• Mobbing

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA

Sezione Lavoro

La Corte d'Appello di Bologna, sezione lavoro, composta dai signori Magistrati

DOTT. Giuseppe MOLINARO Presidente

DOTT. Giovanni BENASSI Consigliere rel.

DOTT. Maria G. D'AMICO Consigliere

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

Nella causa civile iscritta al n. 1033 del Ruolo Generale Lavoro dell'anno 2006, posta in decisione all'udienza collegiale del 11 marzo 2010, promossa da: XX, rappresentato e difeso per mandato in calce al ricorso in appello, dall'avvocato Bruno Barbieri, presso il cui studio è pure elettivamente domiciliato in Bologna, via Lemonia n. 21

APPELLANTE

contro

E. - omissis, subentrata ad A. in forza della legge Regionale del 2007 a far tempo dall'1 gennaio 2008, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dell'Avvocatura dello Stato in forza del d.p.c.m. 28 dicembre 2007, presso i cui uffici in Bologna, alla via Guido Reni n. 4, è pure elettivamente domiciliata

APPELLATA

CONCLUSIONI

Il procuratore dell'appellante chiede e conclude: "in totale riforma della sentenza impugnata, accogliere la domanda introduttiva e per l'effetto ogni contraria istanza ed eccezione disattesa:

1) accertare e dichiarare per i fatti e per i motivi indicati in narrativa illecito ed illegittimo il comportamento tenuto dall'A. nei confronti del sig. XX e conseguentemente condannare l'A. in persona del suo legale rappresentante pro tempore a risarcire al sig. XX la somma di Euro 200.000,00 a titolo di danno da stress e/o mobbing (legati al danno morale e/o ai danni alla vita di relazione, alla dignità umana ed all'esistenza) o nella maggiore o minore somma che risulterà di giustizia nel corso della causa;

2) accertare e dichiarare illegittimo il mancato riconoscimento quale orario straordinario delle ore lavorate in eccedenza rispetto al normale orario di lavoro del sig. XX e il mancato riconoscimento discriminatorio della possibilità di calcolare l'orario in eccedenza quale flessibilità positiva o ai fini della diminuzione della flessibilità negativa maturata;

3) accertare e dichiarare il diritto del sig. XX al pagamento del tempo impiegato a ritirare la propria cartella sanitaria dal medico competente;

4) accertare e dichiarare la violazione da parte dell'A. del diritto del sig. XX all'informativa sugli obblighi e i rischi legali al corso di primo soccorso e antincendio nonché il mancato pagamento delle ore legate allo svolgimento dei corsi e conseguentemente accertare il diritto del sig. XX al pagamento di tali somme da quantificarsi in separato giudizio e la condanna dell'A. in persona del suo legale rappresentante pro tempore al pagamento a favore del sig. XX di una somma da quantificarsi in via equitativa a titolo di risarcimento della violazione di tale diritto all'informativa;

5) accertare e dichiarare illegittima l'attribuzione di punteggio nelle padelline relative agli anni 2000 e 2001 e conseguentemente accertare il diritto del sig. XX a percepire dall'A. le differenze stipendiali legate al maggior punteggio a cui lo stesso avrebbe avuto diritto;

6) con vittoria di onorari, competenze e onorari tutti del doppio grado di giudizio";

Il procuratore dell'appellata chiede e conclude: "si chiede il rigetto dell'appello con vittoria di spese e competenze del giudizio d'appello".

