Morte di due fratelli che si recavano a fare un bagno in una zona dove si trovavano numerosi laghetti e un piccolo corso d'acqua: venivano rinvenuti i cadaveri di entrambi la notte e il mattino seguente.

 

Responsabilità di L.G., direttore tecnico del consorzio della Bonificazione Pontina (che gestiva gli impianti di bonificazione con l'uso delle idrovore che si trovavano sul luogo del decesso) e di C.C., "legale responsabile" del medesimo ente (si tratta delle qualifiche indicate nel capo d'imputazione; peraltro nella sentenza di appello si precisa che, nel corso del giudizio di primo grado, le qualità dei due imputati erano state così precisate: C. "preposto alla manutenzione degli impianti" e L. "supervisore nonchè responsabile per le attività tecniche").

Ai due imputati veniva contestato di aver omesso di recintare l'area dove si trovavano i predetti impianti per impedire la balneazione e di segnalare adeguatamente i pericoli presenti nella medesima (grandi quantità di biossido di carbonio e possibili dispersioni di energia elettrica).

  

Condannati entrambi in primo grado, propongono appello; la Corte d'Appello conferma la condanna di L. e assolve invece C. avendo ritenuto provato che non rientrava nelle sue mansioni la protezione esterna dell'impianto.

  

Ricorrono in Cassazione sia L. che la parte civile - La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali per essere il reato estinto per prescrizione, esclusa l'aggravante contestata. Conferma le statuizioni civili nei confronti di L. e rigetta il ricorso della parte civile D.E..

  

Per quanto concerne l'aggravante del delitto di omicidio colposo contestata, ossia la questione prevista dall'art. 589, comma 2, c.p. (fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) la Corte afferma quanto segue:

"E' fondato il quarto motivo di ricorso concernente il "riconoscimento dell'aggravante prevista dall'art. 589 c.p., comma 2 (fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro).
E' noto che, per il riconoscimento di questa aggravante, non è necessario che esista un rapporto di lavoro subordinato con la persona offesa essendo, le norme che disciplinano la tutela di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, dirette a tutelare tutte le persone che si trovano, per qualsiasi ragione, ad operare nell'ambiente lavorativo compresi quindi i lavoratori autonomi o dipendenti di altre imprese o anche di terzi che per qualsiasi ragione (purchè non illegale: non è ravvisabile l'aggravante nel caso dell'autore di un furto che si è introdotto nel luogo di lavoro e che subisca un infortunio).
La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel senso indicato: si vedano Cass., sez. 4^, 10 novembre 2005 n. 2383, Losappio, rv. 232916; 7 novembre 2001 n. 7726, Bassano, rv. 221133; 5 gennaio 1999 n. 7924, Caldarelli, rv. 214246; 27 settembre 1995 n. 12599, Bardelli, rv. 204051; 3 giugno 1993 n. 6730, Pusceddu, rv. 195488; 4 maggio 1993 n. 6686, Moresco, rv. 195483.
Questa interpretazione è fondata sul disposto del
D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 1 (richiamato dal D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 1) che usa un'espressione ("le norme del presente decreto si applicano a tutte le attività") che appare riferita all'elemento oggettivo - appunto l'attività - alla quale siano addetti lavoratori subordinati o equiparati."  (vedi oggi art. 3, comma 1, D. Lgs. 81/08)

"Del resto questa interpretazione è fondata anche su argomentazioni logiche: sarebbe ben strano che in un ambiente in cui esistano situazioni di pericolo venissero diversamente e in minor misura tutelati (sia pure indirettamente con la previsione di un aggravante) coloro che si vi trovano legittimamente, anche occasionalmente e anche per ragioni non direttamente ricollegate allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Ma, per venire al nostro caso, le "attività" cui si riferisce il ricordato art. 1 devono essere attività di natura lavorativa svolte in luoghi dove i terzi hanno accesso e si trovino ad operare o ad essere presenti in una situazione di natura lavorativa.

E la violazione delle norme per la prevenzione sugli infortuni sul lavoro - cui fa riferimento l'art. 589 c.p., comma 2 (e l'art. 590 c.p., omologo comma 3) non può che riferirsi comunque alle norme che disciplinano la prevenzione di tali infortuni e, quindi, alle attività previste dall'art. 1 ricordato che sono appunto attività lavorative.
 

Insomma: l'aggravante è prevista per chi violi una norma diretta a tutelare la sicurezza del lavoro indipendentemente dalla circostanza che la svolga chi nel luogo di lavoro si trovi esposto al pericolo: la norma di prevenzione deve avere un diretto riferimento alla tutela dei lavoratori subordinati e degli equiparati ma estende la sua tutela a chi, per qualunque ragione, si trovi nell'ambiente di lavoro.

Ma se la norma cautelare violata non ha alcun riferimento alla prevenzione degli infortuni di chi nella comunità di lavoro opera non può ritenersi che l'evento dannoso sia ricollegato alle "attività" che in questa comunità si svolgono."



LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giusep - Presidente -
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
1) L.G. nato a  (OMISSIS), imputato;
2) D.E. nata a (OMISSIS), parte civile (ricorso proposto contro l'imputato assolto C. C.);
avverso la sentenza 3 aprile 2006 della Corte d'Appello di Roma;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e i ricorsi;
Udita in pubblica udienza la relazione del Presidente Dott. BRUSCO.
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. CEDRANGOLO Oscar che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere il reato ascritto a L.e. per prescrizione con esclusione dell'aggravante contestata. Conferma nel resto.
Uditi, per le parti civili, gli avv.ti ORSINI Alessandro, IADECOLA Gianfranco e CIRESE Vania che hanno concluso per il rigetto del  ricorso L. e per l'accoglimento di quello nei confronti di C..
Uditi per l'imputato L. l'avv. OROPALLO Domenico che ha concluso per l'accoglimento del ricorso proposto nell'interesse del suo assistito e, per C., l'avv. LAURENTI Giovanni che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del suo assistito.
La Corte:

 

 

Fatto
 


1) I fatti e il giudizio di primo grado.

Il (OMISSIS) i fratelli D.F. e D.T. (rispettivamente di anni (OMISSIS)) si recavano a fare un bagno in una zona (denominata "(OMISSIS)") in comune di (OMISSIS) dove si trovavano numerosi laghetti e un piccolo corso d'acqua denominato "(OMISSIS)".

Il mancato rientro dei due fratelli nella loro abitazione induceva i familiari ad attivare le ricerche della due persone.

Nella notte veniva rinvenuto il cadavere di F. mentre il mattino successivo veniva trovato anche quello di T..
In esito alle indagini preliminari svolte veniva esercitata l'azione penale nei confronti di L.G., direttore tecnico del consorzio della Bonificazione Pontina (che gestiva gli impianti di bonificazione con l'uso delle idrovore che si trovavano sul luogo del decesso) e di C.C., "legale responsabile" del medesimo ente (si tratta delle qualifiche indicate nel capo d'imputazione; peraltro nella sentenza di appello si precisa che, nel corso del giudizio di primo grado, le qualità dei due imputati erano state così precisate: C. "preposto alla manutenzione degli impianti" e L. "supervisore nonchè responsabile per le attività tecniche".


Ai due imputati veniva contestato di aver omesso di recintare l'area dove si trovavano i predetti impianti per impedire la balneazione e di segnalare adeguatamente i pericoli presenti nella medesima (grandi quantità di biossido di carbonio e possibili dispersioni di energia elettrica).
 

Il Tribunale di Latina, con sentenza 2 luglio 2001, condannava entrambi gli imputati per il reato di omicidio colposo in danno dei due fratelli D. ritenendo provato che il tragico evento fosse riconducibile alle omissioni indicate e che queste fossero addebitabili ad entrambi gli imputati.

Riteneva altresì l'esistenza dell'aggravante, prevista dall'art. 589 cod. pen., per aver commesso il fatto con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Quanto alle cause della morte il primo giudice riteneva doversi ritenere accertato che questa causa andasse individuata nell'elettrocuzione derivata da una dispersione di energia elettrica per un malfunzionamento delle idrovore situate nel luogo dove i due giovani si erano bagnati. Ciò perchè i due corpi presentavano posizioni contratte come se fossero stati colti da spasmi provocati da una causa esterna che poteva essere individuata in uno shock elettrico.
Il primo giudice riteneva invece di escludere le altre cause del decesso pure ipotizzate anche se l'incompletezza e superficialità dei primi accertamenti autoptici non consentivano una verifica più accurata.

In particolare escludeva che la morte potesse essere stata provocata dall'esalazione di gas venefici in mancanza di alcun elemento di conferma di questa ipotesi ed in particolare di tracce della presenza di tali gas sui corpi dei giovani; ma escludeva anche l'ipotesi dell'annegamento provocato da una congestione che avrebbe provocato il malore di uno dei due fratelli ( T.) mentre l'altro sarebbe deceduto nel tentativo di soccorrere il congiunto.
A questa conclusione il Tribunale perveniva perchè era risultato che T. aveva assunto un pasto leggero a base di frutta alcune ore prima di fare il bagno e non era provato che le acque in cui i due fratelli si erano bagnati fossero particolarmente fredde.

Inoltre la situazione dei luoghi era tale (l'acqua nella più parte dei luoghi non superava il torace delle persone) da far dubitare fortemente dell'ipotesi dell'annegamento.

Del resto, si soggiunge nella sentenza, l'ipotesi della folgorazione è l'unica che si concilia con il fatto della pressochè contemporaneità della morte dei due fratelli.
In ogni caso questa ipotesi, secondo il primo giudice, è confermata anche dal contenuto di una deposizione (che ha riferito che sul luogo erano stati trovati carcasse di animali deceduti), dalla presenza di vegetazione secca lungo i margini dei laghetti e dalla presenza di "numerose bruciature sui fili e sui contatti del quadro di comando del macchinario" e di numerose altre anomalie riguardanti l'impianto elettrico che vengono analiticamente indicate nella sentenza e che peraltro erano state eliminate subito dopo il fatto rendendo difficoltoso l'accertamento delle cause dell'evento.


2) La sentenza d'appello.

