• Datore di Lavoro
  • Lavoratore
  • Malattie Professionali

Responsabilità del datore di lavoro per la morte di un dipendente di un'impresa di lavori stradali, deceduto per un carcinoma faringo-laringeo.
L'accusa di omicidio colposo si fondava sull'avere omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali necessari per contenere l'esposizione a tali sostanze (quali impianti localizzati di aspirazione; temperatura del bitume al di sotto dei 150^ C; limitazione dei tempi di esposizione; procedure di lavoro atte a contenere lo sviluppo e la diffusione di fumi di bitume caldo e vapori di carburanti), nonchè di curare la fornitura e l'effettivo impiego di idonei mezzi di protezione (come mascherine), ed infine di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario per rischi per la salute.

Il GUP e la Corte d'Appello assolvono l'imputato perchè il fatto non costituisce reato.
Ricorre in Cassazione il Procuratore Generale - Accolto.

Afferma la Corte che: "la nostra Costituzione ritiene la salute un fondamentale diritto dell'individuo e un interesse della collettività (art. 32 c.p.) per cui non è consentito trascurare alcuna cautela che possa evitare di causare danni alla persona, tanto più se si tratta di danni letali. I lavori espletati della società C. erano di natura altamente pericolosa, e la stessa sentenza impugnata ne da atto, ma giustifica le condotte negligenti ed imprudenti con la difficoltà di un diverso espletamento e con la costante prassi lavorativa.
Se si accogliesse tale tesi, la più frequente causa di incidenti di lavoro (caduta da impalcature) sarebbe giustificata, essendo prassi costante non osservare le norme di cautela (uso di funi, scarpe che fissano al suolo, elmetti, ecc). In realtà l'osservanza di tali cautele crea un notevole rallentamento dei tempi lavorativi, per cui, con elevato grado di imprudenza, datori di lavoro e lavoratori preferiscono non adottarli. Ma indubbiamente la tutela dell'integrità fisica deve prevalere sull'interesse ad una sollecita esecuzione della attività lavorativa."
"
La Corte territoriale perviene quindi ad una motivazione manifestamente illogica, e quindi censurabile ex art. 606 c.p.p., lett. e), allorchè riconosce le violazioni della normativa antinfortunistica, e poi dichiara che non si ravvisa la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa."


