REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico
Dott. DE RENZIS Alessandro
Dott. PICONE Pasquale
Dott. LA TERZA Maura
Dott. CURCURUTO Filippo

- Presidente
- Consigliere
- Consigliere
- Consigliere
- rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:


sentenza

sul ricorso proposto da:
L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato CAMAIONI LITA CATERINA, giusta mandato in calce al ricorso;

- ricorrente -

contro
AZIENDA UNITA' SANITARIA LOCALE FORLÌ, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell'avvocato PETRONIO UGO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DI GIOVANNI MARIO GABRIELE, giusta mandato a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 812/2004 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 30/05/2005 R.G.N. 169/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/11/2009 dal Consigliere Dott. FILIPPO CURCURUTO;
udito l'Avvocato CAMAIONI LITA CATERINA;
udito l'Avvocato PETRONIO UGO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ABBRITTI Pietro, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso e in subordine rigetto.

Svolgimento del processo


Il Dottor L.V., medico anestesista, dipendente dal 1989 dell'Azienda Usl di Forlì, con ricorso al Tribunale di Forlì ha chiesto accertarsi che la malattia da cui era affetto (linfoma non Hodgkin, diagnosticatogli nel 1997) era stata determinata dalla insalubrità degli ambienti di lavoro in cui era stato costretto ad operare, e, in particolare, dall'esposizione alle radiazioni ionizzanti ed ai gas anestetici presenti negli stessi, ed ha chiesto la condanna dell'azienda a corrispondergli una determinata somma a titolo di risarcimento del danno esistenziale, biologico e morale nonché da lucro cessante.

Nella resistenza dell'Azienda il giudice di primo grado, dopo aver disposto consulenza tecnica, ha rigettato la domanda.

La Corte d'appello di Bologna (d'ora innanzi: la Corte) dopo aver rinnovato la c.t.u. ha rigettato il gravame del L..

La Corte, premesso che il primo giudice aveva respinto il ricorso ritenendo non provata l'attività cancerogena, diretta o in associazione con altri fattori, dei gas anestetici e non ravvisabile in concreto, per la bassa esposizione cui era stato sottoposto il sanitario, l'efficacia causale delle radiazioni ionizzanti, riferisce che, con l'appello, il L. aveva censurato l'erronea valutazione dei fatti diretti a provare la violazione dell'art. 2087 c.c., anche a seguito della omissione dell'attività istruttoria richiesta dalla parte (primo motivo);
la carenza di motivazione circa l'esclusione di detta attività istruttoria, con i conseguenti riflessi sugli elementi che avevano formato oggetto della c.t.u. (secondo motivo);
l'erronea esclusione della rilevanza dell'intervenuto riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della patologia da cui era affetto (terzo motivo);
l'erronea attribuzione al lavoratore dell'onere di provare il nesso causale tra l'attività lavorativa svolta e l'insorgenza della malattia, trascurando di considerare la natura obsoleta delle misure di radioprotezione adottate dal datore di lavoro (quarto motivo);
la carenza della consulenza tecnica di ufficio, per mancato esame dell'azione cancerogena dei gas anestetici (quinto motivo).

La Corte, richiamati quindi i principi giurisprudenziali in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., e sottolineata la pacifica esclusione del carattere oggettivo di tale responsabilità nonché le differenze sul piano probatorio rispetto alla disciplina della causa di servizio e della malattia professionale, ritiene conseguentemente infondati il terzo e il quarto motivo del gravame. La Corte giudica del pari infondati anche gli altri motivi osservando che in base alle conclusioni del c.t.u. quanto alle radiazioni ionizzanti, pur non potendo escludersi in termini di assoluta certezza una loro modesta concausalità nell'insorgenza del linfoma non Hodgkin, l'ipotesi era da considerare estremamente improbabile dato il basso livello di esposizione, mentre quanto ai gas anestetici non vi era evidenza scientifica per classificarli fra gli agenti cancerogeni. Secondo il giudizio del consulente, fondato sui documenti e sui dati scientifici più aggiornati in materia, tenuto conto della dose di radiazioni, della radioinducibilità della patologia, del tempo di latenza oltreché di altri fattori, la probabilità che la malattia del L. derivasse dalle radiazioni cui era stato esposto doveva ritenersi inferiore all'1%. Per contro, le prove articolate dal L. erano irrilevanti e comunque inammissibili perché dirette a sollecitare un giudizio da parte dei testi, ed erano infondate le osservazioni critiche circa la completezza dell'indagine peritale e la valutazione degli elementi ritenuti rilevanti per il suo espletamento, svolte dal L. richiamando, in sostanza, le richieste istruttorie disattese dal primo giudice e gli esiti del riconoscimento della causa di servizio per la patologia dalla quale era affetto, L.V. chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso per cinque motivi.