La Corte d'Appello di Roma, con sentenza 3 aprile 2006 pronunziata su appello di entrambi gli imputati, così provvedeva sulle impugnazioni proposte:
- assolveva C.C. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto;
- confermava la condanna di L.G. al quale concedeva le attenuanti generiche, che dichiarava equivalenti alla contestata aggravante, riducendo la pena inflitta dal primo giudice;
- confermava le statuizioni civili a favore delle parti civili a carico del solo imputato L..
 

La Corte di merito, dopo aver riassunto le vicende processuali, premetteva che l'istruttoria dibattimentale non avrebbe consentito, a suo giudizio, di "individuare con certezza la causa della morte dei due giovani fratelli D.".

La Corte dava atto delle numerose anomalie riscontrate sull'impianto elettrico a servizio delle idrovore; non riteneva però provata una delle irregolarità (la mancanza del differenziale) e, soprattutto, la sua idoneità, se presente, ad evitare la dispersione.
Evidenziava anche la Corte di merito la lacunosità delle prime indagini (l'impianto in questione neppure era stato fotografato) e, in conclusione, affermava che, pur essendo provato che le anomalie dell'impianto erano idonee a provocare l'elettrocuzione, non poteva ritenersi provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che ciò fosse in concreto avvenuto.
I giudici di secondo grado ritenevano peraltro che neppure fosse possibile escludere con certezza la tesi alternativa dell'annegamento anche se, per la conferma di questa ipotesi, era parimenti di ostacolo la lacunosità delle indagini.
La Corte, peraltro, riteneva che, pur nell'incertezza residua sulla causa della morte dei due giovani, non potesse comunque escludersi la possibilità di ritenere l'esistenza del reato contestato e ha ravvisato nella condotta consistente nell'aver omesso di recintare l'area in questione - e di non aver segnalato adeguatamente gli oggettivi pericoli collegati alla balneazione - la causa efficiente dei decessi.

Se l'impianto fosse stato adeguatamente recintato e fossero stati adeguatamente segnalati i pericoli ricollegati alla balneazione, secondo il ragionamento della Corte, i due giovani non si sarebbero bagnati in quelle acque anche perchè nella zona erano presenti numerosi altri laghetti che non presentavano alcun rischio.


La sentenza impugnata ha quindi confermato l'affermazione di responsabilità di L.G. mentre ha escluso quella di C.C. avendo ritenuto provato che non rientrava nelle sue mansioni la protezione esterna dell'impianto.


3) Il ricorso di L.G..

 

Contro la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso sia l'imputato L.G. sia la parte civile D.E. limitatamente all'assoluzione di C.C..

 


L.G. ha proposto i seguenti motivi di censura contro la sentenza di secondo grado:
- la violazione degli artt. 516 e 521 c.p.p.; il ricorrente afferma di essersi difeso da quanto a lui originariamente contestato e di essere stato poi condannato per non aver impedito la balneazione nella sona interessata e quindi per un fatto diverso e in relazione al quale non era stato posto in grado di difendersi;
- il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione all'affermazione dell'esistenza del rapporto di causalità tra la condotta inosservante e l'evento verificatosi pur in mancanza dell'accertamento della causa della morte; questo mancato accertamento impedirebbe infatti, secondo il ricorrente, di compiere il giudizio controfattuale per verificare se, nel caso di condotta osservante, l'evento si sarebbe verificato ugualmente (il ricorrente precisa che, se fosse ritenuta quale causa della morte la congestione, i due giovani sarebbero deceduti ugualmente anche se si fossero bagnati nei laghetti adiacenti);
- i medesimi vizi con riferimento all'affermazione dell'esistenza della colpa con riferimento alla contestazione di aver omesso le opportune segnalazioni che in realtà esistevano (trattasi del cartello indicante il divieto di balneazione e della sbarra di accesso al sito); queste indicazioni, se osservate, avrebbero impedito il verificarsi dell'evento e la loro elusione da parte delle due vittime dimostrerebbe l'esistenza di una volontà di violare i divieti che non sarebbe venuta meno con l'apposizione di più severi ostacoli;
- i medesimi vizi con riferimento al riconoscimento dell'aggravante prevista dall'art. 589 c.p., comma 2 (fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) in mancanza dell'individuazione della norma di prevenzione violata ed in particolare non essendo stata individuata la fonte dell'obbligo di protezione dell'area e di segnalazione dei pericoli;
- i medesimi vizi con riferimento al mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante;
- la violazione dell'art. 165 cod. pen. per avere, la Corte di merito, confermato la statuizione del primo giudice che subordinava la sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno a favore delle parti civili costituite pur in mancanza di liquidazione del danno.


4) Il ricorso nella parte civile D.E. nei confronti di C..

