REPUBBLICA ITALIANA
 
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
 CORTE D'APPELLO DI TRIESTE
 
 PRIMA SEZIONE PENALE
 
 La Corte d'Appello di Trieste, Prima Sezione penale, composta dai Magistrati:
 
 1. dr. Francesca Morelli - Presidente -
 
 2. dr. Donatella Solinas - Consigliere -
 
 3. dr. Gloria Carlesso - Consigliere est. -
 
 ha pronunciato il giorno 16 giugno 2010 la seguente
 
 SENTENZA

 

 

 

 
 nel procedimento penale a carico di:
 
 Li.Ma. nato (...) e residente a Monfalcone in via (...)
 
 Libero - contumace
 
 Tu.Gi., nato (...) elettivamente domiciliato presso l'avv. Al.Ca. con studio in Roma via (...)
 
 Libero - contumace
 
 Imputati
 

del reato p. e p. dall'art. 589 I e II comma e 41 c.p. per avere il Tu. quale presidente del Consiglio di Amministrazione dei Cantieri Navali Italiani (...) It. S.p.A. il Li. quale direttore dello stabilimento di Monfalcone della società Cr. e successivamente della predetta "Ca." (...) It. S.p.A. con negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza di norme atte a tutelare la integrità fisica dei lavoratori (Artt. 377 e 378 dpr. 27.4.1955, n. 547, artt. 4, 20 e 21 dpr. 303/56, 156 e 157 dpr. 1124/65 e 2087 c.c.), facendo svolgere nello stabilimento navale di Monfalcone a An.Va. mansioni di tubista di bordo mediante l'uso di amianto (Attività di intervento sulla coibentazione attuata mediante una miscela di cemento - amianto) in ambiente saturo di polveri di amianto, a causa di lavorazioni comportanti la dispersione di tali polveri, omettendo di adottare tutte le misure di sicurezza generiche e specifiche e i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, necessari per contenere l'esposizione all'amianto (impianti localizzati di aspirazione, limitazione dei tempi di esposizione, procedure di lavoro idonee ad evitare la manipolazione, lo sviluppo e la diffusione dell'amianto) di curare la fornitura e di assicurarsi dell'effettivo impiego di mezzi personali di protezione (mascherine e guanti) di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario, di informare lo stesso circa gli specifici rischi derivanti dall'esposizione all'amianto (e, in particolare della pericolosità del minerale usato) e le misure per ovviare a tali rischi, cagionato, così, con concorso di colpa, la morte del Va. avvenuta per duplice neoplasia del polmone destro causata da esposizione ad amianto.
 
 

Appellanti:
 
 

 

Gli imputati avverso la sentenza del Tribunale di Gorizia dd. 16 febbraio 2009 che, visti gli artt 533 e ss. c.p.p. ritenuta la responsabilità degli imputati in ordine al reato contestato condannava ciascuno alla pena di un anno di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Visti gli artt 163 e ss. c.p. subordinava la concessione del beneficio della pena sospesa per entrambi gli imputati al pagamento delle somme liquidate a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva ex lege alle costituite parti civili Vi.Al. e Va.Ma. Visti gli artt. 539 e ss. c.p.p. condannava gli imputati al risarcimento dei danni causati alle parti civili e rimetteva le parti davanti al giudice civile per la liquidazione. Su richiesta delle parti civili condannava gli imputati in solido al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva ex lege di Euro 100.000 in favore di Vi.Al. e di Euro 100.000 a favore di Va.Ma. con interessi legali e rivalutazione dalla liquidazione al saldo. Visto l'art. 541 c.p.p. condannava gli imputati in solido al pagamento in favore delle parti civili costituite delle spese processuali per le rispettive difese che si liquidano in 14.000,00 Euro per diritti e onorari più rimborso forfetario. Iva e cpa in favore di Vi.Al. e in Euro 12,000,00 per la difesa di Va.Ma., più rimborso forfetario iva e cpa.
 
 
   
 

FattoDiritto

 


Li.Ma. e Tu.Gi. venivano tratti a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 589 c.p. per aver cagionato la morte per duplice neoplasia del polmone destro causata da esposizione ad amianto del sig. An.Va. che aveva lavorato in qualità di tubista presso i Ca.; agli stessi, nella rispettiva qualità il Tu. di Presidente del cda e il Li. di direttore dello stabilimento, veniva imputato di aver omesso di adottare tutte le misure di sicurezza generiche e specifiche idonee a prevenire l'insorgere della malattia.
 
Nel giudizio si costituivano parte civile Vi.Al. (moglie) e Va.Ma. (figlia) di Va.An.
 
