N. 02045/2010 REG.DEC.
N. 05942/2008 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 5942 del 2008, proposto dal prof. E.L.V., rappresentato e difeso dall’avv. Donatella Resta, presso cui elettivamente domicilia in Roma, Lungotevere Marzio 3,

contro

l’Università degli studi di Padova, in persona del Rettore p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Carlo Cester e Luigi Manzi e presso il secondo elettivamente domiciliata in Roma, via F. Confalonieri 5,
e
il Ministero dell’università e della ricerca, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi 12;

per la riforma

della sentenza del TAR del Veneto, Sez. I, 14 maggio 2007, n. 1459, resa tra le parti, concernente RISARCIMENTO DANNO PER MOBBING.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio delle parti appellate;
Esaminate le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Vista la decisione interlocutoria n. 6226 del 9 ottobre 2009 ed il conseguente adempimento istruttorio;
Relatore, alla pubblica udienza del 15 gennaio 2010, il consigliere Paolo Buonvino;
Uditi per le parti gli avvocati Resta, Cester e Luigi Manzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

1) - Si riporta, di seguito, la decisione interlocutoria della Sezione n. 6226 del 9 ottobre 2009, relativa al presente gravame.
“Oggetto dell’appello è la sentenza specificata in rubrica, con la quale il TAR del Veneto ha respinto il ricorso proposto dall'attuale appellante, in servizio fino al 1° aprile 2005 presso l'Università di Padova quale professore associato confermato, per l'accertamento del comportamento vessatorio, tenuto dall'Università nei suoi confronti fin dagli anni ‘70, e per la condanna al risarcimento dei danni subiti a titolo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, distintamente a titolo di danno biologico, danno morale, danno esistenziale, danno all'immagine, danno patrimoniale, per complessivi di € 2.255.000,00.
Secondo il primo giudice, che, peraltro ha ritenuto sussistere la giurisdizione amministrativa sia in relazione alla responsabilità ex articolo 2087 del codice civile, sia in relazione alla responsabilità ex articolo 2043 del codice civile, non vi sarebbero nel caso di specie gli estremi per configurare un comportamento vessatorio imputabile al datore di lavoro ma, semmai, una situazione di forte competizione tra pari grado, che peraltro ha visto il ricorrente più volte sconfitto.
L'appellante contesta le motivazioni contenute nella sentenza, sostenendo, al contrario, che l'Amministrazione, attraverso i suoi dirigenti, avrebbe perseguito costantemente l'obiettivo di mortificarne l'immagine, la professionalità e la posizione tanto da indurlo a presentare le dimissioni dal servizio. Il primo giudice, infatti, nel ridurre le vessazioni a mere competizioni tra pari grado, ha trascurato di considerare che egli era legato agli autori della condotta dell'Amministrazione da un vincolo di dipendenza gerarchica e funzionale, posto che questi, in quanto professori ordinari, svolgevano il ruolo di direttore del Dipartimento e di direttore della Clinica ostetrica presso l'Università di Padova. Cioè del servizio cui l'appellante era assegnato in qualità di professore associato, equiparato a medico appartenente ad una posizione intermedia. Contesta, poi, la sentenza impugnata sotto il profilo del difetto di motivazione. Nelle conclusioni, l'appellante, in via istruttoria, chiede che venga disposta una consulenza tecnica d'ufficio di carattere medico legale, al fine di accertare eziologia, natura e gravità delle patologie lamentate nonché l'acquisizione di documentazione in possesso presso l'Università di Padova.
Conclude quindi chiedendo, in riforma della sentenza appellata, l'accoglimento delle domande proposte con il ricorso di primo grado.
è costituita in giudizio l’Università degli studi di Padova, che controbatte le tesi avversarie, eccependo, in via preliminare, la propria carenza di legittimazione, in relazione alla mancata attribuzione della direzione delle scuole di ostetricia di Venezia e di Udine ed al mancato svolgimento dell'attività assistenziale, per la quale è competente il Servizio sanitario nazionale. Sempre in via preliminare, eccepisce la prescrizione delle pretese anteriori al 17 giugno 1986. Contesta, poi, nel merito le affermazioni dell’appellante, che ritiene sfornite della benché minima prova per quel che attiene sia al comportamento antigiuridico che al danno subito, con riferimento alle singole voci indicate dall’appellante. Conclude, infine, per il rigetto dell'appello.
è altresì costituito in appello il Ministero dell'istruzione, dell’università e della ricerca, che chiede venga dichiarata la sua estromissione del giudizio trattandosi gli atti e comportamenti riferibili unicamente all'Ateneo…………………
Il giudice di primo grado, pur ammettendo che nel caso di specie "il servizio e il cursus honorum del ricorrente, all’interno della divisione medica in cui operava, può dirsi contrassegnato da forte ostilità con le due figure di vertice con le quali egli ha avuto a che fare nel corso del suo servizio" ha però aggiunto che "anche se può sembrare in qualche modo forzato, si può dire, invero, che i veri avversari del ricorrente sono i prof. O. e A., che, stando alla narrazione dei fatti , lo hanno osteggiato in tutti i modi. Ma essi, più che come esponenti della P.A.- datore di lavoro, vanno considerati, insieme con gli altri medici - docenti preferiti al ricorrente, all’incirca quali concorrenti pressoché inter pares, sul terreno della competizione professionale (da cui il ricorrente è uscito a più riprese sconfitto)".
Ora, l'appello contesta tale impostazione osservando che i prof. O. e A., in quanto professori ordinari hanno svolto in successione un ruolo, quali direttori del Dipartimento e della clinica ostetrica presso l'Università di Padova, gerarchicamente sovraordinato a quello del ricorrente il quale rivestiva la qualifica di professore associato. Una posizione che ha loro consentito di esercitare una serie di pressioni psicologiche e vessazioni, che, in quanto tollerate dall'Amministrazione universitaria, sono ad essa direttamente riconducibili sotto il profilo risarcitorio. Sottolinea inoltre come il nesso di causalità tra le persecuzioni subite e la patologia da cui è affetto il ricorrente "cardiopatia ischemico ipertensiva e dilatativa con fibrillazione istriale" è stato già accertato dal comitato per la verifica delle cause di servizio nell'adunanza del 5 dicembre 2005 come derivante dalle particolari condizioni in cui egli è stato costretto a lavorare.
2. Prima di procedere all'esame delle questioni di diritto sottese alla presente controversia, il Collegio ritiene di dover espletare attività istruttoria al fine di collocare secondo una precisa visione prospettica alcune situazioni di fatto rilevanti ai fini del decidere:
La prima concerne la ricostruzione della posizione di dipendenza gerarchica del ricorrente dai proff. O. e A., nei periodi in cui si sono svolti gli episodi da lui riferiti e puntualmente riportati nell'esposizione in fatto contenuta nella sentenza impugnata, nonché riepilogati dall'appellante nella memoria presentata per l'odierna udienza di discussione datata 25 maggio 2009.
La seconda riguarda la conoscenza da parte degli organi accademici della situazione conflittuale esistente all’interno del Dipartimento e della Clinica ostetrica e le eventuali misure adottate per porvi rimedio.
La terza concerne il procedimento per la concessione dell'equo indennizzo, non solo in relazione al nesso di causalità ma anche in relazione agli sviluppi che esso ha avuto in termini di ristoro del pregiudizio sanitario subito dall’interessato.
