Cassazione Penale, Sez. 4, 11 marzo 2011, n. 9917 - Responsabilità di un institore preposto alla sicurezza


 

 

Responsabilità di un institore preposto alla sicurezza per infortunio occorso ad un lavoratore addetto al laminatoio - sul quale scorrevano ad elevata velocità verghe di acciaio incandescente - cha aveva il compito di disincagliare i pezzi che bloccavano il funzionamento del nastro.

Questa attività veniva svolta a macchina ferma ma poichè, dopo che era stato bloccato, il nastro continuava a scorrere per inerzia per circa sessanta secondi era avvenuto che il lavoratore (insieme ad altro dipendente che nell'incidente non ha subito eventi lesivi) aveva iniziato l'opera di disincaglio prima che la macchina fosse completamente ferma e, durante queste operazioni, veniva attinto alla testa da un frammento di metallo incandescente che ne provocava la decapitazione.
 

 

L'evento è stato addebitato a L. principalmente sotto questi profili: per non aver adeguatamente protetto il percorso con sistemi del tipo paratie che potessero proteggere i lavoratori dal lancio di materiale incandescente già verificatosi in passato; per non aver sistemato dispositivi che consentissero l'apertura delle protezioni solo a macchina completamente ferma; non aver adeguatamente informato il personale sui rischi derivanti dalla lavorazione in questione; in particolare, su quest'ultimo aspetto, la Corte ha ritenuto troppo generico e poco conoscibile un avviso affisso in bacheca ed avente ad oggetto proprio la lavorazione in questione.

 

Ricorso in Cassazione - Rigetto.

 

La Suprema Corte afferma che: "non corrisponde infatti al vero che la sentenza impugnata non abbia indicato la fonte dello specifico obbligo cautelare corrispondente, in tutta evidenza, a quello previsto dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 134 che si riferisce proprio ai laminatoi e prevede che "negli impianti di laminazione in cui si ha uscita violenta del materiale in lavorazione, quali i laminatoi siderurgici e simili, devono essere predisposte difese per evitare che il materiale investa i lavoratori".
Ma anche se non esistesse una disposizione specifica è ovvio che ci troveremmo in un caso di violazione di una generica regola di cautela che impone di proteggere chi si trova nelle vicinanze di un apparato dal quale avviene spesso - per la velocità del movimento - che si distacchino pezzi di metallo incandescente. Evento peraltro già verificatosi in passato, come accertato incensurabilmente dai giudici di merito, e che dunque era ampiamente prevedibile.
Del resto l'inadeguatezza dell'impianto ai fini della protezione dei lavoratori emerge anche dagli interventi adottati successivamente all'incidente in questione e costituiti da paratie apposte sul percorso idonee ad evitare che i lavoratori fossero colpiti da pezzi di metallo incandescente.
Nè l'imputato può addurre a sua discolpa una asserita non conoscenza del rischio posto che, anche se non fosse stato informato degli eventi pregressi che non avevano provocato danni alle persone, sarebbe comunque in colpa per non avere, quale responsabile della sicurezza, preso in considerazione l'esistenza del rischio - del tutto palese secondo l'accertamento incensurabile dei giudici di merito - adottando le necessarie misure prevenzionali.
Insindacabile nel giudizio di legittimità è poi la valutazione di inadeguatezza dell'obbligo informativo da parte dell'imputato (in violazione del
D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 37) essendo esente da alcuna illogicità l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui era del tutto insufficiente, per i fini di prevenzione indicati, un avviso affisso in bacheca per avvertire i lavoratori del gravissimo pericolo al quale erano sottoposti ove non avessero osservato la direttiva (e questa inosservanza era frequente secondo quanto è stato accertato nei giudizi di merito) di non avvicinarsi al laminatoio prima che lo stesso fosse completamente fermo."