 

LA CORTE D'APPELLO

Udita la relazione della causa fatta dal Giudice Relatore dott. Giovanni Benassi;

Udita la lettura delle conclusioni assunte dai procuratori delle parti;

Esaminati gli atti e i documenti di causa, ha ritenuto;

 

 

Fatto

 

Con ricorso depositato il 5 marzo 2004, XX, dipendente dell'A. dal 29 ottobre 1986 con la qualifica di custode di studentato universitario, ha convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bologna, l'Azienda Regionale per il Diritto allo Studio Universitario formulando le seguenti domande:

- Previo accertamento della illegittimità dei fatti dedotti in causa, condannare l'A. al risarcimento del danno, quantificato in Euro 200.000,00 a titolo di danno da stress e/o mobbing (legati al danno morale e/o ai danni alla vita di relazione, alla dignità umana e all'esistenza);

- Dichiarare illegittimo il mancato riconoscimento quale orario straordinario delle ore lavorate in eccedenza rispetto al normale orario di lavoro e il mancato riconoscimento discriminatorio della possibilità di calcolare l'orario in eccedenza quale flessibilità positiva o ai fini della diminuzione della flessibilità negativa maturata;

- Dichiarare il suo diritto al pagamento del tempo impiegato a ritirare la propria cartella sanitaria dal medico competente;

- Accertare la violazione da parte dell'A. del suo diritto all'informativa sugli obblighi e rischi legati al corso di primo soccorso e antincendio nonché il mancato pagamento delle ore legate allo svolgimento dei corsi e, conseguentemente, del suo diritto alla remunerazione di tali ore, da quantificarsi in separato giudizio, con la condanna dell'A. al risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa, per la violazione del diritto a tale informativa;

- Dichiarare illegittima l'attribuzione del punteggio nelle pagelline relative agli anni 2000 e 2001 e accertare il suo diritto a conseguire le differenze stipendiali legate al maggior punteggio cui avrebbe avuto diritto.

 

Radicatosi il contraddittorio, il Tribunale di Bologna, con sentenza n. 652 del 14 settembre 2005, depositata il 24 ottobre 2005, ha rigettato la domanda.

 

Il percorso argomentativo seguito dal primo giudice può essere sintetizzato nei seguenti passaggi:

 

- Quanto al mobbing, nella specie, non sussistevano gli estremi per integrare una condotta mobbizzante, avendo il ricorrente qualificato in tal senso la mera richiesta dell'A. di sottoporre il dipendente a visita medica in adempimento degli obblighi di tutela sulla sicurezza del lavoro previsti dalla legge n. 626/94, per altro giustificata dal fatto che il dipendente, nello svolgimento delle sue mansioni, era tenuto a svolgere operazioni di piccola manutenzione sugli impianti dello studentato;

- Mancanza di prova di atteggiamenti vessatori da parte di colleghi; al massimo era stato dedotto un modesto diverbio con un collega;

- Mancanza di prova che la valutazione parzialmente negativa da parte dell'Amministrazione sul rendimento lavorativo del ricorrente sia stata il frutto di un disegno persecutorio nei suoi confronti;

o Quanto al pagamento del tempo impiegato per recuperare una cartella sanitaria giacente presso un poliambulatorio, la domanda era infondata perché la decisione di procurarsi tale documentazione medica era stata assunta dal dipendente e non era conseguenza di una richiesta da parte dell'amministrazione;

- Quanto alla mancata informativa dei rischi connessi agli incarichi di membro

della squadra di primo soccorso e antincendio, non vi era prova né degli asseriti rischi connessi né in cosa dovesse sostanziarsi l'informativa da parte dell'amministrazione;

o Quanto al pagamento dei minuti asseritamente svolti in eccedenza al normale orario di lavoro, in occasione della frequenza dei corsi antincendio, la relativa domanda non poteva essere accolta per insussistenza di qualsivoglia prova.

Avverso la detta decisione, non notificata, XX, con ricorso depositato il 23 ottobre 2005, ha proposto appello, affidato ad un unico motivo, articolato in più censure, cui resiste l'E., omissis, subentrata all'A. per legge, chiedendo il rigetto del gravame.

All'udienza dell'11 marzo 2010, i procuratori delle parti hanno concluso come in epigrafe e la causa, dopo la discussione orale, è stata decisa come da dispositivo, di cui è stata data lettura.