3. Ai fini del decidere, pertanto, appare opportuno acquisire agli atti del presente giudizio:
- una relazione documentata dalla quale risulti la situazione gerarchica interna alla Clinica Ostetrica per i periodi nei quali erano direttori professori O. e  [A.] i due direttori avevano assegnato al professor L.V., con l'ulteriore specificazione se tali compiti fossero assegnati in autonomia oppure sotto il coordinamento di altro sanitario. In quest'ultimo caso, la relazione dovrà contenere il nome e la qualifica del sanitario incaricato della funzione di coordinamento e direzione;
- una relazione documentata sulle misure adottate per porre fine alla conflittualità denunciata nell’atto introduttivo del giudizio ed ammessa pacificamente dall’Amministrazione universitaria negli scritti difensivi acquisiti agli atti del giudizio;
- tutti gli atti relativi al procedimento per la concessione dell'equo indennizzo”.
Intervenuto l’adempimento istruttorio da parte dell’Università appellata (atti depositati il 19 dicembre 2009), la causa torna all’esame del Collegio.

DIRITTO

1) – Prima di prendere in esame le eccezioni di inammissibilità dell’originario ricorso per difetto di legittimazione passiva dell’Università appellata (nonché la richiesta di estromissione dal giudizio avanzata dal MURST), ritiene il Collegio di dover riassumere gli specifici elementi fattuali succedutisi nel tempo ed elencati dall’interessato che connoterebbero di antigiuridicità il comportamento omissivo al quale l’appellante riconduce l’accusa di mobbing nei confronti dell’Ateneo patavino.
Le vicende in questione, che si desumono dagli atti di causa, si articolano come segue:
- il prof. L. (appellante) è stato assistente incaricato presso la Clinica di ostetricia e ginecologia dell’Università di Padova dal 1° aprile 1971 al 30 novembre 1972; da tale data fino al 30 marzo 1977 è stato ivi assistente di ruolo; da tale ultima data fino al 29 dicembre 1985 è stato assistente di ruolo presso la cattedra di ostetricia e ginecologia, ma, in tale posizione, non ha potuto svolgere attività assistenziale (e percepire la relativa indennità) in quanto si trattava di struttura priva di posti letto;
- lo stesso appellante, l’8 aprile 1978, ha inviato una nota al rettore dell’Università patavina in cui ricordava l’indissolubilità – giusta c.m. del 5 giugno 1978 – delle attività didattica, scientifica e assistenziale “dell’unica funzione del docente medico universitario” e segnalava la “gravissima anomalia esistente nell’Istituto di Patologia ostetrica”, di cui faceva parte, in cui non poteva praticarsi alcuna attività assistenziale e chiedeva un intervento dell’Ateneo per sanare tale illegittima situazione, pregiudizievole dei suoi interessi economici e di carriera;
- la richiesta non aveva alcun seguito da parte dell’Università;
- successivamente (1982) il prof. L. è stato querelato dal prof. O. in quanto il primo avrebbe riferito ai dott. M. e C., oltreché al dott. F., che lo stesso prof. O. gli avrebbe chiesto 40/60 milioni – mediante finanziamento a una sua rivista – per il superamento degli esami di idoneità a professore associato; il prof. O. avrebbe addotto anche due lettere dei dott. C. e M. a conferma; tale querela è stata ritirata nel 1985 senza spiegazioni e sebbene si fosse costituito parte civile nel relativo giudizio per conseguire il risarcimento dei danni asseritamente patiti;
- è in atti una nota del prof. D.L. del 12 aprile 1984 che lamenta il fatto che nelle recenti sedute di Facoltà la commissione preposta a valutare le domande di concorso per il conferimento della direzione delle Scuole ostetriche di Venezia e Udine avesse escluso dal concorso stesso il prof. L., pur dopo la prestazione, da parte sua, di 12 anni di assistentato di ruolo;
- a seguito di tale vicenda il prof. O. è stato querelato dal prof. L., nel 1984, per abuso d’ufficio per avergli preferito i dott. C. e R. nel conferimento degli incarichi di direzione delle Scuole di ostetricia ora dette;
- il relativo giudizio si è estinto per amnistia (ma il Pretore ha ritenuto che, allo stato degli atti, non poteva essere formulato un giudizio assolutorio nei confronti dello stesso prof. O.);
- il Consiglio di Stato, con sentenza parziale n. 940 del 1986 e definitiva del 10 agosto 1988, ha dichiarato illegittimi i provvedimenti dell’Università che escludevano il prof. L. dalla procedura di conferimento degli incarichi di direzione 1983/1984 delle predette scuole autonome di ostetricia e che gli negavano la qualifica di studioso (qualifica ritenuta spettante essendo il medesimo assistente ordinario; il diniego di tale qualità poggiava, del resto, essenzialmente su carenza di attività assistenziale);
- nel 1985 l’Università cambiava, peraltro, orientamento e proponeva il prof. L. per l’incarico a Venezia per il 1984/1985 (incarico che non aveva seguito perché il Ministero negava il nulla osta e la questione si è risolta solo con sentenza TAR del 1994 che ha anche annullato il conferimento degli incarichi in questione, sempre a Venezia e Udine, ai controinteresssati);
- con la stessa decisione del 10 agosto 1988 il Consiglio di Stato negava, però, che potesse riconoscersi il diritto dell’interessato all’esercizio della mansioni nell’ambito dell’assistenza, in quanto, attraverso procedura di silenzio rifiuto, avrebbe dovuto attivarsi per conseguire sul piano organizzativo, da parte dell’Università, l’attivazione dei necessari servizi (in particolare, attivazione della cattedra di patologia ostetrica e ginecologica o inserzione nei turni assistenziali di Clinica ostetrica e ginecologica);
- con altra sentenza, n. 157/1994 (sopra cennata), resa su ricorso del 1985, veniva annullata – questa volta, dal TAR - la delibera dell’Università che, tenuto conto del mancato nulla osta ministeriale sulla nomina del prof. L. alla direzione delle predette scuole per il 1984/1985, aveva finito per attribuire nuovamente gli incarichi a due controinteressati; in occasione della proposizione di tale ricorso il Preside della Facoltà, con nota del 16 maggio 1985 indirizzata al prof. L., si dissociava dall’iniziativa da quest’ultimo assunta con la proposizione di ricorso giurisdizionale, ricordando la propria opera di “mediazione” e concludendo con l’affermazione: “però si renda conto di aver sbattuto la porta in faccia ad un amico”;
- l’Università non ha appellato tale sentenza e vi ha dato esecuzione, scusandosi, in persona del Preside dalla Facoltà (giusta nota del 23 giugno 1994), con il prof. L. per le mancanze che avevano motivato l’azione legale e precedendo, quindi, anche se non con immediatezza, alla ricostruzione della posizione dell’interessato (nota del 22 maggio 1997: attribuzione, ora per allora, ai soli fini giuridici, dalla Direzione della Scuola Autonoma di Ostetricia di Venezia per l’a.a. 1984/1985);
- è in atti una nota rettorale del 17 marzo 1992, diretta al prof. L., in cui si segnala che, “con riferimento al procedimento disciplinare iniziato con la contestazione degli addebiti di cui alla rettorale..…..del 21 dicembre 1991, comunico che, viste le sue controdeduzioni……ho disposto l’archiviazione degli atti” (al riguardo non si rinviene altra documentazione nel fascicolo di causa);
- con sentenza del G.I. del Tribunale penale di Padova il prof. L. è stato assolto – perché il fatto non sussiste - dall’imputazione, relativa a fatti del 1988, di procurato aborto (essendone stato riconosciuto il carattere terapeutico) senza averne preventivamente dato comunicazione al primario, prof. O. (che aveva segnalato la vicenda all’Università e alla Procura della repubblica, esprimendo molteplici dubbi in merito alla condotta tenuta nell’occasione dal prof. L.); con la stessa sentenza i dott. F. e V. sono stati assolti da imputazioni per diffamazione entrambi e calunnia (il primo) rivolte contro il prof. L.;
