Stefano Giubboni è professore associato di Diritto del lavoro nella Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Perugia.
Questo saggio è destinato ad essere pubblicato sul fascicolo n. 1 del 2009 della "Rivista di Diritto della Sicurezza Sociale".




Note d’attualità in tema di

risarcimento del danno da infortunio sul lavoro*



Sommario: 1. Introduzione. – 2. La regola dell’esonero e i presupposti dell’azione risarcitoria nella giurisprudenza più recente. – 3. Congetture e confutazioni intorno alla giurisprudenza della Corte di cassazione. – 4. Il “danno differenziale” alla luce della sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni unite: prime, problematiche considerazioni. – 5. Spunti conclusivi sui riflessi del d. lgs. n. 81/2008 in tema di responsabilità civile da infortunio sul lavoro.

1. Introduzione

La disciplina dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro si intreccia dalle sue origini con quella della responsabilità civile[1], in un rapporto dialettico che, da quando ha contribuito a forgiare le stesse categorie concettuali da cui ha preso forma la speciale tutela previdenziale, non ha mai smesso d’influenzare gli sviluppi più significativi del diritto positivo, né ha mai cessato d’interrogare dottrina e giurisprudenza, da sempre impegnate in un dialogo continuamente rinnovato dalle sollecitazioni della prassi.

È sin troppo noto come la nascita dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro si leghi, storicamente, ad un sorta di cesura, di rottura col “diritto primo” della responsabilità civile[2]: la tutela previdenziale nacque, infatti, con la legge n. 80/1898, sotto il segno di una “fuga dal codice”[3], di una divaricazione – formalmente sancita dall’introduzione della regola dell’esonero del datore di lavoro “assicurante” – dai principi del diritto comune[4]. Lo stesso principio del rischio professionale – che servì a fondare sul piano politico-normativo l’obbligo assicurativo – ebbe essenzialmente la funzione di “traghettare”[5] la riparazione del danno da infortunio sul lavoro dal sistema della responsabilità civile a quello dell’assicurazione sociale, senza tuttavia (e per ciò stesso) innervarsi, con tutta la sua potenziale carica innovativa, nel corpo delle regole del codice civile.

L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro realizzò, così, l’istanza di socializzazione del costo degli “accidenti da lavoro”[6], che fu senz’altro alla base dell’elaborazione del principio del rischio professionale, senza intaccare la purezza delle linee del sistema del diritto primo, il quale poté infatti – all’epoca – rimanere saldamente ancorato al principio della responsabilità per colpa. L’ambivalenza di questa scelta legislativa – che fu ad un tempo potentemente innovativa nel rompere il “diagramma liberale” classico[7], immettendo nella scena l’“astro nascente” dell’assicurazione sociale[8], ma anche regressiva, anzitutto nell’espungere il principio del rischio professionale dal terreno del diritto primo, per il quale era stato originariamente pensato – è stata messa a fuoco in analisi ormai classiche, sulle quali sarebbe un fuor d’opera tornare diffusamente in questa sede[9].

Ai nostri limitati fini può essere sufficiente ricordare che – per un lungo tratto della storia dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro – quella originaria scelta ha effettivamente consentito di tenere al riparo il diritto secondo dagli sviluppi del diritto privato generale, concorrendo con ciò anche a garantire la complessiva tenuta di quell’assetto “transattivo” di interessi, che appunto riuscì a transitare, con pochi cambiamenti sotto tale profilo, dalla primitiva legge del 1890 al testo unico, a tutt’oggi in vigore, del 1965. Ed è stata questa, in effetti, anche la prima ragione della “ingiustificata assenza del diritto del lavoro nella vicenda fondativa del danno alla salute”, assenza per l’appunto da imputare, in primis, sul piano dei condizionamenti storici, proprio agli specifici meccanismi operativi dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, “la quale quando fu introdotta aveva risposto con sufficiente prontezza alle urgenze dei tempi, ma il suo modello originario lo aveva fatto scagionando completamente il rapporto di lavoro e il danno alla persona del lavoratore dall’alveo della responsabilità civile di diritto comune”[10].

Ma se nella prima fase della sua ormai lunga evoluzione storica il diritto dell’assicurazione sociale ha costruito la sua autonomia ed il fondamento della sua differenziazione funzionale su tale originario atto di distacco dal tronco del diritto privato generale, in tempi più recenti si è assistito ad un “contro-movimento”, che – pur preservando (e per certi versi rafforzando) la funzione pubblicistica e solidaristica ormai costituzionalmente propria anche della tutela previdenziale contro gli infortuni sul lavoro (art. 38, c. 2, Cost.) – ha tuttavia favorito importanti momenti di reinnesto, in tale ambito, di talune tra le più significative acquisizioni giurisprudenziali prodotte, in tema di risarcimento del danno alla persona, in quello straordinario crogiuolo creativo che siamo soliti compendiare nella formula della “costituzionalizzazione”, ossia della complessiva re-interpretazione orientata ai valori costituzionali, delle regole codicistiche di responsabilità civile[11].

La tendenza ad un ritorno, se si vuole ad una riespansione controllata delle regole comuni della responsabilità civile nello spazio governato dal diritto secondo dell’assicurazione obbligatoria, ha a ben vedere cominciato a manifestarsi, sotto l’egida dei valori costituzionali (prima) di eguaglianza e (più tardi anche) di solidarietà, già alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, almeno a partire dalla importante sentenza n. 22/1967 della Corte costituzionale[12]. La vicenda, molto più vicina nel tempo, che ha portato all’immissione dell’indennizzo del danno biologico dentro la sfera della copertura previdenziale antinfortunistica con la riforma di cui al d. lgs. n. 38/2000[13], rappresenta, tuttavia, in termini generali, senza dubbio il momento più rilevante di tale linea di tendenza.

Tale vicenda non ne costituisce però ancora, a ben vedere, il momento culminante, visto che neppure essa, almeno per come si è formalmente tradotta attraverso la giustapposizione delle nuove e potentemente innovative regole d’indennizzo previdenziale alla vecchia disciplina di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 1124/1965, ha messo apparentemente in discussione – in quanto tale – la regola dell’esonero, il vero perno della specialità del diritto secondo, il punto di fuga dai generali principi codicistici in materia di responsabilità civile. Detta regola – pur progressivamente erosa, nelle sue concrete modalità operative (e limitative delle possibilità di risarcimento del danno differenziale), lungo l’evocata linea di riespansione dei principi comuni – ha, anzi, conosciuto, se si vuole paradossalmente[14], proprio in virtù dell’ampliamento della tutela previdenziale all’indennizzo del danno biologico, un potenziale momento di riviviscenza.

Nella misura in cui è stato immesso dal legislatore dentro la sfera della tutela previdenziale pubblica, il danno biologico è stato, invero, anche automaticamente assoggettato – secondo la lettura più corretta ed effettivamente prevalsa già all’indomani dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 38/2000[15] – allo ius particulare delineato dall’art. 10, d.P.R. n. 1124/1965 (e, dunque, alla consecutiva limitazione, a monte, della regola dell’esonero e, a valle, di quella relativa, in senso proprio, al danno differenziale). Un risultato che – anche a non volerlo considerare propriamente paradossale, nei termini poc’anzi suggeriti[16] – appare comunque carico di tutte le ambiguità dovute alla vischiosità di un assetto normativo che ha saputo trasformasi ed innovarsi, anche fortemente, nella sua evoluzione ultrasecolare, ma che non si è, tuttavia, mai distaccato completamente da quella sorta di primitivo imprinting impresso, su di esso, dal principio del rischio professionale[17].

Non sorprende, pertanto, che in tempi più recenti si sia assistito, pur non senza incertezze e contrasti interpretativi, ad una più o meno consapevole e fattiva opera di rivisitazione critica dello stesso fondamento della specialità dell’assetto delineato dal combinato disposto degli artt. 10 e 11 t.u. nel più vasto scenario dischiuso dalla rilettura, costituzionalmente orientata, delle categorie generali del danno alla persona. È, infatti, in primo luogo sul fronte della regola del’esonero – dei suoi presupposti e delle sue “condizioni d’uso” – che finiscono inevitabilmente per scaricarsi le tensioni derivanti dai rapporti coi nuovi fondamenti della risarcibilità del danno non patrimoniale alla persona, nei termini nel frattempo radicalmente rinnovati nell’ambito del diritto privato generale. Ed è di nuovo nell’opera di adeguamento interpretativo della giurisprudenza che vanno rintracciati i primi, coraggiosi tentativi di comporre tali tensioni[18], armonizzando la speciale disciplina dettata dall’art. 10 t.u. alle istanze di rifondazione costituzionale della tutela risarcitoria della persona affermatesi – sul piano generale – dopo la svolta ermeneutica del 2003[19].

A conoscere una fase di profondo riassestamento – del quale sarebbe azzardato prefigurare oggi, con pretese di compiutezza, i possibili approdi – è, peraltro, tutta la materia della responsabilità civile del datore di lavoro e del risarcimento del danno alla persona nel rapporto di lavoro[20]. Senza trascurare i possibili riflessi dell’importante riforma realizzata con la pressoché completa riscrittura delle regole sulla sicurezza del lavoro da parte del d. lgs. n. 81/2008[21], queste note intendono allora delineare un primo, provvisorio bilancio critico delle tendenze in atto, al riguardo, nella giurisprudenza.

2. La regola dell’esonero e i presupposti dell’azione risarcitoria del lavoratore nella giurisprudenza più recente


Il primo profilo d’interesse, nell’ambito dell’assai fluido quadro offerto dalla recente giurisprudenza in materia, attiene – come accennato – ai presupposti stessi del risarcimento del danno da infortunio sul lavoro in relazione alla regola dell’esonero datoriale, quale ancora oggi enunciata dall’art. 10 t.u.

Da quando esiste un’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la responsabilità civile del datore in base al diritto comune viene, infatti, per diritto speciale (e di regola) esclusa, con esonero dello stesso da ogni obbligo risarcitorio, proprio in ragione dell’operatività della protezione assicurativo-sociale.

Questa esclusione – su cui continua, almeno formalmente, a poggiare anche la vigente disciplina – non ha, tuttavia, mai avuto pretese di assolutezza: essa viene, infatti, ab origine meno, anche nei confronti dell’Istituto assicuratore, allorché l’infortunio sia imputabile al datore di lavoro come fatto di reato perseguibile d’ufficio (“d’azione pubblica”, diceva la legge del 1898). Ed è anzi noto come tale regola, per quanto assunta a cardine della primigenia “transazione sociale” realizzata con la legge istitutiva[22], abbia storicamente conosciuto un lento declino della sua valenza esimente. L’effettiva forza di resistenza di questa regola “fondativa” dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni – come è stato ancor di recente rammentato rievocandone la radice prima nella teorica (e nella retorica) del rischio professionale e della transazione sociale[23] – ha invero subito nel tempo una graduale ma costante opera erosiva, sviluppatasi lungo linee diverse, seppur convergenti nei risultati operativi, e relative tanto ai suoi presupposti processuali, quanto ai suoi profili sostanziali.

Storicamente, il primo fronte di questa tendenza si è aperto sul terreno processuale, dapprima con un ampliamento delle eccezioni tipizzate nelle quali veniva senz’altro consentito al giudice civile l’accertamento della responsabilità penale del datore di lavoro ai fini risarcitori, e successivamente con il completo superamento del rapporto di prevalenza e pregiudizialità del giudizio penale rispetto a quello civile[24]. Si è trattato di una vicenda nient’affatto lineare ed incontroversa, per quanto chiara nella sua direzione di fondo, la cui ultima tappa – si spera a definitivo superamento di talune residue incertezze giurisprudenziali in punto di azione di regresso dell’Istituto assicuratore – è oggi segnata dal d. lgs. n. 81/2008[25].

Ma se il primo terreno di rincontro col diritto comune della speciale disciplina dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro si è realizzato sul versante processuale, non meno significativo e decisivo è apparso il rencontre col diritto privato generale e con le comuni regole sostanziali di responsabilità civile. Anche in tal caso si tratta – come si è accennato in apertura – di trend ormai risalente nel tempo. Su questo versante è tuttavia dato registrare un andamento meno univoco, per certi versi ancor più controverso di quello appena evocato, andamento che è ben esemplificato dalla vicenda – sotto ogni profilo cruciale – dell’incontro dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro col danno biologico.

