Cassazione Penale, Sez. 2, 17 marzo 2017, n. 13146 - Uscita dal luogo di lavoro senza timbrare il cartellino. Esistono delle agevolazioni per i videoterminalisti?


 

... "Nel caso di specie, senza incorrere in vizi logici o giuridici la Corte territoriale ha evidenziato che i filmati, i servizi di osservazione ed i monitoraggi degli investigatori avevano rivelato che i ricorrenti, quando erano ripresi, si recavano presso un bar sito poco distante dal loro ufficio pubblico, come riconosciuto anche dal primo giudice, così maturando assenze che, però, discostandosi dalle valutazioni del Tribunale di Marsala, la Corte territoriale ha ritenuto doversi considerare comportanti un pregiudizio patrimoniale significativo per l'ente pubblico, con riferimento alle assenze di ciascuno dei ricorrenti.
Dopo aver quantificato il tempo sottratto all'attività lavorativa ed il numero di uscite ingiustificate di ciascuno di essi, tale diversa valutazione è stata effettuata sulla base di molteplici argomentazioni, tutte immuni da vizi logici: in primo luogo, la Corte di Appello ha rilevato l'inapplicabilità al caso di specie dell'art. 175 del D.Lgs. n. 81 del 2008, di attuazione della L. 3 agosto 2007, n. 123, art. 1, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, che dispone che in assenza di una disposizione contrattuale riguardante l'interruzione, il lavoratore comunque ha diritto ad una pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di lavoro, alla condizione, però, che sia applicato continuativamente al videoterminale: si tratta, infatti, di disciplina che subordina l'interruzione del lavoro a precise condizioni finalizzate alla tutela della salute (come, del resto, già rilevato da questa Corte, con riferimento al caso di specie, con la sentenza n. 3198 del 06/12/2013 cit.). Orbene, la sentenza impugnata ha rilevato che nessuna delle condizioni previste dalla disposizione ricorreva nel caso di specie, atteso che, in primo luogo, nessuno dei ricorrenti ha certificato o, comunque, in qualche modo documentato o dimostrato di essere addetto a videoterminali per più di due ore continuative. Inoltre, ha rilevato che, comunque, anche per i videoterminalisti che beneficiano del diritto a 15 minuti di pausa ogni due ore continuative di videolavoro, tale beneficio non comporta per alcuno il diritto di assentarsi ad libitum dal luogo di lavoro senza essere controllato e monitorato, con registrazioni con il badge o nel libro firme e permessi, in modo da consentire i dovuti controlli e la migliore organizzazione dell'organizzazione di appartenenza, e che anche di ciò non vi è traccia nel processo...".


Presidente: DAVIGO PIERCAMILLO Relatore: IMPERIALI LUCIANO Data Udienza: 13/12/2016

 

Fatto

 

1. La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 27/1/2015, parzialmente riformando la sentenza di assoluzione emessa dal Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Marsala il 12/7/2012, riconosceva la penale responsabilità di LB.V., R.V.A., P.G., R.M., C.V., G.A., C.S. e P.V. in ordine al delitto di truffa aggravata e continuata, per essersi assentati dai luoghi di lavoro della Agenzia delle Entrate di Marsala senza timbrare il cartellino d’ uscita, e li condannava alle pene ritenute di giustizia.
2. Propongono ricorso per cassazione i predetti imputati, a mezzo del comune difensore, deducendo:
2.1. violazione di legge per non aver riconosciuto la Corte territoriale l'inammissibilità del ricorso in appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, privo di qualsiasi esplicita richiesta di riforma della sentenza impugnata.
2.2. vizio di motivazione e violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., con riferimento al riconoscimento della penale responsabilità dei ricorrenti, effettuato dalla Corte territoriale senza calcolare la media matematica del tempo di allontanamento dal lavoro, calcolata invece dal primo giudice.
2.3. manifesta illogicità della motivazione e violazione di legge con riferimento al mancato riconoscimento, negli imputati, della qualità di videoterminalisti, che determinava il diritto di godere delle agevolazioni di cui all'art. 175 del D.Lvo n. 81/2008, ed al mancato riconoscimento del rispetto delle procedure da tale norma previste, in virtù delle autorizzazioni ad uscire dal luogo di lavoro che si assumono ricevute dai capi area, secondo quanto viene dedotto essere stato riferito dal dirigente dell'ufficio, dr. S., ed altresì con riferimento al mancato riconoscimento della necessità conseguente alla verificata mancanza di acqua potabile nell'ufficio di cui si tratta.
2.4. violazione di legge ed illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del profitto con apprezzabile altrui danno. Si lamenta, infine, anche l'errore di calcolo in ordine alle assenze dell'imputato P.V., che si deducono considerate con riferimento a due giorni lavorativi anziché undici.
2.5. violazione dei principi affermati dalla Corte Edu nel caso Dan c/ Moldavia, per essersi la Corte territoriale discostata dalla pronuncia assolutoria di primo grado senza procedere ala rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.
 