- a seguito di alcuni disservizi assistenziali relativi al Servizio di Patologia Ostetrica segnalati dai proff. G., D.L. e O., è stato demandato (v. nota del 7 febbraio 1991 acquista in sede istruttoria) ad una Commissione composta da tre colleghi estranei all’Istituto l’accertamento della situazione esistente onde proporre al Magnifico Rettore e al Presidente dalla ULSS 21 l’adozione delle opportune iniziative; e, al contempo, con provvedimento della detta ULSS dell’11 febbraio 1991 è stata sospesa l’attività assistenziale ricoveri presso il servizio autonomo di patologia ostetrico-ginecologica;
- a conclusione dei lavori della Commissione (secondo cui una soluzione, almeno parziale, del problema poteva essere quella di un ricambio, almeno in parte, del personale e un adeguamento dell’attività assistenziale oltre che un accordo con ULSS e Regione), l’amministratore straordinario della ULSS, ritenendo che fosse possibile il verificarsi di una situazione di fatto di grave disagio, sotto l’aspetto assistenziale, per le pazienti accolte nel predetto servizio, data la conduzione critica del reparto, deliberava la sospensione dell’attività assistenziale da parte di detto servizio con il trasferimento dei 20 posti letto ad esso afferenti alla clinica ostetrica e ginecologia diretta dal prof. O.;
- a seguito di nota di segnalazione del 26 febbraio 1993 di alcuni ricercatori dell’Istituto di Ginecologia e Ostetricia, l’Università ha provveduto alla nomina di un’apposita Commissione (“Burdese”) che ha concluso i propri lavori (nel corso dai quali ha sentito tutti i professori e ricercatori interessati, coinvolti nelle annose vicende) raccomandando la riattivazione del Servizio di Patologia Ostetrica in questione, ma non sotto la conduzione primariale di professori di 1a e 2a fascia “già inseriti nella gestione della stessa e coinvolti nelle diatribe che ne sono derivate per responsabilità variamente attribuibili”;
- nella parte conclusiva della relazione “Burdese” era rilevato “che la gestione alquanto personalistica della Clinica da parte del prof. O., specie in relazione alla presenza in essa, a vario titolo, di persone a lui legate da vincoli familiari, quand’anche formalmente ineccepibile, appare pregiudizievole per l’immagine della Clinica stessa e in contrasto con le tradizioni e lo stile dell’università”;
- detta relazione (e atti integrativi) è stata trasmessa anche alla Procura della Repubblica in considerazione delle contrapposte accuse che emergevano dalle deposizioni rese (facenti riferimento a “responsabilità penali hinc et inde”) dai sanitari interessati; gli stessi atti sono stati anche indirizzati al Ministero competente per le opportune iniziative;
- con nota del 17 luglio 1995 è stata mossa dall’Università, al prof. L., contestazione degli addebiti per inottemperanza ad ordini di servizio impartiti dal primario, prof. O., che aveva segnalato i fatti, in ordine allo svolgimento dell’attività assistenziale;
- l’Università, nel corso del relativo procedimento sanzionatorio, ha sottoposto la questione al CUN nel caso fosse ravvisabile la possibilità di comminare una sanzione superiore alla censura; il CUN si è espresso negativamente al riguardo, lasciando aperta la strada solo alla comminazione di sanzione non superiore alla censura e l’Università (nota del 3 aprile 1997) non ha più inteso dare corso al procedimento in parola neppure ai fini della comminazione di tali minori sanzioni;
- a seguito di segnalazione alla locale A.O. di Padova (con nota del prof. O. n. 554/95) è stata istituita, da detta Azienda, una Commissione tecnica d’inchiesta sulla Clinica ostetrico-ginecologica, nominata con delibera n. 1228 del 17 ottobre 1995, per prendere in esame la documentazione relativa “alla piccola M.M. al fine di rispondere al quesito, posto dal Direttore Sanitario dell’A.O. circa l’operato del professor L. relativamente al caso specifico; all’esito dell’indagine è stato ritenuto che la decisione di intervenire del prof. L. non fosse censurabile e trovasse validi motivi di giustificazione e che la tecnica d’intervento era stata corretta; che, inoltre, non trovava riscontro quanto dedotto dal prof. O. in merito ad uno specifico errore tecnico che il primario aveva imputato al prof. L.;
- sono anche in atti alcune missive (note del 28 novembre e 2 dicembre 1994, 21 settembre 1995, dichiarazione del 24 gennaio 1997) di alcuni ricercatori dirette al M.R. dell’Università che segnalavano, tra l’altro, il proprio disagio anche in considerazione delle vicissitudini e dello stato di emarginazione che era stato costretto ad affrontare il prof. L. per i suoi continui contrasti con il prof. O.;
- con nota del 16 giugno 1995 l’Università (in relazione a nota di chiarimenti indirizzatale dal prof. O.) faceva presente che “al primario e soltanto a lui competono le responsabilità collegate all’organizzazione della struttura assistenziale; l’Amministrazione universitaria, pertanto, non è competente ad emanare provvedimenti in materia assistenziale e non può assumere alcuna responsabilità in merito; resta il fatto, comunque, che il prof. L., afferendo a codesta struttura, deve essere chiamato a svolgere attività assistenziale”;
- nei confronti del prof. O. l’Università ha contestato addebiti disciplinari con nota del 17 luglio 1995 (veniva precisato, tra l’altro, che l’Istituto cui era proposto ora stato, di fatto, gerarchizzato, ciò non rispettando la normativa in vigore; che il prof. L. “giustifica la sua non partecipazione all’attività assistenziale proprio con il fatto di non intendere sottostare gerarchicamente in via ordinaria ad altro aiuto…”; che “tali situazioni ….. non fanno che creare disagio e sconcerto nella Clinica ingenerando anche tra le stesse pazienti un perenne stato di turbativa, intollerabile per l’immagine di tanti medici e per il buon nome dell’Università stessa”);
- peraltro, la Corte di disciplina istituita presso il CUN cui l’Università ha sottoposto la vicenda, una volta ricevute le giustificazioni dell’incolpato, ha deliberato (nota del 1° aprile 1996 relativa all’adunanza dell’8 marzo 1996) che non ricorrevano le condizioni per infliggere al prof. O. sanzioni di competenza di detta Corte, non ravvisandosi, nei comportamenti del medesimo, elementi tali da generare intenzionalmente situazioni di disagio e di conflitto all’interno della struttura apparendo le direttive impartite finalizzate a soddisfare esigenze organizzative;
- contro il prof. L. e taluni anestesisti è stato iniziato un processo penale per la morte, nel 1998, di una paziente; tale procedimento si è concluso con decreto d’archiviazione del 17 maggio 2001; quanto al L., perché non sono state riscontrate sue responsabilità nell’operare; quanto agli anestesisti, perché difettavano prove certe di colpevolezza viste le non concordanti conclusione della CTU e della perizia ordinata dal P.M. ai suoi consulenti; di tanto l’Università ha preso atto (v. nota del 26 luglio 2001 da questa inviata allo stesso prof. L.);
- nel mese di maggio del 2000 il prof. L. denunciava, alla Polizia di Stato, il fatto che, nel mese precedente, aveva trovato scritte e disegni offensivi e diffamatori sul proprio camice di lavoro lasciato nei locali della clinica (non risulta quale seguito la vicenda abbia avuto);
- con nota del 17 novembre 2000, indirizzata dallo stesso prof. L. al M.R. e al Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo patavino, venivano segnalati “gli attacchi arroganti e incivili del prof. A. nei miei confronti….lesivi dell’Istituzione….”; nonché la decisione del medesimo prof. A., “comunicatami pochi giorni orsono, con tono offensivo e minaccioso e con accuse false e strumentali, di rimuovermi da responsabile dell’ostetricia, funzione che ho ricoperto per 15 anni….”;