Attenendoci strettamente al nostro tema d’indagine, può infatti rilevarsi che il primo, iniziale effetto di quell’incontro, grazie alla storica giurisprudenza costituzionale a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo[26], fu un’improvvisa accelerazione di ciò che a tutti gli osservatori – a prescindere dal giudizio sui postulati teorici di quella svolta giurisprudenziale[27] – parve un vero e proprio, pressoché completo svuotamento dell’effettivo contenuto operativo della regola dell’esonero. In effetti, specie dopo che la Cassazione ebbe a chiarire che il sistema dell’assicurazione sociale (ovviamente quale si presentava prima della riforma del 2000) era totalmente estraneo all’indennizzo del danno biologico subito dal lavoratore infortunato[28], non potendo darsi aree di sovrapposizione neanche parziale con la categoria della capacità lavorativa generica già assunta a base del t.u. del 1965, il campo di applicazione della regola dell’esonero poteva, all’esito di quella giurisprudenza, considerarsi limitato ad un segmento ridottissimo e non di rado del tutto irrilevante sul piano pratico, rigorosamente esaurito dentro i vecchi confini del danno patrimoniale del lavoratore[29].

Solo per questa voce di danno residuava, infatti, lo speciale regime disegnato dall’art. 10 t.u., valendo in generale – quale principio rifondatore della materia – quello per cui “laddove la copertura assicurativa non interviene […] non opera l’esonero”[30] e si riespandono, di conseguenza, le comuni regole di responsabilità civile in capo al datore di lavoro. Il danno biologico ed il danno morale venivano pertanto riconsegnati al governo delle regole codicistiche generali, che se volevano il secondo ancora imprigionato, allora, dentro la angustia del combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e 185 c.p. come tralaticiamente inteso, esigevano, viceversa, per il primo, l’integrale applicabilità degli standard di protezione dell’art. 2087 c.c. con i correlati criteri d’imputazione della responsabilità da illecito contrattuale ex art. 1218 c.c.

Il primo effetto di quella giurisprudenza fu di mettere semplicemente fuori gioco la regola dell’esonero datoriale, svuotando simmetricamente di rilievo pratico le questioni, pure nuovamente sollevate dinanzi alla Corte costituzionale, e da questa pragmaticamente respinte[31], sulla sua sopravvenuta illegittimità ex se nell’impianto solidaristico e personalistico della Costituzione. I principi così affermati dalla Consulta contenevano, però, in nuce, anche un effetto, per così dire, prospettico, forse trascurato o non adeguatamene considerato in un primo tempo, in quanto legato alla futura traduzione del monito rivolto dalla stessa Corte al legislatore affinché questi provvedesse a recuperare dentro il sistema dell’assicurazione sociale, in una rinnovata logica di sollievo solidaristico dai bisogni provocati al lavoratore dalla lesione del diritto inviolabile alla salute, l’indennizzo, appunto previdenziale, del danno biologico da infortunio sul lavoro o da tecnopatia. Sennonché tale effetto prospettico, ove immaginato in assenza d’un ripensamento dei presupposti dell’applicazione dell’art. 10 t.u., proiettava il sistema nella direzione esattamente eguale e contraria a quella della sterilizzazione della regola dell’esonero, indotta nell’immediato dalla giurisprudenza costituzionale, giacché implicava – con l’incorporazione del danno biologico dentro l’oggetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni – una simmetrica riespansione della regola medesima.

Ed è per questa ragione che il d. lgs. n. 38/2000, nel tradurre il monito della Corte costituzionale con una puntuale disciplina dell’indennizzo previdenziale del danno biologico da infortunio sul lavoro[32], ha riaperto la questione della regola dell’esonero. Il problema dell’esonero si è fatto anzi più acuto proprio perché, nello stesso momento in cui tornava ad interpellare i giudici di merito, il sistema del risarcimento del danno alla persona conosceva un nuovo, straordinario salto evolutivo con le già evocate[33], celebri sentenze gemelle del 2003 della terza sezione civile della Corte di cassazione[34].

Tale svolta giurisprudenziale era stata del resto largamente anticipata da una non meno innovativa revisione del tradizionale indirizzo interpretativo che voleva il risarcimento del danno morale subiettivo rigorosamente ancorato all’accertamento, da parte del giudice civile, di tutti gli estremi – oggettivi e soggettivi – della fattispecie di reato ex art. 185 c.p. iuncto art. 2059 c.c. Ed invero, in quello stesso anno, il “primo squarcio al muro invisibile dell’irrisarcibilità dei danni non patrimoniali fuori dei casi di reato viene aperto da una trilogia di pronunce, gemelle nelle motivazioni, salva per l’applicazione in due casi (nella sentenza n. 7283 […] e nella n. 7282) dell’art. 2054, 2° c., c.c. e in un terzo caso (nella sentenza n. 7281) dell’art. 2051 c.c.”[35]. In quelle sentenze la Suprema Corte riconosce infatti per la prima volta all’interprete “un potere di ampliare, ai fini civilistici, le fattispecie lesive di cui all’art. 185 c.p. Essa ammette il risarcimento dei danni non patrimoniali in ipotesi che integrano il fatto materiale di reato ma che, nel dare applicazione alle regole sulla presunzione di colpa (come nell’art. 2054, 2° c., c.c.) o sull’imputazione oggettiva o semi-oggettiva dell’illecito civile (come nell’art. 2051 c.c.), non consentono di dimostrare, secondo i canoni del diritto penale, l’elemento soggettivo del reato”[36]. Con un’operazione ermeneutica tanto innovativa quanto evocativa di più ampi riflessi virtuosi, sia di carattere generale – visto che già quell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. presuppone la “non tassatività delle ipotesi cui la norma fa rinvio”[37] –, sia di natura più puntuale, in quanto specificamente riferibili – come vedremo tra un momento – alla nostra stessa materia.

La breccia al principio della tassatività delle ipotesi richiamate dall’art. 2059 c.c., a partire dal collegamento, per lungo tempo esclusivo, con l’art. 185 c.p., apre in primo luogo alla generale revisione, in termini bipolari, del sistema del risarcimento del danno alla persona, appunto compiuta, poco più tardi, con le sentenze gemelle n. 8827 e n. 8828 della terza sezione civile della Cassazione. In esse si afferma il principio – ribadito e precisato anche dalla recentissima sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni unite[38] – che il danno non patrimoniale, inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, esige di essere risarcito, oltre che nei casi espressamente individuati dal legislatore ordinario nell’esercizio della propria discrezionalità valutativa, in tutti i casi in cui risulti il prodotto della lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, quella risarcitoria costituendo la forma di tutela minima, e per ciò stesso indefettibile ed incomprimibile, apprestata dall’ordinamento. L’art. 2059 c.c. resta, in tal senso, a differenza della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., norma tipizzante, nel senso che il rinvio alla legge, ivi contenuto ai fini della selezione degli interessi la cui lesione dà titolo al risarcimento del danno non patrimoniale, esprime comunque “un precetto di tipicità, ma non di tassatività, delle fattispecie lesive e degli interessi protetti, aperto ad un processo evolutivo affidato, tramite i principi costituzionali, direttamente all’interprete”[39].

Ma il varco aperto dalla Cassazione, nel rileggere alla luce dei valori costituzionali più in particolare il combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e 185 c.p., non poteva non dischiudere nuove prospettive interpretative in un campo, quale quello del risarcimento del danno, ormai essenzialmente non patrimoniale, di carattere “differenziale” ex art. 10 t.u., che si presenta storicamente impregnato di evidenti nessi analogici con l’oggetto precipuo delle pronunzie di legittimità. Non poteva infatti sfuggire[40] come – tutte le volte in cui fosse venuto in questione il profilo del risarcimento di un danno non patrimoniale alla persona specificamente collegato dal legislatore ad una fattispecie di reato, come tipicamente avviene, anche per il danno differenziale, ex art. 10 t.u. – sarebbe stato difficile negare ingresso ai criteri ispiratori della nuova lettura del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., e segnatamente alla innovativa massima giusta la quale, appunto ai soli fini risarcitori, l’accertamento del fatto materiale di reato da parte del giudice civile può ben avvenire avvalendosi dei meccanismi di imputazione della responsabilità di volta in volta in rilievo nella fattispecie concreta, tanto sul versante del torto aquiliano (come nel caso degli artt. 2054 e 2051 c.c., presi in considerazione dalla Suprema Corte), quanto su quello dell’illecito contrattuale (alla stregua, stavolta, della regola generale di cui all’art. 1218 c.c.).

È precisamente in questo quadro, pur così sommariamente descritto nelle sue grandi linee, che si inserisce la rimeditazione dei presupposti d’applicazione dell’art. 10 t.u., ai fini del risarcimento del danno differenziale, operata da ultimo dalla Corte di cassazione, e sulla quale conviene appuntare, ora, tutta la necessaria attenzione. Avvertita dei nessi testé evocati, la Corte è invero giunta per tappe successive a disincagliare il risarcimento del danno differenziale (che è oggi in primis, e spesso soltanto, biologico) dalle secche dell’accertamento condotto secondo rigidi criteri penalistici della responsabilità del datore di lavoro per il reato-infortunio, alla stregua della tradizionale interpretazione dell’art. 10, d.P.R. n. 1124/1965.

In un primo arresto del 2006[41], pur specificamente riferito al danno morale del lavoratore[42], ma già chiaramente rivolto ad includere nello stesso principio di diritto i presupposti del risarcimento del danno biologico, la Corte di cassazione ebbe a rilevare che il necessario accertamento della colpa del datore di lavoro, che accomuna la responsabilità contrattuale e quella aquiliana, in ambiente contrattuale vada sempre svolto tenendo in considerazione il particolare regime derivante dall’art. 1218 c.c., il quale, applicato congiuntamente all’art. 2087 c.c., comporta che gravi sul datore l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione imposto da tale ultima norma, dovendo il prestatore di lavoro unicamente provare sia la lesione dell’integrità psicofisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa. Ne conseguiva, per la suprema Corte, già in quella prima occasione, che in presenza di una fattispecie contrattuale quale quella del contratto di lavoro, ove uno dei contraenti è tenuto a prestare una particolare e stringente protezione della integrità fisica dell’altro ex art. 2087 c.c., “non può sussistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, siccome la fattispecie astratta del reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.”.

A quella prima pronuncia faceva seguito, agli inizi del 2007, un ulteriore, importante affinamento interpretativo, molto più esplicito del primo sulla trasferibilità del suddetto principio di diritto al risarcimento del danno differenziale ai sensi dell’art. 10 t.u., sebbene non ancora ad esso specificamente riferito. In tale seconda pronuncia[43], la Corte di cassazione, prendendo le mosse dall’“innovativo orientamento della giurisprudenza di legittimità” giusta il quale “alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. e art. 185 c.p. non osta il mancato positivo accertamento della colpa dell’autore del danno se essa, come nel caso dell’art. 2054 c.c., debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato”, ha espressamente esteso tale principio anche al caso in cui le dette presunzioni di legge derivino, agli indicati fini, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, dal combinato disposto degli artt. 1218 e 2087 c.c. Ed infatti, “L’estensione consequenziale di tali principi alla responsabilità presuntiva ex art. 2087 c.c., raccomandata dalla dottrina, è stata operata da Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184”, la quale ne ha indotto la già vista conseguenza che, di fronte agli obblighi generali e particolari di protezione gravanti sul datore in forza del contratto di lavoro, non può sussistere alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno non patrimoniale da reato, essendo la relativa fattispecie astratta comunque configurabile in tutti i casi in cui il datore di lavoro non fornisca la prova liberatoria richiestagli dall’art. 1218 c.c.

È tuttavia solo con una più recente sentenza che la Suprema Corte ha fatto esplicitamente propri tali principi con specifico e calzante riferimento al risarcimento del danno differenziale ex art. 10 t.u., corroborandone l’innervazione nel corpo del nuovo diritto vivente della responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni subiti dai dipendenti. In tale ultima pronuncia[44], la Cassazione ha così potuto senz’altro affermare che, stante il carattere contrattuale della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., “il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c., sull’inadempimento delle obbligazioni; da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare la esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di esso con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa non imputabile, e cioè deve avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno”.