 

Il giudice del Tribunale di Gorizia, all'esito di un articolato dibattimento in cui venivano assunti numerosi testi, sentiti i consulenti, acquisita copiosa documentazione, emetteva sentenza di condanna degli imputati irrogando la pena di un anno di reclusione, condannando al risarcimento a favore delle parti civili con assegnazione di una provvisionale pari a Euro centomila per ciascuna parte e subordinando la sospensione condizionale della pena al pagamento della stessa.
 
 

Il giudice di primo grado esaminava nella sentenza una serie di questioni poste dal procedimento:
 
 1) la prescrizione, facendola decorrere dalla data della morte avvenuta nel 1998 (con scadenza (...))
 
 2) l'esposizione all'amianto, ritenendola provata dalla deposizione della dott. Za., dal riconoscimento da parte dell'Inail dell'indennità per esposizione all'amianto, dalle ricerche dell'ing. Mo. e del prof. Go., dalla testimonianza dei compagni di lavoro; disattendeva il parere del consulente della difesa prof. Co. che, aveva espresso la propria valutazione senza tenere conto, secondo il giudice di prime cure, dei dati raccolti proprio presso Fi. negli anni 70 dal prof. Go.;
 
 3) la causa del decesso, esaminando le consulenze tecniche dell'anatomapatologo dott. Bi. che aveva individuato con certezza la causa della morte nella inalazione di fibre di amianto, del perito del PM, dott. Fu. che aveva ritenuto sussistente il nesso causale tra le neoplasie riscontrate e l'esposizione lavorativa all'amianto; dei consulenti di parte dott. Ma.Ba. e Ma.Ca. che avevano invece evidenziato come il Va. fosse stato un fumatore fino al 1994 e non avesse evidenziato patologie prima del 1998;
 
 4) il nesso di causalità tra la morte e l'esposizione lavorativa all'amianto
 
 5) La responsabilità degli imputati in relazione ai ruoli svolti, alla posizione di garanzia e alla conoscenza del pericolo all'epoca della esposizione.
 

Il Giudice di primo grado riteneva provata la responsabilità degli imputati, non meritevoli di attenuanti nonostante l'incensuratezza per la mancanza di alcuna offerta risarcitoria, e li condannava alla pena di un anno di reclusione, stabilendo il diritto al risarcimento delle parti civili e assegnando alle stesse una provvisionale pari a Euro 100.000,00 ciascuna.
 
 

2. Avverso la sentenza proponevano rituale appello i rispettivi difensori degli imputati per i motivi che vengono separatamente esposti.
 
 

Li.Ma.
 
Con il primo motivo di appello il difensore lamenta che non sia stata raggiunta la prova della esposizione del sig. Va. all'inalazione di fibre di amianto e che manchi la prova della quantità, qualità e concentrazione della fibre: considerando che il sig. Va. aveva lavorato come tubista dal 1950 al 1968 nel cantiere di Monfalcone non era stata raggiunta la prova rigorosa di un fatto risalente a quarant'anni prima della morte; tale prova non poteva essere data né dalla dott.ssa Za. che aveva cominciato a occuparsi di amianto dal 1985, né dal prof. Mo. che si era basato su una ricerca fatta dal prof. Go. a partire dal 1977; sottolineava che le valutazioni dell'INAIL avevano carattere presuntivo e non potevano rilevare in sede dibattimentale.
 
Le conclusioni rigorose del prof. Co. consulente di parte erano state perciò erroneamente disattese dal giudice di primo grado; non era stata inoltre valorizzata la deposizione del compagno di lavoro sig. Vi. che aveva riferito che il loro lavoro consisteva nel posizionare e montare le tubazioni delle navi in costruzione e che il lavoro non prevedeva l'utilizzo o la presenza di amianto.
 
Con il secondo motivo di appello si duole della mancanza di prova circa l'attribuibilità del tumore alla esposizione all'amianto: il sig. Va. era deceduto per cedimento dei punti di sutura dopo l'intervento chirurgico di asportazione del polmone; e il tumore al polmone era da collegarsi al fatto che il Va. era un fumatore e non essere esclusivamente ricondotto alla esposizione all'amianto; la causa della neoplasia rimaneva al più incerta.
 
Con il terzo motivo di appello si soffermava sulla colpa, vale a dire sulla conoscenza del pericolo/la prevedibilibilità - evitabilità dell'evento: sulla base degli studi medici e della conoscenza del pericolo della esposizione all'amianto rilevava l'appellante che nessuno in quegli anni (anni sessanta) riteneva che le lavorazioni presso il cantiere di Monfalcone costituissero un pericolo, come era confermato dalla mancanza di diffide o ingiunzioni o segnalazioni da parte del servizio sanitario o del servizio di sicurezza del lavoro o dell'Inail stessa: non era dunque corretto affermare la colpa degli imputati sulla base del richiamato principio che fosse prevedibile l'evento dannoso inteso come potenzialità della condotta omissiva a dar vita a una situazione di danno.
 