 

 

Diritto

 

1. Con l'unico motivo, XX articola le seguenti censure:

a. lamenta che, al suo legittimo rifiuto di sottoporsi a visite mediche non dovute, perché richieste dal datore di lavoro al di fuori di ogni previsione di cui alla legge n. 626/94, erano seguite, per un periodo eccedente tre anni, reiterate minacce di applicazione di provvedimenti disciplinari o di una possibile interruzione del rapporto di lavoro o di invio di comunicazioni al giudice penale affinché venissero valutati gli effetti penali della sua condotta; secondo l'appellante, le richieste di visite mediche erano del tutto ingiustificate, non potendo essere considerato come lavoratore a rischio, come infine stabilito dalla Unità Operativa Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro dell'Azienda USL di Bologna;

b. poiché i medici competenti, che si erano succeduti nel tempo, avevano sempre garantito al ricorrente che gli avrebbero fatto conoscere i rischi ai quali sarebbe stato sottoposto sul luogo di lavoro, le misure da adottare per rimuovere tali rischi e le ragioni degli esami cui avrebbe dovuto essere sottoposto, come può, poi, non essere riconosciuto come legato all'attività lavorativa il tempo impiegato dal lavoratore per tentare di recuperare i dati che, all'interno della sua cartella sanitaria, non erano stati trovati e che era compito dell'A. fornire ai sensi del d. legs. n. 626/94 al proprio dipendente;

c. poiché la normativa prevede la possibilità per il lavoratore di rifiutarsi di far parte della squadra antincendi per giustificati motivi, è evidente che questi non possono che essere connessi all'attività richiesta e di conseguenza il lavoratore deve essere necessariamente informato dei rischi ai quali si espone nello svolgere la detta attività;

d. le prove documentali dimostrano il diritto del lavoratore al pagamento dei minuti svolti in eccedenza rispetto al normale orario di lavoro.

 

2. Il motivo non è fondato

 

Va, in primo luogo, evidenziato che lo XX, pur fondando l'atto di gravame, in particolare, su documenti e sulla copiosa corrispondenza intercorsa tra le parti, non ha, poi, prodotto in sede d'appello il proprio fascicolo di parte già depositato in primo grado, contenente, secondo le allegazioni della stessa parte, quei documenti e quelle missive, così precludendo alla Corte di riscontrare l'effettiva esistenza della prova documentale, di esaminare l'effettivo contenuto di tali documenti e di esprimere, quindi, con cognizione di causa, un meditato giudizio.

Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 8528/06, ha affermato il principio che, nel giudizio di appello è onere della parte produrre in giudizio il proprio fascicolo di primo grado, essendo esclusa la trasmissione al secondo giudice, unitamente al fascicolo d'ufficio, anche dei fascicoli di parte, traendone la conseguenza che la sua mancata acquisizione non vizia né il procedimento di secondo grado, né la relativa sentenza.

Inoltre, nella successiva sentenza n. 78 del 2007, la suprema Corte ha ribadito che, in materia di prova documentale nel processo civile, non esistendo un principio di "immanenza" della prova documentale nel processo e dovendo anche il giudice del gravame decidere la causa "justa alligata et probata", procedendo ad un autonomo e diretto riesame della documentazione già vagliata dal giudice di primo grado, deve escludersi che i documenti prodotti in primo grado da una delle parti che sia risultata vittoriosa debbano ritenersi per sempre acquisiti al processo; pertanto, la parte vittoriosa in primo grado che scelga di rimanere contumace in appello e non ridepositi quindi i documenti in precedenza prodotti, va incontro alla declaratoria di soccombenza per non aver fornito la prova della sua pretesa, quando i documenti non più ridepositati siano a lei favorevoli (cfr. anche Cass. n. 15660/07; n. 6987/03).