3. Congetture e confutazioni intorno alla giurisprudenza della Corte di cassazione

Il richiamato trittico di pronunzie di legittimità, non solo disegna un percorso di graduale avvicinamento ad esiti interpretativi che apparivano fortemente sollecitati dalla generale rilettura costituzionale dei principi in tema di danno alla persona, ma forma – nel suo insieme – anche un iter argomentativo coerente ed adeguato allo scopo specifico. Non ci sembrano quindi fondate le vivaci critiche che una parte della dottrina ha mosso a questo innovativo orientamento giurisprudenziale sotto il segno d’un’appassionata difesa e quasi d’un empito restauratore della purezza interpretativa della regola dell’esonero del datore di lavoro quale cardine imperituro d’una “transazione sociale”, della quale si reclama la perdurante vitalità e sulla quale solo il legislatore – nell’esercizio della propria discrezionalità politica – sarebbe autorizzato ad interventi normativi e modificativi espressi[45]. I contro-argomenti che vengono esposti a sostegno – in fin dei conti – dell’esclusione dell’art. 10 t.u. da qualunque possibilità di interpretazione adeguatrice nei termini fatti propri dalla Cassazione (e dalla dottrina di supporto[46]), ci sembrano, invero, tutt’altro che decisivi.

Il primo di essi è che non esisterebbe alcuna possibilità di accostamento e confronto tra i due nuclei normativi tra i quali la Corte ha operato, in via analogica, il già visto travaso di criteri interpretativi. Secondo tale obiezione, “L’analogia tra l’art. 2059 c.c. e l’art. 185 c.p. da una parte, e l’art. 10 del t.u. dall’altra, pur ritenuta evidente e pressante, è in realtà apparente e nella sostanza insussistente dal momento che gli uni descrivono una tipologia di danno mentre l’altro condiziona l’esistenza della responsabilità (che rileva come condizione preliminare del primo)”[47].

L’obiezione è tuttavia infondata, giacché il combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. era in realtà deputato – nell’interpretazione che è prevalsa sino al revirement del 2003 – (anche) a selezionare le fattispecie in presenza delle quali (soltanto) poteva darsi responsabilità risarcitoria (pure) per il danno non patrimoniale, tradizionalmente inteso nell’accezione ristretta di danno morale subiettivo come patema d’animo e sofferenza transeunte del soggetto leso (i. e., vittima del fatto di reato). La norma, quindi, non solo scolpiva una nozione stretta di danno non patrimoniale, ridotta al profilo del pretium doloris[48], ma prima ancora selezionava – nell’erronea presupposizione della tassatività delle ipotesi richiamate dall’art. 2059 c.c., in quanto assunte “in termini di riserva di legge, e a fortiori di riserva di legge penale”[49] – le fattispecie in presenza delle quali soltanto la responsabilità aquiliana poteva estendersi a tale tipo di pregiudizio della sfera personale[50]. E queste fattispecie si esaurivano, per l’appunto, in quelle in cui il fatto illecito ex art. 2043 c.c. recasse aggiuntivamente con sé tutti i connotati offensivi – sul piano oggettivo e soggettivo – propri anche della illiceità penale, visto che solo in tempi relativamente recenti l’ordinamento giuridico si è aperto ad una tipizzazione più ampia ed articolata di ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale, sempre nella primitiva accezione[51].

Tale essendo la valenza del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p., l’analogia con la fattispecie di cui all’art. 10 t.u. è perciò sempre esistita, come esattamente ritenuto dalla Suprema Corte, non solo nei rilevati termini sostanziali (essendo entrambe le ipotesi accomunate dalla subordinazione della responsabilità risarcitoria all’accertamento di un fatto di reato[52]), ma anche sotto il (connesso) profilo processuale. Ne è sempre stata ben consapevole – sotto entrambi i profili – la stessa Corte costituzionale, che già nella sentenza n. 102/1981 rilevava come gli artt. 10 e 11 t.u. dovessero essere interpretati alla medesima “stregua del principio espresso dall’art. 185 c.p. nel senso che il titolo giuridico della responsabilità del datore di lavoro, e il conseguente diritto di regresso dell’INAIL, va individuato nella sentenza di condanna come atto di accertamento che i fatti da cui deriva l’infortunio costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo e oggettivo”[53]. Ma una volta superato, sul primo versante, in via di (prima) interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., il canone dell’accertamento del fatto di reato nella concreta ricorrenza dell’elemento soggettivo della colpa del responsabile, ed ammesso che ai fini del risarcimento del danno la fattispecie criminosa possa ricorrere anche solo in astratto mercé utilizzo dei meccanismi presuntivi della colpa, lo stesso principio non può non valere anche sul simmetrico fronte dell’art. 10 t.u.

Detto altrimenti, una volta “oggettivato”, beninteso ai soli fini risarcitori, l’accertamento del fatto di reato ex art. 185 c.p. – dando ingresso, in ambito aquiliano o contrattuale, ai meccanismi d’imputazione della responsabilità civile di volta in volta in rilievo, e perciò avvalendosi anche dei congegni presuntivi della colpa del responsabile derivanti, nel nostro caso, dal combinato disposto degli artt. 1218 e 2087 c.c. – non si intravedono ragioni ostative alla estensione di tale essenziale acquisizione giurisprudenziale alla norma dettata dall’art. 10 del d.P.R. n. 1124/1965. Le disposizioni in parola sono, infatti, sempre state interpretate – per le evidenti analogie, e per la rilevata corrispondenza di ratio sostanziale e processuale – alla stregua dei medesimi criteri, per cui non troverebbe giustificazione alcuna l’esclusione dell’art. 10 t.u. dall’interpretazione adeguatrice nata sul terreno del diritto generale, con la rilettura costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. ad opera della Corte di cassazione.

Né varrebbe all’uopo trincerarsi, specie in considerazione delle cennate, impellenti esigenze costituzionali, dietro la specialità formale della regola dettata dall’art. 10 t.u. col suo antico fondamento nella transazione sociale voluta dal legislatore della fine dell’Ottocento[54]. Una siffatta formalistica obiezione non ha evidentemente alcun pregio già alla stregua del canone di cui all’art. 3 Cost., e risulta a ben vedere depotenziata, piuttosto che rafforzata, dal richiamo alquanto rétro al principio del rischio professionale, nella misura in cui l’unico fondamento costituzionale della tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, anche nei suoi rapporti col sistema della responsabilità civile, può essere oggi rintracciato nel principio di solidarietà sociale nei termini specificamente tipizzati dall’art. 38, c. 2, Cost.[55]. Ma tale principio, anche come riletto dalle note sentenze nn. 87, 356 e 485 del 1991 della Corte costituzionale[56], non può che rafforzare le conclusioni alle quali è correttamente giunta la Cassazione nel dare pieno ingresso ai meccanismi presuntivi della colpa del datore di lavoro, ex artt. 1218 e 2087 c.c., ai fini del risarcimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro. Giacché detto principio, se impone al legislatore di apprestare una più intensa ed automatica tutela previdenziale dello stato di bisogno derivante dalla compromissione, in primo luogo, della salute del lavoratore vittima di infortunio o di tecnopatia, come è avvenuto col d. lgs. n. 38/2000, esclude anche, in collegamento con il precetto di cui all’art. 32 Cost., che il risarcimento del danno biologico dello stesso possa sottrarsi alla regola della riparazione integrale[57], superando, perciò, qualunque logica transattiva.

Né, infine, sembrano preclusivi della interpretazione qui sostenuta due ulteriori rilievi che si fanno discendere, sul piano sistematico, dalla specialità della regola contenuta nell’art. 10 t.u. Sotto tale profilo, si è ulteriormente obiettato che l’abbandono dell’interpretazione tradizionale della norma sarebbe impedito, da un lato, da tutte quelle ipotesi in cui l’azione di risarcimento del danno differenziale ha natura extracontrattuale, come avviene necessariamente per la domanda degli eredi del lavoratore deceduto in conseguenza dell’infortunio o della tecnopatia, e dall’altro dalla impossibilità di estendere la lettura adeguatrice accolta dalla Cassazione all’azione di regresso dell’Istituto assicuratore, non potendosi spezzare la perfetta simmetria di presupposti voluta dal combinato disposto degli artt. 10 e 11 t.u[58].
Ed invero, il primo rilievo non pare affatto incrinare la coerenza sistematica delle conclusioni cui è pervenuta la Corte di cassazione. Come nel discorso delle sentenze nn. 7281, 7282 e 7283 del 2003, qui si sostiene unicamente che l’accertamento incidentale del fatto di reato da parte del giudice civile ai fini del risarcimento del danno differenziale dovrà avvenire dando pieno ingresso, ma evidentemente solo se e nei limiti in cui sono previsti, agli eventuali meccanismi presuntivi della colpa del responsabile di cui alle generali regole codicistiche. Ne consegue che ove tali meccanismi non possano operare, come tipicamente avviene nel caso in cui si fuoriesca dall’ambiente contrattuale e si attivi la fattispecie generale dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 c.c., la prova della colpa del datore di lavoro dovrà essere sempre positivamente ed effettivamente fornita dall’attore. Ma questo ci pare perfettamente coerente con l’assunto da cui si muove e non può certo impedire l’applicazione degli evocati meccanismi presuntivi tutte le volte in cui siano previsti ed operanti. Ciò che – ci sembra – dà adeguata risposta anche alla seconda obiezione sistematica mossa alla tesi qui accolta, e relativa all’azione di regresso dell’INAIL, tenendo peraltro presente, in tutti i suoi possibili risvolti, la circostanza che tale azione si radica nel rapporto di assicurazione sociale[59].

Conclusivamente, può dirsi che l’art. 10 t.u. presuppone ancor oggi, quantomeno nei confronti del lavoratore infortunato, un’ipotesi di responsabilità contrattuale qualificata o rafforzata dall’additivo specializzante della ricorrenza, in astratto, di un fatto di reato perseguibile d’ufficio, ciò che, evidentemente, non esclude affatto – in linea con i più generali sviluppi interpretativi del diritto primo – che, ai fini della imputabilità dell’infortunio al datore di lavoro, valgano in pieno le regole di accertamento di cui agli artt. 1218 e 2087 c.c. Anche la recente sentenza delle Sezioni unite della Cassazione, nel valorizzare gli specifici presupposti della risarcibilità del danno non patrimoniale in ambito contrattuale, laddove in particolare ritiene sostanzialmente superata l’esigenza del ricorso all’espediente del cumulo di azioni[60], offre preziose indicazioni in questa direzione.

Ad ogni modo, quella qui indicata ci sembra l’unica direzione interpretativa che consente di superare l’altrimenti inevitabile “sopravvenuta incongruenza del sistema previdenziale”[61] rispetto al nuovo diritto vivente del danno alla persona: incongruenza che, ove non risolta nei termini prospettati, non potrebbe che riportare alla luce – senza più alcun margine di mediazione – la questione di legittimità costituzionale in sé della regola dell’esonero come tradizionalmente intesa.

Occorre tuttavia riconoscere che l’accoglimento di questa soluzione richiede, probabilmente, una maggiore elaborazione argomentativa pure da parte della Corte di cassazione, che vi è sì pervenuta in modo fermo e convincente, ma senza esplicitare ancora compiutamente le ragioni – prima di tutto di rilievo costituzionale – che esigono, nell’attuale quadro normativo, la prospettata rilettura dell’art. 10, d. P.R. n. 1124/1965. Una tale affinamento concettuale sarebbe assai utile per superare quel senso di “disorientamento”[62], e quasi di smarrimento, che coglie l’interprete soprattutto allorché volga lo sguardo alle ondivaghe risposte che provengono dai laboratori della giurisprudenza di merito. Sono rare le pronunzie che affrontano in modo chiaro e consapevole i termini della questione posta dalla residua rilevanza e dai criteri di applicazione della regola dell’esonero[63], ed ancora fortissime – come si rammenterà meglio tra un momento – le oscillazioni in punto di ammissibilità del risarcimento del danno differenziale[64].

