Relazione presentata nel corso del seminario “Il nuovo testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: novità e problemi applicativi”, Perugia 10 ottobre 2008.


 

1. Indicazioni per una ricostruzione della disciplina su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

Uno degli aspetti di rilievo del d.lgs. 81 del 2008, e per i quali questo intervento normativo si segnala per la sua importanza, è che detto provvedimento realizza finalmente quell’unificazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro, della quale il legislatore aveva mostrato di avvertire l’esigenza sin dalla fine degli anni Settanta (art. 24 della legge 833 del 1978) e che era stata da ultimo tentata nel 2005 in attuazione dell’articolo 3 della legge 229 del 2003.
Il ruolo di un atto normativo che,  come quello in esame, si proponga “il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti” in una determinata materia è, innanzi tutto, quello di razionalizzare la normativa che regola un settore, costituendo un corpus di norme unitario e compatto al quale l’interprete possa rifarsi con certezza nel momento in cui ha necessità di risolvere una questione ascrivibile alla materia stessa.
Nel nostro sistema istituzionale, tuttavia, la potestà legislativa non è riservata unicamente allo Stato, ma compete anche alle regioni secondo i criteri di riparto previsti dall’articolo 117 della Costituzione.
Per questo motivo, pur di fronte ad un testo di riassetto e razionalizzazione della disciplina vigente, come quello in esame, occorre comunque interrogarsi su quale sia lo spazio in cui la potestà legislativa regionale può muoversi dettando regole ulteriori o diverse da quelle previste dal legislatore statale.
Il d.lgs. 81 del 2008 si confronta con la questione della competenza delle regioni già all’articolo 1, secondo comma, autoqualificandosi come “norma cedevole”, ovvero come insieme di disposizioni che, nelle materie riservate al legislatore regionale, restano applicabili in mancanza di una disciplina dettata dalla regione e perdono efficacia nel momento in cui viene adottata la legge regionale.
Il meccanismo è quello previsto dall'articolo 11, comma 8, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 con riferimento alle leggi dello Stato per l’adempimento degli obblighi comunitari.
Per soddisfare gli oneri di attuazione imposti dalle disposizioni comunitarie, ponendo rimedio all’eventuale inerzia delle regioni, il legislatore statale è infatti autorizzato ad intervenire in materie riservate alla competenza regionale.
In tale caso gli atti normativi statali adottati si applicano nelle le regioni e le province autonome nelle quali non sia ancora in vigore una specifica normativa di attuazione e perdono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore delle norme adottate da ciascuna regione e provincia autonoma.
L’impiego di tale “potere sostitutivo” da parte dello Stato anche nel settore della sicurezza sul lavoro appare giustificato dalla necessità di dare attuazione alla ricca disciplina comunitaria in materia.
La previsione della cedevolezza delle norme statali, tuttavia, vale ad indicare parte del meccanismo in base al quale ricostruire, di volta in volta e con riferimento a ciascuna singola regione che abbia o meno adottato la propria disciplina in merito, il quadro normativo di riferimento.
L’altra parte del congegno concerne l’individuazione di quali disposizioni statali siano effettivamente cedevoli e, a questo fine, occorre interrogarsi su quali di esse intervengano a disciplinare aspetti rimessi alla competenza delle regioni.
Come è noto, il legislatore regionale ha competenza esclusiva nelle materie non espressamente riservate al legislatore statale dal secondo comma dell’art. 117, e competenza concorrente, ovvero limitata dal rispetto dei principi fondamentali riservati alla legge dello Stato, nelle materie elencate dal terzo comma del medesimo articolo.
Occorre quindi individuare nell’ampio corpus del d.lgs. 81 quali disposizioni possano essere ascritte alla competenza statale esclusiva e resistano quindi ad un eventuale intervento (illegittimo) della legge regionale; quali di esse siano riconducibili a materie di competenza concorrente e prevalgano sulla legislazione regionale limitatamente ai principi fondamentali che contengono; e quali, infine, riguardino materie di competenza esclusiva della regione e risultino di conseguenza integralmente cedevoli di fronte ad un intervento regionale.
La materia che più immediatamente sembrerebbe coinvolta dall’intervento normativo effettuato con il d.lgs. 81 del 2008 parrebbe essere quella della “tutela e sicurezza del lavoro” riservata alla potestà concorrente delle regioni dall’art. 177 comma 3 della Costituzione.
A volersi affidare a questa prima sensazione, risulterebbero cedevoli tutte le norme del decreto legislativo in esame che non dettano principi fondamentali, configurandosi per le regioni un amplissimo spazio di intervento in materia.
Ma, come spesso accade, le prime sensazioni possono essere fallaci.
La materia tutela e sicurezza del lavoro, infatti, si presta più di altre ad essere intersecata da altre materie.
Questo certamente accade per l’ampiezza della sua portata, ma soprattutto per la natura più di finalità-obiettivo da raggiungere che di vera e propria delimitazione di un campo materiale di intervento.
Non v’è chi non veda, infatti, come per realizzare la “tutela e sicurezza del lavoro” occorra intervenire sotto diversi profili, da quello degli obblighi del datore di lavoro e del lavoratore, a quello delle prestazioni fornite dal settore pubblico, fino a quello della tutela della salute e dell’organizzazione dei relativi servizi.
L’intersezione di una pluralità di materie nel campo della sicurezza del lavoro ci impedisce quindi di risolvere la questione della cedevolezza delle norme statali unicamente in termini di distinzione fra norme di principio (resistenti) e norme di dettaglio (cedevoli), imponendoci una scomposizione continua del campo di intervento legislativo alla luce delle altre possibili materie coinvolte dall’intervento regolatorio in esame.