Si doleva, come quarto motivo, che non fosse stata condotta alcuna indagine per accertare se nel contesto di una impresa ad organizzazione complessa come quella in esame l'adozione delle cautele che nel capo di imputazione si contestano come omesse, rientrasse nell'ambito delle attribuzioni e competenze del direttore di stabilimento (divenuto tale peraltro un anno prima della cessazione del rapporto di lavoro del Va.); lamentava infine la mancata concessione delle attenuanti e contestava la sussistenza dell'aggravante di cui al secondo comma; in relazione alla prescrizione osservava che se il carcinoma è una malattia e tale era stato riconosciuto nel giudizio, l'aggravante del secondo comma, ossia della violazione delle norme "per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" vertendosi in materia di malattia professionale non sussisteva e la prescrizione doveva ritenersi maturata il (...).
 
Contestava infine la condanna al pagamento di una provvisionale essendo immotivata ed eccessiva e chiedeva di assolvere l'imputato dal reato a lui ascritto.
 
 

Tu.Gi.
 
L'appellante chiedeva assolversi l'imputato dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto; evidenziava che il ruolo dell'on. Tu., che ha ora 87 anni, era stato quello di predisporre un piano di ristrutturazione per concentrare varie società operanti nell'ambito navale e che non potevano più godere dell'aiuto statale; era stato stabilito che il Presidente di Fi. avrebbe assunto la presidenza della nuova It. mentre la conduzione e la responsabilità operativa della società sarebbe spettata all'amministratore delegato dott. Co. dovendo l'on. Tu. restare a Roma alla guida di Fi. e all'esito del primo consiglio di amministrazione gli venne affidato un ruolo di indirizzo in una struttura articolata costituita da un Amministratore delegato, due direttori generali, due vice direttori, direttori centrali e ingegneri dei settori amministrazione, acquisti, esercizio personale e problemi del lavoro, ufficio progetti, servizi tecnici, incarichi speciali; riteneva che attribuire all'imputato una responsabilità per il fatto a lui ascritto significava addossare una responsabilità oggettiva collegata alla carica ma non alle effettive funzioni svolte; gli indici per individuare il datore di lavoro responsabile secondo le vigenti norme di sicurezza, non si raccordano con i poteri doveri incombenti sul presidente del c.d.a.
 
 

L'on. Tu. doveva essere assolto anche perché non era stato dimostrato secondo l'appellante il nesso di causalità tra l'esercizio della carica e il decesso verificatosi a distanza di trenta anni, sia per l'impossibilità di collocare temporalmente l'evento lesivo nell'ambito del periodo di Presidenza Tu., evidenziando che la fonte di pericolo si poneva al di fuori della signoria dell'odierno imputato sia per la complessa organizzazione societaria sia per la specifica previsione di un ufficio responsabile per la sicurezza; rilevava inoltre che soltanto nel 1992 il legislatore italiano aveva proibito l'uso dell'amianto, materiale ampiamente utilizzato nella edilizia specialmente pubblica per le sue caratteristiche, addirittura prescritto nei capitolati di appalto perché materiale ritenuto indispensabile; era dunque necessario secondo l'appellante per ricondurre l'esposizione all'amianto alla condotta dell'imputato tenere conto: a) della data di inizio dell'attività lavorativa dei dipendenti, b) della data in cui insorse la patologia tumorale, c) di quella in cui ebbe a verificarsi l'evento; il giudice di Ch. aveva ritenuto impossibile far coincidere sulla base di un giudizio di probabilità logica o di elevata credibilità razionale, il momento dell'insorgenza della patologia con quello in cui almeno uno degli imputati avesse posto in essere la condotta omissiva oggetto di contestazione, assolvendoli dal reato loro ascritto; era impossibile attribuire all'imputato Tu. nel breve periodo in cui rivestì la carica ossia dal 1966 al 1968 l'insorgenza di una malattia che dopo lunghissima incubazione avrebbe portato a morte il sig. Va.; il giudice non aveva neppure tenuto adeguatamente conto che il Va. era stato fumatore fino al 1994, non aveva mai accusato patologie sino al 1998 e dalla cartella clinica emergeva il cedimento della sutura dopo l'intervento di asportazione di una parte del polmone; contestava la sentenza di primo grado che aveva dato valore alla consulenza del PM che si era limitato a considerare quale unica causa del decesso l'esposizione al'amianto senza tener conto della successiva condotta di vita del Va. e senza individuare l'epoca di insorgenza della malattia; lamentava che non vi era corrispondenza tra i principi enunciati e la loro applicazione sia in ordine all'effettiva e provata esposizione all'amianto, sia in ordine al fatto che la parte offesa avesse contratto la patologia esclusivamente nell'ambiente di lavoro; riteneva infine ingiustificata la condanna al risarcimento dei danni e l'assegnazione di una provvisionale immediatamente esecutiva per carenza assoluta di motivazione sul punto.
 
