• Datore di Lavoro
  • Cantiere Temporaneo e Mobile

Responsabilità del legale rappresentante della ditta M. s.r.l., esercente attività edilizia, che consentiva che non si provvedesse al consolidamento delle pareti del terreno ove erano in corso le lavorazioni, pure esistente il pericolo di frane e consentiva che i lavoratori non disponessero, in prossimità del luogo di attività, di locali di riposo, spogliatoi, gabinetti e lavabi con acqua corrente, con verifica del mancato adempimento alle prescrizioni impartite dagli ispettori del lavoro.

La M. ha proposto appello, riconvertito in ricorso per cassazione, trattandosi di contravvenzione punita con la sola pena dell'ammenda.
Innanzitutto, la ricorrente deduce che non era presente in cantiere al momento dell'accertamento, sicchè la violazione le era stata contestata successivamente e le era stato concesso un termine del tutto inadeguato.

La Corte afferma però che non è stata contestata la tardività della messa in regola ma l'omissione degli adempimenti prescritti dalla normativa.
Secondo il giudice di merito la circostanza dedotta dall'imputata, secondo cui la stessa era venuta a conoscenza del controllo tardivamente, avrebbe potuto giustificare soltanto la presentazione di un'istanza di rimessione in termini per provvedere all'adempimento delle prescrizioni e al pagamento delle sanzioni amministrative.
Il motivo si traduce quindi in una ingiustificata richiesta a questa Corte di rivalutare circostanze di fatto sottratte al sindacato di legittimità.

In ordine al terzo motivo, ossia l'eccessività della pena rispetto a quella inflitta nel decreto penale di condanna, "preliminarmente il Collegio rileva che, per quel che attiene al capo A) dell'imputazione, sussiste continuità normativa tra le fattispecie penali in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro disciplinate dal D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, artt. 12 e 77 e il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 che, abrogando il D.P.R. del 1956, disciplina, all'art. 118, comma 2, le medesime violazioni di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 12 sanzionandole all'art. 159, comma 1, lett. a), con pene maggiori (arresto da tre a sei mesi o ammenda da Euro tremila e dodicimila) rispetto a quelle previste dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 77, (arresto da tre a sei mesi o ammenda da tre milioni a otto milioni).

Per quel che attiene al capo B), sussiste continuità normativa tra la fattispecie disciplinata al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 39, comma 1, sanzionata al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 58, lett. b, con l'arresto da due a quattro mesi o con l'ammenda da Euro cinquecentosedici Euro di ammenda e quella prevista dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 63, comma 1 e art. 64 (che rinvia all'allegato 4^), sanzionata dall'art. 68, comma B, con l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da duemila a diecimila Euro, in quanto quest'ultima normativa prevede una più vasta gamma di violazioni e punisce ciascuna di quelle precedentemente sanzionate dal D.P.R. n. 303 del 1956, con pene più severe di quelle di cui alla precedente normativa."
 
Rigetto del ricorso.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUPO Ernesto - Presidente -
Dott. PETTI Ciro - Consigliere -
Dott. TERESI Alfredo - Consigliere -
Dott. MARMO Margherit - rel. Consigliere -
Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.R.A. N. il (OMISSIS);
Avverso SENTENZA del 03/04/2008 TRIB. SEZ. DIST. di RODI GARGANICO;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARMO MARGHERITA;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BUA FRANCESCO che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Fatto
 
Con sentenza pronunciata il 3 aprile 2008 il Tribunale di Lucera, sezione distaccata di Rodi Garganico, dichiarava M.R.A. responsabile:

A) del reato di cui al D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 12, comma 2, e art. 77, lett. a), perchè, nella sua qualità di legale rappresentante della ditta M. s.r.l. con sede in (OMISSIS), esercente attività edilizia con cantiere in (OMISSIS), consentiva che non si provvedesse al consolidamento delle pareti del terreno ove erano in corso le lavorazioni, pure esistente il pericolo di frane;

B) del reato di cui al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 39, comma 1, e art. 58, lett. b, perchè, nella predetta qualità, consentiva che i lavoratori non disponessero, in prossimità del luogo di attività, di locali di riposo, di spogliatoi, di gabinetti e di lavabi con acqua corrente, (per fatto accertato in località (OMISSIS), con verifica di mancato adempimento alle prescrizioni impartite dagli ispettori del lavoro in data (OMISSIS)), reati unificati dal vincolo della continuazione, e, concesse le attenuanti generiche, condannava l'imputata alla pena di Euro 1.500,00 di Ammenda.

La M. ha proposto appello, riconvertito in ricorso per cassazione, trattandosi di contravvenzione punita con la sola pena dell'ammenda.

