Cassazione Penale, Sez. 4, 01 agosto 2018, n. 37119 - Mortale caduta dall'alto. Responsabilità del presidente della cooperativa


 

 

... L'imputato, nel caso di specie, assume necessariamente la veste di "datore di lavoro" della persona offesa, posto che in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, ai sensi dell'art. 2 d.Lgs. n. 626 del 1994 (il cui contenuto è analogo al vigente art. 2 d.Lgs. n. 81/2008), i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di "datore di lavoro", riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un'impresa cooperativa.
Ne deriva che correttamente la Corte territoriale argomenta nel senso che il prevenuto, nell'occorso, era tenuto ad adottare un comportamento improntato al rispetto di tale normativa, e quindi non avrebbe dovuto far salire la vittima sul tetto senza che lo stesso si munisse di dispositivi di protezione.


 

Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: RANALDI ALESSANDRO Data Udienza: 16/05/2018

 

 

 

 

Fatto

 

 

1. Con sentenza del 14.11.2016 la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado - resa in sede di giudizio abbreviato - che ha ritenuto M.A. responsabile del reato di omicidio colposo avvenuto il 19.2.2010 in danno del lavoratore C.M.. Si addebita all'M.A., quale presidente della cooperativa FM ERRE, di non aver valutato i rischi di caduta dall'alto connessi all'espletamento di mansione da espletare sul solaio del capannone industriale, sul quale faceva accedere il C.M. in assenza di qualsiasi mezzo di protezione individuale e di barriere di protezione atte ad ovviare il pericolo di caduta nel vuoto attraverso i lucernai, in tal modo cagionando il decesso del C.M., che precipitava al suolo da un'altezza di circa sette metri.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, articolando i motivi di seguito sinteticamente illustrati.
I) Carenza di motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità del ricorrente. Deduce che l'M.A. non è mai stato datore di lavoro del C.M. e questi non è mai stato un dipendente del primo, né il ricorrente avrebbe avuto interesse a mandare il C.M. (unitamente al Ci.) sul tetto per sistemare la guaina, visto che i locali non erano della FM ERRE; oggetto sociale di tale cooperativa era esclusivamente il trasporto merci per conto terzi, attività estranea a quella da cui è derivato il decesso del C.M..
Rileva che le dichiarazioni rese dal CI. nell'immediatezza, secondo cui l'imputato gli avrebbe detto di farsi aiutare nel lavoro sul solaio dal C.M., sono state smentite dallo stesso in sede di giudizio abbreviato condizionato, e lamenta che la sentenza impugnata non spiega perché debba essere privilegiata la prima versione resa dal CI. rispetto alla seconda.
II) Vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena.
III) Vizio di motivazione in ordine alla quantificazione del danno morale liquidato, in sede di provvisionale, in favore delle costituite parti civili.
 

 

Diritto

 


1. Il primo motivo è infondato.
La doglianza - che sviluppa argomenti che in talune parti trasmodano nella critica alla ricostruzione del fatto, censura come noto preclusa in sede di legittimità - non considera che, ai fini della normativa infortunistica, l'imputato, nel caso di specie, assume necessariamente la veste di "datore di lavoro" della persona offesa, posto che in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, ai sensi dell'art. 2 d.Lgs. n. 626 del 1994 (il cui contenuto è analogo al vigente art. 2 d.Lgs. n. 81/2008), i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di "datore di lavoro", riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un'impresa cooperativa (Sez. 4, n. 32958 del 08/06/2004 - dep. 29/07/2004, Vinci ed altro, Rv. 22927301).
Ne deriva che correttamente la Corte territoriale argomenta nel senso che il prevenuto, nell'occorso, era tenuto ad adottare un comportamento improntato al rispetto di tale normativa, e quindi non avrebbe dovuto far salire il C.M. sul tetto senza che lo stesso si munisse di dispositivi di protezione.
Le altre questioni sollevate in ricorso contro la sentenza impugnata - sulla valutazione delle dichiarazioni del teste CI., sul fatto che le merci bagnate appartenevano ad un società cinese locataria dei locali e che il prevenuto non avrebbe avuto alcun interesse a mandare il C.M. sul tetto - attengono al merito della vicenda e non sono ammissibili in questa sede.
Ciò a fronte di una motivazione che ricostruisce i fatti in maniera esauriente e adeguata sul piano logico-giuridico, esplicitando le ragioni per le quali ritiene "compiacenti" le dichiarazioni rese in sede processuale dal CI., trattandosi di dichiarazioni incerte, che non riescono a fornire una plausibile giustificazione in merito alle precise e contrastanti dichiarazioni rese nell'immediatezza del fatto, se non che era sconvolto e non ricordava quanto riferito ai carabinieri in sede di sommarie informazioni testimoniali (utilizzabili nel processo svolto con rito abbreviato). In quella sede costui aveva chiaramente dichiarato che l'imputato aveva acconsentito alla proposta del CI. di sistemazione delle guaine sul tetto, dicendogli di farsi aiutare dal C.M..
In tale motivazione sono esplicitamente disattese le doglianze svolte nei motivi di appello ed in essa non si ravvisa alcuna manifesta illogicità che la renda sindacabile in questa sede.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. 2, n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Rv. 196955).
2. Quanto al secondo motivo in merito al trattamento sanzionatorio, è appena il caso di rilevare che la pena irrogata non supera la media edittale, per cui nel caso trova applicazione il costante principio affermato da questa Corte di legittimità secondo cui la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro e altro, Rv. 27124301).
3. Il terzo motivo, sulla provvisionale liquidata per danno morale, non tiene conto del consolidato principio enunciato dalla Corte di legittimità (Sez. 4, n. 34791/2010, Rv. 248348; Sez. 5, n. 5001/2007, Rv. 236068; Sez. 5, n. 40410/2004, Rv. 230105), secondo cui la pronuncia circa l'assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la determinazione deH'ammontare della stessa è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto. Ne consegue che il relativo provvedimento non è impugnabile per cassazione in quanto, per sua natura, insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. 3, n. 18663/2015, Rv. 263486; Sez. 6, n. 50746/2014, Rv. 261536).
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso il 16 maggio 2018