 

Diritto

 


1. I ricorsi sono inammissibili, in quanto si discostano dai parametri dell'impugnazione di legittimità stabiliti dall'art. 606 cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo di ricorso, in particolare, è inammissibile perché omette di considerare che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala ha proposto due distinti atti di impugnazione avverso la sentenza di assoluzione emessa dal Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Marsala il 12/7/2012: con il primo, in data 11/12/2012, proponeva ricorso per cassazione e con il secondo, in data 17/12/2012, proponeva ricorso in appello, pur senza invocare espressamente una condanna degli imputati, in riforma della sentenza impugnata. E' stata proprio la Corte di Cassazione, con sentenza della sez. 2A n. 3198 del 06/12/2013, a convertire in appello il primo ricorso, così riconoscendone definitivamente l'ammissibilità.
2.2. E' noto, peraltro, che la previsione contenuta nell'art.6, par.3, lett. d) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 26748701). Nel caso in esame, però, non vi è stata alcuna violazione di tali principi, in quanto la sentenza di condanna emessa in grado di appello ed in questa sede impugnata non si fonda in alcun modo su una diversa valutazione dell'attendibilità delle prove dichiarative acquisite in primo grado che, invece, sono state espressamente riconosciute "oggettive e fedelmente riportate nella decisione del primo giudice", bensì su una diversa valutazione delle conseguenze giuridiche che debbono trarsi dalle risultanze di tali prove dichiarative sul piano della penale responsabilità dei ricorrenti. Deve, pertanto, ritenersi manifestamente infondato anche l'ultimo motivo di impugnazione proposto dai ricorrenti. 
2.3. Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, peraltro, esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U., 30/4/1997, n. 6402, Rv. 207944; Sez. 4, n.4842 del 02/12/2003, Rv. 229369). Conseguentemente, deve riconoscersi l'inammissibilità anche dei motivi di merito inerenti il riconoscimento della penale responsabilità dei ricorrenti, in quanto tendono, appunto, ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento.
Attesa la funzione dei cosiddetti "cartellini segnatempo" di costituire prova della continuativa presenza del dipendente sul luogo di lavoro nel tempo compreso tra l’ora d'ingresso e quella di uscita, infatti, la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza è condotta fraudolenta, oggettivamente idonea ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili. (Sez. 2, n. 5837 del 17/01/2013, Rv. 255201; Sez. 2, n. 19302 del 16/03/2004, Rv. 229439). Nel caso di specie, senza incorrere in vizi logici o giuridici la Corte territoriale ha evidenziato che i filmati, i servizi di osservazione ed i monitoraggi degli investigatori avevano rivelato che i ricorrenti, quando erano ripresi, si recavano presso un bar sito poco distante dal loro ufficio pubblico, come riconosciuto anche dal primo giudice, così maturando assenze che, però, discostandosi dalle valutazioni del Tribunale di Marsala, la Corte territoriale ha ritenuto doversi considerare comportanti un pregiudizio patrimoniale significativo per l'ente pubblico, con riferimento alle assenze di ciascuno dei ricorrenti.
