Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 dicembre 2014, n. 26041 - Infortunio sul lavoro, danno e lavoro straordinario


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STILE Paolo - Presidente -
Dott. VENUTI Pietro - Consigliere -
Dott. BERRINO Umberto - Consigliere -
Dott. LORITO Matilde - rel. Consigliere -
Dott. GHINOY Paola - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso 15440-2008 proposto da:
P.D. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell'avvocato MEREU PAOLO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CITTERIO ALESSANDRO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro NUOVA TIRRENA S.P.A., persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA CROCE 44, presso lo studio dell'avvocato GRANDINETTI ERNESTO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;
- controricorrente -
e contro C.M.C. SYSTEM S.R.L. IN LIQUIDAZIONE P.I. (OMISSIS);
- intimata -
avverso la sentenza n. 611/2007 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 29/05/2007 r.g.n. 1453/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2014 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;
udito l'Avvocato MEREU PAOLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto


La Corte d'Appello di Torino, con sentenza in data 29/5/07, parzialmente riformava la pronuncia del giudice di primo grado emessa sulla domanda proposta da P.D. nei confronti della CDM System, intesa a conseguire il risarcimento del danno conseguente all'infortunio sul lavoro occorsogli in data 26/10/00 (all'esito del quale aveva riportato fratture multiple al piede sinistro), ed in relazione al quale aveva già percepito dall'Inail il riconoscimento di un grado di inabilità permanente pari al 9% ed il pagamento di un indennizzo D.Lgs. n. 38 del 2000, ex art. 13. La Corte territoriale condannava la C.M.C. System s.r.l. al pagamento in favore dell'appellante, dell'ulteriore somma di Euro 8.330,13 a titolo di danno biologico differenziale, confermando la sentenza di prime cure in punto di diniego di riconoscimento del risarcimento danni per effetto del mancato espletamento di lavoro straordinario, trattandosi di statuizione non oggetto di specifica censura e, comunque, non risultando la pretesa sorretta da adeguata dimostrazione. Confermava altresì le statuizioni rese dal primo giudice in tema di danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa specifica, sull'essenziale rilievo della carenza di prova in ordine al pregiudizio subito, atteso che successivamente all'eventus damni, l'appellante aveva continuato a svolgere parte delle mansioni in precedenza espletate e non risultava avesse risentito di alcuna diminuzione retributiva.

Avverso tale pronuncia il P. ha spiegato ricorso per Cassazione affidato a due motivi trasfusi in quesiti di diritto.

Ha resistito con controricorso la Nuova Tirrena s.p.a. già condannata nel giudizio di merito a tenere indenne la CMC System s.r.l. di quanto era tenuta a corrispondere in favore del lavoratore.

La società CMC System in liquidazione non ha svolto difese.


Diritto

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. e art. 421 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale abbia tralasciato di considerare gli approdi ai quali era pervenuto l'ausiliare nominato in prime cure, il quale aveva riconosciuto l'incidenza di postumi invalidanti permanenti nella misura dell'11%, dando atto che tale diminuzione si riverberava in pari misura sulla capacità lavorativa specifica, non essendo stato in grado di svolgere più le qualificate mansioni di carpentiere cui era stato addetto in precedenza, in ragione della grave menomazione subita. Si duole, quindi, del governo della attività istruttoria disposto dai giudici del gravame i quali, ritenendo insufficienti le prove presuntive offerte, ben avrebbero potuto dare ingresso alle prove testimoniali ritualmente dedotte sul punto.

Con il secondo mezzo di impugnazione viene denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 ed omessa insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia, per avere la Corte di merito disatteso le risultanze degli accertamenti medico-legali che avevano acclarato l'effettiva menomazione della capacità di lavoro specifica del soggetto. Osserva in particolare il ricorrente che, diversamente da quanto argomentato dalla Corte, parte preponderante delle mansioni in precedenza svolte gli erano state precluse dall'infortunio occorsogli e precisa, quanto alla diminuzione patrimoniale subita, di non aver potuto più espletare lavoro straordinario, alla stregua delle prove per testimoni articolate la cui mancata ammissione non era stata oggetto di alcuna motivazione da parte dei giudici del gravame. Le censure, da trattarsi congiuntamente stante la connessione logico- giuridica che le connota, sono prive di fondamento.

