Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 giugno 2015, n. 12241 - Corsa al bagno e infortunio a seguito di una caduta: la necessità di ridurre al minimo i tempi dell'assenza dal lavoro è ascrivibile al lavoratore che non ha chiesto una sostituzione



"Allegare e provare la nocività dell'ambiente di lavoro significa che dalla fonte dell'obbligo altrui che il creditore di sicurezza invoca deve scaturire l'indicazione del comportamento che il debitore avrebbe dovuto tenere, nel senso che dalla descrizione del fatto materiale deve quanto meno potersi evincere una condotta del datore contraria o a misure di sicurezza espressamente imposte da una disposizione normativa che le individua concretamente, ovvero a misure di sicurezza che, sebbene non individuate specificamente da una norma, siano comunque rinvenibili nel sistema dell'art. 2087 cc."


 

Presidente: LAMORGESE ANTONIO Relatore: GHINOY PAOLA Data pubblicazione: 12/06/2015

Fatto


A.S. agiva in giudizio ed esponeva: di essere stato dipendente della Porto Turistico Riva di Traiano spa, con mansioni di operaio addetto al controllo dell'accesso al porto; che era stato licenziato in data 12.12.2005 per superamento del periodo di comporto, essendo rimasto assente per malattia per 242 giorni; che l'assenza dal 24 gennaio al 12 febbraio 2005 era stata determinata dal ricovero presso il Policlinico Gemelli di Roma per dissezione dell'aorta addominale; che tale intervento si era reso necessario in quanto egli in data 26.9.2005, mentre svolgeva la propria attività lavorativa, si era dovuto recare alla toilette, che distava circa 300 metri; che per l'impellente necessità fisiologica e per ridurre al minimo il tempo della propria assenza dalla postazione di lavoro, in considerazione della rilevante distanza, si era allontanato in fretta, finendo per inciampare e cadere a terra; che a seguito della caduta si era procurato la contusione della spalla, del polso e della mano destra; che per detto infortunio l'Inail aveva aperto la relativa pratica.
Su tali premesse deduceva l'illegittimità del licenziamento assumendo che l'infortunio, che l'aveva costretto ad assentarsi dal lavoro per 68 giorni, era addebitabile ex art 2087 cc. alla società, per violazione dell'art 39 del D.P.R. n. 303 del 1956, in base al quale i gabinetti devono trovarsi in prossimità del posto di lavoro, nonché del più generale obbligo di valutare i rischi per la sicurezza e la salute sancito dalla direttiva n 89\391\CE. Chiedeva quindi la declaratoria d'illegittimità del licenziamento, con applicazione della tutela reale di cui all'art. 18 stat. lav.
Il Tribunale respingeva il ricorso e la Corte d'appello con la sentenza n. 2892 depositata il 8 giugno 2012 rigettava l'appello proposto dal A.S..
La motivazione della Corte si incentrava sull'insufficienza delle allegazioni formulate dal lavoratore al fine di dimostrare l'ascrivibilità dell'evento alla nocività dell'ambiente di lavoro. Rilevava infatti che, fermo restando che il tragitto per raggiungere i bagni non risultava essere stato caratterizzato da insidie tali da costituire un pericolo per l'incolumità delle persone, non era emersa l'efficienza causale in relazione all'evento dell'asserita incompletezza o assenza del documento di valutazione dei rischi; quanto alla necessità di ridurre al minimo il tempo dell'assenza, la Corte riteneva che fosse imputabile al lavoratore il non essersi utilmente attivato per ottenere una sostituzione; quanto alla distanza dei bagni dalla postazione di lavoro, rilevava che i più vicini bagni aperti al pubblico distavano 60 metri dalla postazione di lavoro del A.S., sicché il prevedibile tempo di percorrenza non appariva in contrasto con la normativa prevenzionale richiamata, né con alcuna regola cautelare o di prudenza.
Per la cassazione della sentenza A.S. ha proposto ricorso, affidato ad un unico articolato motivo, cui ha resistito con controricorso la s.p.a. Porto Turistico Riva di Traiano.

