Cassazione Civile, Sez. 3, 04 maggio 2018, n. 10578 - Mesotelioma peritoneale ed esposizione ad amianto


 

Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO Relatore: SAIJA SALVATORE Data pubblicazione: 04/05/2018

 

Fatto

 


Con sentenza del 14.12.2009, il Tribunale di Venezia, sez. dist. di San Donà di Piave, accolse la domanda proposta da G.B. nei confronti di Enel s.p.a., condannando Enel Distribuzione s.p.a., cessionaria della convenuta, regolarmente costituitasi, al pagamento della somma di € 90.000,00, oltre accessori, per i danni non patrimoniali dalla stessa attrice subiti per perdita del rapporto parentale, a seguito del decesso del marito F.F., avvenuto in data 14.4.2004. Tale decesso, secondo la ricostruzione accolta dal Tribunale, era avvenuto a causa di un mesotelioma peritoneale derivato dall'esposizione del F.F. a polveri di amianto nel corso del rapporto di lavoro intrattenuto con l'Enel, ed in particolare dal 1962 al 1976.
Sia G.B. che Enel Distribuzione s.p.a. (quest'ultima in proprio e nella qualità di procuratore speciale di Enel s.p.a.) proposero gravame avverso detta decisione, e la Corte d'appello di Venezia, con sentenza del 10.2.2014, rigettò l'appello incidentale, accolse in parte quello principale e, in parziale riforma della decisione di primo grado, condannò l'Enel al pagamento di ulteriori € 60.000,00 in favore della stessa G.B..
Enel Distribuzione s.p.a. (ora "e-distribuzione s.p.a.", di seguito anche solo "Enel"), in proprio e nella qualità, ricorre ora per cassazione, sulla base di otto motivi, illustrati da memoria. L'intimata non ha resistito.
 

 

Diritto

 