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente -
Dott. MARZANO Francesco - Consigliere -
Dott. VISCONTI Sergio - Consigliere -
Dott. MAISANO Giulio - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO CORTE D'APPELLO di TORINO;
nei confronti di:
1) C.A., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 13/02/2004 CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. VISCONTI SERGIO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FEBBRARO Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza in data 13.2.2004 la Corte di Appello di Torino ha confermato la sentenza del 6.6.2002 del GUP del Tribunale di Torino, con la quale, a norma dell'art. 425 c.p.p., comma 3, C. A. era stato prosciolto dal reato di omicidio colposo (art. 589 c.p., commi 1 e 2) in persona di T.L. perchè il fatto non costituisce reato.
Il T. era deceduto il (OMISSIS) per un carcinoma faringo- laringeo, causato - secondo l'ipotesi accusatoria - dall'esposizione a fumi di bitume caldo e a vapori di carburante, verificatasi negli anni dal (OMISSIS), nel corso dei quali aveva eseguito lavori di edilizia stradale, ivi compresa l'asfaltatura delle strade, essendo dipendente della Asfalti di Caniglia rag. Antonio & C.
Al C. è stato contestato di avere omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali necessari per contenere l'esposizione a tali sostanze (quali impianti localizzati di aspirazione; temperatura del bitume al di sotto dei 150^ C; limitazione dei tempi di esposizione; procedure di lavoro atte a contenere lo sviluppo e la diffusione di fumi di bitume caldo e vapori di carburanti), nonchè di curare la fornitura e l'effettivo impiego di idonei mezzi di protezione (come mascherine), ed infine di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario per rischi per la salute, anche se quest'ultimo argomento non viene ripreso nei motivi di appello.
La Corte territoriale, così come il giudice di primo grado, ha dato atto che le perizie in atti hanno accertato il nesso causale tra l'esposizione a rischio del T. e l'insorgenza della malattia, sorta nel (OMISSIS), a breve distanza di tempo dalla cessazione del rapporto di lavoro con il C., per circa 15 anni con le mansioni di autista di autocarri, e per otto mesi, dal 14.7.1994, con funzioni di asfaltista, pur ritenendo gli stessi periti che si sia trattato di una concausa, e con minore incidenza causale, unitamente al vizio del fumo ed all'azione dell'alcol.
La Corte di merito ha poi ritenuto non ricorrere nella specie l'ipotesi di esclusione del nesso causale per concause sopravvenute e da sole sufficienti a cagionare l'evento.
La Corte di merito ha però confermato la valutazione del giudice di prime cure, secondo la quale non è ravvisabile nella specie l'elemento soggettivo della colpa.
In primo luogo, è stato ritenuto che la normativa specifica in materia di tutela dei lavoratori è stata emanata con il D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 66.
Inoltre, pur essendo vero che l'imputato poteva rendersi conto dei rischi per la salute derivanti dalla prolungata esposizione a fumi di sostanze bituminose e maleodoranti, il giudizio sulla responsabilità o meno del C. non poteva che derivare dall'esame della situazione specifica con riferimento alle uniche due violazioni di legge imputabili, e cioè: l'aspirazione dei gas (D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, art. 20); la fornitura di mezzi personali di protezione, in particolare maschere protettive della respirazione (D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, 377 e 387; D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, art. 4).
In ordine all'aspirazione dei gas, il giudice di appello ha rilevato che i lavori venivano eseguiti all'aperto, con spargimento del bitume sul quale passava poi un rullo compressore per la stesura sulle strade, modalità ancora in corso all'epoca della sentenza di secondo grado, per la quale quindi non è possibile l'adozione di cappe di aspirazione o di altri congegni idonei ad assorbire le esalazioni.
Per ciò che concerne le mascherine, le stesse sarebbero state sufficienti a riparare il T. e i suoi colleghi dalle particelle e dalle polveri, ma non dai sottili gas mefitici, che attraverso vestiti e cute avrebbero comunque raggiunto ugualmente l'organismo dei presenti. Inoltre, il T. si tratteneva per breve tempo sui luoghi di lavoro, avendo effettuato per quasi tutta la durata del rapporto di lavoro l'attività di autista.
La Corte di merito ha pertanto ritenuto che la caratteristica di saltuarietà delle occupazioni, il connotato di lavoro all'aperto, l'impossibilità di raccogliere le esalazioni con sistemi meccanici di convogliamelo e l'inutilità pratica delle mascherine, mai adoperate da alcuno, impediscono di ritenere la colpa del datore di lavoro, essendo tra l'altro l'evento dovuto, anche secondo la tesi dei periti, alla concomitanza di altri fattori scatenanti, e cioè fumo ed alcol.
Infine, anche sotto il profilo della prevedibilità e della colpa, la modesta occasione di esposizione al rischio poteva apparire insufficiente a cagionare un grave danno alla salute.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo l'annullamento della succitata sentenza per manifesta illogicità della motivazione e per inosservanza ed erronea interpretazione dell'art. 428 c.p.p., comma 6, vigente all'epoca della presentazione del ricorso.
Il P.G. ha rilevato che la Corte di merito, dopo avere disatteso le conclusioni dei periti (di cui si ritiene comunque di ridiscuterle, ma non in sede di legittimità), ha pronunciato una sentenza manifestamente illogica per non avere ritenuto la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa, ma ha poi elencato circostanze di carattere oggettivo, e quindi attinenti al nesso causale.
In particolare, la Corte territoriale ha ammesso (dopo avere assunto che la legislazione in materia è stata emanata nell'anno 2000, che l'imputato poteva rendersi conto, in modo presuntivo e generico, dei rischi per la salute derivanti dalla prolungata esposizione a fumi di sostanze bituminose e maleodoranti) che in base alle sentenze della Corte di Cassazione il datore di lavoro deve essere attento a prefigurarsi il rischio di un danno grave alla salute in relazione alle modalità di espletamento della prestazione lavorativa.
Ciò malgrado, la Corte di merito ha poi confermato la sentenza di proscioglimento perchè il fatto non costituisce reato, avuto riguardo alle seguenti circostanze: la caratteristica di saltuarietà delle occupazioni, il connotato di lavoro all'aperto, l'impossibilità di raccogliere le esalazioni con sistemi meccanici di convogliamento e l'inutilità pratica delle mascherine.
Secondo il P.G. ricorrente tali circostanze attengono al nesso di causalità, e quindi presuppongono la sussistenza della colpa, così come ritenuto dai periti, anche se coevamente ad altre cause, e quindi la prevedibilità e la evitabilità dell'evento nel settore dei tumori professionali. Inoltre, è stato ricordato che nella sentenza impugnata è stato escluso che potesse ricorrere l'ipotesi di esclusione del nesso causale per concause sopravvenute e da sole sufficienti a cagionare l'evento.
 