 
2. La sicurezza nei luoghi di lavoro e le materie di competenza normativa statale
 
Una prima importante indicazione nel senso della competenza normativa statale ci viene direttamente dall’articolo 1 del d.lgs. 81.
In esso il legislatore statale si preoccupa infatti di chiarire come l’obiettivo della disciplina sia innanzi tutto quello di garantire “l'uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
Il riferimento qui è ad una importante materia di competenza statale, quella per l’appunto relativa alla determinazione dei “livelli essenziali” (art. 117, c. 1, lett. m).
Si tratta di una materia di competenza statale esclusiva e questo ci consente di affermare che, nella misura in cui attengono alla fissazione di livelli e standard di tutela da assicurare ai lavoratori, le norme dello Stato non sono affatto cedevoli e prevalgono su qualsiasi intervento regionale che, qualora modificativo di tali standard in senso restrittivo, sarebbe costituzionalmente illegittimo.
La materia dei livelli essenziali copre diverse disposizioni chiave del decreto.
Innanzi tutto quelle relative a molte delle definizioni presenti nel testo normativo e rivolte, per l’appunto, ad assicurare uniformità nella garanzia della sicurezza a tutti i lavoratori presenti nel territorio dello Stato.
Ad esigenze di uniformità dei livelli essenziali rispondono anche le norme relative alla vigilanza. Possono poi essere fatte rientrare in questo ambito tutte le regole sui requisiti relativi alla salute e sicurezza dei luoghi di lavoro: dalla segnaletica, alla protezione dei rischi, dall’uso delle attrezzature, all’impiego dei dispositivi di protezione individuale, dalle regole relative agli impianti e apparecchiature elettriche, alla sicurezza nei cantieri, nelle attività di costruzione, di lavoro in quota, di scavo, fondazione e demolizione, di lavoro su ponteggi e così via.
Ma la materia dei livelli essenziali, per quanto sia l’unica ad essere espressamente menzionata dal decreto, non è l’unica materia ad intersecare il campo della sicurezza del lavoro.
La giurisprudenza costituzionale ha avuto diverse occasioni per esprimersi su questo punto, essenzialmente in occasione del sindacato sulla legittimità costituzionale di leggi regionali intervenute a disciplinare aspetti relativi alla tutela e sicurezza del lavoro successivamente al d.lgs. 626 del 1994 e alla legge Biagi.
I Giudici hanno così avuto modo di segnalare come nel campo della tutela e sicurezza del lavoro il legislatore statale sia legittimato ad intervenire non solo dettando principi fondamentali, alla luce della competenza concorrente espressamente sancita a questo proposito dal costituente, ma anche con interventi di tipo esclusivo.
A giustificare questi ultimi non c’è solo la competenza in materia di livelli essenziali, prima citata, ma anche quella in materia di ordinamento civile.
Secondo la Corte, in tutti i casi in cui il legislatore intervenga a fissare obblighi che gravano sulle parti della relazione lavorativa, si deve ritenere che esso provveda ad introdurre norme che arricchiscono e completano l’ordinamento civile.
Si pensi a questo proposito al modo in cui una serie di regole fissate a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro valgano ad integrare i doveri dell’imprenditore sanciti dall’art. 2087 cod. civ. che, sotto la rubrica «tutela delle condizioni di lavoro», contiene il precetto secondo cui «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure ... necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (in questo senso si vedano la sent. 50/2005 e la sent. 234/2005).
Se rileggiamo in questa prospettiva quanto dettato dal decreto in esame, non possiamo non considerare come le disposizioni ascrivibili all’ordinamento civile siano diverse e vadano dai numerosi obblighi imposti ai datori di lavoro a quelli previsti per i lavoratori e per gli addetti, fino alle modalità di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori.
