Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 11 febbraio 2019, n. 6381 - Investimento mortale in un opificio. Mezzo inidoneo e contemporanea presenza di veicoli e pedoni


 

 

 

Presidente: FUMU GIACOMO Relatore: DOVERE SALVATORE Data Udienza: 06/11/2018

 

Fatto

 

1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Bologna ha parzialmente riformato la pronuncia emessa nei confronti di C.D. e di M.M. dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Ravenna, con la quale questi erano stati giudicati responsabili del reato di omicidio colposo commesso con colpa generica e con violazione di norme cautelari in materia di sicurezza del lavoro nonché, il C.D., anche dei reati di cui rispettivamente agli artt. 35, co. 1 e 35, co. 4-bis lett. b) d.lgs. n. 626/1994, e condannati, riconosciute per entrambi le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, ritenuta la continuazione tra i diversi reati, il C.D. alla pena di mesi otto di reclusione ed il M.M. alla pena di mesi sei di reclusione, condizionalmente sospesa e con la concessione del beneficio della non menzione della condanna (oltre le conseguenti statuizioni in ordine alle spese processuali).
La Corte di Appello, infatti, ha dichiarato non doversi procedere in relazione ai reati contravvenzionali, perché estinti per prescrizione; ed ha rideterminato la pena, per effetto della ritenuta prevalenza delle attenuanti generiche sulla concorrente circostanza aggravante, fissandola in sei mesi di reclusione per il C.D. e in quattro mesi di reclusione per il M.M..
2. La vicenda oggetto dei procedimenti di merito può essere descritta come segue.
Il 23 settembre 2006, all'interno dell'opicifio della Tre C. s.a.s., della quale il C.D. era socio amministratore mentre il M.M. vi svolgeva le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, A.B. si trovava alla guida di un veicolo che trasportava balle di fieno quando, non avvedendosi della presenza del collega N.I. nella zona anteriore del veicolo, lo urtava e lo faceva cadere a terra, sormontandolo con le ruote e quindi procurandogli lesioni da schiacciamento che lo conducevano a morte il 17.10.2006.
Da entrambi i giudici territoriali veniva rimproverato, al C.D., di aver consentito l'impiego del veicolo in condizioni di non sicurezza perché il conducente operava con una ridotta visibilità della zona anteriore, a causa delle balle trasportate; al M.M. di non aver adottato procedure o altre misure necessarie ad impedire la contemporanea presenza di mezzi e di pedoni nel medesimo luogo.
3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione il C.D. a mezzo del difensore di fiducia, avv. Omissis.
3.1. Con un primo motivo deduce violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., rilevando che mentre il capo di imputazione contestava al C.D. di aver messo a disposizione dei lavoratori una attrezzatura di lavoro non idonea a fini di sicurezza per la ridotta visibilità anteriore durante la movimentazione delle balle e la mancata adozione di misure atte ad evitare che i lavoratori a piedi venissero a contatto con i mezzi semoventi, la sentenza di primo grado aveva attribuito una condotta omissiva, consistente nel non aver garantito che la macchina venisse usata in condizioni di sicurezza, ad esempio riducendo le dimensioni del carico o dotando il veicolo di dispositivi supplementari che rendessero la zona anteriore visibile all'autista. Dedotta tale discrepanza, la Corte di Appello ha escluso la violazione del divieto di immutazione con argomenti che il ricorrente contesta ed ha introdotto un ulteriore nuovo profilo di colpa, anch'esso non già emergente dagli atti processuali, con pregiudizio del diritto di difesa dell'imputato.
3.2. Con un secondo motivo viene dedotto il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello non ha riconosciuto nel comportamento dell'autista del veicolo la causa unica e determinante dell'evento, avendo questi agito in difformità delle prescrizioni e delle istruzioni ricevute, che egli ben conosceva ed aveva sempre osservato nei sei anni precedenti al sinistro. La Corte di Appello rimprovera al C.D. di non aver attuato modalità di lavoro che vietassero la marcia in avanti con una visibilità ridotta dalle balle nonostante la prassi e le direttive aziendali imponessero di procedere a retromarcia; inoltre non considera che il procedere a marcia avanti non costituisce errore dell'autista ma un suo atto volontario.
3.3. Viene poi dedotta la violazione degli arti. 40 e 41 cod. pen., ed ancora il vizio della motivazione, per aver la Corte di Appello ritenuto che il rischio di schiacciamento di un lavoratore a piedi non era eccentrico rispetto a quello gestito dagli imputati; asserisce il ricorrente che la manovra del conducente non era prevedibile ed è abnorme, eccezionale, esorbitante, tale da porsi come causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento (cita a conforto Sez. 4 n. 8883/2016 e n. 24139/2016).
3.4. Con l'ultimo motivo si censura la contraddittorietà della motivazione laddove imputa al C.D. di non aver predisposto misure atte ad evitare il contatto dei lavoratori a piedi con mezzi semoventi, senza considerare che il documento di valutazione dei rischi disponeva anche tali misure.
4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza anche il M.M., a mezzo del difensore avv. Omissis.
4.1. Con un primo motivo deduce la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. per aver la Corte di Appello ritenuto che nella specie il divieto di immutazione non fosse stato violato dal primo giudice (sostituendo due omissioni alle due condotte attive descritte dall'imputazione), assumento che la condotta addebitata era ricompresa in quella descritta nella contestazione nonostante così non sia e nonostante le nuove condotte non emergessero dagli atti processuali.
4.2. Deduce, poi, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, in quanto essa si pone in contraddizione con se stessa e con gli atti di causa (segnatamente con la relazione dello SPSAL del 24.11.2006) e sia manifestamente illogica perché pretende l'attuazione di specifica modalità organizzativa che vietasse la traslazione in marcia avanti della macchina nonostante tale misura fosse stata adottata dal datore di lavoro.
4.3. Con il terzo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 41, co. 2 cod. pen. per non aver la Corte di Appello ravvisato nella condotta dell'autista un comportamento abnorme e come tale escludente la efficienza causale della condotta dell'Imputato.
4.4. Infine deduce vizio della motivazione in merito alla funzione del r.s.p.p., avendo la Corte di Appello giudicato il M.M. come se egli fosse stato il datore di lavoro, senza mai specificare l'addebito rispetto al limitato ruolo ricoperto dal M.M., che lo rende, ad esempio, non responsabile della prassi aziendale e della omessa adozione di segnaletica quale misura volta ad eliminare il pericolo che lavoratori appiedati vengano a contatto con mezzi in movimento. La stessa Corte di Appello dà conto della completezza del documento di valutazione dei rischi al riguardo.
 