Dopo aver quantificato il tempo sottratto all'attività lavorativa ed il numero di uscite ingiustificate di ciascuno di essi, tale diversa valutazione è stata effettuata sulla base di molteplici argomentazioni, tutte immuni da vizi logici: in primo luogo, la Corte di Appello ha rilevato l'inapplicabilità al caso di specie dell'art. 175 del D.Lgs. n. 81 del 2008, di attuazione della L. 3 agosto 2007, n. 123, art. 1, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, che dispone che in assenza di una disposizione contrattuale riguardante l'interruzione, il lavoratore comunque ha diritto ad una pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di lavoro, alla condizione, però, che sia applicato continuativamente al videoterminale: si tratta, infatti, di disciplina che subordina l'interruzione del lavoro a precise condizioni finalizzate alla tutela della salute (come, del resto, già rilevato da questa Corte, con riferimento al caso di specie, con la sentenza n. 3198 del 06/12/2013 cit.). Orbene, la sentenza impugnata ha rilevato che nessuna delle condizioni previste dalla disposizione ricorreva nel caso di specie, atteso che, in primo luogo, nessuno dei ricorrenti ha certificato o, comunque, in qualche modo documentato o dimostrato di essere addetto a videoterminali per più di due ore continuative. Inoltre, ha rilevato che, comunque, anche per i videoterminalisti che beneficiano del diritto a 15 minuti di pausa ogni due ore continuative di videolavoro, tale beneficio non comporta per alcuno il diritto di assentarsi ad libitum dal luogo di lavoro senza essere controllato e monitorato, con registrazioni con il badge o nel libro firme e permessi, in modo da consentire i dovuti controlli e la migliore organizzazione dell'organizzazione di appartenenza, e che anche di ciò non vi è traccia nel processo, né in sostituzione di tale registrazione possono invocarsi, a tal proposito, le dichiarazioni del dirigente S., che riteneva sufficiente un mero avviso ai responsabili di area, tanto più che nemmeno di tale avviso risulta traccia nella sentenza impugnata.
Infine, senza vizi logici la sentenza ha evidenziato che non può attribuirsi rilevanza decisiva alla circostanza che l'ufficio presso cui prestano attività lavorativa i ricorrenti non disponesse di distributore di acqua potabile, trattandosi di circostanza comunque inidonea a giustificare condotte arbitrarie, incontrollate e penalmente rilevanti.
2.4. Quanto al quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata ha anche correttamente evidenziato, senza incorrere in vizi logici o giuridici, come anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa da parte del lavoratore indebitamente allontanatosi dal luogo di lavoro, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l’amministrazione pubblica (Sez. 5, n. 8426 del 17/12/2013, Rv. 25898701; Sez. 2, n. 34210 del 06/10/2006, Rv. 23530701). Da qui il riconoscimento della penale responsabilità di tutti i ricorrenti in ordine al reato loro ascritto: quanto alla posizione del P.V., in particolare contestata nel ricorso assumendosi essersi erroneamente calcolata l'assenza di novantotto minuti come riferita ai soli giorni indicati nel capo di
imputazione, deve soltanto rilevarsi che tale errore non risulta in alcun modo documentato, non potendosi certo ritenere a tal fine sufficiente il calcolo di cui alla memoria difensiva prodotta nel giudizio di merito ed allegata al ricorso, mero atto di parte, peraltro particolarmente sintetico nella trattazione cumulativa delle posizioni di numerosi dipendenti.
3. Alla dichiarazione d'inammissibilità dei ricorsi segue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di € 1.500,00 ciascuno a titolo di sanzione pecuniaria.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.
Così deliberato in camera di consiglio, il 13 dicembre 2016