 

3. il Giudizio di appello, svoltosi nella dichiarata contumacia degli imputati, non presenti le parti civili ritualmente citate, è stato definito all'esito della discussione, sentite le conclusioni di cui in epigrafe, con una sentenza di riforma della pronuncia di primo grado avendo questa Corte riconosciuto decorso il periodo di prescrizione del reato.
 
4. La Corte di Appello ritiene di disattendere le principali richieste degli appellanti accogliendo unicamente quella proposta in via subordinata, vale a dire la declaratoria di proscioglimento degli imputati perché il reato si è estinto per prescrizione.
 
 

In ordine ai motivi di appello diretti a ottenere la pronuncia di assoluzione degli imputati se ne ritiene la infondatezza per le seguenti ragioni:
 
 

a) Con il primo ordine di motivi, entrambi gli appellanti lamentano che non sia stata raggiunta la prova della esposizione del sig. Va. all'amianto né che tale esposizione sia causa certa della malattia che ne ha provocato la morte.
 
 

Vale ricordare che Va.An. ha lavorato presso lo stabilimento navale della Fi. con sede a Monfalcone con mansioni di tubista di bordo addetto alla coibentazione delle strutture realizzata mediante una miscela di cemento e amianto dal (...) al (...) e successivamente come disegnatore tecnico fino al pensionamento avvenuto nel 1987: il lavoro svolto come tubista di bordo, secondo la descrizione fattane dal compagno di lavoro sig. Vi.Gi. sentito come teste, comportava l'esposizione all'amianto in quanto consisteva nel posizionare e montare le tubazioni di tutti gli impianti di bordo che erano coibentate con amianto secondo i disegni dei tecnici; la polvere non veniva respirata durante la fase della coibentazione (atteso lo stato umido dell'amianto spruzzato insieme a cemento), ma in caso di rottura delle coppelle, quando era cioè necessario modificare i tubi già posizionati (vds. verbale ud. dd. 22 maggio 2007, pag. 31 - 32) e nessuna efficace precauzione veniva adottata per ridurre o eliminare la inalazione della polvere d'amianto; l'esposizione all'amianto dei tubisti di bordo è stata riferita dalla dott. Za., responsabile dell'unità operativa di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro presso l'ASL n. (...), accertata sulla base delle proprie ricerche e dei propri studi; la stessa, che ha sottolineato che l'esposizione si presentava anche con il lavoro di disegnatore tecnico dovendo il Va. in detta veste recarsi a bordo delle navi per le misurazioni, ha posto in relazione l'esposizione all'amianto con il mesotelioma pleurico diagnosticato al sig. Va.; l'esposizione all'amianto è stata poi accertata dall'ing. Mo. e dal prof. Go. come aspetto del lavoro proprio dei tubisti, saldatori e coibentatori nei cantieri della Fi. di Monfalcone: i predetti, sentiti come testi, hanno sottolineato, confortati anche dai dati dell'INAIL, che il lavoro di tubista di bordo era tra quelli che comportava una maggiore esposizione all'amianto; pertanto il fatto che la loro ricerca sia stata svolta a partire dal 1977 ossia dopo che il sig. Va. era già stato assegnato ad altro settore, non inficia la valenza del collegamento causale in quanto la ricerca consente di descrivere il tipo di lavorazione in uso presso lo stabilimento della Fi. e il contesto lavorativo; pertanto le osservazioni critiche rivolte dal consulente della difesa, prof. Co., il quale ha sottolineato la mancanza di una rilevazione puntuale delle polveri di amianto presenti nell'aria all'epoca della presunta esposizione (vds. esame ud. 15 ottobre 2007), non appaiono idonee a inficiare la valenza delle predette conclusioni; che la causa della malattia, e della morte, del sig. Va. sia stata l'esposizione all'amianto è riferito dall'anatomopatologo, dott. Bi., il quale ha rilevato dall'esame istologico dei tessuti del sig. Va. la presenza di un carcinoma del polmone in asbestosi, segnalando il caso alla medicina del lavoro; il dott. Bi. ha ricordato che Va.An. era stato sottoposto a un importante intervento chirurgico al polmone in quanto aveva due masse tumorali distinte (un duplice tumore al polmone in asbestosi polmonare - vds. teste Bi. ud. 22 maggio 2007: la presenza di una asbestosi polmonare, ha spiegato il dott. Bi., a differenza di un generico tumore al polmone che può avere molte altre cause, è sicuramente riconducibile sotto il profilo scientifico, a una esposizione all'amianto: il polmone che normalmente ha una struttura spugnosa, si indurisce, diminuisce e diminuiscono gli spazi alveolari e aumenta la componente fibrosa come rilevato in sede di biopsia dove è stata accertata la presenza di 77.000 corpi per grammo di tessuto polmonare, indice eloquente, secondo il dott. Bi., di una prolungata e intensa esposizione all'amianto.
 