- con telegramma al Preside di Facoltà del 29 dicembre 2000, sempre in relazione al suo allontanamento dal reparto di ostetricia, il prof. L. chiedeva “immediata convocazione per esaminare provvedimento anche in considerazione mia grave situazione di salute causa di servizio”;
- sono in atti anche note e telegrammi diretti dal prof. L. al Rettore dell’Università e al Preside della Facoltà di appartenenza (del 19 dicembre 2000, 30 aprile 2001, 15 maggio 2001, 18 marzo 2002, 2 maggio 2002, 14 novembre 2002, 17 giugno 2003, 28 novembre 2003, 10 gennaio 2004, 5 luglio 2004, 1° dicembre 2004) in cui le autorità accademiche sono state invitate ad assumere iniziative volte a tutelarne la figura professionale in relazione all’allontanamento dal reparto di ostetricia e ai difficili rapporti con il prof. A. che tale allontanamento aveva disposto;
- in sede istruttoria l’Università ha anche versato in atti una nota del prof. A. del 29 maggio 2001, diretta al Preside di Facoltà in risposta ad una richiesta del 9 maggio 2001 di invio di una relazione sull’attività didattica, scientifica e assistenziale del prof. L., in cui si segnalava che l’attività svolta dal medesimo nel periodo in cui gli era stata assegnata la responsabilità e il coordinamento del reparto Ginecologico dal 1° novembre 1997 al 31 gennaio 1998, nonché del Reparto Ostetrico e sala parto da tale data al 3 dicembre 2000, l’attività assistenziale svolta era stata soddisfacente e si era svolta in un clima di collaborazione fattiva; e che, in seguito, gli era stato assegnato l’incarico di responsabile del Reparto di Ginecologia, ma che, da allora, la presenza era stata discontinua e saltuaria, tanto che l’interessato non aveva effettuato taluni degli interventi chirurgici assegnatigli; che ciò sarebbe dipeso da ragioni di salute, ma che lo stesso era stato, però, sempre presente, avendo anche regolarmente svolto le guardie di pronta reperibilità assegnategli;
- il prof. L. si è, poi, dimesso, prima dell’ultimazione del biennio di cui all’art. 16 del d.lgs. n. 503/1992, in quanto, a seguito di un alterco telefonico che avrebbe avuto con il prof. A, che gli avrebbe causato una crisi pressoria, ha ritenuto di non poter continuare oltre nell’attività di servizio, anche in considerazione del fatto che la gravità del suo stato di salute era - dallo stesso prof. A. e da altro personale della Clinica di appartenenza - posto in dubbio.
2) - Fatta questa premessa in fatto, va, ora verificato se la condotta tenuta dalle Amministrazioni alle quali era riferibile, nel complesso, il rapporto di servizio del prof. L., nonché quella dei professori universitari ad esse facenti capo (e, in particolare, dai titolari della clinica Ostetrico-ginecologica presso la quale gli stessi sono stati, in successione, preposti all’attività assistenziale e accanto ai quali, negli anni, ha operato il prof. L.), fosse da ritenere produttiva di gravi pregiudizi nella sfera dell’interessato, sia sul piano professionale che su quello morale e della salute.
Al riguardo, giova premettere che il c.d. “danno da mobbing” consiste in una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, connotata dal carattere della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore ed idonea a concretare una lesione dell'integrità psicofisica e della personalità del prestatore, altresì (sotto il diverso profilo dell'accertamento del danno) deve essere condiviso l'orientamento giurisprudenziale secondo cui tale accertamento comporti una valutazione complessiva degli episodi lamentati dal lavoratore, i quali devono essere valutati in modo unitario, tenuto conto da un lato dell'idoneità offensiva della condotta datoriale (come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione) e, dall'altro, della connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta (in tal senso: Cass. Civ., Sez. Lav., sent. 6 marzo 2006, n. 4774); e che il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore; caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente) e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico; fondamento dell'illegittimità è l'obbligo datoriale di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore, ai sensi dell'art. 2087 c.c. Può anche utilmente farsi riferimento alla ricostruzione dell’istituto del mobbing, secondo il quale esso non richiede la prova del dolo, essendo sufficiente che il comportamento dannoso non trovi una ragionevole spiegazione. Nel caso in cui il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente, la responsabilità del datore può discendere, attraverso l'art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (cfr. Cassazione civile, Sez. lavoro, 09 settembre 2008, n. 22858; cfr. anche Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.); fondamento dell'illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l'obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore; da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d'un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente; anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l'art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l'intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento - Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 - ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033). Per la natura (anche legittima) dei singoli episodi e per la protrazione del comportamento nel tempo nonché per l'unitarietà dell'intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore); d'altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d'una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà.
Giova anche ricordare (cfr. Cons. St., Sezione VI, n. 728/29009) che la giurisdizione sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro; dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine professionale e alla salute del dipendente.
E che (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 ottobre 2008, n. 4738), secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, nell'ipotesi dell'accertamento di fatti di mobbing che si assumono aver cagionato al prestatore di lavoro rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale (in specie, laddove la domanda risarcitoria risulti espressamente fondata sulla lamentata inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti il rapporto di impiego), potendo ipotizzarsi una configurazione aquiliana dell'actio risarcitoria solo laddove il lavoratore abbia chiesto in modo generico il risarcimento del danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale (sul punto, cfr. - ex plurimis - Cass. Sez. Un. 4 novembre 1996 n. 9522, 28 luglio 1998 n. 7394, 14 dicembre 1999 n. 900, 12 marzo 2001 n. 99, 11 luglio 2001 n. 9385, 29 gennaio 2002 n. 1147, 25 luglio 2002 n. 10956, 5 agosto 2002 n. 11756, 23 gennaio 2004 n. 1248). Quando l’azione risarcitoria rinvenga, dunque, il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, degli obblighi su di esso incombenti ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., ne consegue il carattere contrattuale della proposta azione risarcitoria. Una volta ricondotta, poi, la controversia risarcitoria nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro - in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 cod. civ. - il solo onere di provare l'assenza di una colpa a se riferibile (in tal senso, ex plurimis: Cass. Civ., Sez. lavoro, sent. 25 maggio 2006, n. 12445; id., Sezione lavoro, sent. 8 maggio 2007, n. 10441). Laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva (i.e., della complessiva condotta mobbizzante asseritamente realizzata in proprio danno sul luogo di lavoro), difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso.
