Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 ottobre 2018, n. 25845 - Risarcimento danni da infortunio sul lavoro


 

 

Presidente: BRONZINI GIUSEPPE Relatore: DE GREGORIO FEDERICO Data pubblicazione: 16/10/2018

 

 

 

Fatto

 


La Corte di Appello di Bologna con sentenza n. 803 in data 30 maggio / 18 luglio 2013, notificata il 12 settembre dello stesso anno, rigettava il gravame interposto da R.M. avverso la pronuncia emessa il 22 febbraio 2011, con la quale il locale giudice del lavoro aveva respinto la domanda della stessa appellante, volta ad ottenere il risarcimento di danni, segnatamente di natura non patrimoniale, in ordine all'infortunio sul lavoro occorsole il 28 novembre 2000, allorché lavorava alle dipendenze della FELSINEA RISTORAZIONE S.r.l., nonché in relazione a fatti illeciti e antigiuridici, tra cui l'assegnazione di mansioni incompatibili con l'insorta patologia al rachide lombare, e continui mutamenti del luogo di lavoro e di mansioni. La domanda anch'essa respinta, riguardava, inoltre, il richiesto annullamento delle dimissioni presentate in data 19 novembre 2004, asseritamente in stato di incapacità di intendere di volere, con conseguente ripristino del rapporto di lavoro, ovvero in subordine la restituzione di quanto trattenuto da parte datoriale per indennità sostitutiva di preavviso in relazione alle anzidette dimissioni, per le quali si assumevano ricorrere i presupposti di cui all'articolo 2119 c.c. (recesso per giusta causa).
In sintesi, secondo la Corte d'Appello, il gravame non teneva conto di quanto deciso dal giudice di primo grado relativamente alle ragioni per cui era stata respinta la richiesta di risarcimento danni, riguardo all'infortunio del 28 ottobre 2000, posto che non era stata specificamente censurata tale decisione nei punti in cui, sulla base degli accertamenti eseguiti dall'INAIL, era stato escluso che vi fosse spazio per una ulteriore domanda risarcitoria in relazione alla invalidità temporanea lamentata, nonché con riferimento ai postumi permanenti asseritamente derivati dall'infortunio. Quanto, poi, alle ulteriori pretese risarcitorie azionate dalla lavoratrice, secondo la Corte distrettuale la condotta mobbizzante in proposito ipotizzata era stata esclusa, soprattutto per difetto dell'indispensabile l'elemento soggettivo, mentre anche le circostanze di fatto indicate nei capitoli di prova non integravano comunque gli estremi del preteso mobbing, sicché risultava evidentemente inutile l'ammissione dell'invocato mezzo istruttorio.
Parimenti, la Corte bolognese osservava in relazione alle dimissioni, per cui non vi era stata alcuna allegazione ed alcuna prova circa i presupposti dell'invocato annullamento, non essendo dato comprendere quali fossero i fatti, con relativa richiesta di prova, da cui poter desumere, secondo la stessa prospettazione difensiva di parte appellante, l'incapacità di intendere e di volere nel momento in cui furono rassegnate le dimissioni. Anche al riguardo veniva rilevato il difetto di specifica censura da parte del gravame, laddove peraltro l'impugnazione di tali dimissioni era stata dedotta a distanza di quasi quattro anni dalle stesse.
Avverso l'anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione R.M. , come da atto notificato il 6 novembre 2013 e affidato a due motivi, cui hanno resistito la convenuta FELSINEA RISTORAZIONE S.r.l., nonché la chiamata in causa GENERALI ITALIA S.p.a. (già in Assltalia S.p.A., conferitaria con decorrenza 1° luglio 2013 del ramo di azienda assicurativo 
Direzione per l'Italia di Assicurazioni Generali S.p.A.), mediante distinti controricorsi del 29 novembre e del 12 dicembre 2013.
Sono state depositate memorie ex art. 378 c.p.c. per la R.M. e per la GENERALI ITALIA.
 