Infatti, il fascicolo di parte che l'attore ed il convenuto debbono depositare nel costituirsi in giudizio dopo avervi inserito, tra l'altro, i documenti offerti in comunicazione, ai sensi dell'art. 165 c.p.c, comma 1 e art. 166 c.p.c, applicabili anche in appello a norma dell'art. 347 c.p.c, pur essendo custodito, a norma dell'art. 72 delle disp. att. c.p.c, con il fascicolo di ufficio formato dal cancelliere (art. 168 c.p.c), conserva, rispetto a questo, una distinta funzione ed una propria autonomia che ne impedisca l'allegazione di ufficio nel giudizio di secondo grado ove, come in quello di primo grado, la produzione del fascicolo di parte presuppone la costituzione in giudizio di questa; ne consegue che il giudice di appello non può tener conto dei documenti del fascicolo della parte, ancorché sia stato trasmesso dal cancelliere del giudice di primo grado con il fascicolo di ufficio, ove detta parte, già presente nel giudizio di p.g., non si sia costituita in quello di appello (sentenza 29/4/1993 n. 5061) (Cass. n. 78 del 2007).

Infine, con riferimento ad una fattispecie sovrapponibile a quella in esame, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 28498/05, hanno affermato il principio che l'appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l'appello, non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all'altro esame della causa, ma una "revisio" fondata sulla denunzia di specifici "vizi" di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata.

Ne consegue che è onere dell'appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame o comunque attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ., di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, perché questi documenti possano essere sottoposti all'esame del giudice di appello, per cui egli subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell'altra parte (nella specie rimasta contumace), quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice di appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare.

Dall'applicazione di tali principi alla fattispecie in esame, consegue che, non avendo la parte appellante prodotto in sede di gravame i documenti posti a fondamento della sua impugnazione, resta precluso alla Corte il compiuto esame delle circostanze di fatto allegate dallo XX nel suo ricorso, che avrebbero dovuto essere comprovate dai documenti offerti in comunicazione nel corso del primo grado del giudizio.

 

2. Sotto altro profilo, il Collegio rileva che l'appellante, pur riproponendo la tesi esposta nel ricorso introduttivo di primo grado secondo cui sarebbe rimasto vittima di un comportamento persecutorio da parte dell'A. a causa del suo rifiuto a sottoporsi a visite mediche non obbligatorie e pur argomentando diffusamente nel tentativo di dimostrare la legittimità della sua condotta e la pervicace ostinazione dell'amministrazione, non ha, tuttavia, censurato l'affermazione del primo giudice, secondo cui, i fatti dedotti in causa non potevano integrare gli estremi di una condotta vessatoria in danno del lavoratore da parte dei responsabili dell'A. o degli altri colleghi, con la precisazione che non vi era alcuna prova dell'esistenza di un disegno persecutorio nei confronti dello XX.

 

Tale affermazione del primo giudice, oltre a non essere stata oggetto di specifica censura da parte dell'appellante, risulta pure coerente con la nozione di mobbing comunemente accolta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che, sia pure con qualche incertezza ed ambiguità dovuta all'inerzia del legislatore che, nonostante la presentazione di numerosi progetti di legge, non è ancora intervenuto a disciplinare la controversa materia, ha elaborato una nozione di mobbing, in funzione per lo più descrittiva, comunque utile sul piano giuridico.

In particolare, nella sentenza n. 3785 del 2009, il supremo Collegio ha definito il mobbing come una condotta del datore di lavoro del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi:

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore;

d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

In altra decisione (la n. 22858/08), il supremo Collegio ha approfondito la natura giuridica dell'istituto, osservando: il mobbing (come espressamente dedotto e prospettato dalla ricorrente) è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.

Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.).

Fondamento dell'illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l'obbligo datorile, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore.

Da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d'un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente.

Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l'art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l'intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento - Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 - ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033)...Lo spazio del mobbing, presupponendo necessariamente (nella sua diretta od indiretta origine) la protrazione d'una volontà lesiva, è pertanto più ristretto di quello (nel quale tuttavia s'inquadra) delineato dall'art. 2087 cod. civ., comprensivo di ogni comportamento datorile, che può essere anche istantaneo, e fondato sulla colpa... Avendo fondamento nell'art. 2087 cod. av., l'astratta configurazione del mobbing costituisce la specificazione della clausola generale contenuta in questa disposizione. Da ciò discende che:

- come specificazione, il mobbing è parte integrante della disposizione di legge da cui trae origine, di questa in tal modo assumendo giuridica natura;

- per tale natura, la sua formulazione è funzione di legittimità (funzione riservata al giudice di merito - ed esclusa dalla sede di legittimità - è solo l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza del fatto materiale da ricondurre poi al modulo normativo);

- funzione di legittimità è anche la sussunzione del fatto (come accertato) nel modulo normativo;

- nella relativa inosservanza, la specificazione della clausola generale è deducibile (attraverso l'art. 360 c.p.c, n. 3) in sede di legittimità...Per la natura (anche legittima) dei singoli episodi e per la protrazione del comportamento nel tempo nonché per l'unitarietà dell'intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore).

D'altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d'una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà.

In questo quadro assume rilievo anche la L. 10 aprile 1991, n. 125, come modificata dal D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145, ed in particolare l'art. 4, comma 2 ter, quale disposizione ricognitiva e specificativa di più generiche norme.

 

Infine, nella sentenza n. 22893/08, la Corte di Cassazione ha chiarito, sotto il profilo sostanziale e processuale, la distinzione esistente fra la domanda diretta alla repressione di atti discriminatori fondati su motivi sindacali e la domanda azionata contro il mobbing posto in essere dalla controparte datoriale, affermando il principio che la condotta vessatoria consapevolmente posta in essere dal datore di lavoro finalizzata ad isolare od espellere il dipendente dal contesto lavorativo (cosiddetto "mobbing") si differenzia, pur potendola ricomprendere, da quella discriminatoria per motivi sindacali: richiedendosi, nel primo caso, una pluralità di atti e comportamenti (eventualmente anche leciti in sé considerati) unificati dall'intento di intimorire psicologicamente il dipendente e funzionali alla sua emarginazione, attuandosi, invece, la discriminazione per motivi sindacali, anche attraverso un unico atto o comportamento e connotandosi di illiceità di per sé, in quanto diretta a realizzare una diversità di trattamento o un pregiudizio in ragione della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali, a prescindere da un intento di emarginazione.

 

Quanto alla fattispecie in esame, in sede d'appello, non può più trattarsi né di mobbing né di condotte persecutorie o vessatorie perché l'appellante si è limitato a riepilogare, sia pure diffusamente, i fatti e, non avendo censurato l'assunto del primo giudice che quei fatti dedotti, oltre a non essere provati, non erano comunque riconducibili al mobbing, non ha neppure esposto le ragioni, soprattutto giuridiche, in base alle quali la condotta dell'Amministrazione datrice di lavoro avrebbe dovuto essere considerata illegittima e, come tale, dare luogo al cospicuo risarcimento del danno richiesto.

In altri termini, lo XX non ha saputo individuare, nella sequenza degli accadimenti narrati, né veri e propri comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro di lui con intento vessatorio; né il sopravvenire di un evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; né il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico - fisica del lavoratore; né ha allegato elementi, anche presuntivi, dai quali desumere la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

 

4. Ma se, poi, si scende nel dettaglio, per quanto possibile in conseguenza della mancata produzione dei documenti contenuti nel fascicolo di parte di primo grado, non è proprio possibile riscontrare, nelle allegazioni dello XX, elementi dai quali desumere un qualunque intento vessatorio o persecutorio nei suoi confronti da parte dell'amministrazione odierna appellata.

La questione dedotta in causa riguarda, infatti, il rifiuto, per altro ostinato e reiterato nel tempo, dello XX di sottoporsi alla visita medica richiesta dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 16 della legge n. 626/94.