Le note difensive della parte civile D. G.. Con il ricorso da lei proposto nei confronti di C. C. la parte civile D.E. propone un unico motivo di ricorso con il quale deduce la violazione degli artt. 581 e 597 c.p.p. nonchè dell'art. 167 disp. att. c.p.p..
Osserva la ricorrente che contro la sentenza di condanna del primo giudice C.C. aveva proposto appello deducendo nove motivi di impugnazione tutti riferibili alla sussistenza del reato che veniva contestata. L'imputato in alcuno di questi motivi aveva però contestato la sua qualifica o aveva chiesto il proscioglimento per non aver commesso il fatto.
Solo con un motivo nuovo proposto dopo la scadenza del termine per proporre appello l'appellante aveva chiesto il proscioglimento per non aver commesso il fatto ma questo motivo non era più proponibile perchè diverso da quelli originariamente proposti.

Non avrebbe quindi potuto, il giudice di appello, accogliere questo motivo perchè tardivamente proposto e non riguardando l'illustrazione dei motivi originariamente proposti.
 

Il difensore della parte civile D.G. ha invece depositato note difensive con le quali si chiede il rigetto del ricorso di L.G. e si argomenta sulle singole censure evidenziando le ragioni che ne giustificherebbero il rigetto per le considerazioni che vengono analiticamente svolte.
 

5) La dedotta violazione dell'art. 521 c.p.p.. Come si è già accennato il primo motivo di ricorso di L. si riferisce alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di condanna.
Com'è noto la giurisprudenza di legittimità si ispira, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza, al principio secondo cui il parametro che consente di verificare, nel caso in cui sia accertato lo scostamento indicato, l'esistenza della violazione del principio in questione è costituito dal rispetto del diritto di difesa nel senso che l'imputato deve avere avuto, in concreto, la possibilità di difendersi dall'addebito contestatogli.
Si ha dunque il rispetto del principio nei casi in cui della violazione poi ritenuta in sentenza si sia trattato nelle varie fasi del processo ovvero in quelli nei quali sia stato lo stesso imputato ad evidenziare il fatto diverso quale elemento a sua discolpa (si vedano in questo senso, da ultimo, Cass., sez. 4^, 15 gennaio 2007 n. 10103, Granata, rv. 236099; sez. 2^, 23 novembre 2005 n. 46242, Mignatta, rv. 232774; sez. 4^, 17 novembre 2005 n. 2393, Tucci, rv. 232973; 10 novembre 2005 n. 47365, Codini, rv. 233182; 25 ottobre 2005 n. 41663, Canonizzo, rv. 232423; 4 maggio 2005 n. 38818, De Bona, rv. 232427; sez. 1^, 10 dicembre 2004 n. 4655, Addis, rv. 230771).
Naturalmente non deve trattarsi di fatto completamente diverso ed eterogeno in cui l'imputazione venga immutata nei suoi elementi essenziali (v. Cass., sez. 1^, 14 aprile 1999 n. 6302, lacovone; sez. 6^, 14 gennaio 1999 n. 2642, Catone).
E' inoltre indiscusso che, se effettivamente verificatasi, la nullità è di ordine generale a regime intermedio e deve essere dedotta nei limiti previsti dagli artt. 180 e 182 c.p.p. (in questo senso v. Cass., sez. 2^, 17 maggio 2006 n. 19585, Antonuccio, rv. 234199; sez. 4^, 29 novembre 2005 n. 14180, Pelle, rv. 233952; sez. 5^, 28 settembre 2005 n. 44008, Di Benedetto, rv. 232805).
Nel caso in esame è da escludere che si tratti di fatto completamente diverso ed eterogeneo per cui diverrebbe comunque applicabile al caso di specie il principio, affermato in numerose decisioni di legittimità (tra le quali quelle già ricordate 2393/2005, 47365/2005, 38818/2005) secondo cui, in materia colposa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa non integra la violazione del principio di correlazione in esame.
Basterebbe la riaffermazione di quest'ultimo principio per confermare la correttezza della sentenza impugnata; va però in aggiunta rilevato che già nel giudizio di primo grado (v. p. 6 ss. della sentenza 2 luglio 2001 del Tribunale di Latina) non solo si era discusso ampiamente dell'ipotesi della congestione ma era stata la stessa difesa degli imputati a prospettare questa ipotesi resa particolarmente credibile dalla circostanza che la temperatura delle acque che le idrovore scaricavano sul laghetto dove è avvenuto l'annegamento era particolarmente bassa (10-12 gradi).

E questa ricostruzione è sostenuta con vigore nei motivi di appello congiunti dei due imputati (v. p. 33 ss. dei medesimi motivi).
Deve quindi concludersi che, se anche dovesse ritenersi verificato lo scostamento denunziato, non vi sarebbe stata alcuna concreta lesione del diritto di difesa essendosi, di questa violazione, ampiamente discusso anche nel corso del giudizio di primo grado ed avendo avuto l'imputato non solo ampie garanzie e possibilità difensive sul punto in questione ma essendo, la tesi accolta dai giudici di appello, corrispondente a quella sostenuta dagli imputati appellanti.
 

6) L'accertamento della causa della morte.

Si è già accennato, nel riassumere i motivi del ricorso proposto da L., che il ricorrente sostiene che il mancato accertamento della causa della morte non consentirebbe di ritenere accertata l'esistenza del rapporto di causalità tra la sua condotta e l'evento perchè non sarebbe possibile compiere il giudizio controfattuale.
 