 

Diritto

 


Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c. in relazione agli artt. 2043 e 2087 dello stesso codice, senza peraltro precisare i motivi posti a sostegno dell'appello a suo tempo proposto, lamentando sostanzialmente la mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti da essa parte attrice, anche mediante c.t.u. medico-legale.
Invero, la censura sul punto non coglie nel segno, attesa la ratio decidendi della pronuncia di appello, con la quale in effetti era stata rilevata la mancanza di specifici e pertinenti motivi, nei sensi di cui all'articolo 434 c.p.c., ancorché in base al testo ratione temporis applicabile con riferimento al ricorso nella specie depositato nel corso dell'anno 2011 (cfr. in proposito Cass. sez. un. civ. n. 28498 del 23/12/2005, secondo cui l'appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l'appello, non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa, ma una "revisio" fondata sulla denunzia di specifici "vizi" di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata. V., analogamente, Cass. sez. un. civ. n. 3033 - 08/02/2013: nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d'appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata -"novum judicium"-, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata - "revisio prioris instantiae". Ne consegue che l'appellante assume sempre la veste di attore rispetto al giudizio d'appello, e su di lui ricade l'onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado. Conformi Cass. nn. 18205 del 2007, 6018 del 2011, 1462 del 2013, 26292 del 25/11/2013, nonché 11797 del 09/06/2016).
Analogamente, con il secondo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione e/o la falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. in relazione agli articoli 2043, 2087 nonché 2697 del codice civile 115 c.p.c., peraltro assumendosi, nella illustrazione della censura, l'omesso esame da parte della sentenza di appello della documentazione all'uopo indicata, tra cui in particolare il certificato del Dipartimento di salute mentale della Usl di Modena in data 24 settembre 2004, in relazione al preteso stato di incapacità di intendere e di volere di cui alle dimissioni rassegnate via fax il 18 novembre 2004, ma senza indicare i motivi di appello in proposito all'epoca dedotti e senza confutare, specificamente, le argomentazioni svolte sul punto dalla Corte d'Appello.
Nei limiti in cui risulta dedotto l'anzidetto motivo, evidentemente ex articolo 360 n. 3 c.p.c., la censura appare poco conferente, oltre che non autosufficiente ex articolo 366 comma I n. 6 c.p.c., perché non è dato comprendere se in occasione dell'interposto gravame fossero state svolte precise critiche in ordine a quanto diversamente opinato dal giudice di primo grado, le cui valutazioni sono state però confermate dalla Corte di merito, con conseguente accertamento di fatto sul punto, donde anche l'inammissibilità della doglianza al riguardo in questa sede di legittimità. D'altro canto, nella specie si applica il nuovo testo dell'art. 360 co. I n. 5 c.p.c. . essendo stata la pronuncia qui impugnata emessa e pubblicata rispettivamente in data 30 giugno / 18 luglio 2013. Ne deriva, altresì, la rilevanza della motivazione soltanto in caso di riduzione del c.d. minimo costituzionale, nella specie qui difficilmente ravvisabile. Pertanto, va rilevata l'inammissibilità del ricorso proposto dalla R.M..
Ed invero, come accennato, manca, in particolare, una esauriente esposizione di quanto deciso con la sentenza (di rigetto) pronunciata dal giudice di primo grado (anch'essa rilevante per poter appieno comprendere le ragioni della pronuncia di appello, che la confermava con il rigetto dell'interposto gravame, sicché le argomentazioni svolte con la prima vanno necessariamente lette insieme alle motivazioni integratrici della seconda - v. sul punto in part. Cass. sez. un. civ. n. 7074 del 20/03/2017, secondo cui ove la sentenza di appello sia motivata "per relationem" alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c. occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 25482 del 02/12/2014, il principio di autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione trova applicazione anche con riferimento alla violazione di norme processuali - v. ancora Cass. Ili civ. n. 10605 del 30/04/2010, secondo cui ai fini della ammissibilità del motivo con il quale si lamenta un vizio del procedimento ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. è necessario che il ricorrente, alla luce del principio di autosufficienza dell’impugnazione, indichi le espressioni con cui detta deduzione è stata formulata nel giudizio di merito, non potendo a tal fine limitarsi ad asserire che si tratti di fatto pacifico, allorché neppure individui l’allegazione con la quale esso sarebbe stato introdotto e mantenuto nella controversia, posto che è pacifico soltanto il fatto che la parte abbia allegato, in modo tale che la controparte possa ammetterlo direttamente ed espressamente oppure in modo indiretto, attraverso l'affermazione di un fatto che lo presupponga - Cass. V civ. n. 12664 del 20/07/2012: il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l'inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l'onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all'atto medesimo - Cass. lav. n. 896 del 17/01/2014 in tema di errores in procedendo ha inoltre chiarito che il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda presuppone ad ogni modo la rituale formulazione della censura, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, in quanto l'esame diretto degli atti e dei documenti è circoscritto a quelli che la parte abbia specificamente indicato ed allegato).
