590 c.p., dal momento che questi descriverebbero tre distinte e autonome fattispecie.

Devesi in proposito rilevare che, da un lato, non è nemmeno accennato quale sia la conseguenza, rispetto alla ricostruzione del fatto e alla qualificazione giuridica ritenuta in sentenza, derivante dalla suddetta indicazione delle norme di riferimento e, dall'altro, questa comunque è pienamente corretta, atteso che gli elementi contestati e ritenuti in sentenza trovano espressa previsione e disciplina in tutti e tre i richiamati commi dell'art. 590 c.p., (il comma 1, infatti, contempla il reato base di lesioni colpose; il secondo l'aggravante derivante dalla gravità delle lesioni; il terzo, l'aggravante rappresentata dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, diversamente sanzionata a seconda che si accompagni a lesioni gravi o gravissime).

3.2.1. La manifesta infondatezza del motivo è poi apprezzabile anche con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 42 cod. pen. in tema di elemento soggettivo.

Premesso che il profilo di critica prospetta semmai, in astratto, un difetto di motivazione, segnalandosi con essa l'insufficienza degli argomenti spesi in sentenza a fondamento della ritenuta sussistenza della contestata colpa specifica, non può non rilevarsi che, anche in tale corretta prospettiva, la sentenza impugnata non incorre in alcun vizio censurabile nella presente sede, laddove giustifica l'imputazione oggettiva e soggettiva dell'evento dannoso alla condotta dell'imputato, oltre che con riferimento alla evidente pericolosità dell'operazione di lavoro demandata alla vittima, anche con riferimento - e con addebito dunque di colpa specifica - alla inosservanza del divieto univocamente desumibile dal documento per la sicurezza adottato dall'impresa anteriormente al fatto, al riguardo anche escludendo "ogni scusabile errore sul precetto", in ragione della considerazione secondo cui si deve "escludere che una persona con la sua competenza specifica potesse non conoscere il divieto stabilito dal documento della sicurezza della sua azienda".

L'argomento di critica secondo cui tale rilievo, risolvendosi nell'argomento "non poteva non sapere", integrerebbe motivazione apparente, si appalesa non pertinente, avuto riguardo alla natura e alla fonte della regola di condotta inosservata e alla posizione di garanzia rivestita dal prevenuto.

Trattandosi, infatti, di norma dettata per la prevenzione degli infortuni sul lavoro - peraltro nella specie di evidenza tale (non operare con l'escavatore per il distacco di una bancata di marmo, collocandosi sotto la bancata medesima) da poter essere apprezzata, come norma di comune ed elementare prudenza, anche da soggetto non munito di particolari cognizioni tecniche o esperienza nel settore, indipendentemente dall'essere essa stata formalizzata all'interno di uno specifico documento dell'impresa - l'errore o l'ignoranza in cui con riferimento ad essa è incorso il soggetto titolare di posizione di garanzia, tenuto a osservare e far osservare quella regola di condotta ai sensi del D.P.R. 9 aprile 1959, n. 128, art. 6, comma 2, (quale nella specie deve certamente ritenersi l'odierno ricorrente, in quanto direttore responsabile della cava), si risolve in errore sul precetto penale, così come correttamente rimarcato nella sentenza impugnata, irrilevante ai sensi dell'art. 5 c.p., e anzi esso stesso integrante ragione di addebito, anche sul piano soggettivo.

La colpa, specifica, addebitata al ricorrente discende, infatti, in re ipsa, dalla accertata violazione degli obblighi ad esso imposti dalla vista norma antinfortunistica, indipendentemente dal fatto che egli conoscesse o meno la regola prevenzionale violata, che aveva anzi il dovere di far applicare e prima ancora, evidentemente, di conoscere.

3.3. Non diverse valutazioni merita il terzo motivo di ricorso.

L'assunto secondo cui il D.Lgs. 25 novembre 1996, n. 624, art. 23, - che impone al direttore responsabile o al sorvegliante nell'ambito di industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee di rilasciare ai lavoratori, "per l'esecuzione di attività in situazioni pericolose ... specifico incarico scritto che deve precisare le condizioni da rispettare e le precauzioni da adottare prima, durante e dopo i lavori" - non sarebbe operante o comunque non avrebbe ragione di essere osservata nel caso in cui le operazioni siano dirette in prima persona dal responsabile, presente sul luogo, non trova alcun fondamento nè nel riferito dato testuale (che non accenna affatto, nè autorizza, una siffatta ragione di deroga), nè sul piano logico (trattandosi di prescrizione evidentemente dettata proprio al fine di sottrarre il lavoratore ai rischi di arbitrarie, generiche, indeterminate e soprattutto difficilmente accettabili a posteriori prescrizioni del soggetto a lui preposto nell'organizzazione aziendale).

3.4. Manifestamente infondata è anche la doglianza di cui al quarto motivo, essendo il riferimento, contenuto nella sentenza di primo grado, nella indicazione della norma incriminatrice relativa al secondo dei reati per cui è condanna, al D.Lgs. n. 624 del 1996, art. 25 anzichè dell'art. 23, frutto di evidente errore materiale del tutto ininfluente - così come rettamente evidenziato dalla Corte territoriale - ai fini della descrizione e intellegibilità del fatto- reato ritenuto sussistente, quale univocamente desumibile dalla parte motiva, con piena corrispondenza a quello contestato in rubrica.

3.5. Si appalesano infine manifestamente infodate le censure che investono la mancata concessione delle attenuanti generiche e il trattamento sanzionatorio.

Occorre al riguardo rammentare che, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6^, n. 36382 del 04/07/2003, Dell'Anna, Rv. 227142) o con formule sintetiche (tipo "s/ ritiene congrua" v. Sez. 6^, n. 9120 del 02/07/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3^, n. 26908 del 22/04/2004, Ronzoni, Rv.229298).

Inoltre, la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, tanto che "ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'ari. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso" (Sez. 2^, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163).

Parimenti, con specifico riferimento alla dosimetria della pena, trovasi condivisibilmente precisato che "la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 c.p.. Anzi, non è neppure necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale" (Sez. 4^, n. 41702 del 20/09/2004, Nuciforo, Rv. 230278).

In relazione alle esposte coordinate di riferimento è da escludersi che, nel caso in esame, la quantificazione della pena ovvero il diniego delle attenuanti generiche siano frutto di arbitrio o di illogico ragionamento o che comunque si espongano a censura di vizio di motivazione, tanto più a fronte di una pena determinata in misura prossima al minimo edittale, avendo il giudice a quo sia pure sinteticamente ma specificamente motivato sul punto facendo in particolare riferimento alla gravità dei reati e all'intensità della colpa.

4. Ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3, il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Tenuto conto della sentenza 13/06/2000, n. 186, della Corte Costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento e del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2014