3) - Ciò premesso in linea generale, può rilevarsi, con specifico riguardo al presente caso di specie, che il ricorso proposto dall’originario ricorrente e odierno appellante appare instaurato nel solco della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., il medesimo avendo lamentato, da un lato, i comportamenti lesivi della sua sfera giuridica tenuti nel tempo, in particolare, da due professori universitari (che in vario modo, nel tempo, avrebbero creato gravi ostacoli al libero espletamento della propria attività lavorativa e al pieno e pacifico estrinsecarsi delle proprie capacità professionali, determinando, in capo al medesimo, anche il subentro di gravi infermità) e, dall’altro, la condotta parimenti colpevole dell’Ateneo di appartenenza cha avrebbe, in passato, concorso, in varie occasioni, a privare l’interessato di adeguati sbocchi professionali ed avrebbe, inoltre, tenuto un atteggiamento negligente ed omissivo allorquando, a dire del deducente, avrebbe dovuto e potuto intervenire, nel tempo – anche a seguito delle ripetute segnalazioni da parte dell’interessato – per contrastare l’azione dei predetti docenti, restituendo normalità al rapporto di servizio.
4) - In tale ottica, ritiene il Collegio che ricorrano, nella specie, nei limiti che si andrà a precisare, i presupposti per riconoscere la lamentata condotta mobbizzante, nonché il nesso eziologico che lega questa all’evento dannoso, ovvero, al pregiudizio per la sfera giuridica dell’interessato, sul quale pure ci si soffermerà in seguito.
In particolare, sotto il primo dei detti profili, assumono carattere rilevante (anche quali indici della conflittualità tra i predetti professori universitari e il prof. L.):
- il fatto che il prof. L. pur nella veste di assistente di ruolo, dal 1977 fino al 29 dicembre 1985 presso la cattedra di ostetricia e ginecologia, non abbia potuto, in tale posizione, svolgere attività assistenziale (e percepire la relativa indennità) in quanto si trattava di struttura priva di posti letto; e ciò sebbene, con nota dell’8 aprile 1978, il medesimo abbia ricordato, al rettore dell’Università patavina, l’indissolubilità – giusta c.m. del 5 giugno 1978 – delle attività didattica, scientifica e assistenziale “dell’unica funzione del docente medico universitario” e segnalato la “gravissima anomalia esistente nell’Istituto di Patologia ostetrica”, di cui faceva parte, in cui non poteva praticarsi alcuna attività assistenziale e chiedeva un intervento dell’Ateneo per sanare tale illegittima situazione, pregiudizievole dei suoi interessi economici e di carriera (richiesta priva di alcun seguito da parte dell’Università);
- il fatto che, nel 1982, il prof. L. sia stato querelato dal prof. O., costituitosi anche parte civile, e la relativa querela sia stata, nel 1985, ritirata incondizionatamente;
- il fatto (che emerge anche dalla nota del prof. D.L. del 12 aprile 1984) che nelle sedute del Consiglio di Facoltà la commissione preposta a valutare le domande di concorso per il conferimento della direzione delle Scuole ostetriche di Venezia e Udine avesse escluso dal concorso stesso il prof. L., pur dopo la prestazione, da parte sua, di 12 anni di assistentato di ruolo (a seguito di tale vicenda - il prof. O. è stato querelato dal prof. L., nel 1984, per abuso d’ufficio per avergli preferito i dott. C. e R. nel conferimento degli incarichi di direzione delle Scuole di ostetricia ora dette e il relativo giudizio si è estinto per amnistia, ma senza che il Pretore abbia formulato un giudizio assolutorio nei confronti dello stesso prof. O.); e che, inoltre, il Consiglio di Stato, con le citate decisioni (1986/1988) abbia dichiarato illegittimi i provvedimenti dell’Università che escludevano il prof. L. dalla procedura di conferimento degli incarichi di direzione 1983/1984 delle predette scuole autonome di ostetricia e che gli negavano la qualifica di studioso per non aver prestato, nei precedenti anni, attività assistenziale; in questo modo, peraltro, ne è conseguito che l’interessato non abbia potuto espletare le relative, rilevanti attività professionali, proprio perché l’Università lo aveva posto in tale condizione riduttiva (perché destinato a struttura priva di posti letto e, quindi, di possibilità di svolgimento di detta attività), sebbene, come detto, il medesimo l’avesse avvertita dell’illegittimità di tale scelta (addebitabile, questa al primario della clinica, ma di cui l’Ateneo, pur avvisato, non avendo ripristinato la situazione di legalità, ha finito per farsi carico); e, in ogni caso, questo Consiglio, con le citate decisioni, ha ritenuto, comunque, che al medesimo spettasse comunque la qualifica in questione;
- la circostanza che, nel 1985, il plesso amministrativo Università/MURST abbia finito per denegare il nulla osta per il conferimento dell’incarico in questione con riguardo all’a.a. 1984/1985 (in questo caso, l’Ateneo era favorevole, ma il Ministero ha denegato il nulla osta) laddove, con sentenza TAR del 1994, è stato, ancora una volta, annullato, su ricorso del prof. L., con sentenza poi passata in giudicato, il conferimento ai controinteressati dei detti incarichi ancora sulle sedi di Venezia e Udine;
- il fatto che il preside della Facoltà, con la citata nota del 16 maggio 1985, abbia, in effetti, stigmatizzato l’iniziativa giurisdizionale assunta innanzi al giudice amministrativo dal prof. L. con riguardo al conferimento dei detti incarichi;
- il fatto che l’Università, pur non avendo inteso appellare la citata sentenza del 1994, abbia lasciato ancora correre circa tre anni prima di operare, al riguardo, l’attribuzione, ora per allora, ai soli fini giuridici, dalla Direzione della Scuola Autonoma di Ostetricia di Venezia per l’a.a. 1984/1985;
- il fatto che nel 1991 sia stato avviato un procedimento disciplinare nei confronti dell’interessato, poi archiviato a seguito delle sue controdeduzioni;
- il fatto che, su iniziativa del prof. O., l’odierno appellante sia stato chiamato a difendersi in sede penale dall’accusa di procurato aborto, nell’esercizio dell’attività clinica-assistenziale, per fatti del 1988 (l’assoluzione, al riguardo, è intervenuta, come si è visto, perché il fatto non sussiste, essendo stata ritenuta corretta, sul piano medico-professionale, la condotta dell’inquisito, in relazione alla quale il predetto prof. O. aveva espresso i propri dubbi);
- il fatto che, nel 1991 sia stata sospesa (a seguito di segnalazioni, tra l’altro, dello stesso prof. O.) l’attività assistenziale ricoveri presso il servizio autonomo di patologia ostetrico-ginecologica (presso il quale era assegnato il prof. L.), con il trasferimento dei 20 posti letto ad esso afferenti alla clinica ostetrica e ginecologia diretta dal prof. O., ma senza che sia stata assegnata, da quest’ultimo, all’interessato, alcuna attività assistenziale;