Ora, a parte il rilievo che l'intera vicenda, sempre secondo le allegazioni del lavoratore che si leggono nell'appello si sarebbe protratta dal novembre 1997 al luglio 2002, periodo nel quale lo XX si è sempre rifiutato di sottoporsi alla visita medica che gli era stata in più occasioni richiesta dal datore di lavoro, va, in primo luogo, osservato che le reiterate minacce di applicazioni di provvedimenti disciplinari e di possibile inoltro di denunce all'Autorità Giudiziaria prospettate dall'A. non hanno mai avuto alcun seguito concreto né è dimostrato che avessero in qualche modo inciso sulla determinazione con la quale il lavoratore ebbe a portare avanti negli anni la sua posizione.

Inoltre, per giustificare la legittimità del rifiuto di sottoposizione a visita medica, non possono essere richiamati né la lettera del 27 maggio 2002 della Azienda USL, né l'intervento del dott. C. nella riunione del 14 febbraio 2003, dai quali si dovrebbe desumere la non obbligatorietà degli accertamenti preventivi periodici di cui all'art. 16 del d. legs. n. 626/94 per i custodi manutentori per assenza dei rischi che avrebbero reso obbligatoria la visita medica.

Ora, pure prescindendo dal rilievo che le due ultime determinazioni seguono e contraddicono il contenuto di altre missive ed accertamenti - sempre richiamati nell'atto di appello - nelle quali il medico competente per la sicurezza era invece pervenuto ad opposte conclusioni, l'epilogo amministrativo della vicenda, da un lato, non dimostra né l'assenza in concreto di rischi per la salute e l'integrità fisica dei custodi nell'esercizio delle mansioni svolte, tenuto conto che, come ammesso dallo stesso XX, tra le sue mansioni rientrava anche l'attività di vigilanza e di piccola manutenzione, né, dall'altro, può essere utilizzato per suffragare - per di più a posteriori - l'esistenza di una condotta persecutoria nei confronti del lavoratore.

A tale proposito, non può, infatti, essere dimenticato che l'amministrazione datrice di lavoro aveva inteso avviare lo XX, per altro unitamente agli altri suoi colleghi, agli accertamenti sanitari previsti della legge n. 626 del 1994 sulla base delle indicazioni che erano state impartite dal medico competente che, nel sistema della sicurezza per il lavoro, esercita, tra le altre funzioni, anche la sorveglianza sanitaria e dispone gli accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori.

Di conseguenza, poiché l'amministrazione datrice di lavoro non ha fatto altro che cercare di eseguire le prescrizioni provenenti dal medico competente, non si vede come possano essere considerate illegittime le reiterate richieste, inviate allo XX, affinché si sottoponesse ad accertamenti sanitari considerati - a ragione o a torto obbligatori, per di più disposti anche nel suo interesse.

Dunque, qualora anche dovesse giungersi alla conclusione, per altro non affatto scontata, che gli accertamenti sanitari sui custodi non fossero obbligatori ai sensi della legge n. 626 del 1994, non per questo potrebbe ravvisarsi nei fatti di causa una condotta vessatoria e persecutoria da parte datoriale, posto che, da un lato, l'amministrazione appellata, conformandosi alle prescrizioni del medico competente, evidentemente riteneva di agire nel rispetto della legge e nell'interesse della salute dei lavoratori e, dall'altro, che, a fronte della condotta all'evidenza non collaborativa osservata dal dipendente, non sono mai state applicate sanzioni disciplinari o altre iniziative punitive o repressive ma è sempre stata cercata una soluzione nel rispetto della vigente normativa in materia.