Nello stesso campo rientrano anche alcune previsioni che provvedono alla definizione di termini quali azienda, lavoratore, datore di lavoro, dirigente ecc…
Ma possiamo ritenere rientranti nell’ordinamento civile anche le norme in materia di poteri repressivi degli organi preposti alla vigilanza e relative sanzioni, nonché le disposizioni relative alla delega di alcuni obblighi datoriali e  ai suoi limiti.
Accanto a ciò la Corte ha segnalato come alcune disposizioni statali relative alla sicurezza dei lavoratori possano essere incluse in un’altra materia di competenza esclusiva dello Stato, quella della tutela della concorrenza. In particolare i giudici si sono pronunciati in questo senso a proposito dei piani di sicurezza, la disciplina uniforme dei criteri di formazione dei quali sarebbe, fra l’altro, preordinata ad assicurare i principi di parità di trattamento e di non discriminazione tra i partecipanti ad una gara garantendo in questo modo la concorrenza (sent. 401/200).
Oltre a quanto la Corte ha avuto modo di sostenere, si può considerare come la ricca disciplina contenuta nel decreto 81 riguardi anche ulteriori materie di competenza statale esclusiva. Non v’è dubbio infatti che le disposizioni sanzionatorie penali di cui agli articoli 55 e seguenti e quelle in materia di processo penale contenute all’articolo 61 siano da ricomprendersi nelle materie dell’ordinamento penale e delle norme processuali, riservate allo Stato dall’articolo 117, comma 2 lettera l) della Costituzione. Mentre nella materia, sempre di competenza statale esclusiva, “coordinamento informativo e statistico dei dati”  (art. 117, c. 2, lett. r) può essere fatta rientrare la disciplina relativa alla documentazione (articoli 53 e 54 del decreto), nonché la previsione di un Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro di cui all’articolo 8 del d.lgs. 81.
Da ultimo non si può dubitare che siano coperte dalla competenza legislativa statale relativa all’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali (art. 117, c. 2, lett. g) le norme del decreto che disciplinano il sistema istituzionale, con riferimento agli enti nazionali, ai loro compiti e poteri (art. 5 ss.).
A fini di completezza della ricostruzione relativa alle competenze normative statali alle quali è possibile ricondurre ampie parti della disciplina contenuta nel decreto in esame, occorre considerare che quando queste competenze convivono, come spesso accade, con competenze regionali esclusive o concorrenti, la Corte costituzionale tende a far prevalere la disciplina contenuta nella legge dello Stato (sent. 370/2003; 234/2005) soprattutto laddove possano essere considerate prevalenti istanze unitarie di eguale godimento di diritti su tutto il territorio della Repubblica (sent. 303/2003).
In questi casi tuttavia è sempre la Corte a ribadire la necessità di attivare strumenti di leale collaborazione fra livelli di governo a pena di illegittimità di un intervento statale che si collochi all’incrocio fra una materia di propria competenza esclusiva e di competenza regionale (concorrente o esclusiva). Alla discrezionalità del legislatore dello Stato è rimessa la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento regionale (sent. 231/2005).
Ed è in questa prospettiva che dobbiamo inquadrare le diverse norme del decreto 81 che rinviano alla necessità di un passaggio preliminare (in termini di accordo, parere, determinazione) in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.
Nello stesso senso va considerata anche la positiva esperienza del confronto fra Governo e regioni che ha accompagnato la predisposizione dello schema del decreto legislativo in esame, sul quale è stato naturalmente poi acquisito anche il parere della Conferenza Stato-regioni (12 marzo 2008).


3. Quale spazio per un intervento regionale?
 
Una volta ricostruito lo spazio di disciplina riservato al legislatore dello Stato, occorre passare alla ricognizione delle competenze regionali che possono incidere integrando o modificando quanto attualmente dettato dal d.lgs. 81.

