Cassazione Penale, Sez. 5, 20 febbraio 2009, n. 7718 - Delitto tentato e responsabilità degli enti


 

Pres. AMBROSINI Giangiulio - P.M. Di Popolo Angelo - Fondazione Centro (OMISSIS)

 

FattoDiritto


Con decreto 5.6.08 il Gip presso il Tribunale di Milano, su conforme richiesta del P.M. - nell'ambito di un procedimento a carico di F.S.L. e M.S., nelle rispettive qualifiche di responsabile e di direttore sanitario del Centro di medicina del sonno della Casa di Cur (OMISSIS), indagati in concorso tra di loro per i reati continuati (dal (OMISSIS)) di truffa ex art. 110 c.p., art. 640 c.p., comma 2 (capo A) e di falso ex artt. 476 e 479 c.p. (capo B), procedendosi altresì nei confronti della Fondazione (OMISSIS), quale proprietaria della menzionata Casa, per l'illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, artt. 5, 6, 24 - disponeva il sequestro preventivo ex D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 53 delle somme e dei crediti vantati dalla Fondazione, distaccamento (OMISSIS), nei confronti della ASL Città di (OMISSIS) fino alla concorrenza della somma di Euro 2.889.091,18, quali beni costituenti diretta ed immediata conseguenza dell'azione sub A e rappresentanti il profitto del quale è obbligatoria la confisca ai sensi del cit. D.Lgs., art. 19.
Al proposito va subito precisato che, come si evince dal testo del riportato provvedimento, il vincolo, al di là del formale richiamo a "somme di denaro", è stato adottato con riguardo ad importi non già percepiti, ma ancora da riscuotere e pertanto sempre con riferimento a crediti.
In particolare al F. ed al M. venne addebitato di avere: attestato falsamente nelle cartelle cliniche e nelle schede di dismissione dei pazienti la sussistenza dei requisiti legittimanti il rimborso per prestazioni sanitarie fornite in regime di ricovero le quali, invece, avrebbero potuto essere effettuate in ambulatorialmente e/o con degenze di durata inferiore; di avere con artifici e raggiri, consistiti nella presentazione alla ASL competente di richieste di rimborsi per le prestazioni di cui sopra, indotto in errore l'ente pubblico sulla appropriatezza e congruenza delle medesime, con danno patrimoniale per il predetto ed ingiusto profitto per la Fondazione. A quest'ultima fu ascritta l'omessa adozione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione del reato continuato di truffa, consumato dai propri vertici. Il provvedimento di sequestro era confermato dal Tribunale con provvedimento 26-6-08, avverso il quale ha proposto ricorso per Cassazione la Fondazione deducendo: 1) violazione della legge penale, non sussistendo l'elemento oggettivo dei reati presupposti nè dell'illecito amministrativo; 2) violazione della legge processuale, non essendo le cose sequestrate confiscabili ex D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, posto che esse potevano essere restituite al danneggiato e comunque dovendosi detrarre dalle relative somme i costi sostenuti e la parte attribuibile alle prestazioni legittimamente espletate. Con il primo motivo, molto articolato, si è precipuamente rilevato che non sussisteva configurabilità del falso poichè le annotazioni circa la diagnosi, le terapie e gli esami effettuati corrispondevano al vero e che, del pari, doveva escludersi ipotesi di truffa in quanto gli artifici ed i raggiri erano stati contestati come realizzati tramite le menzionate annotazioni, le quali in effetti erano veritiere; di conseguenza è stata negata anche la ipotizzabilità di un illecito amministrativo ed al contempo si è denunciato che, non potendo il primario ed il direttore sanitario considerarsi "soggetti apicali", la responsabilità dell'ente avrebbe postulato, secondo la previsione del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 6, dimostrazione a carico dell'accusa dell'inosservanza da parte dell'ente dei doveri di vigilanza e direzione sui dipendenti, mentre, attribuendosi erroneamente tale qualifica, si era illegittimamente ritenuto che spettasse alla Fondazione provare, a norma del cit. D.Lgs., art. 7, assenza di propria colpevolezza.
La Corte osserva. Nella fattispecie non si discute circa la ricorrenza delle condotte materiali attribuite ai soggetti fisici le quali, del resto, risultano già essere state accertate, in termini di gravità indiziaria, in un'ordinanza applicativa della misura cautelare personale nei confronti degli indagati: si contesta invece la sussumibilità delle medesime negli schemi normativi, sia dell'art. 479 c.p., sia dell'art. 640 c.p..
Al proposito è bene puntualizzare che l'esatta qualificazione dei fatti deve sempre essere verificata dal Giudice, anche di ufficio e pure in sede di un procedimento incidentale relativo ad adozione di misure cautelari personali e/o reali, qualora la questione assuma rilievo ai fini della valutazione circa la legittimità dell'imposizione; tanto premesso, va riconosciuto che il Tribunale è pervenuto a soluzione giuridicamente corretta nel ritenere che quantomeno le dichiarazioni degli indagati di cui alle schede di dismissione integrassero ipotesi di falso, specie considerata la funzione di dette schede, volte ad ottenere i rimborsi per le erogate prestazioni.
In tema di falsità ideologica l'ambito attestativo di un atto pubblico non è circoscritto alla formulazione espressa, ma si estende anche ai suoi presupposti (cosiddette attestazioni implicite) ogniqualvolta una determinata attività, pur non menzionata, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, poichè in tal caso occorre legalmente fare riferimento al contenuto o al tenore implicito necessario dell'atto stesso (Cass. S.U. 30-6-84 n. 7299 Rv. 165003 e successivamente: Cass. 15-1-99 n. 1399 Rv. 212388; Cass. 12-4-05 n. 34333 Rv. 232316).