4. Il “danno differenziale” alla luce della sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni unite: prime, problematiche considerazioni

Il secondo snodo critico della giurisprudenza in materia è quello che – superato l’ostacolo dell’esonero – attiene alla questione della sussistenza o meno di un danno differenziale risarcibile in capo al lavoratore vittima di infortunio imputabile alla responsabilità del datore. Entro l’ambito di applicazione dell’art. 10 t.u., perché possa farsi luogo a risarcimento è, infatti, come noto necessario che il giudice riconosca che questo ascenda a somma maggiore dell’indennità che è liquidata dall’INAIL all’infortunato o ai suoi aventi diritto (c. 6). Solo qualora ricorra tale evenienza, il risarcimento sarà dovuto per la parte che eccede le indennità complessivamente liquidate dall’Istituto assicuratore (c. 7).

La questione – su cui come accennato si registrano diversi orientamenti giurisprudenziali, il più consistente dei quali favorevole in linea di massima alla riconoscibilità di un danno (anzitutto biologico) differenziale[65] – deve essere peraltro oggi riesaminata alla luce della più volte richiamata sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Chiamate a sciogliere la questione della sussistenza o no di un’autonoma categoria di “danno esistenziale”, le Sezioni unite hanno infatti compiuto una generale rivisitazione dei presupposti del risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c.: rivisitazione che va qui rapidamente ripercorsa onde apprezzarne le problematiche ricadute sul nostro specifico tema.

In estrema sintesi, può dirsi che la sentenza – sin troppo suggestionata da talune innegabili slabbrature bagattellari della giurisprudenza dei giudici di pace – ha accolto la lettura rigoristica espressa da un consistente filone di pronunzie dalla terza sezione civile della Cassazione[66], negando l’autonomia concettuale del danno esistenziale come distinta sottocategoria del danno non patrimoniale alla persona. L’argomento principale a sostegno di tale conclusione è che, ove si ammettesse una generica categoria di danno esistenziale, si porterebbe inammissibilmente il danno non patrimoniale nell’orbita della atipicità, annullando totalmente ogni differenza tra l’art. 2059 c.c. (che è, e deve restare, norma di rinvio anche nell’interpretazione costituzionalmente orientata che ne accoglie la Corte) e l’art. 2043 c.c. (alla cui stregua soltanto il requisito della ingiustizia può dirsi determinato dalla lesione, non giustificata, di qualunque interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico). Ed invero, sotto tale essenziale aspetto, solo “il danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona”[67].
Non potrà pertanto parlarsi, in senso proprio, di una (generica) sottocategoria di danno esistenziale, ma, all’interno dell’unitaria categoria del danno non patrimoniale, unicamente dei pregiudizi – specificamente allegati e provati, seppure con ampio ricorso al mezzo delle presunzioni semplici – che derivano dalla lesione di individuati diritti involabili della persona, espressamente riconosciuti dalla Costituzione o comunque dalla stessa estrapolabili in via di interpretazione evolutiva del precetto di cui all’art. 2[68]. Peraltro, stante la unitarietà della categoria del danno non patrimoniale, come perde valenza autonoma la figura del danno esistenziale, così assume – secondo la Corte – rilievo ormai eminentemente descrittivo il riferimento anche al danno morale ed allo stesso danno biologico. Fuori dei casi determinati dalla legge, infatti, in presenza di fattispecie di ingiustizia costituzionalmente qualificata, “non emergono, nell’ambito della categoria generale "danno non patrimoniale", distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale”[69]. È perciò solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene nel caso della lesione del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., si impiega l’espressione “danno biologico”. Parimenti, “la formula "danno morale" non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento”[70].

Esula dagli scopi di questa rassegna una analisi critica di taglio generale della motivazione della sentenza delle Sezioni unite. Anche se non si può non rilevare – con sguardo già rivolto ai profili che attengono alla nostra specifica tematica – come nel pur notevole sforzo di razionalizzazione compiuto dalla Corte persistano elementi di forte ambiguità, anche terminologica[71], e statuizioni che per quanto pronunziate con forza paiono destinate ad esser tutt’altro che risolutive delle tante incertezze che percorrono la prassi applicativa[72].

Conviene invece interrogarsi ex professo sulle conseguenze rivenienti dalla impostazione rigorosamente bipolare[73] del danno alla persona, così accolta dalla Corte negando finanche al danno morale e a quello biologico rilievo di categorie autonome, dentro l’area governata dall’art. 10 t.u. A prima lettura, sembrerebbe risultarne compromesso quel peculiare (e diverso) assetto bipolare che in questa sfera derivava dalla netta distinzione tra voci o categorie di danno (patrimoniale e non patrimoniale) coperte, sia pure parzialmente, dall’assicurazione sociale, da un lato, e voci o categorie viceversa escluse in apicibus dall’oggetto dell’indennizzo previdenziale, dall’altro.

La speciale bipolarità tra danno “differenziale” e “danno complementare”[74] – il primo corrispondente alle frazioni di danno in concreto non indennizzate dall’Istituto assicuratore, il secondo relativo alle voci o categorie in astratto lasciate come tali scoperte dall’assicurazione obbligatoria – derivava, nel nostro caso, non già dalla summa divisio tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, ma dallo speciale assetto dei rapporti tra tutela previdenziale e responsabilità civile nelle fattispecie di infortunio sul lavoro o malattia professionale. Con la logica conseguenza non si dava (e non si dà) una coincidenza tra i due ambiti, visto che sia il danno patrimoniale sia quello non patrimoniale rientravano (e rientrano, ove si consideri tuttora pertinente tale tassonomia), in relazione all’effettivo atteggiarsi della tutela previdenziale, tanto nel danno differenziale quanto in quello complementare[75].

Tuttavia, e sempre a prima vista, sebbene ispirata ad una logica per l’appunto diversa, anche tale tassonomia sembra destinata a risentire della impostazione, ormai rigidamente “bipolare”, accolta, sul piano del diritto privato generale, dalle Sezioni unite della Cassazione. Lo si coglie con immediatezza guardando all’area del danno non patrimoniale, giacché è soprattutto in relazione ad essa che la ripartizione nelle sottocategorie del danno biologico, morale ed esistenziale, ora superata, forniva all’interprete indicazioni relativamente precise ed affidanti anche in ordine alla ripartizione del danno nell’ottica dell’art. 10 t.u. Sulla scorta di tali indicazioni, tutto il danno morale soggettivo, e quello già definito “esistenziale” nella sentenza n. 6572/2006 delle stesse Sezioni unite[76], dovevano essere infatti senz’altro imputati alla sfera del danno complementare, per essere conseguentemente risarciti al di fuori dei condizionamenti e dei limiti posti dall’art. 10 t.u. Solo per il danno biologico poteva porsi il problema – risolto con contrastanti soluzioni nella giurisprudenza di merito – della esistenza, per lo più ammessa, di un danno in senso proprio differenziale, come tale assoggettato alla speciale regola del d.P.R. n. 1124/1965.
Ma ora che il danno non patrimoniale va assunto nella sua unitaria e generale accezione, che per l’appunto non ammette d’essere scomposta in voci autonome (ma al più, e solo a fini “descrittivi”[77], in aspetti o profili di pregiudizio dell’unico danno personale, da valutare nella sua interezza), occorre inevitabilmente chiedersi che rilievo possa ancora avere quella impostazione, potendosi a prima vista ritenere che anche essa sia superata. Se il danno non patrimoniale alla persona è categoria fondamentalmente unitaria, potrebbe infatti sostenersi che non v’è più spazio – neppure ai nostri fini – per una netta suddivisione tra danno differenziale e complementare, supponendo comunque essa, del danno non patrimoniale, una concezione basata sulla distinzione in sottocategorie autonome e ontologicamente ben differenziate. Portando alle coerenti conseguenze logiche tale illazione, dovrebbe allora dirsi che – riassorbita in una concezione unitaria la precedente sotto-articolazione in voci o categorie autonome – tutto il danno non patrimoniale subito dal lavoratore in conseguenza di infortunio o malattia professionale diventa risarcibile unicamente come danno differenziale, sempre alle condizioni e nei limiti di cui all’art. 10 t.u.

Come è stato ben evidenziato in dottrina già prima dell’ultimo intervento delle Sezioni unite, “È evidente che, dal punto di vista previdenziale, ritenere che esista un’unica voce di danno non patrimoniale, o ritenere che esso sia il contenitore di più voci autonome di danno (biologico, esistenziale, morale soggettivo), produce conseguenze sostanzialmente diverse, soprattutto con riguardo all’azione di rivalsa dell’ente previdenziale”[78]. Nella misura in cui cessano di costituire autonome sottocategorie di danno non patrimoniale, i pregiudizi già ricondotti alla figura del danno esistenziale e del danno morale soggettivo diventano, in tale prospettiva, risarcibili solo come residui differenziali ex art. 10 t.u. rispetto alla liquidazione indennitaria del danno biologico ai sensi dell’art. 13, d. lgs. n. 38/2000.

Esplicitando meglio tale conclusione, dovrà affermarsi che nelle ipotesi, qui in rilievo, della lesione della salute del lavoratore in conseguenza d’infortunio o tecnopatia imputabili alla responsabilità del datore[79], il vecchio danno morale subiettivo – vale a dire il tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata – non assume più rilevanza autonoma, ma concorre a determinare la quantificazione del danno biologico (differenziale) effettivamente subito dalla vittima. Ed infatti, come affermato dalla Corte, ove sia dedotta la lesione dell’integrità psicofisica della persona, determinerebbe “duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei su indicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”[80]. Ma questa operazione di personalizzazione del danno biologico pare doversi per l’appunto interamente esaurire – nel nostro schema – dentro i confini della liquidazione (comunque equitativa) del danno non patrimoniale differenziale.

Lo stesso dicasi dei pregiudizi già ricondotti alla sottocategoria del danno esistenziale, pure superata dalla Cassazione come componente autonoma del danno non patrimoniale. Anche in questo caso – chiarisce la Corte – “Possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione”[81]. Il giudice, giusta il principio della integrale riparazione del danno, sulla base delle deduzioni e delle prove offerte dal ricorrente dovrà peraltro tenere specificamente conto di tali aspetti, che possiamo chiamare dinamico-relazionali ed esistenziali del danno biologico, in sede di necessaria personalizzazione dello stesso, giacché è pacifico che tali aspetti sfuggono alla valutazione eminentemente standardizzata (ed essenzialmente statica) che ne fa – ai fini previdenziali – l’art. 13 del d. lgs. n. 38/2000[82]. Ma anche in tal caso, si rientrerebbe ormai interamente nel campo del danno (non patrimoniale) differenziale ex art. 10 t.u., senza possibilità d’invocare la nozione del danno complementare.

La lettura più rigorosa e coerente sul piano logico-giuridico della sentenza delle Sezioni unite sembrerebbe in effetti portare alle conclusioni appena esposte e che possono sintetizzarsi dicendo che le componenti soggettive e dinamico-relazionali del danno alla salute cagionato dall’infortunio sul lavoro, lungi dal poter essere ricostruite e risarcite come autonoma componente di danno complementare alla persona, andranno valutate – in relazione a quanto specificamente dedotto e provato dal lavoratore ricorrente, anche a mezzo di presunzioni – in sede di personalizzazione, da parte del giudice, del medesimo danno biologico, e dunque come danno non patrimoniale differenziale a sensi dell’art. 10 t.u. Considerando anche le ricadute sul versante dell’azione di regresso dell’Istituto assicuratore, tale ricostruzione verrebbe definitivamente a suffragare l’orientamento interpretativo – prevalente nella giurisprudenza di merito[83] e di legittimità[84], e tuttavia discutibile alla stregua dell’impostazione che voleva il danno non patrimoniale articolabile in distinte sottocategorie[85] – in base al quale il computo del danno differenziale va effettuato avuto riguardo all’ammontare complessivo (e non alle singole poste o voci) del risarcimento civile e dell’indennizzo previdenziale, seguendo in buona sostanza il dettato letterale dell’art. 10, c. 6 e 7, t.u.[86].

