Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 febbraio 2019, n. 3901 - Il tempo di vestizione degli infermieri dà diritto alla retribuzione trattandosi di obbligo imposto da esigenze di sicurezza ed igiene


 

"In materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica, nel silenzio della contrattazione collettiva (nella specie il c.c.n.l. comparto sanità pubblica del 7 aprile 1999), il tempo di vestizione-svestizione dà diritto alla retribuzione al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto"


 

 

Presidente Napoletano – Relatore De Felice

 

 

Rilevato

Che:
la Corte d’Appello di Perugia, in riforma della pronuncia del Tribunale di Orvieto, ha rigettato la domanda di D.L. e altri quattro, infermieri presso il locale Ospedale, i quali avevano domandato la condanna dell’Ausl n.(.) della Regione Umbria al pagamento del compenso a titolo di indennità per lavoro straordinario, per il tempo occorrente per la vestizione, anticipato di 15 minuti rispetto all’inizio del turno, e per il passaggio di consegne al personale del turno montante al termine dello stesso (15 minuti);
la Corte territoriale, ha confermato la sentenza del primo Giudice là dove la stessa aveva rigettato la domanda relativa al riconoscimento dello straordinario per il passaggio di consegne a fine turno, riformandola nella parte in cui aveva accolto la pretesa con riferimento all’attività di vestizione a inizio turno;
la motivazione si fonda sul principio vigente nel pubblico impiego contrattualizzato, secondo cui le prestazioni di lavoro straordinario per le quali si chiede il relativo compenso, devono essere preventivamente autorizzate;
sotto tale aspetto, l’accertamento istruttorio svolto ha dimostrato che gli appellati non avevano provato che il dirigente del servizio infermieristico o gli organi competenti dell’Ausl avevano concesso la predetta autorizzazione, che, in contrario, era emerso che nessun ordine in tal senso era stato diramato da parte dei superiori e che non esisteva, presso l’Ausl di riferimento, una regolamentazione dei tempi di "vestizione" del personale;
per la cassazione della sentenza ricorrono D.L. , F.A. , P.N. , S.L. e V.K. sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria;
l’Ausl n.(.) della Regione Umbria si costituisce con tempestivo controricorso, illustrato da memoria.

 

 

Considerato

Che:
il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deduce "Carente o inesatta motivazione su punti essenziali della controversia. Illogicità. Travisamento dei fatti";
la Corte territoriale non avrebbe correttamente valutato il valore del "tempo divisa" nell’economia della prestazione degli infermieri, consistente in una modalità costante di anticipo e di ritardo rispetto all’orario ordinario finalizzata ad indossare e a dismettere la divisa fornita dall’ospedale;
la seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, contesta "Violazione e falsa ed errata applicazione della direttiva CEE 23/11/93 n.93/104, nonché del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 di attuazione della predetta direttiva. Difetto di motivazione su punti essenziali della controversia. Travisamento ed illogicità"; le norme comunitarie richiamate, attuate dall’ordinamento nazionale, nel considerare lavoro straordinario ogni attività prestata oltre il normale orario di lavoro, sanciscono che la messa a disposizione del dipendente fuori dall’ordinario tempo della prestazione va necessariamente retribuita; detto principio deve ritenersi applicabile a tutti i rapporti di lavoro, siano essi privati o alle dipendenze di una pubblica amministrazione, ed ogni norma contraria al principio dedotto deve ritenersi abrogata;
il terzo motivo, formulato ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta "Difetto di motivazione su punti essenziali della controversia e violazione delle norme richiamate nel secondo mezzo di ricorso"; l’appropriazione, da parte della struttura ospedaliera, del lavoro prestato oltre l’orario normale, avrebbe dovuto far ritenere lo stesso implicitamente autorizzato, atteso che, nella prassi i tempi per la vestizione e la svestizione sono dettati da un obbligo organizzativo scaturente da ragioni prettamente aziendali e non già dalla libera scelta dei dipendenti;
la quarta, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, deduce "Violazione delle norme e dei principi sulla corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Illogica, carente ed infondata motivazione su punti essenziali della controversia"; la Corte territoriale ha errato nel considerare che la sentenza di primo grado fosse viziata da ultrapetizione, reputando che i ricorrenti non avessero richiesto alcun compenso aggiuntivo per la dismissione della divisa;
con la quinta ed ultima censura, ancora formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e n. 3 per "Erronea e carente motivazione su punti essenziali della controversia. Violazione delle norme e dei principi sulla corrispondenza tra chiesto e pronunciato"; erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che il Giudice di prime cure avesse rigettato la domanda riguardante il compenso per il tempo occorrente al "passaggio di consegne" a fine turno, stabilendo che, per ottenere una pronuncia sul punto, gli appellati avrebbero dovuto proporre la stessa con appello incidentale; secondo parte ricorrente, la riproposizione esplicita della domanda nell’atto di costituzione in appello avrebbe costituito a tutti gli effetti una richiesta di riforma della sentenza gravata in sede d’impugnazione, che avrebbe dovuto, pertanto, costituire oggetto di valutazione da parte del Giudice dell’Appello;
preliminarmente, va esaminata la validità della lettera sottoscritta dal procuratore dei ricorrenti in data 22 ottobre 2018, con cui lo stesso fa presente a questa Corte che in data 19 ottobre 2018 due degli originari ricorrenti, D.L. e S.L. , gli hanno comunicato di non aver interesse a proseguire nel giudizio dinanzi a questa Corte e di volere, pertanto, rinunciare all’azione intrapresa nei confronti dell’AUSL n. (.) della Regione Umbria;
la rinuncia al ricorso costituisce un atto formale, i cui requisiti sono previsti dall’art. 390 c.p.c., di tal che la mera comunicazione al procuratore costituito da parte di alcuni fra i ricorrenti di non avere più interesse alla prosecuzione del giudizio di legittimità non costituisce rinuncia al ricorso nei loro confronti;
il giudizio, pertanto, prosegue nei confronti di tutti i litisconsorti;
i motivi, che vanno esaminati congiuntamente data la loro connessione, meritano di essere accolti;
questa Corte ha già deciso sull’oggetto della presente controversia, pronunciando il seguente principio di diritto: "In materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica, nel silenzio della contrattazione collettiva (nella specie il c.c.n.l. comparto sanità pubblica del 7 aprile 1999), il tempo di vestizione-svestizione dà diritto alla retribuzione al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto" (Cass. n.12935 del 2018; Cass.27799 del 2017);
in definitiva, il ricorso va accolto; la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione, anche sulle spese del giudizio di legittimità;
visto l’accoglimento del ricorso non sussistono i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

 

 

P.Q.M.
 

 


La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione, anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti, per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.