 

La chiarezza e il rigore del dato non consentono di poter dare alcuno spazio alla tesi sostenuta dai consulenti della Difesa della possibile o probabile causa del tumore nell'abitudine al fumo, riferita anche dalla moglie del sig. Va.; né consentono di ritenere come causa esclusiva della morte l'errore dei chirurghi nell'asportazione del polmone, o meglio nella fase immediatamente successiva all'intervento nell'errore correlato al trattamento di un allentamento dei punti di sutura; tale errore infatti, ove sussistente, non potrebbe considerarsi da solo sufficiente a causare l'evento ove si valuti comunque il carattere mortale della malattia di cui il Va. era affetto e il fatto che fu quella malattia a determinare la decisione di un radicale intervento chirurgico; esso si propone dunque come causa concorrente ex art. 41 comma 1 cod. pen.: a fronte delle valutazioni offerte dai consulenti della Difesa (che si sono soffermati anche sul fumo come causa della neoplasia polmonare, ipotesi che sfuma decisamente a fronte dei dati offerti dal dott. Bi.), il dott. Fu., consulente del PM, ha ritenuto, a conclusione del proprio accertamento, che la causa del decesso di Va.An. era da attribuire a duplice neoplasia del polmone dx patologia, neoplastica da considerarsi in nesso causale con l'attività lavorativa dallo stessa, svolta in vita.

Il dott. Fu. ha altresì evidenziato come il periodo di latenza tra l'esposizione all'asbesto e le manifestazioni cliniche del tumore polmonare e soprattutto del mesotelioma pleurico da esso indotti può arrivare a trenta anni, si che può ritenersi nella norma che non vi sia stato alcun segno della malattia fino al 1994; la malattia viene contratta in ragione della inalazione di fibre d'amianto e tanto maggiore (per intensità e durata) è l'esposizione tanto maggiore il rischio di contrarre una malattia, che rimane, per sua natura, in stato latente anche per più di trenta anni (il sig. Va. muore nel 1998, trenta anni dopo aver cessato il lavoro come tubista di bordo): quella da lui contratta è una malattia professionale, ossia contratta in ragione del tipo di lavoro svolto.
 
 

La malattia professionale è poi certamente integrativa dell'aggravante di cui al secondo comma dell'art. 589 cod. pen. come oramai statuito da costante giurisprudenza (vds. tra le più recenti Cass. 11.7.2002, n. 988 Ma.; Cass. 11.4.2008, n. 22165, Ma.) "la locuzione - norma sulla disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro - di cui agli artt. 589 e 590 c.p., - va intesa come comprensiva non solo delle disposizioni contenute nelle leggi specificamente dirette alla disciplina medesima ma anche di tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che tendono, in genere, a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi" (in tal senso già Cass. 14.12.1981, Ga.); non rileva dunque stabilire il momento preciso di insorgenza della malattia perché è sufficiente che la condotta abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza.

Sottolinea la Suprema corte come il ragionamento sia stato più avallato in sede di giudizio di legittimità perché la riduzione dei tempi di latenza dell'esplodere del tumore incide in modo significativo sull'evento morte, riducendo la durata della vita (Vds. Cass. 22165/2008, Ma., cit.).
 
 

b) il secondo ordine di motivi di appello comuni a entrambi gli imputati riguarda la attribuibilità dell'omissione contestata agli imputati in ragione sia della rispettiva posizione rivestita all'interno di una struttura complessa quale era l'Impresa in cui aveva lavorato il Va. sia, sotto il profilo della colpa, della prevenibilità dell'evento in ragione della conoscenza che all'epoca della attività di lavoro del Va. poteva dirsi diffusa in ordine alla non pericolosità dell'amianto.
 