Sennonché, a suggerire più d’una cautela nel recepimento di siffatte conclusioni, potrebbe valere l’osservazione per cui la sentenza della Corte – che non affronta mai esplicitamente il problema del raccordo tra sistema previdenziale e responsabilità civile da infortunio – contiene più d’una ambiguità in ordine alle possibili “interferenze tra il danno non patrimoniale complementare e il danno biologico indennizzato dall’INAIL”[87]. Non è un caso che, nel delineare, in termini ampi e tendenzialmente onnicomprensivi, la nozione asseritamente “descrittiva” di danno biologico, la Corte si rifà soltanto alle norme contenute negli artt. 138 e 139 del d. lgs. n. 209/2005, recante il codice delle assicurazioni private, senza mai citare la previsione “capostipite” di cui all’art. 13, d. lgs. n. 38/2000.

In effetti, è solo nel codice delle assicurazioni private che – seppure come base definitoria della specifica tabellazione – si delinea una nozione ampia di danno biologico, suscettibile di generalizzazione in quanto per l’appunto comprensiva della incidenza negativa della lesione dell’integrità psicofisica della persona, accertabile in sede medico-legale, sulle attività quotidiane, oltre che sugli aspetti dinamico-relazionali del soggetto leso. La definizione che viceversa ne dà l’art. 13, d. lgs. n. 38/2000 ai fini dell’indennizzo previdenziale, nei termini specificamente commisurabili sulla base delle tabelle INAIL, è decisamente più ristretta, visto che vi si scolpisce “una nozione di salute limitata agli aspetti psico-fisici della vita dell’individuo”[88]. È allora sulla base del rilievo di tale sostanziale differenza definitoria – che ha, all’evidenza, carattere propriamente normativo e non semplicemente descrittivo – che potrebbe problematicamente prospettarsi[89] una perdurante rilevanza, come danno complementare al di fuori dei (pur residui) vincoli posti dall’art. 10 t.u., di tutti i pregiudizi di carattere soggettivo, esistenziale e in senso stretto dinamico-relazionale, subiti dal lavoratore vittima di infortunio o malattia professionale[90].

Ma più in generale, potrebbe plausibilmente obiettarsi che nulla può cambiare, neppur dopo la sentenza delle Sezioni unite, in ordine al principio – che presiede per così dire strutturalmente al riparto di competenze tra i due sottosistemi della tutela previdenziale e della responsabilità civile nelle fattispecie di infortunio sul lavoro – per cui l’esonero del datore di lavoro e l’azione di regresso dell’INAIL non operano, in quanto tali, per i danni non coperti dall’assicurazione sociale, quale specificamente configurata, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, dal d.P.R. n. 1124/1965 e dal d. lgs. n. 38/2000. Per cui, a questi fini, non si potrebbe comunque aver riguardo alla “categoria” di danno in via generale presa in considerazione dal diritto primo, ma al pregiudizio di natura sostanziale che l’indennizzo previdenziale è, ex lege, specificamente destinato a ristorare.


5. Spunti conclusivi sui riflessi del d. lgs. n. 81/2008 in tema di responsabilità civile da infortunio sul lavoro

La rassegna critica delle novità in tema di risarcimento del danno da infortunio, sin qui svolta, non sarebbe completa se non si desse conto, sia pur sinteticamente, dei possibili riflessi del d. lgs. n. 81/2008.

Ora, si è già sottolineata l’importanza della previsione, già introdotta dalla l. n. 123/2007 e quindi trasfusa nell’art. 61, c. 1, del decreto, che impone al pubblico ministero, in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio o di lesioni personali colposi commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o integranti malattia professionale, di darne immediata notizia agli Istituti assicuratori ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso[91]. Ma non meno importanti appaiono i riflessi apprezzabili su di un piano più generale, tanto sotto il profilo soggettivo, quanto sotto quello oggettivo.

Dal primo punto di vista, è noto come il d. lgs. n. 81/2008, in puntuale attuazione dei criteri della legge delega e della loro migliore ispirazione comunitaria, si sia fatto portatore di una potente spinta alla generalizzazione dei diritti (e dei connessi obblighi) di sicurezza ben oltre i tradizionali confini del lavoro subordinato, per abbracciare, in uno slancio universalistico di protezione dai rischi inerenti all’ambiente di lavoro, tendenzialmente tutte le forme di attività lavorativa ad esso riconducibili, anche se rientranti nella campo, latamente inteso, della autonomia. In linea con la “vocazione universalistica della delega”[92], l’art. 2, lett. a), del decreto definisce invero lavoratore “ogni persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito della organizzazione di un datore di lavoro, pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari”. La tendenziale onnicomprensività di tale nozione trova conferma sia nella speculare definizione di datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro o, comunque, come il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” (lett. b dell’art. 2)[93], sia nelle specifiche articolazioni soggettive della stessa, quali contenute, in particolare, oltre che nell’art. 2, negli artt. 3 e 21 del decreto.

Il tratto probabilmente più rimarchevole di tale opera di profonda rivisitazione dei confini del lavoro protetto sul piano dei diritti fondamentali di sicurezza, è che “L’estensione del decreto al di fuori dei confini del lavoro subordinato non riguarda soltanto le varie forme di parasubordinazione, ma anche il lavoro autonomo tout court”[94]. L’estensione avviene certo in modo selettivo sul piano dei contenuti di tutela (in particolare per la fattispecie generale della lavoro autonomo di cui all’art. 2222 c.c. e per quelle, menzionate sempre all’art. 21 del decreto, di cui agli artt. 230-bis e 2083 c.c.), e comunque nei limiti “naturali” in cui la prestazione si inserisca nella sfera organizzativa del datore di lavoro, nell’ampio senso veduto. Ma essa – per quanto avrebbe forse dovuto esser meglio sciolta ed articolata con riferimento alle specifiche caratteristiche delle singole tipologie contrattuali considerate – segnala nondimeno uno sviluppo di forte impatto innovativo, di cui non possono non auspicarsi coerenti travasi nella sfera della disciplina previdenziale antinfortunistica, per la quale non può non visualizzarsi, de iure condendo, un ambito soggettivo equiesteso a quello prevenzionistico e finalmente affrancato dai retaggi incongrui del principio del rischio professionale. Anche su questo versante, e ben oltre quanto pur parzialmente avvenuto col d. lgs. n. 38/2000, deve infatti poter finalmente emergere una “dimensione complessa di lavoratore”[95], entro la quale possano ricondursi – come già avviene ex d. lgs. n. 81/2008 per la disciplina della salute e sicurezza sul lavoro – “tutti i soggetti che il datore di lavoro coinvolge funzionalmente nel proprio ambito organizzativo utilizzandone le prestazioni lavorative per il perseguimento dei propri scopi, quali che siano (economici, istituzionali, non lucrativi ecc.)”[96], indipendentemente dalla tipologia contrattuale e di rischio oggettivo[97].

Le disposizioni sul campo d’applicazione soggettivo degli obblighi di sicurezza contengono comunque profili innovativi di immediata traduzione anche ai nostri fini. La prima positiva ricaduta riguarda la definizione delle responsabilità, anche risarcitorie, nelle fattispecie di somministrazione, distacco ed appalto.

In ordine alla somministrazione, l’art. 3, c. 5, d. lgs. n. 81/2008, oltre a confermare lo specifico contenuto dell’art. 23, c. 5, d. lgs. n. 276/2003, chiarisce che tutti gli obblighi di prevenzione e protezione di cui al decreto medesimo sono a carico dell’utilizzatore. In tal modo la norma consente senz’altro di considerare l’utilizzatore quale datore di lavoro ai fini della disciplina sulla sicurezza[98], senza peraltro escludere completamente il somministratore dagli obblighi di prevenzione[99]. Così disponendo, il decreto consente peraltro anche di chiarire una volta per tutte che, pur non rivestendo formalmente la qualità di datore “assicurante” ai sensi del d.P.R. n. 1124/1965, l’utilizzatore, in quanto principale responsabile della sicurezza dei lavoratori somministrati, è anche simmetricamente assoggettato, nei confronti degli stessi come dell’Istituto assicuratore in sede di regresso, alla disciplina di cui agli artt. 10 e 11 t.u.[100]. E conclusione del tutto analoga, con riguardo alla figura del distaccatario, suggerisce ora l’art. 3 del decreto, al successivo c. 6, relativamente alla fattispecie del distacco[101].

Precisazioni di rilievo per il nostro tema sono inoltre contenute nell’art. 26 del d. lgs. n. 81/2008 in ordine al regime degli obblighi prevenzionistici e delle responsabilità in materia di appalti. Nel riscrivere la norma già introdotta con la legge finanziaria per il 2007 nel corpo dell’art. 7, d. lgs. n. 626/1994[102], l’art. 26 del decreto delinea in modo organico la disciplina relativa agli obblighi connessi ai contratti d’appalto, d’opera o di somministrazione. La disposizione conferma in primo luogo l’ampio spettro degli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro committente in caso di affidamento dei lavoratori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda o unità produttiva ovvero, comunque, nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima. In tale contesto si segnala soprattutto l’essenziale dovere di promuovere la cooperazione e il coordinamento nell’attuazione delle misure di prevenzione verso tutti i soggetti coinvolti nella catena degli appalti attraverso l’elaborazione di un unico documento di valutazione dei rischi “che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze” (c. 3). Lo stesso c. 3 dell’art. 26 ha ora cura di precisare che le disposizioni ivi contenute non si applicano ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi.

L’art. 26 ritorna poi, col c. 4, a disciplinare in maniera più puntuale l’ambito della responsabilità solidale gravante in capo al committente imprenditore[103] per i danni da infortunio sul lavoro non indennizzati in sede previdenziale. Da un lato, infatti, si stabilisce che l’imprenditore committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dell’appaltatore o del subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL o dell’IPSEMA; dall’altro si precisa che tale disposizione non si applica ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici, con limitazione analoga a quella già introdotta dal c. 3 a proposito del documento di valutazione dei rischi “interferenziali”[104].

Così facendo – come è stato notato – “La nuova disciplina, da un lato, amplia opportunamente il campo soggettivo di applicazione della norma anche ai lavoratori coperti dall’assicurazione antinfortunistica presso l’Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA), dall’altro, limita l’ambito oggettivo di applicazione della responsabilità solidale, escludendo appunto i danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”[105]. Sennonché, tale ultima limitazione, se può sembrare coerente con quella disposta ad altri fini dal richiamato c. 3 dell’art. 26, difficilmente si giustifica, a differenza di quella, vuoi in relazione ai contenuti della legge delega, vuoi in ragione della natura della responsabilità in questione. Da un lato, infatti, nell’abbassare lo specifico livello di protezione già in essere, tale limitazione sembra mal conciliarsi col criterio direttivo del miglioramento della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore di cui all’art. 1, c. 2, lett. s), n. 1, l. n. 123/2007. Dall’altro, essa non tiene adeguatamente in considerazione che la responsabilità solidale per il risarcimento del danno non indennizzato dall’Istituto assicuratore[106] è di natura oggettiva[107], e come tale prescinde – a differenza di quella che discende dalla violazione degli obblighi prevenzionistici gravanti sul committente – dalla imputabilità dell’inadempimento[108]. Per tale ragione, ben si giustificava una sua estensione a tutte le ipotesi di infortunio, anche se relative alla materializzazione di rischi diversi da quelli interferenziali e specifici, appunto, dell’attività imprenditoriale propria dell’appaltatore o del subappaltatore.

Sempre dal lato soggettivo, ma stavolta sul versante del lavoro autonomo “coordinato”, merita infine segnalare i riflessi che discendono, in termini di responsabilità risarcitoria del committente, dalla previsione di cui all’art. 3, c. 7, d. lgs. n. 81/2008. Stabilendo l’applicabilità di tutte le norme di sicurezza di cui al decreto nei confronti dei lavoratori a progetto come dei collaboratori coordinati e continuativi la cui prestazione si svolga nei luoghi di lavoro del committente[109], la disposizione consente infatti di risolvere in senso senz’altro positivo ogni dubbio circa l’applicabilità anche a quest’ultimo delle previsioni di cui agli artt. 10 e 11 t.u.[110].