- il fatto che la citata Commissione Burdese abbia riscontrato una “gestione alquanto personalistica della Clinica da parte del prof. O., specie in relazione alla presenza in essa, a vario titolo, di persone a lui legate da vincoli familiari” (che, “quand’anche formalmente ineccepibile, appare pregiudizievole per l’immagine della Clinica stessa e in contrasto con le tradizioni e lo stile dell’Università”), senza che, all’esito, siano state intraprese iniziative; e che la stessa Commissione abbia anche raccomandato la riattivazione del Servizio di Patologia Ostetrica, ma non sotto la conduzione primariale di professori di 1a e 2a fascia “già inseriti nella gestione della stessa e coinvolti nelle diatribe che ne sono derivate per responsabilità variamente attribuibili”, senza che, per quattro anni ancora, siano seguiti interventi atti a risolvere le riscontrate situazioni conflittuali (nelle quali, in prima persona, era coinvolto anche il prof. L.), appaiono, invero, circostanze indici di mancanza di consequenzialità sul piano della buona amministrazione e della ragionevolezza, in quanto, una volta affrontate formalmente le problematiche relative alla conduzione della Clinica di cui si tratta, sono rimasti irrisolti i nodi che ne condizionavano il buon operare nell’interesse della collettività; in tal modo lasciando, sostanzialmente, ferma quella gestione personalistica che aveva occasionato situazioni di conflitto – per ciò che qui interessa – anche con il prof. L.;
- il fatto che con nota del 17 luglio 1995 sia stata mossa dall’Università, al prof. L., contestazione degli addebiti per inottemperanza ad ordini di servizio impartiti dal primario, prof. O. (che, rimasto fermo nella propria posizione pur a seguito delle vicende anzidette, aveva segnalato i fatti, in ordine allo svolgimento dell’attività assistenziale); vero che l’adito CUN non ha ritenuto, nel caso in esame, ravvisabile la possibilità di irrogare, al prof. L., una sanzione superiore alla censura e che l’Università (nota del 3 aprile 1997) non ha dato corso al procedimento in parola neppure ai fini della irrogazione di tali minori sanzioni; ma anche quest’episodio si colloca, manifestamente, nella scia di quei contrasti interni che hanno portato il prof. O., per la sua posizione di primazia, a cercare di colpire, anche sul piano disciplinare, l’odierno appellante; il fatto che non siano seguite sanzioni non fa venire meno, comunque, il pregiudizio morale e professionale che inevitabilmente si ricollega all’instaurazione di un procedimento sanzionatorio;
- la circostanza che sia stata istituita - stavolta, dall’A.O. di Padova, ma sempre a seguito di segnalazione del prof. O., che aveva accreditato uno specifico errore tecnico commesso dal prof. L. - una nuova Commissione d’inchiesta (con la citata delibera n. 1228 del 17 ottobre 1995) che, ancora una volta, non ha riconosciuto responsabilità operative dell’odierno appellante, appare ancora indice di iniziative del primario volte a danneggiare o, quanto meno, a sminuire, sul piano professionale, la figura dello stesso prof. L. in seno all’Istituto;
- il fatto, evincibile da alcune missive del periodo 1994/1997 di alcuni ricercatori dirette al M.R. dell’Università in cui si segnalava, tra l’altro, la situazione di disagio legata, tra l’altro, allo stato di sostanziale emarginazione in cui era costretto il prof. L. per i suoi continui contrasti con il prof. O.;
- il fatto che con la citata nota del 16 giugno 1995 l’Università abbia segnalato al prof. O. che, pur non essendo competente ad emanare provvedimenti in materia assistenziale e non potendo assumere alcuna responsabilità in merito, non di meno egli avrebbe dovuto assicurare al prof. L., lo svolgimento di attività assistenziale, appare, ancora una volta, indice della conoscenza, da parte dell’Ateneo patavino, di una situazione conflittuale, produttiva di pregiudizio professionale per il prof. L..
Quelle sin qui riportate appaiono circostanze mobbizzanti significative, intervenute nel periodo in cui il prof. O. era preposto alle strutture sanitarie anzidette; dal 1998 gli è subentrato il prof. A., con il quale, sin quasi al termine dell’anno 2000, i rapporti del prof. L. sono stati normali (tale periodo è caratterizzato dal fatto - al quale l’Università è, naturalmente, estranea, l’azione penale essendo stata esercitata d’ufficio - che il prof. L. e taluni anestesisti sono stati processati a seguiti della morte, nel 1998, di una paziente; tale procedimento penale si è concluso con decreto d’archiviazione del 17 maggio 2001, in particolare, quanto al prof. L., perché non sono state riscontrate sue responsabilità nell’operare; di tanto l’Università, come dianzi precisato, ha preso atto; nel mese di maggio del 2000, peraltro, il prof. L. denunciava, alla Polizia di Stato, il fatto che, nel mese precedente, aveva trovato scritte e disegni offensivi e diffamatori sul proprio camice di lavoro lasciato nei locali della clinica (non risulta quale seguito la vicenda abbia avuto, né che i fatti si siano ripetuti; da parte dell’Università, comunque, non risultano assunte iniziative neppure a mero titolo conoscitivo).
Seguivano, peraltro, nuove incomprensioni, stavolta anche con il prof. A., che rimuoveva l’odierno appellante, alla fine del 2000, dalla posizione di responsabile dell’ostetricia; in molteplici occasioni il prof. L. segnalava le difficoltà di rapporti con il prof. A. (telegramma al Preside di Facoltà del 29 dicembre 2000, sempre in relazione al suo allontanamento dal reparto di ostetricia, il prof. L., con richiesta di “immediata convocazione per esaminare provvedimento anche in considerazione mia grave situazione di salute causa di servizio”; note e telegrammi diretti dal prof. L. al Rettore dell’Università e al Preside della Facoltà di appartenenza in data 19 dicembre 2000, 30 aprile 2001, 15 maggio 2001, 18 marzo 2002, 2 maggio 2002, 14 novembre 2002, 17 giugno 2003, 28 novembre 2003, 10 gennaio 2004, 5 luglio 2004, 1° dicembre 2004); missive in cui le autorità accademiche sono state invitate ad assumere iniziative volte a tutelarne la figura professionale in relazione all’allontanamento dal reparto di ostetricia e ai difficili rapporti con il prof. A. che tale allontanamento aveva disposto; nessuna iniziativa, neppure di convocazione delle parti, risulta essere seguita, se non una nota, del prof. A. del 29 maggio 2001, diretta al Preside di Facoltà in risposta ad una richiesta di quest’ultimo del 9 maggio 2001 di invio di una relazione sull’attività didattica, scientifica e assistenziale del prof. L., i cui contenuti sono stati, in precedenza, riportati.
Il prof. L. si è, poi, dimesso per le ragioni di salute pure sopra riportate, asseritamente a seguito di una nuova disputa telefonica con il prof. A.
5) - Questi i fatti che il Collegio ritiene rilevanti in vista della definizione della presente controversia.