 

E ancora:

 

La tutela della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro costituisce "uno dei compiti primari delle organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro ed è scolpito nell'art. 9 dello statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300) che prevede che i lavoratori, mediante loro rappresentanze (che, ovviamente, non possono che essere soprattutto quelle sindacali) "hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e le malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica".
Si badi che la norma statutaria, oltre a confermare la l'esistenza di una finalità primaria, in capo al sindacato, della tutela della salute dei lavoratori configura come vero e proprio diritto soggettivo la possibilità di controllare l'applicazione delle norme di prevenzione e quella di promuovere, tra l'altro, l'applicazione delle misure di tutela della salute dei lavoratori. Dunque, se anche si facesse riferimento alla superata teoria, in precedenza criticata, secondo cui alla costituzione di parte civile è legittimato solo il titolare di un diritto soggettivo per il sindacato non esisterebbe questo ostacolo teorico.
Queste attribuzioni del sindacato sono state precisate e rafforzate con l'entrata in vigore del
D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 i cui artt. 18, 19 e 20 con la previsione dell'elezione, da parte dei lavoratori, di un rappresentante per la sicurezza che, nelle imprese o unità produttive con più di quindici dipendenti, è eletto o designato (art. 18, comma 3) "nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda" ed è dotato delle amplissime attribuzioni previste dall'art. 19.
Il sistema sinteticamente delineato, vigente all'epoca dell'infortunio e della costituzione di parte civile nel giudizio di primo grado, è stato confermato e rafforzato con l'entrata in vigore del
D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il cui art. 47 e ss. hanno attuato un'ancor più penetrante partecipazione dei lavoratori, e delle loro rappresentanze sindacali, al controllo e all'attuazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.
Nel caso in esame i giudici di merito hanno incensurabilmente accertato che l'infortunio si è verificato sia per l'inadeguata informazione del lavoratore sui rischi propri della lavorazione alla quale era adibito sia per l'inadeguatezza (o addirittura inesistenza) delle misure di protezione necessarie per evitare il contatto tra lavoratori e metallo incandescente.
Si tratta dunque della violazione di regole di prevenzione alla cui osservanza il sindacato ha un diretto interesse tutelato (o addirittura un diritto soggettivo se si interpreta l'art.
9 dello statuto dei lavoratori nel senso indicato) la cui violazione legittima la costituzione di parte civile nel procedimento penale instaurato."


 

 

 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 SEZIONE QUARTA PENALE
 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 Dott. MARZANO Francesco - Presidente -
 Dott. BRUSCO Carlo G. - rel. Consigliere -
 Dott. GALBIATI Ruggero - Consigliere -
 Dott. MASSAFRA Umberto - Consigliere -
 Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
 ha pronunciato la seguente:
 sentenza 

 

 

 sul ricorso proposto da:
 1) L.L. N. IL (OMISSIS);
 avverso la sentenza n. 2446/2005 CORTE APPELLO di BRESCIA, del 23/11/2009;
 visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
 udita in PUBBLICA UDIENZA del 19/01/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CARLO GIUSEPPE BRUSCO;
 Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Mazzotta Gabriele che ha concluso per il rigetto del ricorso;
 udito per la parte civile FIOM-CGIL l'avv. Cadeo Fausto che ha concluso per il rigetto del ricorso;
 udito per il ricorrente l'avv. Frattini Luigi che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
 La Corte:
 

 

 


FattoDiritto

 

 1) L.L. ha proposto ricorso avverso la sentenza 23 novembre 2009 della Corte d'Appello di Brescia che ha parzialmente riformato - concedendo all'imputato l'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 6 con conseguente riduzione di pena ma confermando il giudizio di equivalenza tra le circostanze formulate dal primo giudice - la sentenza 14 marzo 2005 del Tribunale di Brescia che lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione per il delitto di omicidio colposo in danno di B.J. E. deceduto in (OMISSIS) a seguito di un infortunio sul lavoro verificatosi all'interno di uno stabilimento siderurgico della s.p.a. F. SIDERURGICA.