L'intimata resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno prodotto memorie. I.L. ha formulato anche osservazioni scritte alle conclusioni del P.G..

Motivi della decisione


Il primo motivo di ricorso è testualmente rubricato come "violazione e falsa applicazione della norma di diritto che impone, all'art. 115 c.p.c., l'assolvimento dell'onere dell'allegazione dei fatti e dell'onere della prova degli stessi, il cui rispetto è condizione per la giustizia del processo ai sensi dell'art. 111 Cost.".

Il ricorrente afferma che "propedeutiche risultano essere le allegazioni in fatto e diritto di cui all'atto di appello, totalmente pretermesse dal giudice di secondo grado" e pertanto le richiama integralmente "al fine dell'esposizione dei fatti e dell'enunciazione dei motivi di impugnazione". Quindi dalla pagina 2 due alla pagina 72 riproduce il ricorso introduttivo e gli atti ad esso relativi, fra i quali la consulenza tecnica d'ufficio, la sentenza di primo grado ed il ricorso in appello. Segue il testo della sentenza della sentenza d'appello.

Secondo il ricorrente "la lettura combinata dell'atto di appello e della sentenza" proverebbe che nel giudizio d'appello sono stati pretermessi tutti i motivi specifici del gravame, sicché in tale giudizio, essendosi trascurate le doglianze avverso la sentenza del giudice di primo grado si sarebbe incorsi nelle medesime violazioni ed omissioni addebitate con l'appello a tale sentenza.

Fatte queste affermazioni di carattere generale, il ricorrente puntualizza le proprie censure sostenendo anzitutto che sarebbe stata totalmente trascurata la doglianza concernente le prove della insalubrità dell'ambiente di lavoro da cui discendeva la patologia contratta, in particolare le allegazioni circa la contestuale esposizione alle radiazioni ionizzanti e ai gas anestetici dal 1989 al 1997 e quelle inerenti la violazione alle prescrizioni in materia di sicurezza. Addebita inoltre contraddittorietà all'affermazione del c.t.u., ripresa poi dalla sentenza, secondo cui nelle sale operatorie della AUSL Forlì le misure di protezione erano inadeguate o insufficienti, in misura tuttavia non diversa dalla maggior parte delle sale operatorie italiane, osservando che la generale insalubrità degli ambienti di lavoro analoghi a quello in cui aveva operato il L. non poteva logicamente condurre ad escludere il nesso con la patologia riportata. Addebita ancora la mancata considerazione dell'incidenza della decisione della Commissione medica ospedaliera che aveva riconosciuto la causa di servizio e la malattia professionale.

Il riferito profilo di censura è palesemente infondato, perché, come emerge dalla sintesi delle ragioni della sentenza impugnata, tutti i temi che il ricorrente mette in rilievo sono stati specificamente trattati dalla Corte. La quale, in particolare, in relazione alla questione delle misure di sicurezza in materia di gas ionizzanti, ha dato implicita ma chiarissima risposta con la motivata adesione al giudizio del consulente tecnico, che - come già detto - sulla base dello stato attuale delle conoscenze ha escluso l'incidenza causale di detta esposizione.

Con un secondo profilo di censura si sostiene poi che la sentenza sarebbe nulla per aver utilizzato una "perizia nulla, intrinsecamente inattendibile contenente un c.d. falso tecnico". Al riguardo il ricorrente riproduce, inserendolo nel corpo del ricorso, un documento ( "Richiesta di autorizzazione alla produzione di memoria") depositato in appello, e contenente critiche all'operato del ctu; riproduce poi, con le stesse modalità, l'intero elaborato peritale consistente di 27 pagine, ricche di considerazioni scientifiche, con allegati e bibliografia; riproduce infine, sempre con inserimento nel ricorso, il commento alla c.t.u. del proprio consulente, e conclude il motivo affermando che "l'adesione acritica alle risultanze della c.t.u. la cui intrinseca inattendibilità era chiara anche agli occhi del non esperto " si traduce in omessa motivazione, essendo quella esposta nella sentenza meramente apparente.