Cominciando dall’ultimo periodo preso in considerazione (quello in cui primario era il prof. A.) può, invero, rilevarsi come il comportamento dell’Università sia anche censurabile sotto il profilo omissivo; tra il 2000 e il 2005 il prof. L. ha segnalato, come detto, a più riprese il carattere conflittuale dei rapporti con il prof. A., invitando l’Ateneo ad assumere le doverose iniziative anche a livello disciplinare o, comunque, a convocare una commissione d’inchiesta atta a indagare e rimuovere tale stato conflittuale; sennonché, a parte una richiesta di chiarimenti avanzata, nel 2001, nei confronti del prof. A. circa i suoi rapporti con il prof. L., l’Università non risulta aver assunto alcuna iniziativa, neppure a livello conoscitivo (come aveva, invece, fatto in precedenza con la nomina della Commissione Burdese, chiamata a verificare la situazione conflittuale in atto allorché i compiti primariati facevano capo al prof. O.); ciò quanto meno per verificare se quanto denunciato rispondesse al vero e se vi fossero margini per ricomporre una situazione che appariva, comunque degradata, ciò nell’interesse stesso della struttura sanitaria universitaria di cui si tratta, o, all’occorrenza, per intervenire sul piano disciplinare; si aggiunga che il mancato intervento degli organi universitari ha, poi, concorso a determinare l’abbandono anticipato del servizio da parte dell’interessato a cagione dell’aggravamento del suo stato di salute, documentato in atti fin dal 1990, via via aggravatosi e confermato, formalmente, dal riconoscimento, all’interessato, dell’infermità (comportante assoluta inidoneità lavorativa) dipendente da causa di servizio e dell’equo indennizzo; riconoscimenti, questi ultimi, che, nel giudizio degli organi sanitari preposti ai relativi accertamenti, appaiono correlati, oltre che a risalenti problemi di carattere cardiaco, anche alla situazione di stress lavorativo documentata dall’interessato (v. verbale n. 98 del 28 aprile 2005 della Commissione medica di verifica di Padova, che richiama la documentazione afferente a denunce, procedimenti giudiziari etc., e la delibera del Comitato di Verifica per le cause di servizio, ove si precisa che, attraverso la lettura “della relazione trasmessa dall’Amministrazione e dalla documentazione in atti è dato ravvisare….il nesso eziologico tra l’infermità denunciata dal richiedente e riscontrata dalla Commissione Medica e l’attività di servizio prestata e che, comunque, gli elementi e le circostanze di fatto evidenziati si prospettano in rapporto di valida efficienza eziopatogenica con l’insorgenza e l’evoluzione dell’evento morboso”).
Quanto agli anni precedenti il 1998 (quando primario era il prof. O.), è da notare che in tale periodo si è verificata, come notato, una situazione di privazione dei compiti assistenziali dal 1977 al 1985, essendo stato assegnato, il ricorrente, ad opera del prof. O., ad un reparto che, all’epoca, non espletava attività assistenziale (con la conseguente mancata erogazione della c.d. indennità De Maria); e l’Università, pur informata di ciò con nota del 1978, in nessun modo è intervenuta per ovviare a tale situazione (laddove, ad esempio, nel 1995 è intervenuta, invece, nei riguardi dello stesso prof. O., per chiedergli la rassegnazione, al prof. L., di compiti assistenziali di cui, all’epoca, il medesimo era stato nuovamente privato).
Nel periodo che va dal 1983 al 1985 l’interessato è stato anche illegittimamente escluso (giusta le citate sentenze di questo Consiglio e del TAR) dall’assegnazione, da parte dell’Università, di significativi incarichi di direzione delle Scuole di ostetricia di Venezia e Udine; ciò che ha prodotto pregiudizi immediati d’ordine economico, nonché privazione di titoli ed esperienza professionali, che si sono, logicamente, riflessi anche negli anni a venire (soltanto nel 1997 è stata operata una ricostruzione, ora per allora, della sola posizione giuridica dell’interessato); e, come sopra notato, l’esclusione del ricorrente ha fatto seguito, in termini rilevanti, proprio a quella privazione di attività assistenziale che aveva caratterizzato il periodo corrente dal 1977 al 1985, di cui si è detto; ciò che rende manifeste le responsabilità dell’Ateneo patavino; si aggiunga che il pregiudizio, per l’odierno appellante, è anche riconducibile al diniego di nulla osta di cui si è detto, opposto, a suo tempo, dal MURST all’incarico che l’Università aveva conferito, in un primo momento, all’interessato (ciò che vale anche a giustificare la chiamata in giudizio del medesimo Ministero, con il conseguente rigetto della richiesta di sua estromissione dal giudizio).
In questa situazione s’inscrive, poi, come dianzi notato, il fatto che il Preside della Facoltà, con la ripetuta nota del 16 maggio 1985, abbia, in effetti, stigmatizzato l’iniziativa giurisdizionale assunta innanzi al giudice amministrativo dal prof. L. con riguardo al conferimento dei detti incarichi; dal che traspare un animus non sereno da parte del mondo accademico in ordine ad iniziative giudiziarie volte, in effetti, solo a far valere il buon diritto dell’interessato a svolgere incarichi professionali di sicuro spessore ai fini delle aspettative di valido sviluppo di carriera, oltre che sicuramente remunerativi.
Valenza mobbizzante hanno acquistato, poi, come notato, anche l’assoggettamento, in due occasioni, del prof. L., a procedimenti disciplinari, pure su segnalazioni del prof. O., conclusisi con l’archiviazione; anche in tal caso si tratta, invero, di un indice di pressione psicologica nei confronti del medesimo pur in presenza, evidentemente, di elementi di incolpazione privi di consistenza.
E nel medesimo contesto si inscrive anche il fatto che, sempre su iniziativa del prof. O., l’odierno appellante è stato chiamato a difendersi in sede penale dall’accusa di procurato aborto, nell’esercizio dell’attività clinica-assistenziale, per fatti del 1988; come pure il fatto che, nel 1991, sia stata sospesa (a seguito di segnalazioni, tra l’altro, dello stesso prof. O.) l’attività assistenziale ricoveri presso il servizio autonomo di patologia ostetrico-ginecologica (presso il quale era assegnato il prof. L.), con il trasferimento dei 20 posti letto ad esso afferenti alla clinica ostetrica e ginecologica diretta dal prof. O., ma senza che sia stata assegnata, da quest’ultimo, all’interessato, alcuna attività assistenziale, ancora una volta, così, incidendosi sulla legittima aspettativa del prof. L. a svolgere l’attività assistenziale che gli competeva (restituitagli solo dal 1993); in questo caso si è trattato, in effetti, di un’iniziativa formalizzata dalla ULSS, ma pur sempre su iniziativa di medici universitari preposti alle strutture assistenziali, i quali, sul piano organizzativo e della gestione del personale sanitario, hanno finito, ancora una volta, per privare il prof. L. dell’attività in parola, provocandone una situazione di sostanziale esautoramento in seno alle strutture sanitarie.
Che i problemi interni alla clinica fossero rilevanti è stato documentato, poi, dalla citata Commissione Burdese, istituita dalla stessa Università; ma anche tale iniziativa ha finito per non produrre, come sopra precisato, effetti sostanziali, dal momento che non risultano assunte iniziative, da parte dell’Università, volte al superamento dei contrasti insorti nella clinica, come dimostra l’ulteriore segnalazione fatta dal prof. O. per l’avvio di un’azione disciplinare nei confronti del prof. L., risoltasi, ancora una volta, stavolta anche a seguito dell’intervento del CUN, con l’archiviazione, nonché l’istituzione di una nuova Commissione – sempre su iniziativa del prof. O. – chiamata a verificare eventuali responsabilità del prof. L. in relazione ad un intervento chirurgico dal medesimo effettuato.