3.1 Le competenze regionali concorrenti

A questo proposito è necessario, innanzi tutto, riprendere il discorso svolto a proposito della competenza concorrente relativa alla “tutela e sicurezza del lavoro” per interrogarsi, tenuto conto di quanto finora considerato, sui margini di disciplina di dettaglio (diversa cioè dai principi fondamentali) che residuano alle regioni.
A ben guardare lo spazio per il legislatore regionale in questa prospettiva appare piuttosto limitato, per non dire quasi assente.
Non c’è aspetto riconducibile alla “sicurezza del lavoro” che non sia anche attinente all’ordinamento civile, alla disciplina penale, ai livelli essenziali delle prestazioni, alla tutela della concorrenza.
E, tenuto conto della prevalenza della competenza statale esclusiva su una eventuale compresente competenza regionale, il risultato è quello di un quasi integrale svuotamento della materia “sicurezza del lavoro”.
Il riferirsi ad essa per cercare margini di competenza delle regioni risulta utile al più per riconoscere la potestà regionale nel predisporre attività di incentivazione e sostegno delle azioni rivolte ad aumentare la sicurezza sul lavoro alla luce della normativa statale.
Ma come si vede bene si tratta più di una competenza “quasi amministrativa” di attuazione che di una vera e propria potestà di normazione.  
Per completare l’indagine occorre allora interrogarsi sulla presenza di altre materie, di competenza regionale concorrente o esclusiva, incluse anch’esse nell’ampio dettato del decreto 81.
Un’altra competenza concorrente coinvolta dalla disciplina in esame è certamente quella della “tutela della salute”. Rispetto ad essa, tuttavia, il discorso da fare sembra non troppo dissimile da quello appena svolto a proposito della “tutela e sicurezza del lavoro”.
Infatti gli aspetti riconducibili alla tutela della salute sono essenzialmente collegati ai livelli essenziali di protezione da assicurare ai lavoratori o ricostruiti come obblighi del datore di lavoro.
Quindi anche in questo caso si assiste essenzialmente ad uno svuotamento del contenuto della materia concorrente da parte delle materie di competenza statale esclusiva, per cui appare difficile individuare quali norme statali risultino cedevoli all’intervento regionale.
Prima di soffermarsi sulle eventuali materie di competenza regionale esclusiva coinvolte nell’ampia disciplina contenuta nel d.lgs. 81, occorre considerare come un possibile campo di intervento della regione sia anche quello, per così dire, di  incremento rispetto ai livelli essenziali.
Non v’è dubbio, infatti, che, nel momento in cui la legge statale fissa standard, per l’appunto essenziali, la regione possa, con proprie risorse assicurare o pretendere che siano assicurati standard più elevati.
Questo apre un campo di intervento regionale che, come vedremo, è stato fino ad ora poco battuto, ma che certamente rappresenta un possibile settore di sviluppo della regolazione (v. anche l’articolo 8, comma 1, lett. b della legge 13 del 2007).
Se pure resta ferma l’esigenza, da non sottovalutare, di non incidere negativamente in materia di tutela della concorrenza con prescrizioni che potrebbero alterare indirettamente e irragionevolmente la competizione fra le imprese, non si può escludere che le regioni possano ampliare le tutele previste richiedendo, perlomeno alle imprese che intendano concorrere all’assegnazione di contratti pubblici, standard di sicurezza più elevati.