Diritto


1. Il ricorrente deduce plurimi vizi di motivazione nei quali sarebbe incorsa la Corte d'appello in quanto, avendo egli dimostrato la sussistenza del contratto di lavoro subordinato, il danno fisico e la riconducibilità del danno all'obbligazione lavorativa, la Corte avrebbe dovuto porre a carico del datore di lavoro la prova liberatoria ed accogliere l'istanza di acquisire informazioni presso l'ispettorato del Lavoro e la competente ASL in ordine al «documento per la sicurezza» sull' ambiente di lavoro, nonché tutte le altre istanze istruttorie da lui avanzate.
La conclusione sarebbe avvalorata dalle dichiarazioni dei testi escussi nel giudizio di prime cure, dalle quali sarebbe emerso che era estremamente difficoltoso per l'addetto alla sbarra ottenere la sostituzione per recarsi in bagno in caso di necessità.
2. Il motivo non è fondato.
In merito all'applicazione dell'art. 2087 cc, occorre premettere che pur sussistendo diversità di opinioni sulla necessità o meno che il lavoratore debba specificamente indicare le misure che avrebbero dovuto essere adottate in prevenzione (tra le altre, Cass. n. 8855 del 2013; n. 19826 del 2013; n. 4184 del 2006; n. 14469 del 2000, affermano tale esigenza, mentre la negano: Cass. n. 3788 del 2009; n. 21590 del 2008; n. 9856 del 2002; n. 1886 del 2000; n. 3234 del 1999), è invece assolutamente univoco l'insegnamento di questa Corte secondo il quale incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno a causa dell'attività lavorativa svolta, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l'una e l'altra, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (v., oltre tutte le sentenze testé citate, Cass. n. 27364 del 2014, Cass. n. 10361 del 1997; n. 12661 del 1995; n. 11351 del 1993).
Allegare e provare la nocività dell'ambiente di lavoro significa che dalla fonte dell'obbligo altrui che il creditore di sicurezza invoca deve scaturire l'indicazione del comportamento che il debitore avrebbe dovuto tenere, nel senso che dalla descrizione del fatto materiale deve quanto meno potersi evincere una condotta del datore contraria o a misure di sicurezza espressamente imposte da una disposizione normativa che le individua concretamente, ovvero a misure di sicurezza che, sebbene non individuate specificamente da una norma, siano comunque rinvenibili nel sistema dell'art. 2087 cc. In un ambito analogo in cui operano obblighi di protezione della persona umana come è il settore dei cd. contratti di specialità, le Sezioni unite hanno ritenuto che "l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno" (Cass. SS.UU. n. 577 del 2008).
2.1. Quanto all'avvenuto riconoscimento della rendita da parte dell'Inail, occorre distinguere i presupposti per l'azionabilità della tutela prevista dall'assicurazione infortuni e malattie professionali garantita dall'istituto e quelli necessari per l'accertamento di una responsabilità contrattuale del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 cc. Il meccanismo assicurativo pubblico prescinde infatti dall'accertamento della colpa e si fonda sulla mera occasione di lavoro, cioè su di una condizione di collegabilità, anche indiretta, dell'evento all'attività lavorativa, sicché l'indennizzo può essere riconosciuto finanche per eventi verificatisi nel percorso fatto dal dipendente per recarsi al lavoro. Invece, in un giudizio risarcitorio proposto nei confronti del datore di lavoro, è indispensabile fornire al giudice ed alla controparte tutti gli elementi fattuali necessari affinché sia apprezzabile, anche solo in ipotesi, un colpevole inadempimento, non potendo il lavoratore limitarsi a dedurre di avere riportato un danno in occasione o durante la prestazione lavorativa (così Cass. n. 27364 del 2014).
2.2. La Corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi.
Ha in primo luogo ritenuto che non fosse significativo il documento di valutazione dei rischi, non risultando quale fosse la carenza specifica dell'ambiente di lavoro che esso era idoneo a denunciare.
Ha poi esaminato le prove testimoniali escusse al fine di evidenziare se fossero stati dimostrati, nell'ambito delle prospettazioni del ricorrente, gli aspetti che si potevano porre in correlazione con l'obbligo deduttivo posto a suo carico sopra evidenziato; ne ha concluso che essi non fossero risultati provati in causa, considerato che non era risultata eccessiva la distanza tra la postazione di lavoro del A.S. ed i più vicini bagni aperti al pubblico, mentre il lavoratore non aveva neppure richiesto nel frangente di essere sostituito.
3. Non sussiste peraltro il vizio di motivazione ipotizzato dal ricorrente.
Occorre qui sul punto ribadire che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c. (pur nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134/2012), non equivale a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa equivarrebbe ad un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità: con la conseguente estraneità all'ambito del vizio di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un'autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. 28 marzo 2012, n. 5024; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694). Sicché, per la configurazione di un vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle risultanze fondanti il convincimento del giudice, onde la ratio decidendi appaia priva di base, ovvero che si tratti di elemento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata (Cass. n. 22065 del 2014, Cass. n. 18368 del 2013, Cass. n. 16655 del 2011, n. 16655; Cass. (ord.) n. 2805 del 2011).
3.1. Nel caso, il ricorrente si limita a proporre la propria lettura degli atti e dei documenti che sono già stati esaminati dalla Corte d'Appello: in tal modo, si chiede a questa Corte di riesaminarli, cercando in essi i contenuti che potrebbero essere rilevanti nel senso patrocinato. Quello che si richiede in sostanza è una nuova completa valutazione delle risultanze di causa, inammissibile in questa sede, considerato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi dando così prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge" (così da ultimo tra le tante Cass. n. 22065 del 2014, Cass. n. 27197 del 2011).
3.2. Non vengono peraltro prospettate circostanze o elementi che la Corte avrebbe travisato o ignorato, considerato che la motivazione ha esaminato puntualmente i rilievi mossi dall'appellante alla ricostruzione fattuale del primo Giudice. Dalle stesse affermazioni della difesa riportate a pg. 24 del ricorso si evince peraltro che alcuni dei bagni posti - secondo la cartina planimetrica esaminata dalla Corte - a circa 60 mt. erano pubblici, sicché non è smentita la motivazione secondo la quale inspiegabilmente tali bagni non sono stati utilizzati dal lavoratore; le possibili difficoltà nell'ottenere la sostituzione riferite negli stralci delle deposizioni testimoniali riportate alle pgg. 37-39 non smentiscono poi la circostanza che nel caso il A.S. neppure avesse richiesto la sostituzione ai superiori competenti, sicché non è parimenti revocata in dubbio l'affermazione della Corte secondo la quale era ascrivibile allo stesso lavoratore la necessità di ridurre al minimo i tempi della sua assenza.
4. In conclusione, il ricorso dev'essere rigettato.
Segue la condanna del soccombente alle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 2.500,00 per compensi professionali, oltre ad € 100,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2015