1.1 - Con il primo motivo, deducendo "violazione e falsa applicazione degli arti. 2043, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., 40 e 41 c.p. (art. 360 n. 3 codice di procedura civile)", la ricorrente lamenta l'erronea affermazione della Corte lagunare circa la sussistenza del nesso di causalità, da un lato, e il mancato accertamento di ogni ipotesi di sua colpa, essendo stata condannata a suo dire per mera responsabilità oggettiva.
In particolare, quanto al primo aspetto di tale complesso motivo, l'Enel richiama la giurisprudenza sul nesso di causalità, specie in tema di eziologia concernente le malattie professionali (segnatamente, Cass. n. 467/2015, non massimata, secondo cui "in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza"), per inferirne che, nella specie, la Corte veneta ha errato nel ritenere sussistente il nesso, sulla base del criterio del "più probabile che non", in difetto di alcuna certezza acquisita al riguardo. Più in dettaglio, l'Enel ha dapprima contestato che sia stata acquisita la prova dell'esposizione ad amianto del F.F. dall'epoca dell'assunzione (1962) a quella di cessazione del rapporto (1997), richiamando in proposito il testimoniale, e ribadendo che, al contrario, detta esposizione s'era verificata, prima dell'assunzione presso Enel, nel 1959 e per circa sette mesi, allorquando il F.F. era stato assunto dalla ditta F.Ili S. come saldatore presso il Petrolchimico di Marghera. Pertanto, alla luce del lungo periodo di latenza del mesotelioma (40-50 anni prima della diagnosi), della certa esposizione del F.F. all'amianto per un periodo di tempo consistente già nel 1959 e prima dell'assunzione da parte dell'Enel, e del carattere di patologia "a dose indipendente" del mesotelioma (sarebbe cioè sufficiente la c.d. trigger dose, ossia la prima inalazione di fibra d'amianto, mentre quelle successive sarebbero irrilevanti), teoria che la Corte di cassazione avrebbe accolto con sentenza n. 20142/2010, sostiene la ricorrente che, nella specie, non può che ritenersi che l'eventuale esposizione ad amianto del F.F. per l'epoca successiva a quella cui fu sottoposto mentre lavorava alle dipendenze della F.lli S. nel 1959 non potrebbe avere alcuna efficienza causale rispetto alla contrazione della patologia in questione.
Quanto al secondo profilo, ossia quello della colpa, la ricorrente rileva che, in base alle conoscenze specifiche dell'epoca, alcun accorgimento avrebbe potuto essere adottato, atteso che, anzi, vi erano specifiche prescrizioni normative ed amministrative circa l'obbligo di utilizzo di materiali contenenti amianto. Ciò è tanto vero che, in Italia, la prima direttiva CEE n. 83/477, che fissava il limite riguardo all'amianto, venne attuata solo con d.lgs. n. 277 del 1991. Non vi era, insomma, secondo la ricorrente, alcuna possibilità per il datore di lavoro di considerare, all'epoca della pur contestata esposizione all'amianto del F.F. (dal 1962 fino a non oltre il 1976), la pericolosità del materiale, invece accertata e comunemente divenuta nota solo in epoca successiva. Erra pertanto la Corte d'appello laddove afferma la negligenza del datore di lavoro sul punto.
1.2 - Con il secondo motivo, deducendo "violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. (art. 360 n. 4 codice di procedura civile)”, si denuncia l'omessa pronuncia sul motivo d'appello (incidentale) con cui s'era censurata la prima decisione circa la ritenuta non utilizzabilità per tardività delle note critiche alla CTU prodotte all'udienza del 16.7.2009, come se si trattasse di produzione di documenti a fini probatori e quindi soggetta a preclusione, quando invece le note concernevano contributi dottrinari e letterari di carattere medico-legale.
1.3 - Con il terzo motivo, deducendo "violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 codice di procedura civile)", ci si duole del fatto che la mancata considerazione delle note di cui al motivo precedente, redatte in replica alla CTU, ha poi comportato la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., giacché la Corte ha deciso la causa senza esaminare e valutare tutti i documenti agli atti del giudizio.