Nella specie, inoltre, l'anzidetto principio di autosufficienza non risulta osservato nemmeno riguardo al ricorso d'appello (che devolve la cognizione della causa nei soli limiti di quanto all'uopo dedotto nei relativi motivi, tenuto conto delle previsioni di legge in materia, specialmente agli artt. 112 e 434 c.p.c., di guisa che l'appello costituisce rimedio processuale da intendere soltanto come revisio prioris instantiae e non già quale novum judicium. Cfr. Cass. lav. n. 4854 del 28/02/2014. V. inoltre, tra le altre, Cass. Ili civ. n. 1108 del 20/01/2006: anche nel rito del lavoro l’appello non ha effetto pienamente devolutivo, e, pertanto, ai sensi degli artt. 434, 342 e 346 cod. proc. civ., il giudice del gravame può conoscere della controversia dibattuta in primo grado solo attraverso l'esame delle specifiche censure mosse dall'appellante, attraverso la cui formulazione si consuma il diritto di impugnazione, e non può estendere l'indagine su punti della sentenza di primo grado che non siano stati investiti, neanche implicitamente, da alcuna doglianza, per cui deve ritenersi formato il giudicato interno - rilevabile anche d'ufficio - in ordine alle circostanze poste dal giudice di primo grado alla base della sua decisione in relazione alle quali non siano stati formulati specifici motivi di appello). Né alcuna sanatoria è in proposito ricavabile dalla lettura della sentenza impugnata, ovvero di altri atti processuali. Infatti, per soddisfare il requisito imposto dall'articolo 366, comma primo n. 3, cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l'esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone, dunque, che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. II civ. n. 7825 del 04/04/2006, conformi Cass. nn. 16360 del 2004, 12166 e 19788 del 2005. V. altresì più recentemente in senso analogo Cass. VI civ. - 3 n. 1926 del 03/02/2015, I civ. n. 19018 del 31/07/2017, id. n. 12688 del 30/05/2007). Parimenti dicasi per le memorie ex art. 378 c.p.c., che come è noto hanno funzione soltanto illustrativa rispetto a quanto però già in precedenza ritualmente e tempestivamente dedotto.
Sono, dunque, palesemente inammissibili le doglianze mosse, anche laddove eventualmente rilevanti ex art. 360 n. 4 c.p.c. ad errores in procedendo, per difetto dei requisiti richiesti dall'art. 366 comma I nn. 3 e 6 del codice di rito, non essendo stati forniti idonei e sufficienti elementi di cognizione da cui poter rilevare, eventualmente, i vizi ivi denunciati.
Ed analoghe considerazioni, in termini d'inammissibilità, possono valere per le doglianze mediante cui in effetti la ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda dell'attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa tanto più nella specie inammissibile nella specie, laddove operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall'attuale e vigente formulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. tra l'altro Cass. Ili civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -che attribuisce rilievo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, né in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell'art. 132, n. 4, c.p.c. - dà rilievo unicamente all'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest'ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360 n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014).
Va infatti ricordato (cfr. Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 - 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l'effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l'individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l'attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007.
Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, comma 1, numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 - 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell'art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove -salvo che non abbiano natura di prova legale-, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati.
Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.
Cfr. altresì Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme -art. 2697 ss.- poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell'onere della prova; b) dell'astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione aN'assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l'esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ.).
Pertanto, si appalesa l'inammissibilità delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente.
Dunque, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della soccombente al rimborso delle relative spese. Stante l'esito del tutto negativo dell'impugnazione, ricorrono, inoltre, i presupposti di legge per il pagamento dell'ulteriore contributo unificato.
 

 

P.Q.M.

 


la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di ciascuna parte controricorrente in euro 3000,oo (tremila/00) per compensi professionali ed in euro 200,oo (duecento/00) per esborsi, oltre spese
generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il sei marzo 2018