La sentenza d'appello ha riformato quella di primo grado anche sul punto concernente il danno subito dal sindacato Fiom Cgil, costituitosi parte civile, al quale ha liquidato un risarcimento del danno pari ad Euro 5.000,00 oltre alla rifusione delle spese di costituzione (il primo giudice, pur ritenendo legittimato il sindacato a costituirsi parte civile ha ritenuto che non fosse provata l'esistenza del danno).
 

I giudici di merito hanno accertato che il lavoratore infortunato era addetto al laminatoio - sul quale scorrevano ad elevata velocità verghe di acciaio incandescente - e aveva il compito di disincagliare i pezzi che bloccavano il funzionamento del nastro.

Questa attività veniva svolta a macchina ferma ma poichè, dopo che era stato bloccato, il nastro continuava a scorrere per inerzia per circa sessanta secondi era avvenuto che il lavoratore (insieme ad altro dipendente che nell'incidente non ha subito eventi lesivi) aveva iniziato l'opera di disincaglio prima che la macchina fosse completamente ferma e, durante queste operazioni, veniva attinto alla testa da un frammento di metallo incandescente che ne provocava la decapitazione.
 

L'evento è stato addebitato a L., institore preposto alla sicurezza del lavoro, principalmente sotto questi profili: per non aver adeguatamente protetto il percorso con sistemi del tipo paratie che potessero proteggere i lavoratori dal lancio di materiale incandescente già verificatosi in passato; per non aver sistemato dispositivi che consentissero l'apertura delle protezioni solo a macchina completamente ferma; non aver adeguatamente informato il personale sui rischi derivanti dalla lavorazione in questione; in particolare, su quest'ultimo aspetto, la Corte ha ritenuto troppo generico e poco conoscibile un avviso affisso in bacheca ed avente ad oggetto proprio la lavorazione in questione.
 

2) Contro la sentenza della Corte di merito ha proposto ricorso L.L. che, dopo aver ripercorso le fasi di questo processo, ha dedotto, con il primo motivo, la violazione degli artt. 42, 43 e 589 cod. pen., artt. 546 e 125 cod. proc. pen., nonchè il vizio di motivazione, con riferimento alla mancata indicazione, da parte della sentenza impugnata, della fonte giuridica che imponeva la costruzione di una "galleria sulla via a rulli successiva all'impianto di laminazione" non essendo neppure possibile fondare questo obbligo su norme di comune prudenza visto che il fatto oggetto del presente processo ha avuto carattere di assoluta imprevedibilità; imprevedibilità che non consentirebbe neppure di affermare che le cautele indicate fossero predisposte ad evitare proprio quel tipo di evento e non altri.
 

Sotto il diverso profilo dell'informazione il ricorrente contesta poi che l'avviso affisso in bacheca fosse generico e censura altresì l'affermazione che non fosse redatto anche nella lingua madre dell'infortunato senza neppure che fosse stato accertato se questi conoscesse la lingua italiana; si duole inoltre che il giudice d'appello non abbia accertato se l'imputato fosse a conoscenza delle violazioni della regola di operare solo a macchina completamente ferma che la sentenza afferma essersi più volte verificate.
 

Con il secondo motivo si deduce invece la mancanza di motivazione sulla ritenuta equivalenza delle circostanze malgrado nel giudizio di secondo grado sia stata riconosciuta un'ulteriore attenuante mentre, con il terzo motivo di ricorso, si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto l'obbligo di risarcire il sindacato malgrado l'inesistenza di alcun diritto leso in capo all'associazione sindacale costituitasi parte civile.
 

 

 

3) Il ricorso è infondato e deve conseguentemente essere rigettato.
 