1.4 - Con il quarto motivo, deducendo "violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., degli artt. 4 e 21 del DPR 303/56 (art. 360 n. 3 codice di procedura civile)", si sviluppa ulteriormente la seconda censura del primo motivo, concernente la questione dell'assenza di colpa in capo al datore di lavoro. La ricorrente aggiunge che costituisce onere dell'attore ex art. 2043 c.c. dare dimostrazione della colpa stessa e precisa che, in base alle conoscenze dell'epoca, anche le minime cautele praticabili riguardo all'unica patologia eziologicamente riconducibile all'amianto (asbestosi) non sarebbero state sufficienti ad impedire l'evento, come anche affermato in controversia analoga dalla già citata Cass. n. 20142/2010, così massimata: "L'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo l'art. 2087 cod. civ., che come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore assicurato. Anche tale responsabilità datoriale non è, peraltro, configurabile ove il nesso causale tra l'uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell'epoca, sicché non poteva essere prospettata l'adozione di adeguate misure precauzionali. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dagli eredi di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell'amianto, deceduto per mesotelioma ed esposti al rischio tra il 1953 ed il 1962, ritenendo congruamente motivato il giudizio secondo il quale il rispetto delle limitate prescrizioni cautelative praticabili all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa, non avrebbe impedito l'insorgere del mesotelioma in quanto malattia dose-dipendente)" (tale ultimo inciso, riportato testualmente dalla massima ufficiale Rv. 614787-01, deve intendersi come "dose-indipendente", stando alla motivazione - n.d.e.)- 
La ricorrente procede poi all'elencazione di numerose leggi dello Stato, decreti ministeriali e circolari di varie amministrazioni statali, susseguitesi sin dal 1961 e fino all'emanazione del d.lgs. n. 277/1991 (che costituisce, secondo l'Enel, il primo testo normativo impositivo di limiti all'uso di amianto in Italia), che addirittura imponevano l'utilizzo dell'amianto, sia come componente di strumenti di protezione dei lavoratori, sia a fini di coibentazione.
Da tutto ciò deriva, secondo l'Enel, la palese erroneità dell'affermazione della sua responsabilità a titolo di colpa da parte della Corte veneta, dichiarata pur in assenza di qualsiasi violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche dell'epoca.
1.5 - Con il quinto motivo, deducendo "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 codice di procedura civile)", si denuncia la mancata considerazione da parte della Corte d'appello del fatto, decisivo, che all'epoca dell'esposizione all'amianto da parte del F.F. neppure esistevano mascherine di protezione contro le fibre di amianto.
1.6 - Con il sesto motivo, deducendo "nullità della sentenza (art. 360 n. 4 codice di procedura civile)”, si denuncia l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, perché in presenza dei fatti effettivamente accertati (assenza di mascherine, assenza di rischi specifici e sussistenza di numerose disposizioni amministrative che imponevano l'uso di amianto), non era possibile giungere all'affermazione della responsabilità datoriale. 
1.7 - Con il settimo motivo, deducendo "violazione e falsa applicazione degli arti. 115, 116, 194 e 195 c.p.c. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.)", si denuncia il fatto che la Corte non ha tenuto conto delle risultanze della CTU di primo grado resa nel parallelo giudizio proposto dalla G.B. ex art. 2087 c.c. dinanzi al giudice del lavoro.
1.8 - Con l'ottavo motivo, infine, deducendo "violazione e falsa applicazione degli arti. 1223, 1225, 1226, 1227, 2056, 2059 c.c., nonché art. 2 Cost. e 246 c.p.c. (art. 360 n. 3 codice di procedura civile)", si contesta anche la determinazione del quantum debeatur, addirittura ampliato dalla Corte d'appello rispetto alla decisione di primo grado. La sentenza impugnata, secondo la ricorrente, non rispetterebbe i dettami di Cass., Sez. Un., n. 26972/2008, perché mancano i presupposti di risarcibilità del danno morale ed esistenziale, non risultando superata la soglia di offensività e non avendo la G.B. offerto adeguata prova. Ciò, in particolare, anche per l'incapacità a testimoniare dell'unico teste escusso sul punto, C.R., figlio dell'attrice.