La censura proposta non è condivisibile.

L'affermazione secondo cui - in mancanza dell'accertamento della causa di un evento - il medesimo non può essere addebitato ad un soggetto è sovrapponibile al problema che si pone quando non è accertata la completa sequenza causale che ha condotto all'evento medesimo.
A questo problema aveva già dato una precisa risposta la giurisprudenza di legittimità che, già con la sentenza Cass., sez. 4^, 6 dicembre 1990, Bonetti e altri, aveva affrontato il problema in questi termini confermando il ragionamento della Corte d'appello:
"Come si vede, il discorso della corte è di esemplare linearità: è impossibile che il giudice, nell'accertare il rapporto causale, venga a capo di tutti, conosca tutti i passaggi causali, tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, che proceda ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi;
è sufficiente che il giudice, adottando il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, universali o statistiche, restando, cioè, vincolato a parametri oggettivi e impersonali forniti dalla scienza e, quindi, ripudiando il modello individualizzante, colga, metta in luce, uno o più antecedenti che, secondo quelle leggi scientifiche, universali o statistiche, siano tali che senza lo stesso o gli stessi l'evento, con alto grado di probabilità, con probabilità, cioè, logica o credibilità razionale, non si sarebbe verificato".
Più recentemente si è ancora affermato che il nesso di condizionamento deve ritenersi provato non solo quando (caso improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all'evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l'evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell'agente sia pure con condotte alternative; e purchè sia possibile escludere l'efficienza causale di diversi meccanismi eziologici (in questo senso v. Cass. , sez. 4^, 15 marzo 1995 n. 2650, Trotta, in Giust. pen., 1996, 2^, 445, che ha ritenuto irrilevante l'indicazione di una delle cause alternative dell'evento qualora le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione siano identiche. Nello stesso senso, più di recente, si è espressa Cass., sez. 4^, 17 aprile 2007 n. 21602, Ventola, rv. 237588; contra Cass., sez. 4^, 25 maggio 2005 n. 25233, Lucarelli, rv. 232013).
Una parola definitiva su questo punto è stata pronunziata dalla sentenza F. delle sezioni unite che così si esprime:
"poichè il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, nè procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l'ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purchè sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed alternativo decorso causale".
Ciò che rileva, quindi, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) di indagati e imputati; oppure che si possa comunque escludere che ne esistano di ragionevolmente ipotizzabili che possano condurre all'esclusione del contributo causale da parte dell'agente.
Queste conclusioni sono condivise anche dalla prevalente dottrina. Si è detto che "non si può pretendere che il giudice spieghi l'intero meccanismo di produzione dell'evento, e non lo si può pretendere perchè non è possibile conoscere esattamente tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce l'effetto finale".
Ciò che rileva, lo si ribadisce, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) dell'agente.
 

7) Nel caso in esame si verifica proprio questa situazione.

I giudici d'appello, andando di contrario avviso rispetto a quanto deciso dal primo giudice, non hanno ritenuta certa come causa della morte dei due giovani l'elettrocuzione ma, delle tre cause ipotizzabili (dispersione di gas velenosi, elettrocuzione, congestione causata dalla bassa temperatura dell'acqua) ne hanno esclusa una con sicurezza (i gas velenosi) e hanno ritenuto invece riconducibile ad una delle altre due il decesso delle persone offese.
E' ovvio che se si trattasse di una mera possibilità e se non fosse stata esclusa l'astratta idoneità di altre e diverse cause a cagionare l'evento l'addebito oggettivo non sarebbe sostenibile. In mancanza dell'accertamento in termini di elevata credibilità razionale della causa di un evento solo se tutte le cause astrattamente ipotizzabili sono individuate e solo se tutte sono riconducibili alla condotta colposa dell'agente l'addebito oggettivo può ritenersi fondato.

Se residua ancora, anche in termini di mera possibilità, una causa non identificata o una causa non riconducibile alla condotta dell'agente non può essere a lui causalmente ricollegato questo evento al di là di ogni ragionevole dubbio.
 

Ma ciò nella specie non si è verificato: la Corte di merito ha individuato le due possibili cause di morte in base a dati obiettivi coesistenti alcuni dei quali facevano propendere per l'elettrocuzione (quelli già indicati valorizzati dalla sentenza di primo grado) mentre altri erano invece significativi dell'annegamento derivato dalla congestione (in particolare il dato oggettivo della forte differenza di temperatura dell'acqua nei pressi delle idrovore).
La sentenza impugnata espressamente parla di ipotesi alternative (p. 9) e dunque esclude che altre potessero essere ipotizzate. D'altro canto nel corso di tutto il processo, presto caduta la tesi delle dell'avvelenamento da biossido di carbonio, le uniche ipotesi formulate sono state quelle alternativamente ipotizzate dalla Corte d'Appello. E anzi l'annegamento da congestione è proprio la tesi fatta propria dalla difesa degli imputati.
E allora non può essere posto in discussione l'addebito oggettivo al ricorrente della causa della morte dei due giovani perchè, sia vera l'una o l'altra delle due uniche ipotesi di morte formulate e ipotizzabili esse vanno, da un punto di vista oggettivo, causalmente riferite al ricorrente.
E non è vero che il mancato accertamento della causa della morte impedirebbe di compiere il giudizio controfattuale che non va riferito alla possibilità della congestione se le due vittime si fossero bagnate in altri laghetti ma va così formulato: se il pericolo fosse stato adeguatamente segnalato e la zona adeguatamente sbarrata l'evento si sarebbe ugualmente verificato? La risposta non può che essere negativa perchè l'esistenza di una volontà violatrice è affermazione congetturale priva di ogni conferma una volta che il pericolo fosse stato segnalato al posto di una generica indicazione del divieto di balneazione; senza considerare che un'adeguata recinzione avrebbe di fatto impedito l'accesso ai due giovani.
 