 

Non corrisponde infatti al vero che la sentenza impugnata non abbia indicato la fonte dello specifico obbligo cautelare corrispondente, in tutta evidenza, a quello previsto dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 134 che si riferisce proprio ai laminatoi e prevede che "negli impianti di laminazione in cui si ha uscita violenta del materiale in lavorazione, quali i laminatoi siderurgici e simili, devono essere predisposte difese per evitare che il materiale investa i lavoratori".
Ma anche se non esistesse una disposizione specifica è ovvio che ci troveremmo in un caso di violazione di una generica regola di cautela che impone di proteggere chi si trova nelle vicinanze di un apparato dal quale avviene spesso - per la velocità del movimento - che si distacchino pezzi di metallo incandescente. Evento peraltro già verificatosi in passato, come accertato incensurabilmente dai giudici di merito, e che dunque era ampiamente prevedibile.
Del resto l'inadeguatezza dell'impianto ai fini della protezione dei lavoratori emerge anche dagli interventi adottati successivamente all'incidente in questione e costituiti da paratie apposte sul percorso idonee ad evitare che i lavoratori fossero colpiti da pezzi di metallo incandescente.
Nè l'imputato può addurre a sua discolpa una asserita non conoscenza del rischio posto che, anche se non fosse stato informato degli eventi pregressi che non avevano provocato danni alle persone, sarebbe comunque in colpa per non avere, quale responsabile della sicurezza, preso in considerazione l'esistenza del rischio - del tutto palese secondo l'accertamento incensurabile dei giudici di merito - adottando le necessarie misure prevenzionali.
Insindacabile nel giudizio di legittimità è poi la valutazione di inadeguatezza dell'obbligo informativo da parte dell'imputato (in violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 37) essendo esente da alcuna illogicità l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui era del tutto insufficiente, per i fini di prevenzione indicati, un avviso affisso in bacheca per i avvertire i lavoratori del gravissimo pericolo al quale erano sottoposti ove non avessero osservato la direttiva (e questa inosservanza era frequente secondo quanto è stato accertato nei giudizi di merito) di non avvicinarsi al laminatoio prima che lo stesso fosse completamente fermo.
 