2.1 - Preliminarmente, deve rilevarsi d'ufficio la circostanza che, in data 4.12.2017, è stata pubblicata l'ordinanza n. 28981, emessa dalla Sez. Lav. di questa stessa Corte, a definizione del giudizio parallelo corrente tra le stesse parti e avente ad oggetto la domanda risarcitoria di natura contrattuale, ex art. 2087 c.c., proposta da G.B. iure hereditatis, in relazione al danno non patrimoniale patito dal de cuius F.F.. La scelta di parte attrice di agire separatamente dinanzi al giudice del lavoro per il ristoro del predetto danno, e al tribunale ordinario per quello oggetto di questo giudizio (vantato dalla G.B. a titolo di risarcimento del danno extracontrattuale ex art. 2043 c.c. per perdita del rapporto parentale) non è stata vagliata dai giudici di merito sul piano dell'opportunità di una possibile riunione degli stessi giudizi, a fronte della medesimezza dei fatti storici e delle stesse causae petendi a sostegno delle domande, benché parte dell'attività istruttoria svolta nel primo (e segnatamente, la CTU a firma del dott. M.) sia stata poi utilizzata nel secondo, come emerso anche dall'illustrazione dei motivi del ricorso in esame. Fatto sta che i due percorsi processuali paralleli sono curiosamente giunti in tempi diversi dinanzi a questa Corte di legittimità (ma pressoché contemporaneamente in fase decisoria, dinanzi alla Sez. Lav. e a questa Sez. Terza), senza peraltro che le parti sollecitassero alcuna forma di possibile coordinamento: la causa lavoristica è stata chiamata all'adunanza camerale del 18.7.2017, la presente all'udienza pubblica del 27.10.2017 (ed è oltremodo singolare che l'odierna ricorrente, nella memoria ex art. 378 c.p.c., non abbia ritenuto di dover informare il Collegio della circostanza).
2.2 - La pubblicazione della detta ordinanza e la preventiva definizione del giudizio parallelo pongono in ogni caso delle questioni di sicuro rilievo per l'immediata ricaduta che esse hanno in questo giudizio: con detto provvedimento, questa Corte ha infatti rigettato il ricorso di Enel Distribuzione s.p.a. (iscritto al N. 8238/2012 R.G.) avverso la sentenza della Corte d'appello di Venezia, Sez. Lav., del 28.3.2011, con cui - come si evince agevolmente dalla lettura del ripetuto provvedimento di legittimità - era stata definitivamente accertata la riconducibilità causale della malattia professionale patita dal F.F. (mesotelioma perineale) alla sola esposizione alle polveri di amianto subita nel corso dell'attività lavorativa con l'Enel, dal 1962 in poi e con esclusione di ogni rilevanza dell'attività da lui svolta in precedenza presso la F.Ili S. s.n.c. Inoltre, è stata anche accertata la sussistenza della colpa del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., per non aver predisposto quanto necessario - in base alle conoscenze dell'epoca - per impedire la contrazione della malattia da parte del lavoratore.
Ora, è di tutta evidenza che il passaggio in giudicato di tali capi della sentenza d'appello della Sezione lavoro della Corte lagunare, trattandosi (almeno in parte, quanto alla causa petendi) delle stesse questioni qui sub judice, sono suscettibili di essere valutate alla stregua del giudicato esterno, perché rese dall'A.G. competente tra le stesse parti di questo giudizio e non più soggette ad impugnazione ordinaria, in quanto definitivamente accertate. D'altronde, a nulla rileva che detto giudicato si sia formato in epoca successiva alla pubblicazione della sentenza qui impugnata e sia addirittura successivo alla stessa prima deliberazione riguardo al ricorso in esame, avvenuta all'esito dell'udienza pubblica del 27.10.2017, come detto, giacché è noto che "In tema di ricorso per cassazione, a fronte di un'eccezione di giudicato esterno, ancorché meramente assertiva, è compito del giudice di legittimità verificare l'effettiva esistenza di una pronuncia avente tale valenza poiché il giudicato esterno è assimilabile aali elementi normativi ed il suo accertamento, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, è effettuabile anche d'ufficio in qualsiasi stato e grado del processo, in quanto corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche attraverso la stabilità della decisione" (Cass. n. 25432/2017). E' poi appena il caso di precisare che "Nel giudizio di cassazione, in caso di giudicato esterno conseguente ad una sentenza della stessa Corte, la cognizione del giudice di legittimità può avvenire anche mediante quell'attività di ricerca (relazioni, massime ufficiali e consultazione del CED) che costituisce corredo del collegio giudicante nell'adempimento della funzione nomofilattica di cui all'art. 65 dell'ordinamento giudiziario e del dovere di prevenire contrasti tra giudicati, in coerenza con il divieto del 'ne bis in idem'" (così, ex multis, Cass. Sez. Un. n. 26482/2007, Cass. n. 24740/2015, Cass. n. 18634/2017).
3.1 - Ciò posto, vanno anzitutto affrontate la prima censura del primo motivo, concernente la contestata ritenuta sussistenza del nesso causale, nonché i motivi secondo e terzo, relativi a pretese violazioni di legge processuale circa il mancato utilizzo delle note tecniche alla CTU a firma del proprio CTP Prof. B., formate nel giudizio parallelo, il cui esame avrebbe però implicato una diversa valutazione da parte del giudice d'appello sulla medesima questione.