 

Diritto

 


5. I ricorsi, che possono essere trattati congiuntamente, stante la comunanza delle censure, sono infondati.
5.1. Quanto al primo motivo, esso è aspecifico e peraltro anche manifestamente infondato.
Vale rammentare che nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen. ), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull'addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti - e in particolare l’imputato - non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico. Sia pure a mero titolo di esempio può citarsi la massima per la quale "ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione" (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 - dep. 29/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278). Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie se omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa. Mentre nei reati dolosi - in specie commissivi - la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l'obbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. Quest'ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica).
Com’è evidente, l'una e l'altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l'agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare. Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (ex multis, Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013 - dep. 20/12/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902). L'accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza - nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione - un approccio fondato sulla tipologia dell'intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l'ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica). Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l'estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto).
La principale implicazione di tale assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato ad esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della "narrazione" prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente (Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014 - dep. 19/08/2014, Denaro e altro, Rv. 260161; cfr. anche Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018 - dep. 14/06/2018, Siani, Rv. 273588).
L'ulteriore implicazione è che la parte che intenda contestare il rispetto del principio di correlazione non può limitarsi a rilevare una reale o presunta difformità ma deve quanto meno indicare come ciò si sia tradotto in un pregiudizio del diritto di difesa.
5.2. Nel caso che occupa entrambi i ricorrenti si soffermano sulla pretesa modifica della contestazione ma non offrono alcuna indicazione sul riflesso che essa avrebbe avuto sul diritto di difesa, limitandosi ad asserire - ma non a dimostrare - che i nuovi profili di colpa non emergevano dagli atti processuali. Ad esempio, non menzionano le diverse fonti che sarebbero state utilizzate dai giudici di merito. Per tale profilo i motivi risultano generici.
5.3. Ma, come già scritto, essi sono anche manifestamente infondati.
Nel caso di specie la contestazione, anche attraverso l'espresso richiamo alle disposizioni dell'art. 35 d.lgs. n. 626/1994, ascrive al C.D. di aver messo a disposizione dei lavoratore un'attrezzatura non idonea ai fini della sicurezza e di non aver adottato misure idonee ad evitare il contatto dei lavoratori appiedati con il mezzo in movimento; al M.M., di aver fornito ai lavoratori indicazioni per un uso improprio e comunque pericoloso del predetto mezzo.
Il Giudice dell'udienza preliminare, secondo quanto riportato dalla Corte di Appello, ha individuato per il C.D. i seguenti profili di colpa: non aver consentito l'impiego in sicurezza del mezzo; non aver adottato misure idonee ad impedire la contemporanea presenza di mezzi e pedoni nel medesimo luogo. Per il M.M. quello sopra riportato.
La Corte di Appello, dal canto suo, ha replicato ai rilievi degli appellanti osservando che l'inidoneità dell'attrezzatura ai fini della sicurezza può derivare sia da difetti intrinseci della stessa sia dalle modalità del suo impiego; e nel caso di specie si trattava appunto di questa seconda ipotesi, avendo il C.D. posto a disposizione dei lavoratori un veicolo che montava una pinza sulla quale era possibile trasportare un carico che ostruiva la visuale sulla zona anteriore; e che il M.M. aveva indicato ai lavoratori, quale modalità di lavoro che eliminava la conseguente situazione di rischio, il movimento in retromarcia. 
Alla luce di quanto appena esposto risulta palese la infondatezza del rilievo dei ricorrenti, secondo il quale la sentenza di primo grado avrebbe attribuito una condotta omissiva, consistente nel non aver garantito che la macchina venisse usata con un carico di più ridotte dimensioni o fosse dotata di dispositivi supplementari che rendessero la zona anteriore visibile all'autista. Si tratta non già di profili alternativi (e neppure aggiuntivi) di colpa ma della esemplificazione di ciò che avrebbe reso idonea la macchina ai fini della sicurezza.