4) Infondato è infine l'ultimo motivo di ricorso che si riferisce alla legittimazione del sindacato a costituirsi parte civile nel processo avente ad oggetto la responsabilità penale per reati (omicidio e lesioni colpose) conseguenti ad infortuni sul lavoro. Su questo punto questo collegio condivide integralmente le ampie e puntuali considerazioni contenute nella recente sentenza di questa medesima sezione 18 gennaio 2010 n. 22558, Ferraro, rv. 247814.
Per risolvere questo problema occorre preliminarmente verificare se esista un danno civile risarcibile dell'ente o associazione esponenziale e la difficoltà di soluzione di questo problema è testimoniata non solo dalle contrastanti soluzioni giurisprudenziali e dottrinali nel tempo fornite sul tema specifico in esame ma, più in generale, dall'evoluzione della giurisprudenza in tema di danni risarcibili verificatasi negli ultimi decenni.
In particolare sul tema più generale dell'ammissibilità della costituzione di parte civile degli enti e associazioni esponenziali gli orientamenti che si sono formati nella giurisprudenza di legittimità sono sostanzialmente tre.
Un primo orientamento, più restrittivo e ormai superato, escludeva questa possibilità sul rilievo che le associazioni in questione (in particolare quelle ambientaliste sulle quali l'attenzione della giurisprudenza si è più spesso soffermata) sono rappresentative di interessi diffusi e non di diritti soggettivi la cui sola lesione può consentire il risarcimento del danno civile (in questo senso v. Cass., sez. 3, 18 aprile 1994 n. 7275, Galletti, rv. 198197).
Più recentemente la giurisprudenza di legittimità si era invece orientata nel senso di ritenere ammissibile la costituzione di parte civile degli enti ed associazioni esponenziali purchè l'interesse perseguito dall'associazione riguardasse una situazione localmente e storicamente determinata che, fungendo da elemento caratterizzante e costitutivo dell'associazione, diviene un diritto soggettivo del gruppo associato. In questo senso si vedano, tra le numerose altre, Cass., sez. 3, 5 aprile 2002 n. 22539, Kiss Gmunter, rv. 221882; 9 luglio 1996 n. 8699, Perotti; rv. 209096; 2 febbraio 1996 n. 3503, Russo, rv. 205780.
Esisteva poi un orientamento, per così dire intermedio, secondo cui, nel caso di reati contro l'ambiente, mentre agli enti pubblici spetta il risarcimento dei danni le associazioni ambientalistiche possono costituirsi parte civile nel processo ma hanno diritto esclusivamente alla liquidazione delle spese e degli onorari (v. Cass., sez. 3, 3 dicembre 2002 n. 43238, Veronese, rv. 223038).
Questo orientamento si fondava sulla previsione della L. 3 agosto 1999, n. 265, art. 4, comma 3 che ha consentito alle associazioni di protezione ambientale di proporre davanti al giudice ordinario le azioni risarcitorie che spettino al comune e alla provincia con la previsione che l'eventuale risarcimento sia liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali a favore dell'associazione; ma è da notare che, anteriormente all'entrata in vigore della norma indicata, il medesimo orientamento era stato espresso, tra le altre, da Cass., sez. 3, 1 ottobre 1996 n. 9837, Locateli, rv. 206473.
Come è agevole constatare i tre ricordati orientamenti danno per scontato che il presupposto per l'esercizio dell'azione civile , nel processo penale (ma anche per l'agire in sede civile) sia costituito dalla titolarità di un diritto soggettivo. Chi ritiene che il diritto soggettivo non esista nega la legitimatio ad causarti dell'associazione esponenziale; chi la afferma è costretto, con una costruzione alquanto macchinosa, ad individuarlo. L'orientamento intermedio afferma l'esistenza del diritto soggettivo per poi negare, con poca consequenzialità (prima della L. n. 265 del 1999 che ha consentito la ricordata sostituzione), il diritto al risarcimento (ma non alla liquidazione delle spese).
Verosimilmente il fondamento di questa tesi è da ricercare nelle teorie tradizionali che, con varietà di argomentazioni, pervengono nella sostanza a ricostruire la responsabilità extracontrattuale come fondata su norme di relazione, non diversamente da quella contrattuale, e a ricondurre l'illecito alla violazione di un diritto soggettivo assoluto con la conseguenza di ritenere ingiusto esclusivamente il danno che un tale diritto leda (significativo in questo senso è l'uso, da parte di alcune delle decisioni ricordate, dell'espressione "lesione di un diritto della personalità" dell'ente o associazione).
A monte di questa visione (costruita dalla dottrina anche con una lettura integratrice dell'art. 1151 del vecchio cod. civ. che, in verità, nessun appiglio forniva a questa teoria), ovviamente riduttiva dei limiti della risarcibilità, si pone una visione prettamente liberista della società (laissez faire) tesa a non esporre le attività produttive ad eccessive richieste di danni e a limitare la protezione dal danno ai soli casi in cui i diritti soggettivi (e solo alcuni di essi) siano espressamente attribuiti dalla legge al singolo. Una più ampia tutela, secondo questa impostazione teorica, sarebbe inoltre fonte di incertezze, per le difficoltà di identificare gli interessi protetti, e comporterebbe un'eccessiva discrezionalità dei giudici. Si comprende quindi perchè, da queste premesse dommatiche, si pervenga anche ad affermare il principio della tipicità dell'illecito (attribuendo all'art. 2043 una funzione ricognitiva dei diritti soggettivi già previsti da altre norme).

Negli ultimi decenni questa impostazione teorica è stata però sottoposta a vivaci critiche tanto che oggi può ritenersi ampiamente superata.