Diritto

Il ricorso è fondato e va accolto.
Le censure del P.G. territoriale sono senza dubbio fondate, in quanto la sentenza impugnata, da un lato, esclude la colpa quale elemento psicologico del reato (art. 43 cod. pen.), ma poi cita, per sostenere tale tesi, argomenti riguardanti il nesso di causalità (art. 40 cod. pen.).
Infatti, la stessa Corte di merito attribuisce una condotta negligente ed imprudente al datore di lavoro, ma poi esclude che tale comportamento abbia influito sul verificarsi dell'evento letale.
Si osserva che il
D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, art. 20 dispone che "nei lavori in cui si svolgono gas o vapori irrespirabili o tossici od infiammabili, ed in quelli in cui si sviluppano normalmente odori o fumi di qualsiasi specie, il datore di lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione".
A sua volta l'art. 4 dello stesso D.P.R. dispone l'obbligo dei datori di lavoro di "fornire ai lavoratori i mezzi necessari di protezione".
La Corte territoriale spiega che tali norme, espressamente contestate, non sono state osservate in quanto, trattandosi di lavori che si svolgono all'aperto, non è possibile adottare cappe di aspirazione o altri congegni idonei ad assorbire le esalazioni, e che fornire mascherine ai lavoratori non avrebbe impedito ai lavoratori di esser colpiti in altre parti del corpo da polveri sottili.
Pertanto, è pacifico che nessuna misura antinfortunistica è stata adottata, ma la Corte di merito motiva tale inosservanza (e la giustifica) con una impossibilità di impedire l'evento, che, prima di tutto, come esattamente osservato dal P.G. ricorrente, è questione attinente al nesso di causalità ex art. 40 cod. pen., e, in secondo luogo, l'argomento non è sorretto da adeguata e logica motivazione, in quanto va spiegato, ad esempio, perchè l'uso di tute termoregolatrici non era utilizzabile nella specie, in quanto - proprio rifacendosi al ragionamento contenuto nella sentenza impugnata - tale cautela avrebbe potuto impedire l'evento.
Appare peraltro appena il caso di ricordare che la nostra Costituzione ritiene la salute un fondamentale diritto dell'individuo e un interesse della collettività (art. 32 c.p.) per cui non è consentito trascurare alcuna cautela che possa evitare di causare danni alla persona, tanto più se si tratta di danni letali.
I lavori espletati della società Caniglia erano di natura altamente pericolosa, e la stessa sentenza impugnata ne da atto, ma giustifica le condotte negligenti ed imprudenti con la difficoltà di un diverso espletamento e con la costante prassi lavorativa.
Se si accogliesse tale tesi, la più frequente causa di incidenti di lavoro (caduta da impalcature) sarebbe giustificata, essendo prassi costante non osservare le norme di cautela (uso di funi, scarpe che fissano al suolo, elmetti, ecc). In realtà l'osservanza di tali cautele crea un notevole rallentamento dei tempi lavorativi, per cui, con elevato grado di imprudenza, datori di lavoro e lavoratori preferiscono non adottarli. Ma indubbiamente la tutela dell'integrità fisica deve prevalere sull'interesse ad una sollecita esecuzione della attività lavorativa.
Ritornando alla questione oggetto del ricorso, la Corte territoriale perviene quindi ad una motivazione manifestamente illogica, e quindi censurabile ex art. 606 c.p.p., lett. e), allorchè riconosce le violazioni della normativa antinfortunistica, e poi dichiara che non si ravvisa la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa.
A ciò aggiunge valutazioni inerenti al nesso di causalità, che in assenza della colpa non sarebbero neppure da prendere in considerazione, per cui è da riesaminare l'intero impianto motivazionale, e dare una spiegazione corretta e logica della decisione che il giudice di rinvio adotterà.
Va, infine, precisata un'ultima manifesta illogicità della sentenza impugnata, e cioè il richiamo alle conclusioni peritali, secondo le quali l'esposizione al rischio lavorativo da parte del T. sarebbe stato solo una concausa dell'evento, avendo inciso anche il vizio del fumo e l'assunzione di alcol.
Va ricordato che l'art. 41 c.p., comma 1, dispone che "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento", tranne che per la particolare ipotesi di cui al comma 2 (causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento).
Pertanto, qualora si ravvisa la colpa, o sussiste tale ultima ipotesi (che invero dalla stessa motivazione della sentenza impugnata non appare calzante) ovvero si applica il principio di "equivalenza delle cause", che ai fini penali non consente di escludere la responsabilità di chi abbia comunque prodotto l'evento anche se con incidenza di minore rilevanza.
In conclusione, per le ragioni esposte la sentenza impugnata va annullata a norma dell'art. 623 c.p.p., lett. c), e il giudice di rinvio, ex art. 627 cod. proc. pen., dovrà uniformarsi ai principi di diritto indicati nella presente sentenza e soprattutto fornire una motivazione corretta, adeguata e logica della decisione che adotterà, non ripetendo le incongruenze motivazionali della sentenza annullata.

P.Q.M.
 
La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino.
Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2009