Orbene nell'indicare la diagnosi effettuata ed il trattamento esperito, implicitamente il medico opera un giudizio sulla congruità e l'opportunità del secondo in relazione alla prima; d'altro canto anche una valutazione può essere, al pari di un enunciato di fatto, non veritiera: ciò si verifica in contesti che implicano accettazione di parametri di giudizio normativamente determinati o tecnicamente indiscussi; ne deriva che le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma rientrare nella categoria della falsità ideologica (Cass. 9-2-99 n. 3552 Rv. 213366; Cass. 24-1-07 n. 15773 Rv. 236550). Nella fattispecie in esame si è indubbiamente realizzata una situazione del genere poichè è stato accertato dai giudici di merito, tramite consulenza e dichiarazioni di esperti in materia (risultanze specificatamente indicate nel provvedimento impugnato) che, secondo le linee guida nazionali condivise dai medici specialisti del sonno, parte delle prestazioni erogate non postulavano ricovero e che negli altri casi la degenza fu dilatata.
Comunque è opportuno segnalare che, anche a volere escludere ipotesi di falso, sarebbe comunque configurabile la sussistenza di artifici e raggiri per avere presentato, come legittimanti il rimborso, determinate prestazioni sul presupposto ingannevole della loro necessità in relazioni ai singoli casi.
Tanto premesso si ritiene, invece, che erroneamente la condotta delineata sub A sia stata qualificata come truffa tentata, integrando la stessa un semplice tentativo. Invero il delitto di truffa si consuma non al momento in cui il soggetto passivo, per effetto degli artifici o raggiri, assume l'obbligazione di dare un qualche bene economico, ma quando si realizza il conseguimento di questo bene da parte dell'agente con la conseguente perdita dello stesso da parte della persona offesa (Cass. 21-6-00 n. 18 Rv. 216429; Cass. 11-7-08 n. 3144 RV. 240659): il che implica che, qualora l'oggetto materiale del reato sia costituito da crediti liquidi ed esigibili, prima della loro effettiva riscossione, con definitiva lesione dell'altrui patrimonio, si verte nella figura di truffa tentata.
Quanto sopra, peraltro, non muta la situazione agli effetti della configurata responsabilità della Fondazione.
Invero, sebbene il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, artt. 24 e 25 colleghino la responsabilità amministrativa di un ente ad ipotesi delittuose denominate come consumate (indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello stato o di un ente pubblico, concussione e corruzione), v'è da considerate che espressamente il cit. D.Lgs., art. 26 opera riferimento alla commissione dei predetti delitti "nelle forme del tentativo". Priva di incidenza è poi la deduzione difensiva secondo cui coloro ai quali erano attribuiti i reati non rivestivano la veste di soggetti apicali: tale obiezione che rileverebbe ai fini dell'onere probatorio - ovviamente da fornirsi non in chiave di certezza ma di mera probabilità, state la fase procedimentale nell'ambito della quale si procede - risulta superata dalla circostanza che, alla luce dei dati forniti dall'accusa e riportati nel provvedimento impugnato, in effetti si palesa individuata una situazione quantomeno di negligenza da parte dell'Ente: emerge, infatti, che le irregolarità furono palesi ed in contrasto con la prassi in materia, che esse si protrassero per anni e che già in precedenza analoghi comportamenti avevano dato adito a contestazioni da parte di organi di controllo (Nuclei Operativi di Controllo istituiti presso le U.S.L.), tanto che l'ente aveva ridotto le proprie pretese.
Venendo al secondo motivo di ricorso, si ritiene invece fondata la censura concernente la mancanza di profitto confiscabile.
Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 53 prevede il sequestro "delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell'art. 19" e la disposizione richiamata, a sua volta recita: "nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato". Ribadito che per "profitto" deve intendersi il vantaggio economico direttamente ed effettivamente conseguito con l'illecito (Cass. S.U. 27-3-08 n. 2654 Rv. 239914), la Corte, ricollegandosi a quanto esposto trattando della figura della truffa, rileva che l'imputazione a profitto di semplici crediti, anche se liquidi ed esigibili, non può essere condivisa poichè, in effetti, trattasi di utilità non ancora percepite, ma solo attese: basti considerare che, non solo si verte in ipotesi di somme che se riscosse dovrebbero essere restituite al soggetto danneggiato, ma di somme non ancora sottratte a quest'ultimo.
Nella delineata situazione il sequestro in concreto disposto risulta illegittimo perchè avente ad oggetto un'entità non coincidente con il "profitto" contemplato dal combinato disposto del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, artt. 19 e 53 ed al proposito va osservato che, semmai, si sarebbe dovuto adottare quello preventivo previsto dall'art. 321 c.p.p. con riguardo a beni "pertinenti al reato", qualora si fosse ravvisata l'opportunità di impedire ulteriori conseguenze dei contestati fatti criminosi.
S'impone pertanto per la suddetta decisiva ragione l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato nonchè di quello genetico, con dissequestro di quanto oggetto del vincolo; ogni ulteriore censura rimane superata ed assorbita.

P.Q.M.


LA CORTE Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata nonchè il decreto impositivo del Gip del Tribunale di Milano del 5-6-08 e dispone il relativo dissequestro.