Si è invece affermata, prima in dottrina e poi in giurisprudenza, una visione assai meno riduttiva dell'illecito con l'affermazione dell'estensione della risarcibilità del danno ben al di là della violazione dei diritti soggettivi assoluti, fino a ricomprendervi la violazione dei diritti (relativi) di credito (tutela aquiliana del credito), di interessi legittimi (si vedano le sentenze delle sezioni unite civili della Corte di cassazione 22 luglio 1999 nn. 500 e 501, rv. 530533 e 530556), di interessi diffusi, di aspettative.
E, mentre in passato il danno poteva considerarsi ingiusto solo se ledeva un diritto che la legge attribuiva esplicitamente ad un soggetto, in base a questi più recenti orientamenti questa qualificazione può aversi anche nei casi in cui un soggetto, non espressamente autorizzato da una norma (e qualche volta anche se autorizzato), arreca un danno ad un terzo non necessariamente titolare di un diritto soggettivo.
Di questo mutamento teorico è stata protagonista la dottrina i giuridica.

La giurisprudenza, in particolare quella di legittimità, è rimasta più legata, almeno nelle enunciazioni astratte, alla concezione tradizionale dell'illecito anche se, di fatto, l'ha ampiamente superata ("aggirata": così si esprimono le sez. un. civili nelle citate sentenze 500 e 501 del 1999) in un primo tempo ricomprendendo nella tutela anche la lesioni dei diritti soggettivi non assoluti e poi ampliando l'area tradizionale della risarcibilità del danno aquiliano con il riconoscimento della dignità di diritto soggettivo a posizioni giuridiche che tali non erano (le sentenze da ultimo citate ricordano il "diritto" all'integrità del patrimonio, alla libera determinazione negoziale; la risarcibilità del danno da perdita di chance o quello da lesione di legittime aspettative nei rapporti familiari ed anche nell'ambito della famiglia di fatto).
Con le più volte ricordate sentenze delle sezioni unite civili questo processo teorico ha trovato, anche nella giurisprudenza di legittimità, la sua conclusione non solo perchè ha riconosciuto la (sempre negata) risarcibilità del danno provocato dalla lesione dell'interesse legittimo ma perchè ha esplicitamente affermato il superamento, anche teorico, della ricordata tradizionale impostazione che individuava il fatto illecito nella lesione del diritto soggettivo.
Logico corollario di questa revisione critica è il rifiuto del concetto di tipicità dell'illecito e l'attribuzione, all'art. 2043 cod. civ., non più delle caratteristiche di norma ricognitiva ma di vera e propria clausola generale di responsabilità civile.
Insomma, in passato l'illecito si configurava nell'indebita invasione della sfera giuridicamente ed espressamente protetta; oggi può configurarsi nell'invasione (non vietata ma) non autorizzata di questa sfera intesa in termini ben più estesi del diritto soggettivo assoluto e che inoltre, con ulteriore estensione della sfera soggettiva protetta, può assumere anche i caratteri di un interesse attribuito al cittadino, alla persona, all'individuo (è l'espressione usata dall'art. 32 Cost.) indipendentemente dall'esistenza di una norma di relazione che lo tuteli con l'esplicita attribuzione di un diritto soggettivo.
Questa elaborazione - che ha il suo fondamento in diverse norme della Costituzione, ed in particolare nell'art. 2, improntato ad una visione solidaristica della società, ma trova vari argomenti di supporto anche nelle norme del codice civile - non è rimasta al livello di affermazioni teoriche ma ha costituito il fondamento dell'estensione della tutela giuridica di interessi in passato privi di tutela: si pensi, in particolare - e qui il problema attiene più specificamente al problema che ci interessa -alla tutela della salute (non più riduttivamente intesa come tutela dell'integrità fisica) anche dei lavoratori sui luoghi di lavoro, a quella dell'ambiente, agli interessi dei consumatori.
Per questi settori il dato di partenza non è costituito da un diritto soggettivo attribuito al singolo ma dall'interesse diffuso di una categoria di persone mentre, sul piano più strettamente individuale, si è espressa nell'estensione della tutela operata a favore della risarcibilità dei danni non patrimoniali con un'interpretazione estensiva dell'art. 2059 che è stata riaffermata dalle sentenze 31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827 del 2003 della terza sez. civile di questa Corte (rv. nn. 563835-6 e 563840-1) oltre che nel riconoscimento definitivo della riparazione di lesioni di situazioni giuridiche ben difficilmente qualificabili come diritti soggettivi (si vedano le sentenze Cass., sez. 3, 11 novembre 2003 n. 16946 e 19 agosto 2003 n. 12124, entrambe in tema di riparazione del danno esistenziale cui ha dato altresì riconoscimento la Corte costituzionale con la sentenza 11 luglio 2003 n. 233).
Nè vale a mutare il contenuto di questa evoluzione giurisprudenziale la più recente sentenza delle sezioni unite civili 11 novembre 2008 n. 26972, rv. 605492, che si è limitata a recepire una nozione unitaria di danno non patrimoniale nella quale non avrebbe autonoma rilevanza la categoria del danno esistenziale.
 