3.2 - Come sostanzialmente in parte anticipato, le superiori questioni sono coperte dal giudicato a seguito di Cass. n. 28981/2017. Infatti, s'è già visto come la relativa statuizione della Corte lagunare lavoristica nel giudizio parallelo, sul punto, ha ritenuto adeguatamente provate sia l'esposizione del F.F. alle polveri di asbesto in modo continuativo a far data dal 1962, sia la correlazione eziologica del mesotelioma a detta esposizione. E' quindi evidente che, a seguito del rigetto del ricorso iscritto al N. 8238/2012 R.G., ogni ulteriore questione sul nesso di causalità è preclusa.
3.3 - Non è comunque inutile precisare che non può certo affermarsi che la teoria del mesotelioma come malattia "dose-indipendente" sia stata "certificata" dalla S.C. con la sentenza n. 20142/2010, come pretenderebbe la ricorrente, giacché in quel caso la Corte, nel valutare il profilo soggettivo per cui era questione, ha valorizzato il profilo temporale dell'esposizione del lavoratore deceduto (dal 1953 al 1962), avuto riguardo alla successiva scoperta del rapporto tra amianto e mesotelioma (come accertato in quel giudizio, a far data dal 1964), per escludere la rimproverabilità della mancata adozione di pur minime cautele da parte del datore di lavoro, nel senso che queste - da adottarsi in un periodo in cui comunque non erano ancora note le cause del mesotelioma - non avrebbero in ogni caso potuto escludere l'insorgenza della malattia, oramai generata. Si tratta, in sostanza, di una pronuncia incentrata sul problema dell'elemento soggettivo e non invece sul piano della causalità materiale, come pretenderebbe, infondatamente, l'odierna ricorrente.
4.1 - Occorre adesso scrutinare congiuntamente, stante la connessione, le doglianze di cui alla seconda censura del primo motivo, nonché del quarto, quinto, sesto e settimo motivo, profili tutti concernenti la contestata colpa di parte datrice, anche sotto il piano motivazionale e delle modalità processuali di accertamento. 
In sintesi, la decisione appellata ha ritenuto la sussistenza dell'elemento psicologico, sotto il profilo della consapevolezza del rischio, condividendosi la valutazione del CTU circa la correlazione tra esposizione all'asbesto e il mesotelioma perineale, correlazione nota almeno dal 1950. La Corte veneta ha poi confutato la tesi contraria dell'Enel (che sosteneva che la questione fosse all'epoca nota al più nella sola comunità scientifica), sia perché era in qualche modo conosciuta la pericolosità delle polveri di amianto (almeno riguardo all'asbestosi), sia in ragione della particolare complessità di organizzazione e di struttura aziendale dell'Enel stessa, con conseguenti e correlati obblighi di informazione per la salute dei dipendenti. Ha ancora rilevato il giudice d'appello che, per quanto all'epoca l'uso dell'amianto fosse lecito, se non addirittura imposto dal legislatore, tuttavia esso non era obbligatorio, potendo utilizzarsi, per il montaggio dei contatori (attività cui era addetto, nella fase iniziale del rapporto, il F.F.), materiali alternativi. Infine, la Corte ha rilevato che non era censurabile l'uso in sé del materiale, bensì il fatto che fosse stata omessa qualsiasi informazione sul rischio cui i lavoratori erano soggetti, che non erano stati forniti i presidi in allora disponibili per ridurre l'esposizione (come ad es. la mascherina), e che comunque non si era approntato quanto necessario per ridurre l'inalazione, anche in conformità a quanto previsto dagli art. 4 e 21 del d.P.R. n. 303/1956.
4.2 - La ricorrente, con le censure in esame, lamenta l'erroneità e l'illogicità dell'accertamento, perché non era possibile prevedere la pericolosità dell'amianto, in quanto non solo non era vietato, ma era addirittura di uso comune. Tanto più che l'evoluzione delle conoscenze medico-scientifiche solo di recente aveva portato a conoscere la pericolosità dell'amianto a basse esposizioni e, con riguardo al mesotelioma, la specifica incidenza delle fibre ultrafini, non visibili ad occhio nudo.
Del resto, la legislazione dell'epoca prevedeva disposizioni solo relativamente alla silicosi e all'asbestosi, avuto riguardo a limiti di dispersione delle polveri molto alti, tanto è vero che la prima regolamentazione a livello comunitario in materia di amianto fu data dalla Direttiva CEE 83/477, attuata in Italia solo con d.lgs. n. 277 del 1991; il divieto di uso di amianto venne poi adottato con legge n. 257 del 1992. Al contempo, tra la fine degli anni 50 e la fine degli anni 80, plurime disposizioni regolamentari o legislative avevano imposto l'utilizzo dell'amianto, sia come strumenti di protezione dei lavoratori, sia a fini di coibentazione.
Nessuna colpa può quindi configurarsi in capo all'Enel, secondo l'odierna ricorrente, perché le conoscenze tecniche e scientifiche dell'epoca non consentivano di adottare alcuna precauzione per evitare il pericolo; inconferenti quindi erano i riferimenti agli arti. 4 e 21 del d.P.R. n. 303/1956, sia perché non erano noti rischi specifici connessi all'amianto, sia perché non esistevano idonei mezzi protettivi (v. CTU, p. 16: "... all'epoca non esistevano maschere adeguate a proteggere dall'amianto e ... la sola, efficace prevenzione per le polveri di asbesto era ed è il non utilizzo di tale materiale").
Tali argomenti (ossia, la circostanza che non esistessero le mascherine protettive e la generale mancata cognizione di rischi specifici) sono anche spesi dalla ricorrente ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., perché si tratta di fatti decisivi di cui è stato obliterato l'esame, nonché (unitamente alla sussistenza di numerose disposizioni della pubbliche autorità che imponevano l'uso dell'amianto in numerosi settori) come vizio motivazionale, sotto il profilo della contraddittorietà e della illogicità e, quindi, della nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Sotto ulteriore profilo, infine, si denuncia l'erroneità della decisione per aver disatteso talune risultanze della CTU, sempre avuto riguardo ad elementi che avrebbero consentito di escludere la rimproverabilità soggettiva in capo all'Enel della malattia patita dal F.F..