Quanto al preteso ulteriore profilo di colpa che sarebbe stato indebitamente individuato dalla Corte di Appello, già la sua formulazione da parte del ricorrente evidenzia che non si è in presenza di un comportamento ascritto al C.D. ma della spiegazione della ragione per cui la prassi aziendale con la quale si intendeva garantire la sicurezza delle operazioni di scarico delle balle era del tutto inidonea allo scopo: essa non assicurava l'assenza di qualsiasi movimento in avanti del veicolo.
Con precipuo riferimento ai rilievi avanzati dal M.M. a riguardo del tema in trattazione, va aggiunto che il ricorrente attribuisce del tutto arbitrariamente ai giudici di merito di avergli rimproverato anche di aver messo a disposizione dei lavoratori una attrezzatura non idonea ai fini della sicurezza, risultando con chiarezza dalla lettura della sentenza impugnata che l'addebito rivolto al M.M. trova ragione soltanto nell'aver indicato al conducente l'esecuzione di una manovra pericolosa (cfr. pg. 1, ultimo periodo; pg. 3, § 1.2.; pg. 4, primo capoverso). Con ciò trova replica anche l'ultimo motivo del ricorso del M.M..
6. Anche i motivi secondo e terzo dei due ricorsi si prestano ad una trattazione congiunta, vertendo essi sulla carenza di efficienza causale del comportamento degli imputati rispetto all'evento realizzatosi, che andrebbe ricondotto alla manovra del conducente del veicolo.
In primo luogo va escluso che sia fondata la prospettazione della difesa del C.D., per la quale ci si troverebbe non già in presenza di un errore del conducente del veicolo bensì di un suo atto volontario. In via generale, con il termine 'errore' si esprime un giudizio di valore, che costituisce esito del confronto tra un dato assunto a standard e quello da verificare; l'errore è connotato del comportamento deviante. La volontarietà o meno dell'atto non appartiene al medesimo orizzonte concettuale; basti considerare che l'errore può essere volontario ma anche involontario. In realtà la approssimativa terminologia utilizzata dal ricorrente sembra voler comunicare la rilevanza che andrebbe accordata alla deliberazione del A.B. di violare le direttive impartitegli.
Orbene, anche a considerare la condotta del A.B. colposa, ovvero inosservante di una o più regole cautelari, non per ciò solo sarebbe elisa la relazione eziologica corrente tra le condotte del C.D. e del M.M. con il sinistro verificatosi.
La giurisprudenza di questa Corte ripete che, in tema di rapporto di causalità, non può ritenersi causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento il comportamento negligente di un soggetto che trovi la sua origine e spiegazione nella condotta colposa altrui (Sez. 4, n. 18800 del 13/04/2016 - dep. 05/05/2016, Bonanni, Rv. 267255). Sicché va certamente escluso che il comportamento imprudente del A.B., siccome originato dalla imperita ed imprudente indicazione datagli dal M.M., possa valere a ricondurre in via esclusiva l'evento all'azione del conducente del mezzo.
7. In relazione all'ultimo motivo avanzato dal C.D., anch'esso è manifestamente infondato. La Corte di Appello ha rilevato che risultava una sola forma di cautela per fronteggiare il rischio di investimento di lavoratori appiedati: all'autista era stato detto di fare attenzione, suonare ed eventualmente fermarsi. Con giudizio di merito argomentato in modo non manifestamente illogico, la corte territoriale ha ritenuto che tale misura non fosse idonea allo scopo.
Il ricorrente rammenta che gli organi ispettivi avevano rilevato anche l'assenza di segnaletica verticale ed orizzontale di regolazione della circolazione degli automezzi e di segnalazione delle aree di manovra dei mezzi meccanici e di individuazione delle aree di deposito delle balle. Risulta pertanto confermato il giudizio di assenza di misure. Né assume rilievo la circostanza che la valutazione dei rischi venga eseguita con il concorso di un soggetto portare di competenze specifiche (il R.s.p.p.), assenti nel datore di lavoro. La valutazione dei rischi è atto imputato dal legislatore al datore di lavoro ed egli ne porta la responsabilità; a meno che non dia dimostrazione di aver fatto tutto quanto imposto dalla diligenza, dalla prudenza e dalla perizia - secondo gli standard a lui riferibili - per la verifica della correttezza dell'operato del R.s.p.p.
Nel caso di specie non viene neppure enunciato che il C.D. abbia svolto attività in tal senso e che ciò sia stato oggetto del contraddittorio nei giudizi di merito.
8. Segue al rigetto dei ricorsi la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.
 

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6.11.2018.