8) Gli addebiti di colpa.

Formano oggetto del terzo motivo di ricorso che deve ritenersi parimenti infondato ed in parte inammissibile perchè riguarda anche valutazioni di merito non consentite al giudice di legittimità.
I giudici di merito hanno entrambi evidenziato come le gravi situazioni di pericolo presenti sul luogo fossero segnalate in modo improprio e del tutto insufficiente.

Erano presenti soltanto cartelli indicanti il "divieto di balneazione" ed era apposta una sbarra di legno agevolmente rimovibile.
Insomma si trattava di mezzi inefficaci ma soprattutto di mezzi privi di alcuna idoneità quanto alla segnalazione dei reali pericoli esistenti sul luogo - consistenti sia nella possibilità di dispersione di energia elettrica sia nella bassa temperatura delle acque - e all'efficacia impeditiva dell'accesso (solo successivamente a questo evento fu apposta una barriera di filo spinato).
Questa valutazione è incensurabile nel giudizio di legittimità e comunque è esente da alcuna illogicità palese essendo che i sistemi utilizzati erano al più idonei a segnalare un divieto di accesso per la tutela della proprietà privata ma non certo una situazione di grave pericolo per il duplice ordine di ragioni già indicato.
Del tutto congetturale - come si è già accennato sul tema del giudizio controfattuale - è poi l'affermazione del ricorrente che, anche a fronte di efficaci mezzi di segnalazione e impeditivi dell'accesso, i due fratelli sarebbero comunque entrati nel luogo avendo mostrato la volontà di violare il divieto; l'ingresso nel luogo dimostra soltanto la volontà di bagnarsi malgrado il divieto di farlo; non certo quella di sottoporsi ad ignoti pericoli non segnalati.
 

9) L'aggravante contestata e la prescrizione del reato.

E' invece fondato il quarto motivo di ricorso concernente il riconoscimento dell'aggravante prevista dall'art. 589 c.p., comma 2 (fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro).
E' noto che, per il riconoscimento di questa aggravante, non è necessario che esista un rapporto di lavoro subordinato con la persona offesa essendo, le norme che disciplinano la tutela di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, dirette a tutelare tutte le persone che si trovano, per qualsiasi ragione, ad operare nell'ambiente lavorativo compresi quindi i lavoratori autonomi o dipendenti di altre imprese o anche di terzi che per qualsiasi ragione (purchè non illegale: non è ravvisabile l'aggravante nel caso dell'autore di un furto che si è introdotto nel luogo di lavoro e che subisca un infortunio).
La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel senso indicato: si vedano Cass., sez. 4^, 10 novembre 2005 n. 2383, Losappio, rv. 232916; 7 novembre 2001 n. 7726, Bassano, rv. 221133; 5 gennaio 1999 n. 7924, Caldarelli, rv. 214246; 27 settembre 1995 n. 12599, Bardelli, rv. 204051; 3 giugno 1993 n. 6730, Pusceddu, rv. 195488; 4 maggio 1993 n. 6686, Moresco, rv. 195483.
Questa interpretazione è fondata sul disposto del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 1 (richiamato dal D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, art. 1) che usa un'espressione ("le norme del presente decreto si applicano a tutte le attività") che appare riferita all'elemento oggettivo - appunto l'attività - alla quale siano addetti lavoratori subordinati o equiparati.
Del resto questa interpretazione è fondata anche su argomentazioni logiche: sarebbe ben strano che in un ambiente in cui esistano situazioni di pericolo venissero diversamente e in minor misura tutelati (sia pure indirettamente con la previsione di un aggravante) coloro che si vi trovano legittimamente, anche occasionalmente e anche per ragioni non direttamente ricollegate allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Ma, per venire al nostro caso, le "attività" cui si riferisce il ricordato art. 1 devono essere attività di natura lavorativa svolte in luoghi dove i terzi hanno accesso e si trovino ad operare o ad essere presenti in una situazione di natura lavorativa.

E la violazione delle norme per la prevenzione sugli infortuni sul lavoro - cui fa riferimento l'art. 589 c.p., comma 2 (e l'art. 590 c.p., omologo comma 3) non può che riferirsi comunque alle norme che disciplinano la prevenzione di tali infortuni e, quindi, alle attività previste dall'art. 1 ricordato che sono appunto attività lavorative.
 