5) Se dunque è da ritenere superata la concezione per cui la tutela giurisdizionale è consentita esclusivamente per la tutela della lesione del diritto soggettivo ne consegue che anche il pluridecennale ricordato dibattito sull'esistenza della legittimazione attiva degli enti esponenziali deve ritenersi superato dall'evoluzione giurisprudenziale. Non è più il diritto soggettivo (tanto meno quello assoluto) che, se leso, è oggetto di tutela giurisdizionale: tutte le lesioni di posizioni giuridiche, protette sono astrattamente idonee a provocare un danno a chi ne è titolare e a giustificare quindi l'esistenza di un diritto di azione per la sua riparazione.
 

Non appare quindi necessario richiamarsi alla riferita complessa costruzione giuridica che, in vario modo, tenta di trasformare gli interessi diffusi dei singoli in diritti collettivi o diritti soggettivi del gruppo esponenziale perchè il gruppo esponenziale - ovviamente se caratterizzato da effettività, radicamento, diffusione e non costituito per il singolo processo - è titolare di una posizione giuridica direttamente tutelabile - davanti all'autorità giudiziaria proprio in quanto rappresentativo degli interessi, che vanno anche al di là di quelli dei suoi associati, e quindi delegato a rappresentare le posizioni giuridiche soggettive danneggiate dal reato.
 

Insomma con questa evoluzione giurisprudenziale viene superata l'obiezione, da più parti formulata, secondo cui la legittimazione degli enti ed associazioni esponenziali trasformava in diritti soggettivi posizioni giuridiche che tali non erano perchè anche, queste situazioni giuridiche, purchè trovino tutela nell'ordinamento, sono giudizialmente tutelabili e quindi legittimano l'associazione che ne ha fatto scopo del suo oggetto sociale (e che abbia le caratteristiche indicate) alla tutela giurisdizionale e quindi anche alla costituzione dinanzi al giudice penale.
 Non è di alcun ostacolo a questa ricostruzione, ovviamente, la natura essenzialmente non patrimoniale del danno cagionato: in questo caso, infatti, non esiste alcuna preclusione in forza dell'art. 2059 cod. civ. perchè da sempre è riconosciuto risarcibile il danno non patrimoniale cagionato dal reato (art. 185 c.p., comma 2) ma è da osservare che la recente evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale (v. sentenza 11 luglio 2003 n. 233, già citata) e della Corte di cassazione (v. le già citate sentenze sez. 3 civ., 31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827) consentono di individuare un doppio fondamento per la risarcibilità dei danni non patrimoniali quando si fondano sulla lesione di beni costituzionalmente protetti (per es. il diritto alla salute: art. 32 Cost.).
 