Anche tale profilo è infondato.

Va ricordato anzitutto che il ricorrente che deduca il vizio di motivazione della sentenza impugnata per avere il giudice deciso la causa sulla base delle conclusioni di una consulenza tecnica, ignorando le critiche sollevate, ha l'onere di indicare nel ricorso in modo specifico gli errori e le omissioni del c.t.u., non considerate nella decisione, non essendo all'uopo sufficiente la mera riproposizione delle precedenti deduzioni (Cass. 3568/2002).

Inoltre, la parte che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito che abbia sostanzialmente basato il proprio convincimento sull'accertamento tecnico eseguito in primo grado, non può limitarsi a censure apodittiche d'erroneità e/o inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto il giudice "a quo", ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è tenuta ad indicare le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità e adeguatezza al fine di consentire l'apprezzamento causale del difetto di motivazione, richiamando le difese svolte al riguardo e disattese dal giudice, riportando per esteso le pertinenti parti della consulenza tecnica ritenute insufficientemente od erroneamente valutate e svolgendo concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione (per tutte, Cass. 6753/2003; 2707/2004; 2601/2006). A questi fini non basta fare menzione, senza alcuna indicazione, sia pure sintetica e riassuntiva delle relative osservazioni critiche, di una relazione tecnica di parte, come documento non considerato dal giudice a quo, poiché, in tal guisa, quand'anche si dia per certo il contenuto critico del documento, non è dato apprezzarne la rilevanza nel senso suesposto, atteso che la contestazione dell'esattezza delle conclusioni dell'espleta consulenza mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse delle diverse valutazioni espresse dal consulente tecnico di parte non serve, di per se, ad evidenziare alcun errore delle prime - con conseguente insufficienze della motivazione della sentenza che ad esse si sia limitata a riferirsi -, ma solo la diversità dei giudizi formulati dagli esperti. (Cass. 7078/2006).


Ciò premesso, sembra a questa Corte assai dubbio che la tecnica di formulazione del ricorso adottata dal ricorrente sia conforme ai principi appena richiamati.

Come risulta dalla sintesi fattane in precedenza, il motivo ha infatti di per sé un contenuto assai generico, mentre per la precisa individuazione delle critiche esso fa in sostanza rinvio alle osservazioni svolte in corso di causa a supporto di una richiesta di autorizzazione al deposito di memoria tecnica e soprattutto al commento del consulente di parte alla c.t.u.. In entrambe i casi quindi il ricorrente chiede in sostanza a questa Corte di estrapolare da documenti di contenuto complesso quelle che possono esser considerate critiche specifiche e puntuali alla c.t.u., e perciò alla sentenza, in contrasto con il principio che addossa un tale compito esclusivamente alla parte. Tuttavia, volendo superare siffatti rilievi, in relazione alla specificità del caso, deve osservarsi, con riferimento alla " richiesta di autorizzazione", che il contenuto della stessa (come è anche ovvio, trattandosi di un atto formato nel corso del giudizio di appello a fini diversi da quelli per i quali è stato ora prodotto) esprime valutazioni critiche del tutto generiche rispetto alle esigenze del ricorso in sede di legittimità e che comunque hanno trovato risposta nella sentenza di merito (si addebita al c.t.u., fra l'altro la " mancata attenta lettura del quesito"; la pretermissione "di fatti pacifici" quali la particolare radio esposizione del L. e l'abnorme superamento delle soglie di sicurezza in relazione ai gas anestetici; l'aver totalmente ignorato "le allegazioni e le conclusioni con l'apparato di letteratura medica di cui alla delibera collegiale di riconoscimento della causa di servizio"; l'aver sconfessato il giudizio circa gli effetti mutageni della esposizione ai gas anestetizzanti; l'aver raggiunto conclusioni "iperboliche" in tema di quantità di radiazioni ionizzanti assorbita dal sanitario).


Quanto poi al commento alla consulenza tecnica d'ufficio svolto dal consulente di parte alla consulenza tecnica d'ufficio, deve osservarsi che esso si risolve nella contestazione di varie affermazioni fatte in quest'ultima senza tuttavia che la critica venga adeguatamente motivata, con il supporto del necessario apparato scientifico.