Insomma: l'aggravante è prevista per chi violi una norma diretta a tutelare la sicurezza del lavoro indipendentemente dalla circostanza che la svolga chi nel luogo di lavoro si trovi esposto al pericolo: la norma di prevenzione deve avere un diretto riferimento alla tutela dei lavoratori subordinati e degli equiparati ma estende la sua tutela a chi, per qualunque ragione, si trovi nell'ambiente di lavoro.

Ma se la norma cautelare violata non ha alcun riferimento alla prevenzione degli infortuni di chi nella comunità di lavoro opera non può ritenersi che l'evento dannoso sia ricollegato alle "attività" che in questa comunità si svolgono.
Era dunque giustificato il riconoscimento dell'aggravante nell'ipotesi fatta propria dal Tribunale di Latina nella sentenza di primo grado: l'ipotesi della dispersione dell'energia elettrica consentiva di ritenere aggravato il reato perchè evitare fenomeni di folgorazione è obbligo che incombe sul datore di lavoro e sugli altri debitori della sicurezza a tutela di tutti coloro che si trovano nell'ambiente di lavoro.

Se dunque la Corte di merito avesse confermato l'ipotesi causale del primo giudice correttamente avrebbe potuto essere ravvisata l'esistenza dell'aggravante.


Il giudice di secondo grado non ha però confermato questa ipotesi ma ne ha ritenuta possibile una alternativa: l'annegamento a seguito di congestione.
 

Orbene le cautele che possono, e devono, essere adottate per evitare questo tipo di evento nulla hanno a che fare con la tutela della comunità di lavoro e di quelli che, anche occasionalmente, vi si trovino.

La cautela in esame in nulla si differenzia dagli obblighi del proprietario di un fondo nel quale si trovi una situazione di pericolo che gli impone di precludere l'accesso al fondo e sotto alcun profilo è inquadrabile in un obbligo di tutela della sicurezza del lavoro che, non solo non costituisce la causa dell'evento ma neppure l'occasione.
Non può quindi affermarsi che l'evento sia stato cagionato con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro perchè le regole cautelari violate nulla avevano a che fare con la tutela del lavoro ma erano dirette esclusivamente a terzi che potessero fare ingresso nel luogo in questione.
 

La conclusione non può quindi che essere quella dell'esclusione dell'aggravante posto che l'ipotesi dell'annegamento non è stata esclusa dal giudice di merito e quindi, per il principio del favor rei, va comunque applicato il trattamento sostanziale più favorevole.

Con la conseguenza che il reato ascritto a L. G. deve essere dichiarato estinto per prescrizione perchè, essendogli state concesse le attenuanti generiche, anche con la minima diminuzione il reato risulta punito con pena massima che rientra nell'ipotesi della prescrizione di anni cinque elevabile ad anni sette e mezzo per le intervenute interruzioni del decorso della causa estintiva.
Inutile precisare che la contestazione del duplice omicidio colposo non vale a mutare i termini di prescrizione.

Il reato di omicidio colposo plurimo non è infatti configurabile come reato unico ma come concorso formale di più reati unificati solo ai fini della pena. Il termine di prescrizione va quindi considerato con riferimento ai singoli reati unificati e non alla pena prevista nel caso di plurimi eventi dannosi così come ogni altra causa di estinzione che va singolarmente considerata per ogni reato (così Cass., sez. 4^, 15 giugno 2000 n. 12472, Pellegrini, rv. 217947; 27 gennaio 1999 n. 3127, Cagliari, rv. 213221; 18 ottobre 1982 n. 1541, Guarnotta, rv. 157509).
E' ovviamente da ritenere assorbito nella statuizione che precede il motivo che si riferisce al giudizio di comparazione delle attenuanti non esistendo più alcuna aggravante con cui comparare questa valutazione.
 

 

10) L'applicazione dell'art. 129 c.p.p. e l'azione civile nei confronti di L.G..

Sotto il profilo penale l'unico problema che può astrattamente porsi è quello dell'applicabilità del disposto dell'art. 129 c.p.p., comma 2.
Com' è noto il presupposto per l'applicazione della norma indicata è costituito dall'evidenza della prova dell'innocenza dell'imputato.
In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti per l'immediato proscioglimento (l'inesistenza del fatto, l'irrilevanza penale, il non averlo l'imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.
In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall'art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell'innocenza dell'imputato (cfr. Cass., sez. 5^, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1^, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone). E' stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6^, 18 novembre 2003 n. 48527, Tesserin; 3 novembre 2003 n. 48524, Gencarelli; 25 marzo 1999 n. 3945, Di Pinto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan).
Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l'art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all'assoluzione dell'imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.
Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull'obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all'annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l'estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5^ sezione ed inoltre sez. 1^, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani).
In termini diversi si pone il problema relativo alla conferma o meno delle statuizioni civili quando il reato venga dichiarato estinto.
Nel giudizio d'impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello) ed essendo ancora pendente l'azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell'art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione.
In questi casi però la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell'impugnazione deve verificare senza alcun limite l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d'appello nel caso in cui l'estinzione del reato venga pronunziata dalla Corte di cassazione).
E' infatti principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell'imputato; anche se l'estinzione del reato non gli consente di pronunziare condanna penale.
Ma quanto si è detto in precedenza in merito alle censure che riguardano il rapporto di causalità e a quelle che riguardano la colpevolezza valgono non solo ad escludere che ci si trovi in presenza di una situazione qualificabile come evidenza della prova dell'innocenza.
Al contrario l'affermazione di responsabilità dell'imputato L. ai fini penali - presupposto per la conferma delle statuizioni civili a favore delle parti civili - per quanto si è già detto risulta essere stata correttamente adottata e quindi non può essere messa in discussione nel presente processo nel quale dunque le statuizioni civili vanno confermate.
 