4.3 - Ritiene la Corte che anche l'esame delle descritte censure resti precluso dalla decisione di Cass. n. 28981/2017, giacché la sentenza della Corte lagunare del 28.3.2011 ha accertato (adesso, in modo definitivo) l'ascrivibilità della malattia professionale patita dal F.F. alla parte datrice, per violazione del disposto dell'art. 2087 c.c. e quindi per sua colpa.
4.4.1 - In proposito, occorre solo precisare che è ben vero che in questo giudizio la G.B. ha agito in via aquiliana per ottenere il ristoro dei danni da perdita del rapporto parentale, individuando i profili di colpa dell'Enel proprio nella violazione dell'art. 2087 c.c. nei confronti del proprio marito F.F.. Il ricorso al catalogo della colpa di cui all'art. 2087 c.c., tuttavia, non esclude che la regola dell'onere probatorio inerente all'azione avviata dalla stessa G.B. (iure proprio) in questo giudizio debba comunque seguire il proprio ambito, a nulla rilevando che l'azione ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale ed è soggetta alla presunzione di colpa della parte datrice, cui spetta dimostrare l'assenza di rimproverabilità soggettiva: in altre parole, la circostanza che l'azione aquiliana, oggetto di questo giudizio, individui il nucleo dell'elemento soggettivo del convenuto in una "porzione" di un'azione contrattuale, soggetta a regole probatorie differenti, non sposta il relativo onere, ex art. 2697 c.c.; non v'è quindi dubbio, in proposito, che, a fronte della suggestiva prospettazione delle censure in esame, il problema dell'avvenuto assolvimento dell'onere probatorio da parte della G.B. avrebbe dovuto essere affrontato funditus.
4.4.2 - Ciò è tuttavia precluso, come detto, dal giudicato esterno sul punto dell'elemento soggettivo in capo all'Enel.
In proposito, è appena il caso di aggiungere che la circostanza che la colpa del datore di lavoro sia stata definitivamente accertata tra le parti con regole probatorie proprie dell'azione contrattuale, ex art. 2087 c.c., è ovviamente irrilevante, giacché la (definitiva) statuizione sulla rimproverabilità soggettiva per la mancata adozione delle misure di sicurezza disponibili ha una valenza ontologica che prescinde dalle relative modalità di accertamento. D'altra parte, nel giudizio parallelo, l'Enel ha avuto modo di dispiegare le proprie difese sotto ogni profilo, sicché alcuna violazione in concreto circa il proprio diritto di difesa è anche solo astrattamente ipotizzabile.
5.1 - L'ottavo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Invero, va anzitutto rilevata la violazione del disposto dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., in relazione alla pretesa violazione dell'art. 246 c.p.c. per l'incapacità a testimoniare del figlio dell'intimata, C.R.. Infatti, la ricorrente - avuto riguardo all'onere di tempestività della relativa contestazione - non spiega in ricorso quando detta contestazione sarebbe stata sollevata in primo grado e se sia stata oggetto di motivo d'appello, così impedendo a questa Corte di apprezzare, sulla base della mera lettura del ricorso stesso, se essa possa dirsi ancora "viva".
Il mezzo è ancora inammissibile laddove, da un lato, offre una ricostruzione delle evenienze istruttorie, sul punto, in termini di alternatività rispetto alle valutazioni adottate dal giudice del merito, il che non è consentito denunciare in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti della violazione delle norme di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c., avuto riguardo alla formazione del libero convincimento del giudice (v. Cass. n. 27000/2016); è invece infondato nella parte in cui denuncia uno scostamento della pronuncia impugnata dai principi affermati da Cass., Sez. Un., n. 26972/2008.
Infatti, premesso che, nella specie, non v'è questione sul danno alla persona, ma solo, appunto, su quello non patrimoniale da perdita del rapporto parentale (sulla relativa distinzione, v. Cass. n. 21084/2015), non è revocabile in dubbio che, nella giurisprudenza di questa Corte (valga, per tutte, Cass. n. 16992/2015), tale danno è riconosciuto a prescindere dall'accertata sussistenza di un fatto costituente reato, perché esso mira comunque a ristorare una ingiustizia che attinge alla lesione del catalogo dei diritti inviolabili dell'individuo, ex art. 2 Cost.; e ciò, in linea con le celebri "sentenze di S. Martino", tra cui la citata Cass., Sez. Un., n. 26972/2008, neppure venendo in rilievo, nella specie, alcun problema di duplicazione dell'unitaria categoria del danno non patrimoniale. E' poi ovvio che le contestazioni inerenti il preteso cattivo utilizzo delle evenienze probatorie da parte del giudice di merito ricadono, come detto, nelle censure inizialmente esaminate in questo par., affette da inammissibilità.
6.1 - In definitiva, il ricorso è rigettato. Nulla va disposto sulle spese di lite, non avendo l'intimata G.B. resistito.
In relazione alla data di proposizione del ricorso per cassazione e del ricorso incidentale (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell'applicabilità dell'art.13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).
 

 

P.Q.M.

 


rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228), si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, a seguito di riconvocazione, il giorno 14.3.2018.