3.2. Le competenze regionali esclusive
 
Quanto alle materie di competenza esclusiva della regione, una prima considerazione merita la materia della istruzione e formazione professionale.
Essa appare in grado di coprire diverse disposizioni del decreto che potrebbero ritenersi almeno in parte cedevoli di fronte ad un intervento regionale nell’esercizio di una competenza normativa esclusiva.
In questo senso occorre considerare, oltre alla riconosciuta competenza regionale nell’organizzazione della formazione alla sicurezza (art. 10), le previsioni relative ai programmi di promozione dello sviluppo di determinate tematiche nella formazione professionale (art. 11), la possibile definizione di contenuti specifici di essa (art. 37), nonché l’individuazione di ulteriori obblighi formativi per lavoratori e datori di lavoro (art. 18; 19; 20).
Ma la materia attraverso la quale la competenza normativa della regione appare in maggior misura capace di incidere sull’assetto delineato dal d.lgs. 81, integrandolo e in parte sostituendosi ad alcune disposizioni “cedevoli” è quella dell’organizzazione amministrativa regionale e degli enti e apparati regionali.
Non v’è dubbio che tali aspetti rientrino nella competenza legislativa della regione, spettando al legislatore statale unicamente l’ “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali”.
In questa prospettiva dobbiamo riconoscere alle regioni la possibilità di organizzare diversamente da quanto prevede il decreto alcune attività.
Una prima considerazione va fatta a proposito dei comitati regionali di coordinamento previsti dall’articolo 7 e rispetto ai quali si fa rinvio al DPCM del 2007, che, fra l’altro, ne definisce la composizione.
Ora è pur vero che il decreto dà seguito ad un’intesa raggiunta in Conferenza Unificata, ma è altrettanto possibile che singole regioni provvedano a definire diversamente alcuni aspetti da esso disciplinati, integrando la composizione del comitato o assegnando ad esso ulteriori compiti e funzioni.
Se la legge dello Stato può prevedere la necessaria presenza di comitati regionali di coordinamento in materie la cui disciplina è di competenza statale (livelli essenziali, ordinamento civile, ecc…), la loro organizzazione e il loro funzionamento restano ambiti di regolazione regionale.
L’articolo 10 del d.lgs. 81 individua le ASL come organizzazioni preposte  a livello regionale alle attività di informazione, assistenza, consulenza, formazione, promozione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.
Anche a questo proposito non v’è dubbio che le singole regioni possano articolare diversamente tali compiti assegnandone alcuni anche ad altri apparati regionali, eventualmente costituiti ad hoc.
Per quanto riguarda le attività di vigilanza, rimesse anch’esse dall’articolo 13 alle ASL, si può considerare come il necessario coinvolgimento del settore sanitario nell’attività di controllo possa essere considerato come principio fondamentale in materia di salute e sicurezza del lavoro, ma resta ferma la possibilità della regione di modulare l’organizzazione in maniera specifica attribuendo le relative funzioni e coordinandole diversamente con quelle in materia di prevenzione.
Un discorso a parte merita la questione dell’individuazione della figura del datore di lavoro nelle amministrazioni regionali.
Il decreto 81, all’articolo 2 lett. b) interviene sul punto con riferimento a tutte le amministrazioni pubbliche e sancisce che in esse per datore di lavoro deve intendersi “il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.
In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”.
La domanda da porsi è se una legge regionale possa disciplinare diversamente la questione, tenuto conto del fatto che si tratta di un aspetto che incide direttamente sull’organizzazione amministrativa regionale, rimessa alla competenza legislativa esclusiva della regione.
Ora, occorre considerare come dal punto di vista tecnico le questioni organizzative si intersechino in questo caso con quelle relative all’individuazione del soggetto responsabile civilmente e penalmente della realizzazione di determinati adempimenti.
Sotto questo profilo, non solo possiamo riconoscere l’intersezione con una competenza statale esclusiva (quella in materia di ordinamento civile e penale), ma dobbiamo tenere conto anche dell’esistenza di principi di diritto che collegano la piena responsabilità di una attività alla disponibilità in capo ad un soggetto delle competenze idonee a gestire l’attività stessa.
Quindi si può ritenere che il collegamento fra la qualificazione come datore di lavoro e le adeguate competenze decisionali e gestionali non possa essere modificato con legge regionale.
Quello che il legislatore della regione potrebbe invece fare è specificare la disciplina formulando a priori alcune scelte con riferimento alla propria amministrazione.
Si potrebbe ad esempio ipotizzare che alcune incombenze tipiche del datore di lavoro siano assegnate al dirigente del personale, riconoscendogli contestualmente i relativi poteri, mentre altre restino di spettanza dei dirigenti dei diversi settori o disporre che in caso di mancata individuazione del datore di lavoro o di individuazione in contrasto con i criteri previsti, sia considerato tale il direttore regionale in quanto attributario dei corrispondenti poteri e così via.