 

11) Il ricorso della parte civile D.E. nei confronti di C.C..

Si è già premesso che la parte civile D. E. ha proposto ricorso nei confronti della sentenza della Corte d'Appello di Roma limitatamente al punto che riguarda l'assoluzione di C.C. dal reato ascrittogli.
Secondo la ricorrente la Corte di merito non avrebbe potuto pronunziare questa assoluzione perchè il motivo relativo alla titolarità di una posizione di garanzia in capo a C. non era stato tempestivamente proposto dall'imputato ma era contenuto in motivi aggiunti inammissibili perchè estranei ai motivi originariamente proposti e proposti dopo la scadenza del termine per la proposizione dell'appello.
Il principio affermato nel ricorso dalla parte civile è astrattamente corretto.

Costituisce infatti principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che i motivi nuovi debbano riguardare i capi o punti della sentenza già oggetto, giusta il disposto dell'art. 581 c.p., lett. a, dell'originaria impugnazione e debbano quindi limitarsi ad esporre ulteriori ragioni in diritto o in fatto (se consentito) a sostegno della medesima. Diversamente, se fosse consentito estendere l'impugnazione a punti o capi non oggetto dell'originaria impugnazione, verrebbero elusi i termini previsti per le impugnazioni (v. in questo senso Cass., sez. 5^, 22 settembre 2005 n. 45725, Capacchione, rv. 233210; sez. 1^, 9 maggio 2007 n. 33662, Ballacchino, rv. 232406; sez. 3^, 22 gennaio 2004 n. 14776, Sbragi, rv. 228525; sez. 2^, 4 novembre 2003 n. 45739, Marzullo, rv. 226976; sez. un. 25 febbraio 1998 n. 4683, Bono).
Nella specie, peraltro, l'esame dell'atto di impugnazione non consente di affermare che C.C., nei motivi di appello originariamente proposti (congiuntamente a L.G.), non abbia contestato l'esistenza di una posizione di garanzia nei suoi confronti.
A pag. 7 dell'appello originariamente proposto C. contesta infatti di aver mai svolto il ruolo indicato nel capo d'imputazione (quello di legale responsabile del Consorzio della bonificazione pontina) affermando di essere stato un "semplice dipendente dell'ente subordinato al direttore tecnico geom. L.G.".

Nella modifica dell'imputazione la qualità indicata veniva confermata.
A pag. 47 dei motivi di appello entrambi gli imputati, invocando il regolamento sulla pulizia dello opere della bonifica pontina, sostengono che a loro carico non esisteva alcun obbligo di apporre segnali di pericolo od ostacoli per impedire l'accesso perchè questi obblighi incombevano sui proprietari dei terreni.
Il problema dell'esistenza di una posizione di garanzia a suo carico era stato dunque, da C., posto, sia pure in termini sintetici, già nell'originario atto d'appello e poteva quindi essere sviluppato con i motivi nuovi che non fuoriuscivano dai temi inizialmente proposti.


Ne consegue il rigetto del ricorso proposto dalla parte civile nei confronti di C.C..


12) E' infine da ritenere assorbito anche il motivo che si riferisce, nel ricorso L., alla subordinazione della sospensione condizionale all'avvenuto risarcimento dei danni. La dichiarazione di estinzione del reato travolge infatti anche la statuizione sulla sospensione condizionale della pena che non potrà essere eseguita.
Ma il motivo (peraltro neppure proposto con i motivi di appello) sarebbe comunque manifestamente infondato perchè il primo giudice - con statuizione confermata dalla sentenza impugnata - non aveva affatto subordinato il beneficio al risarcimento anche in caso di condanna generica ma l'aveva subordinato "al risarcimento dei danni in favore delle parti civili entro il termine di giorni trenta dalla liquidazione giudiziale o stragiudiziale delle somme".
 

13) Alle considerazioni svolte conseguono le pronunzie di cui al dispositivo.

 

P.Q.M.

 


la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, annulla senza rinvio la sentenza impugnata ai fini penali per essere il reato estinto per prescrizione, esclusa l'aggravante contestata.
Conferma le statuizioni civili nei confronti di L.G. che condanna alla rifusione delle spese in favore delle parti civili che liquida in complessivi Euro 2.500,00 per M.A. e D.G. e in Euro 2.000,00 per D.E.;
oltre, per entrambi, IVA, CPA e spese generali come per legge.
Rigetta il ricorso della parte civile D.E..
Così deciso in Roma, il 10 luglio 2008.
Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2008