Sotto il profilo oggettivo – per svolgere l’ultima notazione conclusiva di questa rassegna –, varrà qui solo rammentare come sia opinione comune tra i commentatori del d. lgs. n. 81/2008 che lo stesso confermi ed anzi corrobori i principi e le regole di prevenzione già operanti nell’ordinamento in forza tanto della legislazione speciale (ed in primo luogo, come ovvio, del d. lgs. n. 626/1994), quanto (per quel che più rileva in questa sede) in virtù della norma di chiusura del sistema contenuta nell’art. 2087 c.c.[111]. Il precetto codicistico si conferma invero “norma cardine dell’intero sistema di prevenzione”[112], norma che nell’immettere l’obbligo di sicurezza nel sinallagma contrattuale garantisce anche quella straordinaria capacità di auto-adattamento sistemico intorno al criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, che ne fa appunto l’essenziale elemento di “cerniera fra l’impresa e il diritto alla salute dei lavoratori”[113].

Il che ci riconduce al punto da cui siamo partiti, visto che un essenziale ruolo di cerniera l’art. 2087 c.c. continuerà ad assolvere, nei termini per certi versi affinati e potenziati dalla recente giurisprudenza di legittimità, anche mantenendo ben saldo il collegamento tra il diritto primo della responsabilità civile e lo speciale sistema previdenziale di riparazione degli “accidenti da lavoro”.