5) Le considerazioni di carattere generale che precedono sarebbero da sole sufficienti a giustificare una decisione positiva sul problema inizialmente posto per l'ente esponenziale tipico degli interessi dei lavoratori, il sindacato. Per il quale la più recente giurisprudenza di legittimità ha ritenuto la legittimazione anche per reati non strettamente inerenti alla posizione del lavoratore subordinato quando però siano stati commessi in occasione di lavoro e in danno di un lavoratore del settore (in particolare, per i reati di violenza sessuale commessi nel luogo di lavoro o comunque di un lavoratore iscritto, v.: Cass., sez. 3, 7 febbraio 2008 n. 12738, Pinzone, rv. 239409-10).
 

Nel caso di infortuni sul lavoro ulteriori argomenti - ben evidenziati dalla già citata sentenza Ferraro del 2010 di questa sezione - confermano la soluzione adottata in generale per tutti i casi di enti esponenziali rappresentativi di interessi diffusi perchè, in questo caso, esistono specifiche norme dalle quali si può trarre la conclusione dell'attribuzione al sindacato della legittimazione a costituirsi parte civile nel processo penale per lesioni o omicidio colposi conseguenti ad infortunio sul lavoro indipendentemente dall'iscrizione al sindacato della persona offesa (questo requisito era richiesto da una risalente giurisprudenza di legittimità).
 

La tutela della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro costituisce infatti uno dei compiti primari delle organizzazioni sindacali sui luoghi di lavoro ed è scolpito nell'art. 9 dello statuto dei lavoratori (L. 20 maggio 1970, n. 300) che prevede che i lavoratori, mediante loro rappresentanze (che, ovviamente, non possono che essere soprattutto quelle sindacali) "hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e le malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica".
 Si badi che la norma statutaria, oltre a confermare la l'esistenza di una finalità primaria, in capo al sindacato, della tutela della salute dei lavoratori configura come vero e proprio diritto soggettivo la possibilità di controllare l'applicazione delle norme di prevenzione e quella di promuovere, tra l'altro, l'applicazione delle misure di tutela della salute dei lavoratori. Dunque, se anche si facesse riferimento alla superata teoria, in precedenza criticata, secondo cui alla costituzione di parte civile è legittimato solo il titolare di un diritto soggettivo per il sindacato non esisterebbe questo ostacolo teorico.
 Queste attribuzioni del sindacato sono state precisate e rafforzate con l'entrata in vigore del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 i cui artt. 18, 19 e 20 con la previsione dell'elezione, da parte dei lavoratori, di un rappresentante per la sicurezza che, nelle imprese o unità produttive con più di quindici dipendenti, è eletto o designato (art. 18, comma 3) "nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda" ed è dotato delle amplissime attribuzioni previste dall'art. 19.
Il sistema sinteticamente delineato, vigente all'epoca dell'infortunio e della costituzione di parte civile nel giudizio di primo grado, è stato confermato e rafforzato con l'entrata in vigore del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il cui art. 47 e ss. hanno attuato un'ancor più penetrante partecipazione dei lavoratori, e delle loro rappresentanze sindacali, al controllo e all'attuazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.
Nel caso in esame i giudici di merito hanno incensurabilmente accertato che l'infortunio si è verificato sia per l'inadeguata informazione del lavoratore sui rischi propri della lavorazione alla quale era adibito sia per l'inadeguatezza (o addirittura inesistenza) delle misure di protezione necessarie per evitare il contatto tra lavoratori e metallo incandescente.
Si tratta dunque della violazione di regole di prevenzione alla cui osservanza il sindacato ha un diretto interesse tutelato (o addirittura un diritto soggettivo se si interpreta l'art. 9 dello statuto dei lavoratori nel senso indicato) la cui violazione legittima la costituzione di parte civile nel procedimento penale instaurato.

6) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese a favore della parte civile liquidata d'ufficio, in mancanza di nota depositata, nella misura indicata in dispositivo.

 

 P.Q.M.
 

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione, in favore della costituita parte civile, delle spese di questo giudizio che liquida in Euro 1.700,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2011.
 

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2011