Il consulente di parte dissente dall'affermazione del ctu, circa la indisponibilità di studi epidemiologici esaurienti per quanto attiene all'esposizione prolungata a piccole dosi di radiazioni ionizzanti, affermando che in realtà esistono dati sull'effetto cancerogeno dell'esposizione continuata relativi alle conseguenze dell'esplosione nucleare di Chernobyl, i quali confermerebbero l'aumento dell'incidenza fra gli altri tumori anche dei linfomi.


Tale affermazione non è però corredata da alcuna indicazione specifica, e non viene neanche precisato se dai dati, così genericamente indicati, emerga anche un incremento relativo allo specifico tipo di linfoma da cui è affetto il ricorrente.

Osservazioni analoghe possono essere fatte per quanto riguarda la critica secondo cui non sarebbero stati considerati dal c.t.u. gli studi sulla cancerogenicità del danno, provocato dalle radiazioni ai filamenti del DNA di singole cellule, nulla essendo indicato circa tali studi.


Il consulente di parte esamina brevemente la questione degli effetti somatici stocastici dell'esposizione a radiazioni, e conclude proponendo una conclusione diversa da quella del c.t.u., affermando, senza ulteriori chiarimenti, che si tratterebbe dell'unica conclusione desumibile dalle stesse premesse adottate dal consulente.


Il consulente di parte contesta poi le valutazioni del consulente d'ufficio circa l'incidenza dell'esposizione a gas ionizzanti, riportando sotto il titolo di "Analisi della più recente letteratura scientifica l'affermazione che "l'esposizione a basse dosi di gas anestetici aumenta i rischi al genoma" con citazione della fonte, e concludendo criticando il c.t.u. per aver citato come degni di fede solo lavori che confermerebbero le sue tesi.


Il consulente di parte contesta ancora gli studi epidemiologici citati dal consulente d'ufficio, negando che essi nella loro totalità abbiano escluso una maggiore mortalità per neoplasie nel personale di sala operatoria, ed affermando invece che ciò sarebbe stato sostenuto solo da una parte di tali studi. Egli aggiunge che "studi più recenti", non meglio identificati, avrebbero dimostrato una attività genotossica degli anestetici alogenati.


Il consulente di parte contesta infine il criterio di calcolo delle probabilità adottato dal consulente d'ufficio, affermando esser noto che si tratta di criterio in grado di determinare gravi errori di valutazione e perciò inidoneo a rivestire valore scientifico o medico legale.


A conclusione del suo commento il consulente di parte propone una serie di quesiti alternativi, i quali si concentrano in sostanza sulla eventuale suscettibilità individuale del ricorrente alle sostanze cancerogene in misura superiore alla norma.

La giurisprudenza di questa Corte è costantemente orientata nel senso che in tema di valutazione di una patologia il difetto di motivazione, denunciabile in cassazione, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura anzidetta costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale traducendosi, quindi, in un'inammissibile critica del convincimento del giudice (v. per tutte, Cass. 9988/2009).


Le riferite osservazioni del consulente di parte sono per alcuni aspetti puramente assertive e per altri aspetti evidenziano in modo esemplare una mera divergenza di opinioni su una materia altamente complessa. Di certo esse non dimostrano in alcun modo la presenza di gravi e decisivi errori scientifici nella consulenza d'ufficio. Nel loro insieme quindi non costituiscono censure idonee ad individuare, sulla base della richiamata giurisprudenza, vizi di motivazione della sentenza impugnata.

Con il secondo motivo di ricorso è denunziata violazione dell'art. 2087 c.c., con riproduzione di documentazione, concernente la questione delle radiazioni ionizzanti e, in misura prevalente quella della dispersione dei gas anestetici.
Si assume che le allegazioni inerenti l'insalubrità dell'ambiente di lavoro, non smentite dalla azienda, avevano dato contezza del superamento della soglia di sicurezza, della dispersione dei gas e della contaminazione dell'ambiente da parte delle radiazioni ionizzanti, mentre la Corte accordando rilievo esclusivo alle risultanze della CTU, parziale, inattendibile ed intrisa di cosiddetti "falsi tecnici", aveva omesso di raccordare la stessa con le allegazioni inerenti l'ambiente di lavoro. Si assume inoltre poi che sarebbe stato messo il vaglio di fatti pacifici circa la mancata osservanza delle misure di radioprotezione, risultanti anche da una lettera dell'Azienda, di pieno valore confessorio.


Con il terzo motivo di ricorso è denunziata ancora falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 2087 e 2697 c.c..