* Si tratta del testo, corredato delle note, della relazione tenuta all’incontro di studio promosso dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura, in collaborazione con l’Associazione Avvocati INAIL, su “Lavoro: cautele, responsabilità e risarcimento”, svoltosi a Roma il 20 novembre 2008. Nella stesura definitiva dello scritto mi sono giovato delle osservazioni critiche ricevute da Aldo De Matteis e Luigi La Peccerella, che ringrazio pubblicamente. Non occorre dire che resto il solo responsabile di errori ed omissioni.
[1] D’obbligo il rinvio a L. Gaeta, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile. Alle origini del diritto del lavoro, Napoli, 1986, e a G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (1865-1914), Milano, 1991, spec. pp. 143 ss.
[2] C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 1997 (seconda ed.), pp. 379 ss.
[3] Id., Alle origini della fuga dal codice. L’assicurazione contro gli infortuni tra diritto privato generale e diritti secondi, in Jus, 1985, pp. 20 ss.
[4] Per un’ampia e sottile rivisitazione “di tale lenta ma costante deviazione del diritto del lavoro, oltre che dal diritto civile in generale, dal sistema della responsabilità civile”, deviazione che rinviene storicamente nella legge n. 80/1898 il suo primum movens, cfr. più di recente R. Del Punta, Diritti della persona e contratto di lavoro, in AIDLASS, Il danno alla persona del lavoratore, Atti del convegno nazionale di Napoli, 31 marzo – 1° aprile 2006, Milano, 2007, pp. 19 ss., qui p. 21.
[5] M. Cinelli, Il danno non patrimoniale alla persona del lavoratore: un excursus su responsabilità e tutele, in AIDLASS, Il danno alla persona del lavoratore, cit., pp. 115 ss., qui p. 129.
[6] Si veda D. Poletti, Danni alla persona negli “accidenti da lavoro e da automobile”, Torino, 1996.
[7] F. Ewald, L’Etat providence, Paris, 1986.
[8] Prendiamo ancora in prestito un’efficace espressione di M. Cinelli, op. loc. cit.
[9] Per una più ampia contestualizzazione critica di tali analisi sia permesso ad ogni modo il rinvio a S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, in Dig. disc. priv., sez. comm., Aggiornamento, I, Torino, 2000, pp. 377 ss., e più di recente a A. De Matteis, S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2005, pp. 33 ss.
[10] Così ancora C. Castronovo, Danno alla persona nel rapporto di lavoro, in AIDLASS, Il danno alla persona del lavoratore, cit., pp. 182-183.
[11] Si veda, più di recente e per tutti, C. Salvi, La responsabilità civile, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2005 (seconda ed.), pp. 30 ss. Ma non può non richiamarsi, tra i primi, almeno S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964.
[12] Con essa – come noto – il giudice delle leggi ha anzitutto integrato l’art. 10, d.P.R. n. 1124/1965 con la regola secondo la quale la responsabilità datoriale è attivabile in tutti i casi in cui il reato-infortunio sia addebitabile ad un qualsivoglia dipendente del cui fatto lo stesso datore debba rispondere a norma del codice civile, estendendo, poi, anche alle ipotesi di prescrizione del reato l’accertamento della responsabilità in questione da parte del giudice civile. V. soprattutto G. Pera, L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e la responsabilità civile secondo i giudici costituzionali, in Riv. inf. mal. prof., 1967, I, pp. 901 ss.
[13] V., per tutti, i saggi raccolti nel volume, a cura di P. Curzio, Il danno biologico dopo il decreto legislativo 38/2000, Bari, 2002.
[14] Il lato paradossale della vicenda è che alla apertura ai principi comuni in materia di responsabilità civile – sia pure attraverso il filtro del meccanismo di indennizzo del danno biologico, ex d. lgs. n. 38/2000 – corrisponde, con l’ampliamento del raggio operativo dell’esonero, una simmetrica riespansione della regola sulla quale si è storicamente consumato il distacco dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro dal diritto privato generale. Ma tale regola – ove non riletta, come sarà qui suggerito (§ 2 e 3), in chiave d’“interpretazione adeguatrice” – rischia, evidentemente, di depotenziare, quando non di compromettere, quelle stesse innovazioni di tutela dei valori della persona vittima d’infortunio sul lavoro o di tecnopatia, che costituiscono il portato della apertura al diritto privato generale sotto l’egida del combinato disposto degli artt. 32 e 38, c. 2, Cost. Del resto, come si è già rilevato, va sempre rintracciato in tale modello storico di rapporti tra diritto primo e diritto secondo il motivo principale del paradosso per cui “il diritto del lavoro si sia fatto strappare, per così, dire, dal diritto privato generale, l’impostazione nuova del danno alla persona, trovandosi in qualche misura a cose fatte a dover riformulare all’interno della sua disciplina e delle sue categorie, una scoperta che avrebbe dovuto fare da sé” (C. Castronovo, Danno alla persona, cit., p. 181), guidato, in particolare, dalla stella polare dell’art. 2087 c.c. In termini analoghi cfr. pure R. Del Punta, op. cit., pp. 19 ss.
[15] Sia permesso il rinvio a S. Giubboni, Le “contraddizioni” dell’assicurazione contro gli infortuni, tra vecchio e nuovo diritto, in Dir. lav., 2001, I, pp. 93 ss., spec. p. 101. Nello stesso senso, tra gli altri, D. Poletti, Danni alla persona e infortuni sul lavoro (con osservazioni sul funzionamento della riforma INAIL), in Resp. civ. prev., 2004, I, pp. 935 ss., spec. p. 952. Per la diversa tesi giusta la quale l’ingresso solo parziale del danno biologico di origine professionale nel rapporto di assicurazione sociale farebbe sì che “non possano trovare applicazione le norme speciali dell’assicurazione in tema di esonero dalla responsabilità civile, previsto dall’art. 10, t.u. n. 1124/1965, nei confronti del danneggiato in ordine al danno differenziale, ovvero nei confronti dell’INAIL quanto alle azioni di regresso e surroga”, v., peraltro, ancor di recente, A. Andreoni, Lavoro, diritti sociali e sviluppo economico. I percorsi costituzionali, Torino, 2006, p. 192.
[16] Supra, alla nota 14.
[17] Cfr., ex plurimis, i rilievi critici classicamente formulati da M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2007, pp. 141 ss., nonché S. Piccininno, Infortuni sul lavoro - IV) Revisione della disciplina, in Enc. giur., Aggiornamento, XVII, Roma, 2001.
[18] Infra, § 2 e 3.
[19] L’ovvio riferimento è alle celebri sentenze gemelle della Suprema Corte, nn. 8827 e 8828 del 2003, come noto seguite e riprese, a poca distanza di tempo, da Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233. Sarebbe ultroneo, in questa sede, dar conto della ricchissima letteratura fiorita su tali pronunzie rifondative del danno non patrimoniale alla persona; sia sufficiente fare rinvio ai contributi che compaiono nei volumi collettanei: Il “nuovo” danno non patrimoniale, Padova, 2004, a cura di G. Ponzanelli, e I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, Milano, 2004, a cura di E. Navarretta.
[20] Infra, § 4. Per una pregevole sintesi dello stato dell’arte sino all’ultima sentenza delle Sezioni unite dell’11 novembre 2008, n. 26972, v. ad ogni modo M. C. Cimaglia, Danni alla persona nel diritto del lavoro, in Dig. disc. priv., sez. comm., Aggiornamento IV, Torino, 2008.
[21] Infra, § 5.
[22] Si ricordi almeno la fondamentale elaborazione di F. Carnelutti, Criteri d’interpretazione della legge su gli infortuni (1904), in Id., Infortuni sul lavoro (studi), Roma, 1913, I, pp. 1 ss.
[23] Si veda M. Casola, Esonero da responsabilità del datore di lavoro e conseguenze processuali in tema di danno differenziale, in corso di pubblicazione in Riv. it. dir. lav., spec. p. 12 del dattiloscritto. Sull’appassionata difesa del valore fondante della regola dell’esonero proposta dall’autrice, con l’auspicio ad un ritorno al perduto rigore applicativo della sua efficacia esimente, si avrà modo di tornare criticamente più avanti (nel § 3), unendo alla critica anche l’analoga posizione dottrinale recentemente espressa da R. Riverso, Esiste ancora l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile dell’art. 10 del T.U. 1124/1965?, in Lav. giur., 2008, pp. 1083 ss.
[24] Non possiamo ricostruire qui nei dettagli tutti i passaggi normativi e giurisprudenziali di tale complessa vicenda; cfr. comunque A. De Matteis, S. Giubboni, op. cit., pp. 976 ss., e più diffusamente, ma con impostazione parzialmente diversa, G. Marando, Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Milano, 2003, spec. ai capitoli IV e IX.
[25] Di cui v. l’art. 61, c. 1, che riprende e precisa quanto già dettato dell’art. 2, l. n. 123/2007, stabilendo che, in caso di esercizio dell’azione penale per i delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il pubblico ministero è tenuto a darne immediata notizia all’INAIL e all’IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso. La norma, nel facilitare l’esercizio dell’azione di regresso dell’Istituto assicuratore, realizza molto opportunamente – come è stato ben puntualizzato in dottrina – un doppio risultato utile: da un lato risolve ogni residuo dubbio sulla legittimazione alla costituzione di parte civile nel processo penale di INAIL ed IPSEMA; dall’altro chiarisce – dando un concludente supporto normativo all’orientamento giurisprudenziale che già era giunto a tale esito interpretativo nel dissenso, però, d’una non minore corrente della giurisprudenza di legittimità – che l’azione di regresso può essere esercita iure communi in sede civile senza subire alcun condizionamento da parte della vicenda processuale penale a carico del datore di lavoro. Ed invero, la norma ha il pregio di svuotare “definitivamente di contenuto il disposto dell’art. 10, c. 2, e, precisamente, il riferimento alla sentenza penale di condanna che, nell’iter processuale, interviene inevitabilmente in un momento successivo alla costituzione di parte civile e libera l’azione di regresso dalle sorti del processo penale, risolvendo, conseguentemente, il contrasto giurisprudenziale esistente tra le Sezioni semplici in favore dell’orientamento che considera autonoma l’azione di rivalsa dell’INAIL rispetto alla vicenda penale”: così, con sillogismo ineccepibile, A. Rossi, L’azione di regresso dell’INAIL dopo l’art. 2 della legge n. 123 del 2007: riflessi sul rapporto tra processo penale e processo civile, in questa Rivista, 2008, pp. 187 ss., sul punto pp. 202-203. Nello stesso senso, per la definitiva affermazione che l’azione di cui all’art. 11 t.u. è ormai interamente assoggettata alle regole del diritto processuale comune, potendo perciò l’Istituto assicuratore agire indifferentemente in sede penale ovvero in sede civile, in tale ultimo caso senza vincoli di pregiudizialità penale diversi da quelli valevoli in generale, cfr. anche R. Riverso, op. cit., p. 1087, spec. alla nota 10; più in generale, L. La Peccerella, Diritto di regresso dell’INAIL e processo penale, in Riv. inf. mal. prof., n. 2/2008.
[26] V. per prima Corte cost. 6 giugno 1989, n. 319, in Nuove leggi civ. comm., 1990, p. 942, con nota di D. Poletti, Tempi difficili per l’azione di surroga degli enti previdenziali.
[27] Apparsi a taluni irrimediabilmente regressivi, in quanto imbevuti d’una logica restauratrice del principio del rischio professionale (cfr. soprattutto M. Persiani, Tutela previdenziale e danno biologico, in Dir. lav., 1992, I, pp. 232 ss.), e ad altri, viceversa, progressivi ed innovatori, in quanto capaci di coniugare le istanze solidaristiche dell’assicurazione sociale – nella forma storica che aveva sempre fatto perno sul criterio indennitario – con le rinnovate istanze di tutela della persona nell’ottica dell’art. 32 Cost. (in questo senso principalmente M. Cinelli, S. Giubboni, Osservazioni sui principi ispiratori della recente giurisprudenza costituzionale in tema di danno biologico, in Ass. soc., 1993, I, p. 291 ss.).
[28] V. ad es. Cass., sez. lav., 22 gennaio 1998, n. 605, in Foro it., 1998, I, c. 1923, ed in dottrina, anche per ulteriori richiami, da ultimo, A. Ciriello, Il danno differenziale nella giurisprudenza, in Riv. crit. dir. lav., 2008, pp. 449 ss., spec. p. 458.
[29] Per qualche spunto ulteriore v. S. Giubboni, Il danno patrimoniale da inabilità permanente fra indennizzo e risarcimento, in Riv. crit. dir. lav., 2005, pp. 669 ss.
[30] Così ad es. Corte cost. 18 luglio 1991, n. 356, tra l’altro in Riv. giur. lav., 1991, III, p. 144, con nota di A. Andreoni, Il danno biologico nel sistema INAIL e nella responsabilità civile.
[31] V. in particolare, oltre alla sentenza citata alla nota precedente, Corte cost. 15 febbraio 1991, n. 87, in Foro it., 1991, I, c. 1664, con nota di D. Poletti, Cronaca di un incontro annunciato: il danno alla salute e l’assicurazione contro gli infortuni.
[32] Sugl’ultimi aggiornamenti di tale disciplina v. G. Corsalini, L’assicurazione INAIL per danno biologico, in G. Ferraro - M. Cinelli (a cura di), Lavoro, competitività, welfare. Commentario alla legge 24 dicembre 2007, n. 247 e norme correlate, Torino, 2008, pp. 487 ss.
[33] Supra, nota 19.
[34] Ci sia permesso il rinvio a S. Giubboni, I nuovi danni alla persona del lavoratore e la regola dell’esonero, in AIDLASS, Il danno alla persona del lavoratore, cit., pp. 263 ss.
[35] E. Navarretta, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente, in Foro it., 2003, I, c. 2277.
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] Sulla quale v. anche infra, § 4.
[39] Ancora E. Navaretta, op. loc. ult. cit.
[40] Come abbiamo rilevato per la prima volta in A. De Matteis, S. Giubboni, op. cit., pp. 960 ss., e poi più diffusamente argomentato in diverse, successive occasioni, ultime in S. Giubboni, Infortunio, malattia professionale e risarcimento del danno differenziale, in Riv. crit. dir. lav., 2007, pp. 331 ss.
[41] Cass., sez. lav., 24 febbraio 2006, n. 4184.
[42] Ovvero ad una voce di danno alla persona che, nella ricostruzione sino ad oggi prevalente, andrebbe senz’altro ascritta alla sfera del danno c.d. “complementare”: per tutti G. Marando, op. cit., spec. pp. 47-48, e, più recentemente, M. L. Valluari, Brevi note sulla risarcibilità del danno biologico differenziale, in Lav. giur., 2008, pp. 611 ss. Vedremo peraltro nel prossimo § come tale classificazione del danno da infortunio, secondo una netta bipartizione “differenziale/complementare”, sia con ogni probabilità da ridiscutere alla luce della sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni unite.
[43] Cass., sez. lav., 10 gennaio 2007, n. 238, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, p. 670, con nota di D. Simeoli, Presunzione di colpa e danno morale; danno biologico e invalidità lavorativa specifica. In termini, successivamente, v. pure Cass., sez. lav., 8 maggio 2007, n. 10441, ivi, 2008, II, p. 571, con commento di G. Cannati, Questioni in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro, nonché Cass., sez. lav., 7 aprile 2008, n. 8973.
[44] Cass., sez. lav., 14 aprile 2008, n. 9817.
[45] Il riferimento è, come già accennato, a R. Riverso, Esiste ancora l’esonero, cit., spec. pp. 1085 ss., ed a M. Casola, Esonero, cit., spec. pp. 28 ss. del dattiloscritto. Sulla stessa linea, in precedenza, sebbene in termini più sfumati, D. Simeoli, Dal danno alla “persona” al danno al “lavoratore”: riflessioni critiche sull’evoluzione giurisprudenziale, in Dir. lav. merc., 2006, pp. 373 ss., spec. pp. 400-401.
[46] Supra, alla nota 40, per i riferimenti puntuali. Nella dottrina più recente aderiscono all’impostazione qui patrocinata anche A. Ciriello, op. cit., pp. 470 ss., e M. L. Vallauri, Brevi note, cit., spec. p. 616 (della quale v. pure Sulla risarcibilità del danno biologico differenziale e dei c.d. danni complementari, in corso di pubblicazione in Inf. prev.). Sostanzialmente nello stesso senso, seppure in forma ellittica, cfr. inoltre R. Del Punta, op. cit., p. 42 (anche alla nota 13).
[47] Così in particolare R. Riverso, op. cit., p. 1086.
[48] Sulle ragioni storiche di tale assetto normativo ed interpretativo v. solo G. Bonilini, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, cap. I.
[49] E. Navarretta, op. loc. ult. cit.
[50] In ambito contrattuale la preclusione del risarcimento del danno non patrimoniale traeva invece tradizionale fondamento nella concezione, di derivazione romanistica, che voleva il rapporto obbligatorio di per sé estraneo ad una dimensione non patrimoniale. Solo di recente questo assunto – che trova ad es. ancora echi in Cass. 9 novembre 2006, n. 23918 (in Resp. civ. prev., 2007, p. 276, con nota critica di P. Cendon, Danno esistenziale e ossessioni negazioniste) – è stato superato dalla giurisprudenza con una conseguente rilettura dell’art. 1174 c.c., che consente una sicura rilevanza, anche a fini risarcitori, agli interessi non patrimoniali nell’ambito delle obbligazioni contrattuali. Di modo che, come ha statuito la sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni unite, “Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti nel contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”. Può anzi osservarsi come – alla stregua di una piena valorizzazione dell’art. 1174 c.c. (nei termini a ben guardare prefigurati già dalla precorritrice impostazione teorica di R. Scognamiglio, Il danno morale, in Riv. dir. civ., 1957, I, pp. 292 ss., del quale v. da ultimo: Le Sezioni unite sull’allegazione e la prova dei danni cagionati da demansionamento o dequalificazione, in Riv. it. dir. lav., 2006, I, pp. 696 ss., spec. p. 699) – in ambito contrattuale non dovrebbe a rigore sussistere preclusione alcuna alla garanzia, anche risarcitoria, di tutti gli interessi non patrimoniali meritevoli di tutela secondo l’ordinamento ed effettivamente dedotti nella causa concreta del negozio giuridico, anche oltre il limite della lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore viceversa ritenuto dalla Cassazione in base ad un parallelismo stretto con la responsabilità aquiliana, che non ha qui ragion d’essere. Su tale profilo v. le condivisibili osservazioni critiche alla sentenza di P. Cendon, Cass. S.U. 26972/2008: non con l’accetta per favore, e di G. Cassano, Cassazione 2008/26972: primissime note critiche, entrambi immessi nel sito www.personaedanno.it rispettivamente in data 18 e 11 novembre 2008.