Quelle sin qui riportate appaiono circostanze mobbizzanti significative, intervenute, come detto, nel periodo in cui il prof. O. era preposto alle strutture sanitarie anzidette; e tali circostanze si sono riverberate, in certa misura, sia sul piano della salute del prof. L., sia su quello della dequalificazione professionale e, talora, del demansionamento; sotto il primo profilo, in quanto lo stato di salute dell’interessato risulta essere peggiorato con riferimento alle vicende, per lui dannose sul piano professionale, succedutesi negli anni, come desumibile dalla certificazione medica prodotta in atti dal ricorrente, che dà atto dell’aggravamento della situazione cardio-circolatoria e dell’insorgere di più spiccati picchi pressori (al medesimo, come notato, è stato riconosciuta anche l’infermità dipendente da causa di sevizio e il diritto all’equo indennizzo tenuto anche conto proprio delle vicende e dei precedenti di carriera dallo stesso documentati); sotto gli ulteriori profili, in quanto l’interessato risulta essere stato, a più riprese, privato di compiti assistenziali o di incarichi che era legittimato a conseguire; così come pure sottoposto a pressioni psicologiche, legate alla carriera, riconducibili alle varie azioni nei suoi confronti intentate a livello penale o sanzionatorio (sempre su iniziativa primariale); di qui il nesso eziologico corrente tra condotta tenuta dall’Amministrazione o da suoi esponenti e danno patito dall’interessato, da determinarsi, poi, anche nelle sue scansioni temporali.
6) – Rilevato, quindi che le condotte dannose descritte si sono svolte nell’ambito del rapporto di impiego universitario,si tratta, ora, di stabilire in che grado l’Università intimata possa ritenersi responsabile di tali condotte.
Ritiene, al riguardo, il Collegio che la presente vicenda verte, in effetti, su fatti venuti in essere, da una lato, con riguardo all’assegnazione di incarichi di diretta competenza dell’Università (direzione delle Scuole di Venezia e Udine), ovvero attinenti al mancato intervento della stessa Università in situazioni in cui all’interessato non è stato materialmente consentito l’accesso all’attività assistenziale che era compito dello stesso Ateneo assicurare ai propri docenti medici nel momento dell’assegnazione ad una clinica universitaria; o, ancora, relativi ai rapporti interni tra docenti comunque inseriti in Istituti universitari, e sui quali la stessa Università era dotata di potestà disciplinare; o attinenti a fatti e circostanze rispetto ai quali sono venute in evidenza responsabilità riconducibili ai poteri di coordinamento e supremazia spettanti al direttore di Istituto, volti a garantire il regolare adempimento dei compiti istituzionali (art. 2 del Regolamento); ne consegue che il carattere preponderante degli accadimenti appare riconducibile a determinazioni, comportamenti o omissioni intervenuti nell’ambito dei rapporti di servizio ascrivibili o direttamente all’Università o a docenti universitari rispetto ai quali questa avrebbe potuto intervenire nell’esercizio delle proprie potestà; se è vero, infatti, che l’attività assistenziale presso le cliniche universitarie, svolta da medici docenti universitari sulla base di apposite convenzioni, fa capo al S.S.N., non di meno, i compiti assistenziali stessi sono svolti presso strutture universitarie – Istituti o Dipartimenti – in seno ai quali le responsabilità organizzative fanno, comunque, capo ai docenti collocati in posizione primariale, che ne rispondono direttamente nei confronti dell’Università (come dimostrato, tra l’altro, nella presente fattispecie, dagli interventi disciplinari da questa avviati e dalla nomina di un’apposita commissione di indagine); donde, in definitiva, la riconducibilità dei fatti e rispettive responsabilità direttamente in capo all’Ateneo patavino.
7) – Quanto al periodo al quale riferire le richieste risarcitorie avanzate dall’interessato, va disattesa, anzitutto, l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Università con riferimento alle pretese antecedenti di un decennio al 16 ottobre 2006 (data di notifica del ricorso di primo grado); ciò in quanto con nota ricevuta dall’Università il 17 giugno 1996 il ricorrente ha interrotto i termini di prescrizione (la nota, “da intendersi anche ai fini dell’interruzione della prescrizione”, è da ritenersi, anche se sintetica, produttiva di effetto interruttivo delineando le responsabilità oggettive dell’Università “in relazione a fatti compiuti da dipendenti o collaboratori di detta Amministrazione ivi compresi atti denigratori, diffamatori e calunniatori”)
Si aggiunga, poi, che, in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, sia per responsabilità contrattuale che per responsabilità extracontrattuale, la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che il termine di prescrizione ex art. 2935 c.c. inizia a decorrere non già dal momento in cui il fatto del terzo viene a ledere l'altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 20 luglio 2007, n. 16148; Cass. n. 12666 del 2003, Cass. n. 9927 del 2000, Cass. n. 8845 del 1995, Cass. n. 3206 del 1989, Cass. n. 4532 del 1987); e, nel caso in esame, la situazione di pregiudizio relativa alle situazioni venute in essere in data più remota (mancata assegnazione di compiti assistenziali dal 1977), è potuta emergere, con certezza, già a partire dal 1983, allorché la mancata prestazione di attività assistenziale ha lasciato trasparire con certezza il significato che sul piano economico e di carriera produceva la mancata assegnazione di detti compiti; il periodo corrente fino a tale data e quello successivo (in cui il danno si era, ormai, manifestato) corrente fino al 16 giugno 1986 (data corrispondente ad un decennio antecedente alla predetta nota interruttiva della prescrizione) non può, quindi, essere preso in considerazione a fini risarcitori ostandovi l’eccepita (già in primo grado) prescrizione decennale ex art. 2946 c.c.
E neppure può essere preso in utile considerazione il periodo corrente dall’inizio del 1998 fino a tutto il mese di novembre 2000 in quanto, in tale lasso temporale, l’interessato, come dallo stesso ammesso, ha potuto espletare senza pregiudizi e in assenza di contrasti interni il proprio servizio come preposto al reparto di Ostetricia.
In ordine, infine, alla concreta quantificazione dei danni che l’appellante assume di aver patito, indicati già in primo grado, ritiene il Collegio che possa procedersi ad una loro complessiva quantificazione in via equitativa e onnicomprensiva, in misura pari, per ogni anno di servizio decorrente dal 16 giugno 1986 e fino alla data di collocamento a riposo, ad € 15.000 (e con esclusione del periodo Gennaio 1998/novembre 2000, dianzi indicato); con gli interessi nella misura legale decorrenti dalla data di notificazione del ricorso di primo grado al soddisfo.
8) – Per tali motivi l’appello in epigrafe va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado con la conseguente condanna dell’Università al pagamento, a favore dell’appellante, delle somme di cui all’esposizione che precede.
Le spese del doppio grado sono liquidate nel dispositivo e poste a carico dell’Università appellata; sono compensate nei confronti del Ministero dell’Università e Ricerca.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione VI, accoglie l’appello in epigrafe e, per l’effetto, in accoglimento del ricorso di primo grado, condanna l’Università appellata al pagamento, a favore dell’appellante, delle somme di cui all’esposizione che precede.
Condanna l’Università di Padova al pagamento delle spese del doppio grado, che si liquidano in complessivi € 2.500,00(duemilacinquecento/00); compensa le spese nei confronti del Ministero appellato.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 gennaio 2010 con l'intervento dei Magistrati:

 

Giuseppe Barbagallo, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere, Estensore
Roberto Garofoli, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere

 

L'ESTENSORE

IL PRESIDENTE



Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 13/04/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Dirigente della Sezione