Per un ordinato iter motivazionale appare opportuno rimarcare che le doglianze formulate dal ricorrente attengono a due profili del danno patrimoniale rivendicato: quello concernente il presunto mancato svolgimento dopo l'infortunio, di attività di lavoro straordinario; quello derivante tout court da perdita di capacità lavorativa specifica, quale impedimento allo svolgimento delle medesime mansioni svolte anteriormente all'eventus damni.

Quanto al primo profilo, non può sottacersi che la Corte distrettuale abbia svolto una motivazione che si articola su duplice livello: 1) inammissibilità della censura "per l'assoluta assenza di motivi specifici" (vedi pag. 16 sentenza impugnata); 2) mancanza specifica di prova in ordine allo svolgimento regolare di attività di lavoro straordinario in epoca anteriore all'infortunio.

Dal tenore del ricorso spiegato dal P. in sede di legittimità appare, peraltro, evidente, che il primo autonomo capo di sentenza concernente l'inammissibilità del gravame per carenza del requisito di specificità, non sia stato oggetto di impugnazione, sicchè la pronuncia deve ritenersi intangibile per effetto del suo passaggio in giudicato.

Rinviene infatti applicazione il principio, più volte affermato da questa Corte, alla cui stregua la formazione della cosa giudicata per mancata impugnazione su un determinato capo della sentenza investita dal gravame, si verifica con riferimento ai capi della stessa sentenza del tutto autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di impugnazione, perchè fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno (vedi, ex plurimis, Cass. 23 marzo 2012 n. 4732, Cass. 23 febbraio 2009 n. 4363). La censura presenta, quindi, in virtù delle esposte motivazioni, evidenti profili di inammissibilità, giacchè la statuizione oggetto di impugnativa attinente al pregiudizio che si assume risentito per effetto del mancato svolgimento di attività di lavoro straordinario, è divenuta cosa giudicata, avendo omesso il ricorrente di impugnare anche il diverso ed autonomo capo della pronuncia attinente alla genericità dell'impugnazione, parimenti acclarata dai giudici del gravame.

Esigenze di completezza motivazionale, inducono comunque, ad evidenziare la infondatezza del motivo.

Il ricorrente, onde confutare la statuizione della gravata sentenza in ordine alla carenza di prova del regolare svolgimento di attività di lavoro straordinario in epoca anteriore all'infortunio, deduce, infatti, di aver fornito precisi indizi, univoci e concordanti, circa la riduzione in concreto, del reddito, lamentando che la Corte distrettuale non avesse tenuto conto delle buste paga prodotte in relazione agli anni precedenti nel corso dei quali la prestazione di lavoro straordinario aveva avuto le caratteristiche della assoluta continuità.

Omette, tuttavia, in violazione del principio di autosufficienza che governa il ricorso per cassazione, di riprodurne il contenuto onde confutare la decisione impugnata laddove, sulla scorta della documentazione prodotta dall'appellante, aveva accertato che dalle buste paga emergeva lo svolgimento di sole 16 ore di lavoro straordinario nel mese di gennaio 1999 e mai nei primi dieci mesi dell'anno 2000, consentendo a questa Corte di verificare, ex actis, la fondatezza della censura.

Nè a diverse conclusioni può addivenirsi ove si ponga riferimento alle prove testimoniali articolate in primo grado che si deduce erroneamente non siano state ammesse nel corso del giudizio di merito, attesa la assoluta genericità dei capitoli di prova articolati (""vero che il P. era solito svolgere ore di straordinario in favore della società convenuta in eccedenza all'orario previsto contrattualmente"), in ispregio ai principi più volte affermati in sede di legittimità secondo cui è onere del lavoratore che pretenda un compenso per lavoro straordinario, provare rigorosamente la relativa prestazione ed in termini sufficientemente realistici, i suoi termini quantitativi (vedi fra le tante, Cass. 29 gennaio 2003 n. 1389, Cass. 12 maggio 2001 n. 6623), essendo poi rimessa la valutazione dell'attendibilità e congruenza dei dati probatori forniti, al prudente apprezzamento discrezionale del giudice di merito che si palesa incensurabile in sede di legittimità se, come nello specifico, adeguatamente motivato ed esente da vizi di ordine logico o giuridico.