Quanto al resto, l'appellante non ha fatto altro che sviluppare, nell'atto di gravame, una serie di osservazioni in ordine alla interpretazione e alla applicazione, nel caso dei custodi di uno studentato, della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, che, indipendentemente dalla loro fondatezza o meno, rientrano nell'ambito dei poteri organizzativi del datore di lavoro e degli altri soggetti preposti alla sicurezza individuati dalla legge, e nulla hanno a che vedere con una richiesta di risarcimento del danno, per una pretesa condotta mobbizzante.

L'appellante, infine, deduce alcuni capitoli di prova orale, già ritenuti inammissibili dal primo giudice.

La Corte, nel condividere tale giudizio, osserva che si tratta di circostanze generiche ed irrilevanti, complessivamente insufficienti per dimostrare, in particolare, l'esistenza dell'elemento soggettivo dell'intento persecutorio, ed, aventi, per di più, carattere valutativo essendo finalizzati ad far esprimere ai testimoni dei giudizi personali, per di più, su episodi non ben definiti nel tempo, su sensazioni, su atteggiamenti e su percezioni soggettive.

 

5. Da ultimo, in ordine alla doglianze afferenti il mancato computo ai fini retributivi del tempo impiegato dallo XX per recuperare la propria cartella sanitaria presso il Poliambulatorio dove operava il medico competente dell'A., la mancata informativa dei rischi connessi agli incarichi di membro della squadra antincendio e il mancato pagamento dei minuti svolti in eccedenza il normale orario di lavoro, la Corte osserva che trattasi di domande destituite di ogni fondamento.

Per quanto concerne la prima doglianza, l'appellante non ha chiarito se l'attività volta a recuperare la sua cartella sanitaria era stata svolta durante o al di fuori dell'orario di lavoro. Ricorrendo la prima ipotesi, infatti, la richiesta di pagamento sarebbe infondata perché il tempo impiegato avrebbe comunque trovato compenso nella retribuzione erogata dal datore di lavoro; ma anche nella seconda non si potrebbe pervenire a diverse conclusioni, per l'assorbente ragione che lo XX non ha neppure allegato - e tanto meno dimostrato - che tale ricerca gli era stata in qualche modo imposta o ordinata dal datore di lavoro. Con la conseguenza che, quali che fossero le intenzioni dell'appellante, il tempo impiegato nella ricerca non può essere considerato come tempo di lavoro.

Ma anche la seconda doglianza è infondata perché, pure ammettendo la violazione da parte dell'A. di un presunto obbligo di informativa sui rischi connessi agli incarichi di membro della squadra antincendio, non si vede quale conseguenza risarcitoria potrebbe esserne tratta o quale danno, risarcibile, potrebbe avere patito il lavoratore.

Sull'ultima censura è sufficiente ricordare che era specifico onere dell'appellante dimostrare di avere diritto al pagamento dei minuti svolta in eccedenza al normale orario di lavoro. E siccome tale prova - documentale - si sarebbe dovuta trovare in alcuni documenti prodotti con il fascicolo di parte di primo grado, non depositato in appello, lo XX non ha motivo di dolersi per il mancato accoglimento della domanda, difettandone la prova, anche per l'inconferenza, poca chiarezza e genericità dei capitoli dedotti a tale scopo sub 12 e 13 che, se anche, confermati non potrebbero comunque comprovare sia lo svolgimento dei minuti in eccedenza, sia il loro eventuale mancato pagamento.

 

Va, pertanto, respinto l'appello proposto da XX avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 652 del 14 settembre 2005.

 

Le spese del grado, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza e sono poste a carico dell'appellante soccombente.

 

 

P.Q.M.

 

La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, rigetta l'appello proposto da XX avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 652 del 14 settembre 2005; condanna XX al rimborso delle spese del grado, che liquida in complessivi Euro 2.600,00, di cui Euro 1.000,00 per diritti ed Euro 1.600,00 per onorari.

Così deciso in Bologna il 11 marzo 2010

Depositata in cancelleria il 8 giugno 2010

Note di redazione

Sentenza Corte d'Appello di Bologna n. 311 del 8 giugno 2010