Cassazione Penale, Sez. 3, 16 gennaio 2015, n. 1996 - Violazioni del titolare di un'impresa di allevamento di ovini




 

 


Fatto



1. Con sentenza del 29 gennaio 2013 il Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, ha condannato S.V. alla pena di Euro 4600 di ammenda per i reati commessi quale titolare di una impresa di allevamento di ovini e avvinti da continuazione - di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 4, lett. a), art. 4, commi 1 e 2, art. 4, comma 4, lett. c), art. 12, comma 1, lett. b, (capi d'imputazione da A a D), D.P.R. n. 462 del 2001, art. 2, comma 1, (capo E), D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5, lett. f) e art. 35, comma 2, (capi F e G), D.P.R. n. 303 del 1956, artt. 50, 37, 39 e 40, (capi da H a K).

2. Hanno presentato appello, convertito poi in ricorso, il difensore e l'imputato, sulla base di quattro motivi. Il primo motivo denuncia insussistenza delle ipotesi di reato contestate, la violazione dell'art. 192 c.p.p. e l'erronea interpretazione delle risultanze istruttorie; il secondo motivo denuncia insussistenza delle contravvenzioni contestate e il terzo l'insussistenza dell'elemento oggettivo; il quarto, infine, denuncia violazione degli artt. 62 bis e 133 c.p., quanto al diniego delle attenuanti generiche e alla sanzione irrogata.

 

Diritto


3. Il ricorso è infondato.

I primi tre motivi possono essere vagliati congiuntamente, poichè il loro contenuto, in sostanza, è accomunato dalla natura fattuale, che consegue all'originaria conformazione del imputazione come appello.

Viene infatti prospettata, soprattutto nel primo motivo, una sorta di riesame dell'esito del compendio probatorio, che, anzichè trasfondersi in denuncia di vizio motivazionale della sentenza, rimane diretta doglianza fattuale - come, ad abundantiam, dimostrano anche le rubriche dei motivi in questione -, la cui cognizione è pertanto preclusa al giudice di legittimità. L'unico profilo astrattamente ammissibile è da individuarsi nella pretesa violazione dell'art. 192 c.p.p., prospettata nella rubrica del primo motivo, violazione che però non trova effettivo riscontro nell'contenuto del motivo stesso, diretto a dimostrare, mediante un'alternativa e minuziosa illustrazione di varie risultanze istruttorie, soltanto una asserita mancanza di prova della responsabilità dell'imputato per i reati a lui addebitati.

Il quarto motivo lamenta anzitutto che non sono state concesse le circostanze attenuanti generiche dal giudice di merito sulla base della seguente motivazione: "in considerazione del comportamento tenuto successivamente alla verifica degli ispettori del lavoro, tendente a fare cambiare versione al R. (dipendente dell'imputato secondo quanto accertato dal Tribunale: n.d.r.), in modo da far apparire che non vi fosse alcun lavoratore in azienda". Tale motivazione, peraltro, non viene censurata per illogicità o insufficienza/incongruità, bensì direttamente viene contestato il contenuto del passo motivazionale, argomentandosi su una pretesa inattendibilità della deposizione del teste R. (ricorso, pagine 13-14). La doglianza risulta pertanto ancora fattuale, e dunque inammissibile.

Riguardo poi alla pretesa violazione dei parametri di cui all'art. 133 c.p., la contestazione si colloca, ancora una volta, sul piano fattuale, contestando l'esistenza effettiva delle caratteristiche del reato riconosciute dal giudice di merito, e solo genericamente lamentando la mancanza di "un criterio logico espresso". D'altronde, nessun difetto di illogicità emerge dalla motivazione nella parte in cui rende conto di come il Tribunale è pervenuto al trattamento sanzionatorio concretamente inflitto all'imputato. L'ultimo motivo, dunque, risulta in parte inammissibile per natura fattuale e in parte manifestamente infondato.

In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, il che impedisce la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione e non consente pertanto di valutare la presenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., come insegna la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (S.U. 22 novembre 2000 n. 32, De Luca; in particolare, l'estinzione del reato per prescrizione è rilevabile anche d'ufficio a condizione che il ricorso sia idoneo a introdurre un nuovo grado di giudizio, cioè non risulti affetto da inammissibilità originaria come invece si è verificato nel caso de quo: ex multis v. pure S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, Cresci; S.U. 3 novembre 1998 n. 11493, Verga; S.U. 22 giugno 2005 n. 23428, Bracale; Cass. sez. 3^, 10 novembre 2009 n. 42839, Imperato Franca). Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2015