 

E' pacifico che gli imputati ricoprivano posizioni di vertice all'interno della struttura aziendale rivestendo Li.Ma. le funzioni di direttore di stabilimento in Monfalcone negli anni dal 1966 al 1972 e successivamente presidente del Consiglio di amministrazione dell'Arsenale Triestino, e Tu.Gi. le funzioni di Presidente del consiglio di Amministrazione in Ca. S.p.A. società in cui erano confluiti negli anni 50 An., Ca. e Na., fino al 1968, con responsabilità di altissimo livello nel riassetto delle imprese dedite alla cantieristica navale: il giudice di primo grado evidenzia per il primo l'assenza di deleghe e, dunque, una diretta responsabilità nella realizzazione di tutte le misure di prevenzione necessarie in materia antinfortunistica e della sicurezza personale dei lavoratori e per il secondo la riconosciuta competenza di dirigente industriale e il ruolo di responsabilità suprema nella riorganizzazione delle imprese: la mancanza di un organico programma di "igiene industriale" così definita dal giudice di prime cure in difesa della respirazione di polveri di amianto, va addebitata ai due massimi dirigenti in concorso tra loro, sia perché la scelta di usare l'amianto nella costruzione delle navi era scelta d'impresa, adottata in ogni sede (es. Genova, Venezia, Castellamare di Stabia, oltreché Trieste), e dunque rientrante nei poteri di indirizzo generale,) spettanti al Tu., sia perché tale scelta non è stata accompagnata, nella organizzazione e conduzione delle singole sedi, da alcun sistema idoneo a prevenire o evitare o ridurre l'esposizione all'amianto: l'amianto è stato dismesso gradualmente solo a partire dal 1992 e nessuna efficace misura di prevenzione e protezione della salute dei lavoratori è stata adottata nei luoghi di lavoro per cui l'inalazione delle polveri di amianto è stata prolungata e intensa per tutto il periodo di attività lavorativa del Va. soprattutto nel suo ruolo di tubista di bordo.
 
Va poi osservato che la Suprema Corte si è pronunciata, per casi analoghi e pur in presenza di deleghe, in modo estremamente rigoroso statuendo il principio che si potrebbe qualificare di "diffusione della responsabilità": nel caso di imprese gestite da società di capitali, gli obblighi concernenti l'igiene e la sicurezza del lavoro gravano su tutti i componenti del consiglio di amministrazione. La delega di gestione in proposito conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega (Fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo, riguardando beni realizzati anche con amianto, aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri. La Corte ha ritenuto, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione, e dunque per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, che gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento - per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali) (Cass. 11 luglio 2002, n. 988, Ma.).


 
In un caso analogo, deciso dalla Corte di Appello di Trieste con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione (Cass. 11 aprile 2008, n. 22165, Ma.), è stato poi ritenuto, e viene anche per il caso in esame richiamato, che l'effettiva attribuzione di un ruolo di garanzia in capo a soggetti diversi dagli imputati deve emergere da un preciso organigramma d'impresa, mentre è stata rilevata l'assenza di atti di delega specifici; l'adunanza del 10 novembre 1966 richiamata dalla Difesa di Tu.Gi., individua una articolata struttura d'impresa, che ha al vertice con funzioni di indirizzo proprio l'on. Tu., il quale non si sottrae perciò all'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. e se vi sono più destinatari, quelli elencati dall'art. 4 dpr. 547/1955, tutti sono tenuti al rispetto dell'obbligo, per cui il processo semmai risente della incompleta individuazione di tutti i soggetti responsabili. Il breve periodo di svolgimento dell'incarico di Presidente del C.d.A. viene tuttavia valorizzato ai fini della attenuazione della responsabilità, come si dirà in seguito.
 

Infine in ordine alla prevedibilità ed evitabilità (prevedibilità) dell'evento e alla conseguente omissione dei prezzi di prevenzione a tutela dei dipendenti, occorre evidenziare i due profili, vale a dire: 1) la conoscenza che il datore di lavoro poteva e doveva avere della correlazione tra tumori ed esposizione all'amianto all'epoca in cui il Va. ha prestato la propria attività lavorativa (dal 1950 al 1968 come tubista e fino al 1987 come disegnatore tecnico); 2) la violazione delle disposizioni vigenti per eliminare o comunque ridurre le polveri e l'impiego di dispositivi di protezione individuale.
 
 

Sotto il primo profilo, occorre in generale ricordare l'orientamento giurisprudenziale che fa carico al datore di lavoro di uniformarsi alla migliore tecnologia nell'adozione e nell'adeguamento delle misure antinfortunistiche: inoltre prevedibilità dell'evento non significa, come ha specificato la Suprema Corte "rappresentazione precisa di quello che si verificato in tutta la sua gravita, ma conoscenza della potenziale idoneità della condotta antidoverosa di dare vita ad effetti dannosi per la salute".