Diritto


Il primo ed il secondo motivo di ricorso, per la loro logica e giuridica connessione, vanno esaminati congiuntamente.
Con il primo motivo la ricorrente deduce che non era presente in cantiere al momento dell'accertamento, sicchè la violazione le era stata contestata successivamente e le era stato concesso un termine del tutto inadeguato per l'eliminazione delle violazioni riscontrate.
Stante l'inadeguatezza di tale termine era irrilevante che il verbalizzante si fosse recato nel cantiere dopo venti giorni dall'accertamento della violazione per la verifica degli adempimenti alle prescrizioni impartite dagli ispettori, atteso che la proroga del termine per porre fine alle violazioni poteva essere chiesta solo prima della sua scadenza.
Secondo la ricorrente il procedimento penale non avrebbe dovuto essere intrapreso o proseguito e, comunque essa imputata avrebbe dovuto essere rimessa in termini.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la mancanza, l'insufficienza e la contraddittorietà della prova della sussistenza del fatto omissivo contestatole.
Deduce la M. che il giudice di merito aveva errato nel respingere la richiesta di sentire a testi anche le persone indicate dall'unico teste dell'accusa, i quali avrebbero dovuto riferire in ordine alla mancata conoscenza da parte di essa ricorrente del verbale di ispezione notificato soltanto il (OMISSIS).

Entrambi i motivi sono infondati.

Per quel che attiene alla doglianza della M. in ordine alla tardiva conoscenza del sopralluogo e delle richieste degli ispettori di conformarsi alla normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, il Tribunale ha correttamente rilevato che non è stata contestata la tardività della messa in regola ma l'omissione degli adempimenti prescritti dalla normativa.
Secondo il giudice di merito la circostanza dedotta dall'imputata, secondo cui la stessa era venuta a conoscenza del controllo tardivamente, avrebbe potuto giustificare soltanto la presentazione di un'istanza di rimessione in termini per provvedere all'adempimento delle prescrizioni e al pagamento delle sanzioni amministrative.
L'imputata non aveva invece provveduto ad inoltrare tale richiesta, neppure nel corso del giudizio.
Il Tribunale ha inoltre correttamente rilevato che la conoscenza da parte della M. delle contestazioni che le venivano mosse risultava, tra l'altro, dalla circostanza che la stessa si era tempestivamente attivata per porre fine alle altre violazioni che erano state riscontrate nel medesimo contesto e che erano riportate nello stesso verbale di contestazione.
In proposito il Tribunale, con adeguata motivazione, ha ritenuto che non era verosimile che fosse stato il capo cantiere a dare autonomamente l'incarico allo studio di consulenza di esibire la documentazione richiesta dagli ispettori del lavoro, nè che egli stesso avesse potuto decidere autonomamente, senza consultare il legale rappresentante della società, quali violazioni eliminare tra quelle rilevate dagli ispettori.
Alla luce della congrua motivazione del Tribunale il motivo si traduce quindi in una ingiustificata richiesta a questa Corte di rivalutare circostanze di fatto sottratte al sindacato di legittimità.
Come ha precisato questa Corte (v. per tutte Cass. pen. sez. V sent. 22 marzo 2006, n. 19855) "anche a seguito della modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. E, per effetto della L. n. 46 del 2006, al giudice di legittimità restano precluse la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di diversi parametri di ricostruzione dei fatti").

Vanno quindi respinti il primo ed il secondo motivo di ricorso.

Con il terzo motivo la ricorrente deduce che la pena inflitta dell'ammenda di Euro 1.500,00 era eccessiva rispetto a quella originariamente inflitta nel decreto penale di condanna ed era sintomatica di un ingiustificato maggior giudizio critico nei confronti di essa imputata che, quale incensurata, avrebbe dovuto essere sanzionata con una pena più mite.
In ordine al motivo preliminarmente il Collegio rileva che, per quel che attiene al capo A) dell'imputazione, sussiste continuità normativa tra le fattispecie penali in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro disciplinate dal D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, artt. 12 e 77 e il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 che, abrogando il D.P.R. del 1956, disciplina, all'art. 118, comma 2, le medesime violazioni di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 12 sanzionandole all'art. 159, comma 1, lett. a), con pene maggiori (arresto da tre a sei mesi o ammenda da Euro tremila e dodicimila) rispetto a quelle previste dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 77, (arresto da tre a sei mesi o ammenda da tre milioni a otto milioni).
Per quel che attiene al capo B), sussiste continuità normativa tra la fattispecie disciplinata al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 39, comma 1, sanzionata al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 58, lett. b, con l'arresto da due a quattro mesi o con l'ammenda da Euro cinquecentosedici Euro di ammenda e quella prevista dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 63, comma 1 e art. 64 (che rinvia all'allegato 4^), sanzionata dall'art. 68, comma B, con l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da duemila a diecimila Euro, in quanto quest'ultima normativa prevede una più vasta gamma di violazioni e punisce ciascuna di quelle precedentemente sanzionate dal D.P.R. n. 303 del 1956, con pene più severe di quelle di cui alla precedente normativa.
Deve inoltre rilevarsi che la pena correttamente inflitta con riferimento alla precedente normativa più favorevole all'imputata, anche con l'aumento conseguente alla continuazione, si colloca in prossimità dei minimi edittali del reato più grave di cui al capo A.

Va quindi respinto anche il terzo motivo di ricorso.

Trova infatti applicazione il principio affermato da questa Corte (v. per tutte Cass. pen. sez. 4^ sent. 20 settembre 2004, n. 41702) secondo cui "la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 c.p..
Anzi non è neppure necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale".
Consegue al rigetto del ricorso la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
P.Q.M.
 
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2009