Si addebita alla sentenza impugnata di non aver considerato la mancata contestazione ed il mancato disconoscimento da parte della AUSL dei fatti specifici posti a fondamento della domanda e dei documenti attestanti l'insalubrità dell'ambiente.

Si addebita ancora alla sentenza impugnata di aver ingiustamente richiesto al lavoratore esposto a valori incontrollati di radiazioni ionizzanti ed abnormi di gas anestetici di provare il nesso causale fra patologia e ambiente, e di non aver concesso immotivatamente l'espletamento della prova testimoniale. Si sostiene infine che la sentenza avrebbe omesso di considerare fatti pacifici e comunque ammessi dalla controparte, in relazioni tecniche provenienti dalla stessa, nelle quali era evidenziata con valore confessorio l'insalubrità dell'ambiente di lavoro, con palese smentita delle risultanze della ctu.


I due motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati.


É insegnamento costante di questa Corte che ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 cod. civ. - la quale non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva - al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (per tutte, Cass. 3786/2009; 21590/2008; 16881/2006; 3650/2006).


Quindi è del tutto infondato il rilievo, contenuto nel terzo motivo, secondo cui la sentenza avrebbe errato nell'addossare al ricorrente la prova della nocività dell'ambiente.


Il ricorrente assume peraltro che la sentenza gli avrebbe fatto carico della prova del nesso fra patologia e ambiente, mentre sarebbe stato già evidente la pericolosità di questo per il superamento dei valori soglia. Ma tale affermazione attiene direttamente al merito e si risolve nel contrapporre un proprio diverso punto di vista alle valutazioni del c.t.u. e della sentenza.

Il problema della non contestazione, accennato nel motivo, è totalmente nuovo. La sentenza non ne fa cenno e il ricorrente non dice di aver fatto valere in sede di merito l'atteggiamento della controparte al fine di ritenere superflua la prova dei fatti da lui allegati. Del resto dai motivi d'appello riassunti nella sentenza non emerge nulla in tal senso.


Quanto alla documentazione pretermessa, vale notare che la lettera senza data e senza firma, indirizzata alla Direzione sanitaria dell'Azienda, e la nota 22 giugno 1998 proveniente dalla Direzione Sanitaria attengono alla individuazione dei soggetti radioesposti e alla necessità dell'utilizzazione di strumenti individuali di misurazione dell'esposizione. Esse nulla dicono pertanto sulla intensità di tale esposizione che costituisce invece uno dei punti fondamentali della controversia.


Quanto alla ulteriore documentazione riprodotta a corredo del terzo motivo, essa attiene al problema della esposizione all'azione dei gas anestetici, ossia ad una questione sulla quale la c.t.u. e la sentenza hanno puntualmente motivato nel senso, già indicato, dell'assenza di prova che tali gas abbiano effetto cancerogeno.


Con il quarto motivo di ricorso è denunziata omessa motivazione su un fatto controverso decisivo, costituito dalla perizia contestata in quanto contenente un cosiddetto "falso tecnico". A supporto di tale affermazione viene riprodotta copia di un ricorso in opposizione al decreto di liquidazione del compenso al c.t.u. contenente critiche di vario genere (anche di ordine procedimentale) all'operato del c.t.u., le quali nella parte in cui possono rilevare in questa sede non superano, al pari di quelle esaminate in precedenza, a proposito del primo motivo, la soglia del dissenso diagnostico.

Con il quinto ed ultimo motivo è denunziata falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo, costituito dalla mancata considerazione dell'effetto combinato sul corpo umano della contestuale esposizione a gas anestetici e radiazioni ionizzanti. Si assume che "stando alla letteratura medica" la doppia esposizione determinerebbe il fenomeno della "sincancerogenesi", sicché il fatto avrebbe necessitato di uno studio approfondito.

Ma in proposito va osservato che, a parte l'estrema genericità del riferimento allo stato del dibattito scientifico, si tratta anche in questo caso di pura e semplice valutazione di merito, inammissibile in questa sede, dal momento che la questione non risulta affatto trascurata ma è stata per contro implicitamente risolta con l'esclusione dal novero dei fattori oncogeni dell'esposizione ai gas anestetizzanti. Né risulta allegato con supporto di adeguata documentazione scientifica che la somma di due elementi dei quali solo uno in grado di determinare una patologia possa far si che anche l'altro elemento divenga anch'esso patogeno.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente alle spese.

P.Q.M.


Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alle spese in Euro 33,00, oltre ad Euro 2000,00 per onorari, nonché IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2010