Detto principio più volte affermato dalla Suprema Corte, va riaffermato anche nel caso in esame, essendo sin dal 1943 l'asbestosi riconosciuta come malattia professionale, essendo stato introdotto nel 1956 l'obbligo per i datori di lavoro di abbattere le polveri e gas negli ambienti di lavoro, ed essendo stata provata, già dagli anni sessanta, scientificamente la correlazione tra asbesto e mesotelioma maligno con un generale riconoscimento degli effetti cancerogeni dell'amianto; va dato atto che la conoscenza diffusa della pericolosità dell'amianto si afferma a partire dagli anni settanta, tuttavia questo aspetto consente solo di attenuare la responsabilità, non di escluderla, come viene valorizzato nella prospettiva della applicazione dell'art. 62 bis c.p.
 
 

Si legge nella motivazione della sentenza 11 aprile 2008, n. 22165, Ma., che la Corte di Cassazione: in più occasioni (Sezioni Unite 10/7/2002, Francese; sezione quarta n. 953 dell'11/7/2002; 12/7/2005), nel ripercorrere i fondamenti giuridici della causalità omissiva, ha affermato che la spiegazione degli eventi attraverso il sapere scientifico non significa fare uso solo di leggi universali che sono molto rare, ma anche di leggi statistiche, di rilevazioni epidemiologiche, di generalizzazioni empiriche del senso comune.

La causalità omissiva presenta una complessità particolare perché si fonda non su fatti materiali empiricamente verificabili, ma su di una ricostruzione logica, che, a differenza di quella commissiva, non può avere una verifica fenomenica, il rapporto si istituisce tra una entità reale, vale a dire l'evento verificatosi, ed un'entità immaginata, la condotta omessa ed il giudizio contrattuale ("contro i fatti": se l'intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell'evento?) serve a ricostruire la sequenza e a fondare la risposta.

Tuttavia questa risposta che deve servirsi del sapere scientifico e quindi necessita di una "legge di copertura" non va fondata solo su leggi assolute, ma anche su altre forme di sapere che comportino la possibilità di affermare con logica certezza la riferibilità della condotta omessa all'evento. Dunque se è pur vero che l'amianto era materiale assai diffuso nella cantieristica navale, è vero altresì che gli studi all'epoca svolti avevano già delineato la potenzialità cancerogena del materiale e tale informazione non poteva essere ignorata dal datore di lavoro, chiamato ad adottare tutte le cautele necessarie al fine di assicurare la salubrità dell'ambiente.
 
 

Sotto il secondo profilo viene ricordato ancora che la corte di cassazione nell'esame di problematiche afferenti casi analoghi, con particolare riguardo alle doglianze difensive relative alla inesistenza di norme specifiche che imponessero l'eliminazione dell'amianto, sostiene che "l'assenza di una normativa specifica non esonera da responsabilità chi ha l'obbligo giuridico di aggiornarsi sulle tecniche antinfortunistiche e sui mezzi di contrasto delle malattie professionali.

Come è stato efficacemente osservato in dottrina, si tratta di un onere certamente gravoso, ma giustificato dalle complessive finalità sociali perseguite dall'ordinamento e dall'esigenza di non lasciare nulla al caso e di fare in modo che la protezione sia in ogni caso completa ed efficace".

Si tratta di concetti pienamente condivisi da questa corte di merito.
 
 

Va poi ricordato come già all'epoca in cui Va. prestava la propria attività di lavoro come tubista di bordo erano vigenti alcune norme che imponevano al datore di lavoro l'adozione di misure per eliminare o ridurre le polveri e l'impiego di dispositivi di protezione individuale (fra tutte l'art. 387 D.P.R. 547/55; gli artt 19 e 21 D.P.R. 303/56; la l. 455/43; il D.P.R. 1124/65): si tratta di norme che imponevano anche l'informazione e formazione sui rischi derivanti dall'inalazione di polveri, prescrivevano visite mediche periodiche e tutta una serie di accorgimenti, fra cui quello di evitare la presenza di lavoratori non direttamente interessati alle lavorazioni pericolose, in relazione ai rischi connessi all'inalazione di polveri: lo stesso collega di lavoro Vi.Gi. ha descritto le condizioni di lavoro, la sostanziale assenza di impianti di aspirazione e di dispostivi idonei di protezione.
 