Con riferimento agli ulteriori profili di danno patrimoniale da perdita di capacità di lavoro specifica sollevati da parte ricorrente, è opportuno rimarcare che la Corte distrettuale ha negato la configurabilità di detto pregiudizio sull'essenziale rilievo che non risultava che la menomazione in concreto riportata, dal P., da cui sarebbe derivata l'impossibilità di indossare calzatura antinfortunistiche secondo le affermazioni del nominato ausiliare, avesse determinato una diminuzione di natura patrimoniale, a carico del lavoratore. Tale assunto, pervero, non risulta inficiato dalle censure formulate dall'odierno ricorrente, tutte modulate sulla pretesa violazione dell'art. 116 c.p.c. in tema di interpretazione dell'elaborato peritale e della mancata ammissione delle prove testimoniali nonchè sulla insufficienza di motivazione.

Rimarca, infatti, il ricorrente, che il CTU avrebbe riconosciuto l'incidenza di postumi di invalidità permanente nella misura dell'11% dando sostanzialmente atto che tale diminuzione incide in pari misura sulla capacità di lavoro specifica, non avendo egli potuto più svolgere le qualificate mansioni di carpentiere.

Il P., peraltro, si è limitato a richiamare meri stralci della relazione medico-legale stilata dal dott. D. - da cui si rileva che a seguito dell'infortunio, aveva riportato danni al piede destro da cui era derivata dolenzia nella deambulazione e difficoltà ad indossare calzature - che non appaiono sufficienti a sostenere le affermazioni poste a fondamento del ricorso in ordine alla risarcibilità di una menomazione della capacità di lavoro specifica nella misura dell'11%.

Menomazione la cui reintegra in via patrimoniale è stata correttamente esclusa dai giudici del gravame, sull'essenziale rilievo che il danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa specifica "si sostanzia nella differenza fra la retribuzione percepita o percepibile dal lavoratore anteriormente all'infortunio in ragione delle sue specifiche attitudini lavorative, e quella percepita successivamente al sinistro ed inferiore alla prima in ragione appunto, della perdita della capacità lavorativa specifica".

Nella opinione della Corte, invero, "l'impossibilità del P., a seguito dell'infortunio al piede, di indossare calzature antinfortunistiche (v. pag. 8 rel. CTU), non comporta di per sè l'esistenza del danno in parola, considerato non soltanto che risulta che anche dopo l'infortunio l'appellante ha continuato a svolgere parte delle mansioni già in precedenza svolte (v. pagg. 3 e 8 rel. CTU), ma anche - e soprattutto, perchè non risulta affatto che detta impossibilità abbia determinato una diminuzione retributiva a carico del lavoratore".

Si tratta di affermazioni ineccepibili, che non restano scalfite dalle generiche censure formulate da parte ricorrente, presentandosi in linea con i dicta giurisprudenziali alla cui stregua (vedi Cass. 18 aprile 2003 n. 6291 cui adde Cass. 14 dicembre 2004 n. 23291 e Cass. 20 ottobre 2005 n. 20321) l'invalidità permanente (sia totale che parziale), mentre di per sè concorre a costituire il danno biologico, non comporta necessariamente anche un danno patrimoniale.

A questo fine, infatti, il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell'attività lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità di guadagno (e, quindi, di produrre ricchezza), deve anche accertare se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l'infortunio subito, una capacità generica ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte (Cass. 30 dicembre 1993, n. 13013). Solo se dall'esame di questi elementi risulterà provata una riduzione della capacità di guadagno, il danno conseguente (e non la causa di questo, cioè la riduzione della capacità di lavoro specifica) sarà risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. La dimostrazione di detto danno grava, secondo i principi che regolano la ripartizione dell'onere della prova in materia di responsabilità aquiliana, sul soggetto che invoca il risarcimento, potendo essere anche di tipo presuntivo (e non automatico), purchè, tuttavia, sia certa la riduzione della capacità di guadagno (elemento questo, per quanto sinora detto, assolutamente mancante nella specie).

In definitiva, alla stregua dei consolidati e condivisi principi esposti, i motivi di doglianza devono essere respinti, avendo la Corte territoriale reso, sulla scorta del compendio probatorio acquisito in primo grado, una motivazione perfettamente comprensibile e coerente con le risultanze processuali esaminate, sicchè, tenuto conto dell'ambito della facoltà di controllo consentita al riguardo in sede di legittimità, la decisione impugnata non resta scalfita dalle censure che le sono state mosse.

Il governo delle spese inerenti al presente giudizio, segue, infine, nei confronti della Nuova Tirrena s.p.a., il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata, laddove nessuna statuizione va emessa nei confronti della C.M.C System srl in liquidazione, rimasta intimata.


P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della Nuova Tirrena s.p.a. che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Nulla per le spese nei confronti della C.M.C. s.r.l. in liquidazione.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2014