[51] Il primo esempio ricordato anche dall’ultima sentenza delle Sezioni unite è quello dell’art. 2, l. n. 117/1988, sui danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie.
[52] Sia pure con la variante rappresentata, nel caso dell’art. 10 t.u., dall’“additivo” della procedibilità d’ufficio, con esclusione dei reati a semplice querela di parte. Ma è pur vero che a rendere procedibile d’ufficio il reato di lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro o malattia professionale è la contestazione dell’inosservanza di una qualunque misura di sicurezza sul lavoro da parte del datore, anche se imposta – in termini generali e non specificamente individuati – dalla fondamentale norma di chiusura del sistema prevenzionistico di cui all’art. 2087 c.c. Sul punto, per tutti, v. ultimamente A. Ciriello, op. cit., p. 452, anche in nota.
[53] Così Corte cost. 19 giugno 1981, n. 102, in Foro it., 1981, I, c. 2639. Si veda successivamente, in termini analoghi, Corte cost. 30 aprile 1986, n. 118.
[54] V. in questo senso soprattutto M. Casola, op. cit., pp. 31 ss. del dattiloscritto.
[55] Si veda almeno il classico M. Persiani, Tendenze dell’evoluzione della tutela per gli infortuni e le malattie professionali: il superamento del principio del rischio professionale, in Riv. giur. lav., 1974, III, pp. 177 ss.
[56] Per uno sviluppo, impossibile in questa sede, di tale argomento, ci sia permesso il rinvio a S. Giubboni, Il danno biologico del lavoratore tra responsabilità civile e tutela previdenziale, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 14/1993, pp. 177 ss., spec. pp. 198 ss.
[57] Si veda anche D. Poletti, Danni alla persona, cit., pp. 949 ss.
[58] Cfr. R. Riverso, op. cit., pp. 1087-1088.
[59] Circostanza che dovrebbe indurre a considerare senz’altro estensibili all’azione di regresso dell’Istituto assicuratore i medesimi criteri accertativi del fatto di reato valevoli per il lavoratore ai sensi dell’art. 10 t.u.; ma si è consapevoli che si tratta d’aspetto problematico (v. quanto già rilevavamo in S. Giubboni, Vecchie e nuove questioni in tema di responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio e malattia professionale, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, I, pp. 361 ss., sul punto p. 376).
[60] Supra, nota 50. In dottrina cfr. soprattutto i rilievi svolti al riguardo da C. Castronovo, Danno alla persona, cit., pp. 188-189. Per ulteriori ragguagli sulla prassi giurisprudenziale, pragmaticamente favorevole alla tesi della cumulabilità delle azioni, v. D. Simeoli, op. cit., pp. 391-392, e, da ultimo, la sentenza n. 10441/2007 della Sezione lavoro della Cassazione, cit. alla nota 43.
[61] D. Poletti, op. ult. cit., p. 953.
[62] A. Ciriello, op. cit., p. 477.
[63] Un positivo esempio è fornito in tal senso da Trib. Torino 14 aprile 2006, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, p. 77, con nota di R. D’Avossa, Danno differenziale ed esonero da responsabilità civile del datore di lavoro per infortunio o malattia professionale: le questioni irrisolte.
[64] Non sono del resto immuni da tali incertezze neppure aree che dovrebbero considerarsi ormai assestate e pacificate: una di queste, di centrale rilevanza pratica, è a ben vedere anche quella che attiene alla precisa distribuzione degli oneri di allegazione e di prova derivanti dall’applicazione del combinato disposto degli artt. 1218 e 2087 c.c.: si veda quanto giustamente rileva al riguardo F. Fabbrini, Sull’onere della prova e gli effetti del giudicato penale nel giudizio civile in tema di danno da infortunio sul lavoro o malattia professionale, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, pp. 585 ss., spec. p. 592, annotando Trib. Pisa 14 marzo 2008.
[65] Cfr. da ultimo, per un’accurata rassegna critica della giurisprudenza di merito, M. L. Vallauri, Sulla risarcibilità del danno biologico, cit., spec. § 2.
[66] V. ad es. Cass. 20 aprile 2007, n. 9510, in Resp. civ. prev., 2007, p. 1553, con nota di P. Cendon, Ma il biologico saprà fare la sua parte?. Nel diverso senso, v. tra le altre Cass. 2 febbraio 2007, n. 2311, ivi, p. 790, con nota di P. Ziviz, Le relazioni pericolose: i rapporti tra danno biologico e danno esistenziale. Tra le pronunzie annoverate dalla stessa sentenza in esame come favorevoli all’autonoma risarcibilità del danno esistenziale, va soprattutto ricordata Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6752, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 687 (con il commento di R. Scognamiglio già citato alla nota 50).
[67] Così nella motivazione della sentenza in commento, al punto 2.8 (che si riporta omettendo le citazioni interne alla giurisprudenza della Corte).
[68] Il catalogo dei casi ammessi alla minima tutela risarcitoria in relazione alla lesione di un diritto inviolabile della persona non è, infatti, chiuso. Come giustamente chiarisce la Corte, “La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se i nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona” (punto 2.14 della sentenza). In dottrina, l’elaborazione più compiuta della soluzione fatta propria, (anche) sotto tale profilo, dalla Corte di cassazione si rinviene ancor oggi in E. Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996.
[69] Punto 2.13 della sentenza.
[70] Così al precedente punto 2.10.
[71] Il primo di essi attiene proprio alla impossibilità di rinunciare del tutto, sia pure a meri fini “descrittivi”, a scomporre l’unitaria categoria del danno non patrimoniale in tipi di pregiudizio che finiscono in qualche modo per richiamare, per quanto solo sul piano pratico, la tripartizione “biologico/morale/esistenziale” (v. ad es. il punto 3.4.2 della sentenza, dove, sia pure in questo limitato senso, si parla di “pregiudizi di tipo esistenziale”, o ancora il punto 4.8).
[72] Si pensi in primo luogo alla affermazione – sulla quale si tornerà più avanti nel corpo del testo – che vuole il danno biologico, pur contrassegnato oramai da una così spiccata tipicità normativa, mera sintesi descrittiva dei pregiudizi derivanti dalla lesione del diritto inviolabile alla salute ex art. 32 Cost.
[73] Anche se trattasi d’una bipolarità che potremmo chiamare “imperfetta”, o meglio “asimmetrica”, laddove alla atipicità del danno patrimoniale corrisponde – sull’altro polo – una tipicità commisurata alla esigenza di selezione delle situazioni della persona suscettibili di risarcimento in relazione, oltre che alla rilevanza costituzionale del diritto leso, alla gravità e alla offensività della lesione. Al di fuori dei casi previsti espressamente dalla legge, la selezione dei beni della persona suscettibili di dar luogo a risarcimento del danno non patrimoniale è comunque rimessa all’interprete, che la effettuerà rintracciando nella Costituzione, anche attraverso la clausola di apertura di cui all’art. 2, il fondamento della inviolabilità del diritto leso. D’altra parte, è sempre rimesso al prudente apprezzamento del giudice anche l’altro filtro condizionante il risarcimento del danno non patrimoniale. Come afferma la Corte (al punto 3.11 della sentenza), “Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile”. In dottrina, per questa impostazione, v. principalmente E. Navarretta, Danni non patrimoniali, cit., c. 2277 ss., e, tra i giuslavoristi, in termini adesivi, R. Del Punta, op. cit., spec. pp. 29-30.
[74] O, secondo altra terminologia di frequente impiego presso la giurisprudenza di merito, tra danno differenziale in senso, rispettivamente, quantitativo e qualitativo.
[75] A titolo d’esempio, secondo l’impostazione corrente almeno sino ad oggi, è complementare, per chi come noi lo ammetta, il danno patrimoniale che, iuxta alligata et probata, derivi dalla lesione “sotto franchigia” della capacità lavorativa specifica o attitudinale del lavoratore; è invece differenziale il danno patrimoniale che, oltre la soglia del 16 per cento prevista dal d. lgs. n. 38/2000, non riesca essere interamente compensato, in relazione alle emergenze della fattispecie concreta, dalla apposita quota di rendita erogata dall’Istituto assicuratore. Con riguardo al danno non patrimoniale, sono invece complementari il danno biologico permanente sotto franchigia (i. e., sino alla soglia del 5%) e quello temporaneo (nonché quello subito dai superstiti iure proprio), il danno morale ed il danno esistenziale; è differenziale il danno biologico permanente per la parte concretamente non ristorata, in forma capitale o di rendita, dall’Istituto assicuratore. Da ultimo v. in termini, ex multis, M. Casola, op. cit., pp. 20 e 27 del dattiloscritto; A. Ciriello, op. cit., p. 460.
[76] Cioè a dire, “ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l’espressione della sua personalità nel mondo esterno” (così al punto 6 della motivazione della sentenza cit. alla nota 66).
[77] Anche se essi, a ben vedere, rilevano ai fini, decisamente più “prescrittivi”, della puntuale articolazione degli oneri di allegazione e prova in giudizio del danno non patrimoniale medesimo, in relazione alle specifiche caratteristiche del caso concreto.
[78] M. L. Vallauri, Brevi note, cit., p. 618.
[79] In quanto integranti una fattispecie “astratta” di reato: supra, § 2.
[80] Punto 4.8 della motivazione della sentenza n. 26972/2008.
[81] Ibidem.
[82] V. soprattutto L. La Peccerella, La tutela della persona nel nuovo sistema indennitario del danno d’origine lavorativa, in P. Curzio (a cura di), Il danno biologico, cit., pp. 103 ss.
[83] V. ad es. Trib. Vicenza, 4 gennaio 2007.
[84] Tra le altre, Cass., sez. lav., 25 maggio 2004, n. 10035.
[85] Cfr. i rilievi critici di D. Poletti, Danni alla persona, cit., pp. 966 e 968, e – volendo – di S. Giubboni, Mobbing e tutela previdenziale, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 29/2006, pp. 171 ss., spec. p. 192.
[86] In dottrina, in tal senso cfr. spec. A. Rossi, Le azioni di rivalsa dell’INAIL e le nuove frontiere della risarcibilità del danno alla persona del lavoratore, in questa Rivista, 2006, pp. 241 ss.
[87] M. L. Vallauri, Sulla risarcibilità del danno biologico, cit., p. 9 del dattiloscritto.
[88] S. Landini, Il risarcimento del danno biologico nel codice delle assicurazioni, in Assicurazioni, 2005, I, pp. 463 ss., qui p. 468. L’autrice mette peraltro in evidenza (alle pp. 474-475) come neppure la nozione accolta dall’art. 138 del codice delle assicurazioni, per quanto più ampia di quella previdenziale, possa a rigore essere ritenuta veramente comprensiva di tutti gli aspetti dinamico relazionali ed esistenziali potenzialmente compromessi, nella vita della persona, dalla lesione del bene salute. Per cui, gli stessi parametri standardizzati di valutazione del danno biologico ai fini della responsabilità civile per sinistri derivanti dalla circolazione stradale – benché configurino barème sensibilmente più elevate di quelle valevoli ai fini INAIL –, possono considerarsi legittimi solo nella misura in cui sia lasciato al giudice un effettivo margine di valutazione equitativa e di personalizzazione in relazione alle caratteristiche soggettive della fattispecie concreta.
[89] Come fa M. L. Vallauri, op. loc. ult. cit.
[90] Senza considerare che il danno biologico temporaneo del lavoratore, come anche quello permanente sotto la soglia di indennizzabilità previdenziale del 6 per cento, continuano comunque a sfuggire tout court all’oggetto della copertura apprestata dall’INAIL, per cui almeno per essi resterebbe pienamente valida la qualificazione in termini di danno complementare (riferibile, per la stessa ragione, all’eventuale danno patrimoniale da lesione della capacità lavorativa specifica inferiore alla soglia del 16%).
[91] V. supra, alla nota 25. Non è inutile rimarcare che, alla stregua del 2° c. della medesima disposizione, le organizzazioni sindacali e le associazioni dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro hanno facoltà di esercitare, con riferimento agli stessi reati, le facoltà della persona offesa di cui agli artt. 91 e 92 c.p.p.
[92] P. Pascucci, Dopo la legge n. 123 del 2007. Prime osservazioni sul Titolo I del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, Quaderni di Olympus - 1, Pesaro, 2008, p. 35.
[93] Per la specifica nozione di datore di lavoro ritagliata sulle esigenze delle pubbliche amministrazioni v. la seconda parte della disposizione citata, su cui D. Venturi, I datori di lavoro pubblici, in M. Tiraboschi (a cura di), Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Commentario al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Milano, 2008, pp. 159 ss.
[94] P. Pascucci, op. cit., p. 52.
[95] Ivi, p. 36.
[96] Ibidem.
[97] Una compiuta generalizzazione soggettiva della disciplina di cui al d.P.R. n. 1124/1965 sarebbe del resto coerente con la straordinaria capacità di auto-adattamento che essa ha sempre dimostrato, ad esempio incorporando forse meglio di ogni altra forma di tutela previdenziale le esigenze di protezione delle forme flessibili di lavoro subordinato. V. quanto osserva al riguardo G. Corsalini, I nuovi modelli di lavoro flessibile e l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, in questa Rivista, 2006, pp. 227 ss., spec. pp. 228 e 230.
[98] V. P. Pascucci, op. cit., p. 42.
[99] Che saranno fondamentalmente limitati a quelli di informazione e formazione di carattere generale.
[100] In dottrina, in tal senso, in precedenza, v. tra gli altri G. Corsalini, op. ult. cit., p. 238.
[101] Visto che anche per esso “la nuova disposizione riconduce tutti gli obblighi di prevenzione e protezione in capo al distaccatario, fatto salvo l’obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato” (così, ancora P. Pascucci, op. cit., p. 46).
[102] V. diffusamente L. Imberti, La disciplina delle responsabilità solidali negli appalti e nei subappalti: lo stato dell’arte in continuo movimento (aggiornato al decreto legge 97/2008), W.P. C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, IT-72/2008, pp. 22 ss.
[103] La responsabilità solidale presuppone, anche nell’attuale versione delle norma, che non innova sul punto quanto già previsto dal c. 3-bis dell’art. 7, d. lgs. n. 626/1994, la qualifica imprenditoriale del committente. Critiche sotto il profilo della congruità di questa limitazione, che tiene fuori senza adeguate ragioni committenti semplici datori di lavoro non imprenditori, sono state giustamente sollevate in dottrina, ad es. da P. Tullini, Sicurezza e regolarità del lavoro negli appalti, in P. Pascucci (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, Atti del convegno di studi giuridici sul disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei Ministri il 3 aprile 2007, Urbino, 4 maggio 2007, Roma, 2007, pp. 95 ss., sul punto p. 98.
[104] Cfr. P. Pascucci, op. cit., p. 116.
[105] L. Imberti, op. cit., pp. 26-27.
[106] I. e., sia del danno differenziale che di quello complementare, seguendo l’impostazione e la nomenclatura sino ad oggi prevalente (retro, § 2).
[107] Cfr. tra gli altri P. Pascucci, op. cit., p. 118; V. Speziale, Le aziende sottoposte a procedure concorsuali, la sicurezza del lavoro negli appalti e gli appalti di opere o servizi, in R. Bortone, G. Fontana (a cura di), La Finanziaria e il lavoro. La tutela dei lavoratori nella legge finanziaria per il 2007, Roma, 2007, pp. 41 ss.
[108] Ovvero, come è stato ben puntualizzato, sorge “a prescindere dalla effettiva responsabilità del committente nella causazione del pregiudizio (per culpa in vigilando o per omissioni di cautele a lui riconducibili)” (V. Speziale, op. cit., p. 43).
[109] V. diffusamente P. Pascucci, op. cit., pp. 47 ss.
[110] Si veda già S. Piccininno, I “nuovi lavori” e l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, in Arg. dir. lav., 2004, pp. 143 ss.
[111] Si veda per tutti L. Montuschi, Verso il testo unico della sicurezza sul lavoro, in P. Pascucci (a cura di), Il nuovo testo unico, cit., pp. 27 ss., nonché la relazione tenuta dallo stesso autore all’incontro di studio su “Lavoro e salute”, svoltosi a Roma il 2-4 maggio 2007 su iniziativa del Consiglio Superiore della Magistratura.
[112] Ancora P. Pascucci, op. cit., p. 162.
[113] Così L. Montuschi, nella relazione cit. alla nota 111, p. 2 del dattiloscritto
.