 

In tema di responsabilità colposa la Corte ha statuito nel 2002 e ribadito nel 2008, nelle sentenze già richiamate, principi rigorosi, che questa corte di merito richiama per applicarli anche al caso in esame:
"in tema di responsabilità colposa per violazione di norme prevenzionali, la circostanza che la condotta antidoverosa, per effetto di nuove conoscenze tecniche e scientifiche, risulti nel momento del giudizio produttiva di un evento lesivo, non conosciuto quale sua possibile implicazione nel momento in cui è stata tenuta, non esclude la sussistenza del nesso causale e dell'elemento soggettivo sotto il profilo della prevedibilità, quando l'evento verificatosi offenda lo stesso bene alla cui tutela avrebbe dovuto indirizzarsi il comportamento richiesto dalla norma e risulti che detto comportamento avrebbe evitato anche la lesione in concreto attuata (fattispecie relativa all'esposizione di lavoratori all'inalazione di polveri di amianto, nella quale l'eventuale ignoranza dell'agente circa la possibile produzione di malattie tumorali, e soprattutto del mesotelioma pleurico, è stata giudicata irrilevante a fronte dell'omissione di cautele che sarebbero state comunque doverose secondo le conoscenze dell'epoca, per la prevenzione dell'asbestosi, e cioè di una malattia comunque molto grave e potenzialmente fatale, almeno in termini di durata della vita).
 
Era dunque obbligo dell'imprenditore quello di dotarsi di misure di protezione e di controllare l'uso di quelle individuali da parte dei lavoratori. Pertanto non solo vi era una condotta esigibile che è stata violata, ma anche la possibilità di rappresentazione di un evento di danno alla salute, sufficiente per affermare la prevedibilità ed evitabilità di quanto è avvenuto sulla persona del Va.
 
 

Si può ritenere pienamente provato, sotto entrambi i profili analizzati, che l'evento fosse prevenibile e che il datore di lavoro abbia omesso di predisporre le necessarie misure di prevenzione.
 
 

Viene dunque confermata la sentenza di primo grado sotto il profilo della ritenuta responsabilità penale degli imputati
 
 

c) Deve essere accolta l'istanza avanzata in via subordinata dalla Difesa, vale a dire il riconoscimento del decorso del termine di prescrizione, previa concessione delle attenuanti generiche per entrambi gli imputati, prevalenti sulla contestata aggravante.
 
 

Della sussistenza della aggravante si è detto supra (pag. 7).
 
 

La prescrizione viene ravvisata previa concessione delle attenuanti generiche a entrambi gli imputati in ragione di vari aspetti: la incensuratezza di entrambi gli imputati, il grado di conoscenza della pericolosità dell'amianto fino agli anni settanta, il periodo breve in cui è stato svolto l'incarico (per Tu.), rispetto al periodo di lavoro del Va., il fatto che la malattia professionale si è posta in concorso, come si è detto, con altra presumibile causa del decesso (quale l'inidoneo trattamento posto operatorio) e, soprattutto dell'intervenuto risarcimento del danno desunto dalla dichiarazione dei difensori e dalla assenza delle parti civili nel giudizio di appello: quest'ultimo aspetto, in particolare, giustifica nel giudizio di bilanciamento tra aggravanti e attenuanti, la valutazione della prevalenza di queste ultime sull'aggravante contestata; il reato pertanto, riconducibile quoad poenam alla previsione del primo comma dell'art. 589 cod. pen. (pena massima cinque anni di reclusione) e punibile, in forza delle attenuanti, con una pena massima inferiore a cinque anni (art. 157 cod. vig. ante modifica intervenuta con L. 251/2005 in quanto norma più favorevole secondo l'espresso disposto di cui all'art. 10 commi 2 e 3 L. 251/2005), deve ritenersi estinto per il decorso del termine di prescrizione di sette anni e mezzo, e dunque prescritto il (...), ossia prima dell'avvio stesso del giudizio di primo grado con decreto di citazione notificato il (...).
 
 

Gli imputati vanno dunque prosciolti dal reato loro ascritto per essere il reato estinto per prescrizione e revocati i capi civili della sentenza, per cui superfluo diventa l'esame dei motivi di appello inerenti i capi civili medesimi.

 


P.Q.M.

 


La Corte di appello di Trieste, prima sezione penale, visto l'art. 605 c.p.p., in riforma della sentenza del Tribunale di Gorizia dd. 16 febbraio 2009 appellata da Li.Ma. e Tu.Gi., concesse le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante
 
dichiara non doversi procedere nei confronti di Li.Ma. e Tu.Gi. essendo il reato loro ascritto estinto per prescrizione.
 
 

Revoca le statuizioni civili della sentenza impugnata
 
Visto l'art. 544 c. 3 c.p.p. indica il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.
 
Così deciso in Trieste il 16 giugno 2010.

Depositata in Cancelleria il 13 settembre 2010.