4. I precedenti regionali di disciplina della sicurezza dei lavoratori
 
Evidentemente, data la breve vita del d.lgs. 81, non abbiamo ancora esempi di leggi regionali che siano intervenute in materia successivamente a tale decreto. 
Per avere una prima idea di come ed in che modo il legislatore regionale intenderà operare negli ambiti di propria competenza, può tuttavia essere di una qualche utilità procedere ad una breve ricognizione delle modalità di intervento regionale seguite fino ad ora nella materia disciplinata dal decreto 626 del 1994 e quindi nel campo sicurezza dei lavoratori.
Le leggi regionali che più ci interessano sono quelle che sono intervenute dopo il 2001, successivamente, cioè, alla modifica costituzionale che ha riconosciuto nuovi e più penetranti poteri di normazione in diverse materie.
Nella maggior parte delle ipotesi le leggi regionali provvedono a disciplinare, in senso potremmo dire attuativo, le attività di promozione, informazione, formazione, studio, ricerca, incentivazione, monitoraggio e controllo attribuite dalla legge statale alle regioni.
Alcune operazioni di incentivazione del rispetto della normativa nazionale in materia di sicurezza sul lavoro rivestono però un qualche interesse: si tratta del caso della legge regionale Friuli Venezia Giulia 13/2003 che subordina la concessione di contributi alle imprese all’autocertificazione del rispetto della normativa sulla sicurezza del lavoro.
Il contributo, ovviamente, decade in caso di accertata falsità delle dichiarazioni rese. Previsioni analoghe sono contenute anche nella legge regionale Liguria 30/2007.
Gli interventi normativi in materia di organizzazione non sono molti.
In nessun caso viene messo in discussione o rivisto il ruolo delle ASL, se mai si provvede ad un potenziamento di tali enti come nel caso della legge regionale sarda 20/2005.
In alcuni casi, come in quello della legge regionale Basilicata 27/2007, vengono istituiti apparati dedicati alle attività di studio e monitoraggio del fenomeno in forma di osservatori.
Qualche esempio di intervento organizzativo riguarda il caso del mobbing per il quale vengono istituiti appositi punti di ascolto in accordo con gli enti locali (si vedano in questo senso le leggi regionali ligure 30/2007 e umbra 18/2005).
Sotto il profilo del coordinamento degli interventi, con una funzione che quindi può dirsi organizzativa in senso ampio, ci sono gli esempi delle leggi di Emilia Romagna e Liguria che investono in maniera specifica sul raccordo fra soggetti per la creazione di una rete e di intese con enti locali, imprese e parti sociali per migliorare le condizioni di sicurezza dei lavoratori.
Alcune esperienze interessanti riguardano gli interventi regionali volti ad elevare gli standard di sicurezza rispetto ai livelli essenziali fissati dalla legislazione statale.
La modalità è duplice: da un lato, c’è il diretto riconoscimento di un potere regionale di deliberare in questo senso, dall’altro, c’è l’incentivazione alla autodisciplina da parte delle imprese, attraverso l’adozione di codici etici che prevedano standard più elevati di quelli imposti dalla legge.
La prima soluzione, a quanto risulta, è praticata unicamente dall’Emilia Romagna che riconosce il potere della Giunta regionale di elevare  gli standard delle prestazioni in materia di tutela, sicurezza e qualità del lavoro da raggiungere nel territorio regionale.
La seconda soluzione è invece accolta da Liguria e Sardegna.
Da ultimo, per completare il quadro degli interventi regionali occorre menzionare le leggi in materia di contratti pubblici.
Il caso più interessante in questo senso è quello della legge regionale della Toscana n. 38 del 2007 che, nel disciplinare i contratti della regione e degli enti regionali, ASL comprese, assegna alla sicurezza dei cantieri un ruolo estremamente pregnante: in primo luogo (art. 14) essa incide sulla selezione del contraente che avviene in considerazione, oltre che dell’offerta economicamente più vantaggiosa, delle “misure aggiuntive o migliorative per la sicurezza e la salute dei lavoratori oggettivamente valutabili e verificabili, nel caso di contratti di lavori e di servizi”.
La stessa legge all’art. 16 dispone l’obbligo delle stazioni appaltanti di vigilare sul rispetto da parte dell’impresa degli adempimenti in materia di sicurezza, quali la nomina del responsabile del servizio di prevenzione, del medico competente, la formazione del personale e la redazione del documento di valutazione dei rischi.
Il mancato rispetto del piano di sicurezza o la mancata sostituzione del medico e del responsabile del servizio di prevenzione sono infine inseriti nei capitolati speciali di appalto quali cause di risoluzione del contratto (art. 19).
Conclusivamente possiamo osservare come il quadro che ci si presenta testimoni una certa “timidezza” regionale, sia per la scarsità delle leggi che sono direttamente intervenute in materia, sia per la qualità delle soluzioni che testimoniano, fatte salve poche eccezioni, un tendenziale adeguamento a quanto stabilito a livello statale senza esplorare completamente le potenzialità della potestà normativa regionale.
Resta quindi da vedere se le regioni, nella nuova tornata di disciplina della sicurezza sul lavoro che l’adozione del d.lgs. 81 certamente aprirà, intendano o meno impegnarsi direttamente nell’organizzazione e nella regolazione di questo importante settore.