Cassazione Civile, Sez. 6, 07 giugno 2018, n. 14756 - Domanda di riconoscimento della etiologia professionale delle malattie


 

Presidente: DORONZO ADRIANA Relatore: CAVALLARO LUIGI Data pubblicazione: 07/06/2018

 

 

 

Fatto

 


che, con sentenza depositata l'8.1.2016, la Corte d'appello di Lecce, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di C.D. volta al riconoscimento della etnologia professionale delle malattie da cui è affetta e alla corresponsione delle consequenziali prestazioni previdenziali;
che avverso tale pronuncia C.D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura; che l'INAIL ha resistito con controricorso;
che è stata depositata proposta ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio; che C.D. ha depositato memoria;
 

 

Diritto

 


che, con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 437 c.p.c. per avere la Corte di merito proceduto a nuova CTU senza che vi fossero da esaminare fatti diversi da quelli già valutati in primo grado e sulla scorta di un mero dissenso diagnostico che l'INAIL aveva già formulato in primo grado ed al quale il CTU di prime cure aveva cogniamente risposto, nonché per aver aderito alle conclusioni della consulenza disposta in seconde cure senza precisare le ragioni per le quali esse erano da ritenersi preferibili a quelle cui era pervenuto il CTU nominato in primo grado;
che, con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 3, T.U. n. 1124/1965, 2697 c.c., 113, 115 e 116 c.p.c. nonché dei principi relativi alla presunzione di origine lavorativa delle malattie denunciate;
che i motivi possono essere trattati congiuntamente, involgendo entrambi - ed indipendentemente dal loro riferimento a violazioni e/o false applicazioni di legge processuale e sostanziale - il giudizio (di fatto) compiuto dalla Corte di merito in ordine alla insussistenza di alcuna efficienza causale o concausale delle condizioni lavorative in cui l'odierna ricorrente ha prestato servizio nella determinazione delle malattie da cui ella è affetta;
che, invero, è ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità se non nei ristretti limiti dell'art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. da ult. Cass. n. 24155 del 2017);
che parimenti consolidato nella giurisprudenza di questa Corte è il principio secondo cui, specie a seguito della riformulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. da parte dell'art. 54, d.l. n. 83/2012 (conv. con 1. n. 134/2012), può essere dedotto in sede di legittimità soltanto l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le partì e abbia carattere decisivo, nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, restando viceversa esclusa la possibilità di dolersi dell'omesso esame di elementi istruttori, qualora il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053 del 2014); che, sempre con riguardo al vizio in esame, è stato precisato che l'unica anomalia motivazionale ormai rilevante è quella attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, restando esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (Cass. S.U. n. 8053 del 2014, cit.);
che nella specie la Corte di merito ha da un lato escluso che le mansioni disimpegnate dall'odierna ricorrente abbiano avuto efficienza anche concausale nella determinazione della patologia articolare e dall'altro accertato che non è stata dimostrata alcuna sensibilizzazione alle polveri presenti sul luogo di lavoro, per modo che è evidente che le doglianze di parte ricorrente, lungi dal denunciare l'omesso esame di fatti principali o secondari decisivi, si appuntano piuttosto sull'esito dell'esame che di essi ha compiuto la Corte territoriale, invocandone una rivisitazione non possibile in sede di legittimità;
che del pari inammissibili appaiono le residue doglianze concernenti il contenuto della CTU di secondo grado, non essendo stato riportato (se non per un breve estratto) il contenuto di quest'ultima e non specificandosi in ricorso in quale luogo del fascicolo processuale e/o di parte essa sarebbe attualmente reperibile, in violazione del principio di specificità di cui all'art. 366 nn. 4 e 6 c.p.c.;
che il ricorso, pertanto, va conclusivamente dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza; che, in considerazione della declaratoria d'inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso;
 

 

P. Q. M.

 


La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 2.200,00, di cui € 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art.
13.

 

Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale del 22.2.2018.